Roberto Rossellini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 23 Apr 2025 19:20:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il corpo e lo sguardo nel cinema della modernità https://www.carmillaonline.com/2020/09/24/il-corpo-e-lo-sguardo-nel-cinema-della-modernita/ Thu, 24 Sep 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62892 di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, quindi, “i personaggi non sono più entità astratte” ma “corpi di carne”, spesso indolenti e stanchi come gli attori (e i non attori) chiamati a portare la loro verità a queste finzioni”. I corpi degli attori del cinema della modernità, perciò, come scrive Scandola in modo suggestivo, “desiderano vivere la propria vita e non quella del personaggio”. È questa l’idea di fondo del saggio, il quale, analizzando soprattutto le figure degli attori, ci offre un vero e proprio viaggio – probabilmente un viaggio mai percorso così in profondità da altri studiosi – attraverso lo stile e la poetica di tanti registi che fanno in modo che le storie raccontate “risultino la secrezione dei personaggi e non il contrario”.


L’analisi è svolta seguendo un rigoroso ordine cronologico: si parte dagli anni quaranta del Neorealismo per approdare agli anni ottanta. Una delle interpreti più significative del Neorealismo è sicuramente Anna Magnani. Icona del cinema neorealista – basti ricordare l’interpretazione della popolana Pina in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini – in Bellissima (1951) di Luchino Visconti ella diviene il fulcro di numerosi rimandi metacinematografici. È la stessa Maddalena, personaggio del film interpretato dalla Magnani, a attuare diverse allusioni alle precedenti interpretazioni dell’attrice fino a trasformarsi in una comédienne dell’Ottocento durante la scena della toilette davanti allo specchio (“In fondo che è recità?” si chiede Maddalena ed ecco il personaggio che si finge attrice: “due colpi di pettine sui capelli scarmigliati, la mano destra sul petto come una comédienne dell’Ottocento, e una fortissima key light puntata sul viso”). L’analisi, passando attraverso la figura di una altro grande attore di questi anni, Massimo Girotti (emblema, nelle sue prime interpretazioni, della “maschilità latina forte e sana” e traghettato al Neorealismo da Luchino Visconti con Ossessione), ci conduce fino a una caratteristica stilistica del Neorealismo, e cioè la scelta di attori non professionisti (una pratica, del resto, prescritta già da importanti registi e teorici come Vertov, Bazin e Ejzenstejn) e di attori bambini. L’analisi si incentra allora sull’interpretazione di Edmund offerta da Edmund Meschke in Germania anno zero (1948) di Rossellini. “Non sappiamo se questo attore bambino – scrive Scandola – scoperto in una famiglia di circensi, sul set faccia davvero, come sostiene il regista, solo ciò che è abituato a fare. Di certo, a più di settant’anni di distanza, il suo corpo gracile e nervoso resta forse l’emblema più alto del sogno neorealista, che era quello di catturare il reale senza le mediazioni dell’attore e del personaggio”.

Secondo lo studioso, l’attore della modernità gravita sostanzialmente fra due stati: “L’immobilità, grado estremo dell’inazione potenziato” (in autori come Ferreri, Pasolini, Straub o Fassbinder) e “una sorta di movimento perpetuo, il quale si configura come camminata, vagabondaggio o viaggio. Un vero e proprio viaggio, come già accennato, è anche quello che facciamo noi lettori nella modernità cinematografica grazie al saggio di Scandola: proseguendo, incontriamo così il secondo capitolo, dedicato soprattutto al cinema francese degli anni sessanta e alla Nouvelle vague. Secondo Robert Bresson, “l’attore ideale è la persona che non esprime nulla” ed è così che egli chiede ai suoi attori di essere semplicemente se stessi, di non compiere gesti intenzionali ma automatici, di essere, in sostanza degli “automi” che si muovono in un racconto filmico messo in scena non per imitare il vero ma per mostrare l’infinito mistero racchiuso in esso. Alain Resnais, invece, in L’anno scorso a Marienbad (L’Année dernière a Marienbad, 1961) chiede a Delphine Seyrig, altra importante attrice di questo periodo, di lasciar trasparire la letterarietà e, quindi, il lato più fantastico e irreale, dal suo personaggio (addirittura denominato solo con una lettera, A). Lo stesso corpo dell’attrice, come gli “oggetti desueti” (per dirla con Francesco Orlando) che formano l’arredamento dell’albergo e gli elementi decorativi del parco, subisce un vero e proprio processo di frammentazione (basti ricordare anche l’incipit di Hiroshima mon amour, dello stesso Resnais, “dove a stento si riesce a distinguere una parte del corpo da un’altra”).

La Nouvelle vague offre poi un nuovo processo di immedesimazione fra attore e personaggio: sul set l’attore non interpreta più un altro da sé, ma semplicemente se stesso. E questi nuovi attori vengono filmati in pose e modalità molto diverse: dall’inazione più totale fino all’erranza e al movimento quasi incessante. Un importante punto di riferimento, in questo senso, può essere sicuramente uno dei vertici del cinema di Orson Welles, e cioè Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955), in cui il movimento incessante del protagonista Guy van Stratten (Robert Arden) assume la dilatazione di un vero e proprio viaggio ludico e ipertrofico sulla scacchiera di un’Europa uscita da poco dal secondo conflitto mondiale. L’erranza, il viaggio e la fuga diventano infatti delle vere e proprie cifre stilistiche del cinema moderno, anzi delle vere e proprie figure. Errano e si muovono i personaggi di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, ma anche quelli di Fellini (La dolce vita, 1959), Pasolini (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962), Bertolucci (Strategia del ragno, 1972).

Altre importanti figure di attori analizzate dal saggio sono Brigitte Bardot (soprattutto nell’interpretazione di Il disprezzo, 1963, di Jean-Luc Godard) Claudia Cardinale (musa, fra gli altri, di Visconti e Zurlini) e Jean-Pierre Léaud, il quale si configura non solo come uno degli attori prediletti da François Truffaut ma anche come “il corpo del Sessantotto”, basti pensare all’interpretazione di La cinese (La chinoise, 1967) di Jean-Luc Godard ma anche a quella di Porcile (1969) di Pasolini.

E dal moderno il viaggio continua, fino a “oltre il moderno”. Incontriamo così altri attori significativi come Marcello Mastroianni, Chaterine Deneuve, Gérard Depardieu e Isabelle Huppert. Se il Mastroianni di Fellini si configura come un indolente homo deambulans, perduto nella sua erranza, “mediatore tra l’occhio dell’artista e l’orrore del mondo” (8 ½, La dolce vita), quello di Ferreri diviene corpo sofferente e morente, segnato nel profondo dalla “sfera rabelaisiana” individuata da Michail Bachtin e attraversata dai “vicinati” cibo-sesso-morte (La grande abbuffata, 1973). E, per quanto riguarda Chaterine Deneuve, fra le tante, doveroso è ricordare la sua interpretazione in Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel. Secondo Scandola, “nessuno meglio di Buñuel ha saputo sfruttare in senso espressivo la soglia, sottile, che in Deneuve separa la carne dalla porcellana, restituendoci proprio il momento in cui la donna diventa bambola o più semplicemente potiche (e viceversa)”. Un altro attore capace di abitare il personaggio anziché lasciarsi abitare da lui è Depardieu, il quale ci regala appunto dei personaggi caratterizzati da instabilità caratteriale e ipersensibilità emotiva, inclini a muoversi, a errare, a vagabondare, senza mai perdere la propria, originaria “identità agricola e proletaria”. Infine, Isabelle Huppert o “il desiderio come enigma”: icona di un femminino, intravisto probabilmente per la prima volta da Claude Chabrol, “attratto dalle zone oscure del piacere”, sia esso libertino, extraconiugale, incestuoso. Nelle interpretazioni della Huppert, inoltre, si possono rintracciare elementi riconducibili a una ferinità quasi animale: una ferinità che diviene anche e soprattutto felinità. Proprio come un gatto, la Huppert sembra guardare gli “altri”, cioè noi spettatori solo “per vedere”: secondo Derrida, infatti, il gatto è l’incarnazione di un senso dell’alterità da cui ha origine il pensiero stesso. E, con Isabelle Huppert, l’intrigante e avventuroso viaggio allestito dallo studioso si chiude, dopo aver incontrato corpi e sguardi dai quali nascono storie, dalla cui inazione o vagabondaggio erratico si dischiudono nuovi percorsi di liberazione del nostro immaginario.

]]>
La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca https://www.carmillaonline.com/2017/12/21/la-corazzata-pote%cc%88mkin-non-cagata-pazzesca/ Thu, 21 Dec 2017 22:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42220 di Mauro Gervasini

[È in libreria Divine Divane Visioni di Filippo Casaccia aka Dziga Cacace, Odoya, 2017, pp.462, € 24,00. Ne anticipiamo l’introduzione scritta da Mauro Gervasini, critico cinematografico e direttore del settimanale FilmTV]

Con un nome tra il serio e il faceto già di suo, Dziga Cacace si esercita da anni nella critica cinematografica: com’è noto terza professione di tutti, seconda per chi non ama il calcio. Lo fa però tenendo fede al vecchio detto Nomen omen, che nel caso della sua identità presunta traccia una duplice [...]]]> di Mauro Gervasini

[È in libreria Divine Divane Visioni di Filippo Casaccia aka Dziga Cacace, Odoya, 2017, pp.462, € 24,00. Ne anticipiamo l’introduzione scritta da Mauro Gervasini, critico cinematografico e direttore del settimanale FilmTV]

Con un nome tra il serio e il faceto già di suo, Dziga Cacace si esercita da anni nella critica cinematografica: com’è noto terza professione di tutti, seconda per chi non ama il calcio. Lo fa però tenendo fede al vecchio detto Nomen omen, che nel caso della sua identità presunta traccia una duplice missione. Il situazionismo formalista di Dziga, esteta sopravvissuto alla prospettiva Nevskij, e la pratica dei bassifondi di Cacace, un tipo oscuro che pare uscito da una commedia di Mariano Laurenti. A differenza del dottor Jekyll, ignaro di trasformarsi nottetempo in mister Hyde, Cacace è perfettamente consapevole di essere anche Dziga, e viceversa. Anzi, diciamo pure che la cosa si fa più intrigante quando nella medesima recensione si scorgono echi di entrambe le voci. Come ad esempio in quella dell’“immortale capolavoro” di Sergej M. Ejzenštejn, La corazzata Potëmkin, restituito al suo legittimo e consacrato valore da Dziga senza che Cacace se ne possa lamentare più di tanto. A volte, lo confesso, si spera nella prevalenza del secondo, che nonostante l’etimo napoletano ha un curioso intercalare genovese. Stupendo in questo senso l’incipit de Le due sorelle: «L’attacco del film avrà sicuramente provocato spontanee polluzioni in quei fanatici che s’esaltano con tutte quelle fregnacce sullo spettatore voyeur che guarda un personaggio voyeur, a sua volta osservato – non visto – da qualche altro voyeur che bla, bla e altre belinate discorrendo». Sono passato anch’io attraverso le “belinate” qui messe alla berlina e vale la pena continuare a dissacrare, nonostante la critica cinematografica, come la nostalgia, non sia ormai più quella di un tempo: conta sempre meno, è inascoltata, soprattutto non convince più nessuno ad andare al cinema e questo purtroppo lo confermano le cifre disastrose se si guarda al gradimento di pubblico dei cosiddetti film d’essai. Nel libro di Dziga Cacace però non si aprono dibattiti, non si rifondano correnti estetiche, non si fa storiografia, non si vanno a comporre campioni statistici per indagini sociologiche. No, semplicemente si prendono i film e ci si sbatte contro con il corpo, i sensi, a volte il cuore. Sorprende nella narrazione del Nostro questo essere colto dalla visione quasi suo malgrado all’improvviso, magari facendo zapping nella notte o ritrovando qualcosa d’inatteso su una VHS (preistoria, lo so, ma tant’è) che avrebbe dovuto registrare tutt’altro – è il caso di Un orfano chiamato San Mao di un anonimo cinese caro a Enrico Ghezzi –, oppure acquistando una cassetta a caso dall’edicolante di Bonassola. Lo stupore di Cacace (o Dziga, qui si confondono di nuovo) è contagioso. Frequentatore abituale (in gioventù) del leggendario Cineclub Lumière di Genova, nel capitolo Lo sguardo mutilo colleziona recensioni brevi, quasi in forma di diario, con annotazioni che riportano anche il critico con i piedi per terra (non si sarà mica assopito guardando questo piuttosto che quello? Boh…). In tutto ciò, esercitando in modo così forsennato la lettura trasversale dei film, capitano anche stroncature che meriterebbero duelli all’alba (diciamo che De Palma non è il suo regista preferito, e quando ho letto la rece de La presa del potere di Luigi XIV «di un pesantissimo Roberto Rossellini» mi è venuto un colpo…) ma ovviamente fa parte del gioco. D’altro canto la schiettezza del Cacace a volte provoca più invidia che rabbia. Per dire: la recensione di Bus in viaggio di Spike Lee inizia così: «Dio che ciofeca». Lo penso anch’io ma non so se avrei potuto scriverlo. Eccolo, il senso di un’operazione che trasuda competenza e paradossale buonsenso: fare della critica cinematografica un esercizio (anche) liberatorio.
Dziga Cacace ci riesce. Anzi: ci riescono.

]]>
La narrazione delle migrazioni nel cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2017/11/24/la-narrazione-delle-migrazioni-nel-cinema-italiano/ Fri, 24 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40108 di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito [...]]]> di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito gli elementi distintivi e ricorrenti caratterizzanti l’immaginario emigrazionistico nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, elementi successivamente ripresi e inaspriti dal fascismo con l’intenzione di esprimere una decisa contrarietà nei confronti di tutti quegli italiani che abbandonavano la patria. Tra le opere letterarie che maggiormente hanno contribuito a costruire tale immaginario relativo alle migrazioni si possono indicare gli scritti di Edmondo De Amicis quali la poesia Gli emigranti (1881), il racconto Dagli Appennini alle Ande – contenuto nel romanzo Cuore (1886) – ed il reportage giornalistico romanzato Sull’Oceano (1889), i poemetti pascoliani Italy. Sacro all’Italia raminga (1904) e Pietole (1909), oltre alla novella pirandelliana L’altro figlio (1923).

Edmondo De Amicis, autore che ha affrontato l’epopea dell’emigrazione italiana di fine Ottocento verso le Americhe attraverso registri che vanno dal reportage di viaggio, al romanzo popolare fino alla poesia, in Sull’Oceano racconta l’attraversata transoceanica, compiuta alcuni anni prima, che gli ha consentito sia di osservare gli italiani a bordo di una grande nave durante il lungo viaggio sia di raccogliere testimonianze circa i loro stati d’animo di migranti che si allontanano dalla terra d’origine.

Lo scrittore descrive l’imbarco degli emigranti nel porto di Genova tratteggiando le differenze sociali dei passeggeri, la miseria dei più, la commozione e l’angoscia al momento della partenza.

Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo [il piroscafo], congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. […] Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. […] Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano […] Finalmente s’udiron gridare i marinai a poppa e a prua ad un tempo: – Chi non è passeggiere, a terra! Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro del Galileo. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, la scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si cominciò a movere. Allora delle donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. A questa commozione contrastava stranamente la pacatezza dei saluti che scambiavano i marinai e gli ufficiali con gli amici e i parenti raccolti sulla calata, come se si partisse per la Spezia

Nel descrivere “L’Italia a bordo” De Amicis, oltre a soffermarsi su come la promiscuità forzata a cui sono sottoposte le famiglie funzioni da acceleratore di tutte quelle dinamiche conflittuali determinate dalla difficile convivenza, si dilunga anche sulla specifica composizione sociale delle diverse classi di viaggio.

Per effetto dell’agglomerazione in cui erano costretti a vivere […] quella moltitudine di emigranti dava luogo, nel corso di pochi giorni, a una molteplicità e varietà di casi psicologici e di fatti, quale appena suol darla a terra, nello spazio di un anno, una popolazione quattro volte maggiore […] Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe […]. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] Della Liguria il contingente solito […] diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. […] Nella terza classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia

Dal racconto emergono anche notizie circa le incombenze burocratiche e le particolari tipologie contrattuali con cui sono sfruttati gli emigranti dagli stati in cui approdano.

tutta la popolazione del Galileo si dava moto, perché se il tempo durava bello, si sarebbe arrivati in America la sera dopo, forse ancora in tempo per isbarcare, e bisognava preparar le robe con comodo, e intendersi un po’ tra amici e conoscenti intorno al da farsi. L’affare più grave era l’iscrizione per lo sbarco, il decidere, cioè, se convenisse di andare o no dal Commissario a farsi notare fra coloro che intendevan di valersi delle offerte del Governo argentino, il quale pagava le spese dello sbarco agli immigranti che lo chiedessero, e dava loro vitto e ricovero per cinque giorni, e a quelli che si recavano nelle provincie dell’interno, il viaggio gratuito. Quell’atto di farsi o non farsi iscrivere era chiamato dagli emigranti “dichiarar di voler essere o no con l’emigrazione”. Certo, i vantaggi erano grandi; ma eran grandi anche le diffidenze, poiché quella generosità del Governo (era un Governo!) dava a sospettare che vi si celasse qualche tranello, e che l’accettarla, fra l’altre cose, fosse un vincolare fin d’allora la propria libertà riguardo alla scelta dei luoghi e alle condizioni dei contratti. Ciò nonostante, i più accettavano

Raccontando l’imminente arrivo nel Nuovo mondo De Amicis trova modo di insistere su alcuni aspetti del carattere dei propri connazionali soffermandosi sul senso di dignità che, nonostante la miseria, caratterizza questa gente volenterosa di presentarsi in terra straniera con il necessario decoro e sulla tendenza ad ironizzare sull’italico pressapochismo. La parte finale è invece contraddistinta da un crescendo di retorica patriottica.

Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, che volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici […] tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo […] Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. E molti già s’indispettivano e si lagnavano. Come mai non si vedeva nulla? Gli ufficiali avevan dunque sbagliato i calcoli? La terra si sarebbe già dovuta vedere. Oramai non saremmo più arrivati in giornata. E Dio sa quando si sarebbe arrivati. — Piroscafi italiani! — era tutto detto: fortuna quando s’arrivava entro l’anno. E facevan delle allusioni maligne, quando passava un ufficiale, guardandolo di mal occhio […] — L’America! Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia […] al primo tumulto era seguito un grande silenzio. Tutti stavano con gli occhi fissi su quella striscia di terra nuda, dove non vedevano nulla, immobili e assorti […] come se al di là di quella macchia rossastra apparissero già al loro sguardo le vaste pianure su cui avrebbero curvato la fronte e lasciato le ossa. Pochi parlavano. Il piroscafo volava, la striscia di terra s’alzava e s’allungava. Era la costa dell’Uruguay. Non si vedeva né vegetazione né abitato. Parecchi che s’aspettavano di scoprire una terra maravigliosa, parevan delusi; dicevano: — Ma è tale quale come i paesi nostri […] cessato il primo effetto dell’apparizione […] scoppiò a prua un’allegrezza smodata […] Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là […] si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi (da E. De Amicis, Sull’Oceano, 1889).

Per quanto riguarda Giovanni Pascoli, il suo interesse per il fenomeno dell’emigrazione è testimoniato dal poemetto in due canti Italy. Sacro all’Italia raminga riprendente le vicende realmente accadute a due fratelli emigrati dalla Garfagnana in America che fanno ritorno in patria con la piccola Molly ammalata di tisi. I due fratelli sperano che l’aria di casa e le cure della nonna possano curare la bambina. Nonostante i problemi linguistici, che rendono difficoltosa la comunicazione tra Molly, che non conosce la lingua italiana, e la nonna, si crea tra le due un forte affetto. Tragicamente alla guarigione della piccola corrisponde l’ammalarsi, fino alla morte, della nonna ed a questo punto gli emigranti ripartono alla volta dell’America. Le difficoltà di comunicazione tra la nonna e la bambina permettono a Pascoli di sperimentare nel testo un curioso intreccio di parole ed espressioni inglesi, italo-americane e lucchesi. Nel Canto secondo, dove alla guarigione della bambina fa seguito la malattia mortale della nonna, Pascoli tratta del dramma di chi, trovandosi costretto a lasciare la propria terra, finisce per rifarsi un nido altrove. L’immagine del nido abbandonato dalla rondine-madre, ricorrente nelle opere pascoliane, viene qui utilizzata per rappresentare il dramma dell’emigrazione. Nell’opera viene stabilito un parallelismo tra la madre che desidera riunire a tavola i propri figli e la patria italiana – madre ancestrale – che con un suo grande ululo ai quattro venti richiamerà a casa il sui figli dispersi in terre lontane.

Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi

Il cinema muto attinge, dunque, da tali modelli letterari, enfatizzando gli elementi melodrammatici che presentano l’emigrazione come fenomeno di distacco traumatico dalla famiglia e del paese, come viaggio verso l’ignoto in cui è possibile perdersi per strada. Nella cinematografia italiana dei primi decenni del Novecento l’emigrazione appare decisamente contrassegnata da paura, lutto, fatalità e senso di colpa.

Al fine di ricostruite le modalità principali con cui il cinema italiano ha raccontato nel corso del tempo i fenomeni migratori risulta decisamente prezioso lo studio di Massimiliano Coviello curatore del lemma “Emigrazione” nel volume curato da Roberto De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Vol. 1, (Mimesis, 2014) [su Carmilla]. Sarà proprio all’analisi di Coivello che qui si farà costantemente riferimento.

Un’idea delle modalità di rappresentazione degli emigranti italiani nel cinema muto dei primi decenni del Novecento è data dai film L’emigrante (1915) di Febo Mari e Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi. L’opera di Mari, primo film italiano senza sottotitoli, narra il fallimento di un emigrante che, recatosi in Argentina per garantire un futuro migliore alla famiglia, si trova costretto a far rientro a casa, dopo essersi trovato a svolgere lavori dequalificati e malpagati e dopo essere incorso in un infortunio. Il film di Paradisi, che riprende palesemente l’opera deamicisana, viene realizzato con finalità educative e celebrative del sacrificio compiuto per la Patria e la famiglia. Il viaggio del protagonista verso l’Argentina alla ricerca della madre, che ha abbandonato la famiglia ed il paese in cerca di lavoro, è connotato da sentimenti quali lo sconforto e il senso di solitudine. Una volta giunto nel lontano paese, il giovane riesce a cavarsela di fronte alle tante avversità incontrate grazie a qualche intervento della provvidenza. Dopo tante peripezie il protagonista ritrova la madre gravemente malata in balia dei rimorsi provocati dalla scelta di abbandonare la famiglia.

Circa la rappresentazione degli emigranti italiani tra gli anni ’30 e primi anni ’40, secondo l’analisi di Coviello

il cinema di regime addosserà alla figura dell’emigrante non solo i rimorsi per aver abbandonato gli affetti familiari ma anche l’imprudenza di aver minato la coesione nazionale e aver tralasciato gli obblighi verso la patria, colpe che potranno essere espiate solo attraverso un ritorno dai tratti epici. Nel riportare gli emigranti in patria, il cinema del periodo fascista ha sfruttato meccanismi melodrammatici per costruire l’immagine di un Paese finalmente coeso in cui diventava possibile riscattarsi e progettare il proprio futuro (p. 320).

In tali narrazioni i soggetti che fanno ritorno al paese d’origine dimenticano i motivi per cui sono emigrati e si ritrovano nel loro spazio di partenza senza alcun problema di riadattamento e consapevoli delle grandi migliorie portate dal regime durante la loro assenza. «I film del periodo fascista che raccontano storie di emigrazione sono innanzitutto una risposta alla sua causa principale, ossia la mancanza di terre coltivabili. Prima attraverso le bonifiche e poi con l’impresa coloniale, il cinema contribuisce alla costruzione di un mito della terra nel quale trovare la soluzione ai drammi dell’emigrazione» (p. 321).

Il film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano viene girato per celebrare il decennale della Marcia su Roma ed affronta il periodo che intercorre tra il 1914 e il 1932, tentando di esaltare tanto il progresso industriale promosso dal regime quanto il mito contadino. La narrazione si sviluppa attorno alle vicende di una famiglia dell’Agro Pontino che passa dalla miseria nelle paludi insalubri alle bonifiche delle terre effettuate dal regime, dalla Prima guerra mondiale alla “vittoria mutilata” e dalla crisi economica di fine anni ’20 sino alla fondazione di Littoria, che consente agli emigranti di trovare un posto di lavoro ed un’abitazione. Forzano miscela materiale documentario e finzionale con intenti palesemente propagandistici e la narrazione tende ad essere scandita da alcuni elementi simbolici ricorrenti, come la bandiera italiana al cui cospetto avvengono le separazioni e le riunificazioni familiari. Come in altri film del periodo, la pellicola di Forzano insiste molto sul rapporto tra generazioni, al fine di mostrare il più possibile la continuità storica rispetto al passato.

Nel periodo coloniale, il fascismo, anche grazie al cinema, tende a riferirsi ai nuovi territori annessi come a lontane propaggini dell’Italia; il trasferimento in quelle terre remote viene pertanto presentato in maniera molto diversa rispetto agli spostamenti migratori verso altri paesi. Ad esempio, nel film Bengasi (1942) di Augusto Genina i coloni italiani che si oppongono alle truppe inglesi vengono presentati come difensori della madrepatria, della sua estensione coloniale.

Passaporto Rosso (1935) di Guido Brignone viene realizzato praticamente in concomitanza con l’inizio della campagna d’Etiopia. La pellicola è invece ambientata tra il 1890 ed il 1922 ed il titolo si riferisce proprio al documento di espatrio rilasciato dalle autorità agli emigranti. Il film è costruito su una serie di parallelismi tra gli eventi narrati e l’attualità coloniale, in modo da suggerire al pubblico una lettura dell’emigrazione come tappa necessaria, per quanto sofferta, in attesa del colonialismo fascista.
Il film narra le vicende di una coppia di emigranti italiani trasferirtisi in Argentina che si prodigano, insieme ad altri connazionali, nella fondazione della colonia Nueva Italia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il figlio dei due, che non ha mai messo piede in Italia, pur non intendendo mobilitarsi in favore della madrepatria, partirà per il fronte soltanto per sostituirsi al padre, invece intenzionato a partire nonostante l’età avanzata. Sarà la vita al fronte, sul Carso, a rivelare al giovane il significato ed il valore dell’essere italiano: «Mio padre aveva ragione, la patria l’abbiamo nel sangue». Caduto in combattimento, la medaglia al valore viene ritirata dal figlio che non ha fatto in tempo a conoscere. Ancora una volta nel cinema di epoca fascista si insiste sul passaggio di testimone tra le diverse generazioni.

Massimo Coviello, nella sua analisi, dedica spazio anche al film Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, in cui l’Africa Orientale diventa luogo d’incontro tra un padre emigrato per necessità, dopo aver servito la patria come aviatore nella Prima guerra mondiale, di cui si sono perse le tracce e suo figlio, anch’egli aviatore delle truppe fasciste e partito volontario in AOI. La guerra, nuovamente, diviene terreno di ricongiungimento generazionale. Per certi versi questa pellicola anticipa una serie di opere realizzate tra gli anni ’30 e ’40 che narrano storie sospese tra l’Italia e il continente latinoamericano, come La grande luce – Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Harlem (1943) di Carmine Gallone e Catene (1949) di Raffaello Matarazzo. «In tutti e tre i film, nel pieno rispetto della struttura melodrammatica, l’emigrazione è uno spazio intermedio, più o meno temporaneo, in cui i personaggi attraversano vari stadi di trasformazione, nell’attesa che la tragedia ceda il passo al lieto fine» (p. 327).

Secondo lo studioso i melodrammi e le commedie degli anni ’30 e ’40, più che narrare di veri e propri fenomeni di emigrazione, tendono a sfruttare episodi di migrazione circoscritti nel tempo e utili all’evoluzione del racconto fino alla risoluzione dei conflitti iniziali.

Dagli anni del muto al cinema del periodo fascista, dallo sguardo deamicisiano all’obbligo morale del ritorno, sino al melodramma migratorio: l’emigrante è rappresentato come un soggetto incapace di emanciparsi e di ricollocarsi nei contesti di arrivo. I suoi drammi non si esauriscono con l’arrivo e, al contrario, si amplificano attraverso la colpa dell’abbandono (dei propri familiari, della terra d’origine). Si dovrà attendere la fine degli anni quaranta e l’avvio dei flussi migratori verso i paesi dell’Europa del Nord, l’Australia e l’America Latina perché il cinema rimoduli i sentimenti connessi allo spostamento, rivendichi la loro dimensione politica e si apra ad un cammino della speranza (p. 330).

Con il cinema neorealista cambiano diverse cose, sia dal punto di vista delle finalità che intende darsi il cinema, sia da quello delle estetiche scelte per perseguirle. A proposito di ciò scrive Coviello:

Nel regime estetico inaugurato dal neorealismo si attua una simbiosi tra la macchina da presa e il personaggio: i confini tra mostrare e vedere, tra la cattura passiva da parte di un occhio meccanico e la capacità immaginativa che si insedia nell’atto della visione, tendono a confondersi e a sovrapporsi. A partire da uno sguardo erratico ma mai inconsapevole, le logiche narrative riproducono sullo schermo il vagabondaggio, la deambulazione e lo spaesamento dei soggetti all’interno di ambienti che, deformati dalla guerra, restano ancora da decifrare (pp. 332-333).

È una realtà spaesata, quella uscita dalla guerra, quella che si trova a presentare il cinema neorealista, dunque una realtà erratica e fluttuante che fatica ad essere, che non può essere, più di tanto orienta. I personaggi di queste pellicole sono per forza di cose deboli, spaesati, erranti; sono spesso spettatori delle trasformazioni in corso e tendono ad agire in base a ciò che si trovano di fronte senza un fine consapevole.

All’illusoria riscrittura della storia, alla strumentale edificazione di un’epopea capace di coniugare le grandi opere di bonifica e l’urbanizzazione all’interno del Paese con la spinta coloniale con cui il fascismo ha tentato di estirpare le radici dell’emigrazione all’estero, il cinema neorealista contrappone una configurazione narrativa che individua nell’atto del migrare – inteso come movimento dominato dall’incertezza del soggetto che lo compie, ricerca di nuovi spazi vitali, negoziazione e riconfigurazione delle identità in rapporto ai mutamenti sociali – una delle principali forze trasformatrici, dentro e fuori i confini italiani (p. 333).

Secondo la studiosa Stefania Parigi

Tutto il cinema del dopoguerra è un cinema della migrazione, intesa come riconquista del Paese e, allo stesso tempo, come perdita delle radici, come esperienza di spaesamento, come vertigine di un’identità dispersa o esplosa. Da una parte gli spazi urbani avvolgono i protagonisti in spirali di spersonalizzazione, di squilibri e di mancanze; dall’altra il territorio fisico e culturale dell’intera Italia mostra, insieme alle sue diversità, tutta la propria natura conflittuale (S. Parigi, “L’emigrante neorealista”, in: Italy In&Out. Migrazioni nel/del cinema italiano, Quaderni del CSCI – Rivista annuale del cinema italiano, n. 8, 2012, p. 56).

In film come Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati e Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, il fenomeno migratorio viene affrontato ricorrendo all’epopea del viaggio che rivela i grandi cambiamenti geografici e sociali che costellano i percorsi. Nei due film siamo di fronte ad emigranti irregolari, privi dei requisiti richiesti per l’espatrio, a testimonianza di un fenomeno di migrazione clandestina in crescita a partire dal secondo dopoguerra nonostante le politiche ufficiali di sostegno all’emigrazione basate su accordi tra le nazioni che prevedono l’invio di manodopera italiana in cambio di materie prime.

In Fuga in Francia, seguiamo il viaggio di un gruppo di individui verso il confine e tra questi, oltre a chi è in cerca di lavoro, non manca chi intende abbandonare il paese al fine di lasciarsi alle spalle un passato in cui si è macchiato di atrocità in seno al fascismo. Nel corso del viaggio un ex gerarca viene individuato dai compagni di viaggio e da quel momento entrano in conflitto la volontà di chi intende consegnarlo alla giustizia ed il cinismo del fuggiasco pronto, di nuovo, a qualsiasi nefandezza pur di assicurarsi la libertà a scapito degli altri. Sarà il figlio di questo fascista a rompere i rapporti col padre e a facilitare la sua cattura in Francia. Siamo così messi di fronte ad una rottura generazionale in cui i figli devono essere pronti a rompere i legami coi padri quando questi si sono macchiati di colpe indelebili. La nuova Italia deve saper recidere nettamente i legami col Ventennio fascista: è questo il messaggio che si palesa nell’opera di Soldati.

Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi

Nel film di Germi, Il cammino della speranza, la chiusura delle miniere nell’agrigentino obbliga intere famiglie ad intraprendere il viaggio verso la Francia, un cammino della speranza, appunto, che li costringe ad attraversare un’Italia del tutto ignota ed il film ci mostra come ad ogni tappa di questo interminabile viaggio gli emigranti si trovino a dover riconfigurare la loro identità. I personaggi del film di Germi rappresentano un popolo in cammino che prova a rinascere dopo la tragedia della guerra. «Se Paisà (Rossellini, 1946) ripercorreva da Sud a Nord il Paese per seguirne e testimoniarne la liberazione, nel film di Germi l’attraversamento coincide con una fuga verso uno spazio poco più che sognato» (p. 335). Secondo David Forgacs in entrambe le pellicole l’attraversamento del Paese diventa l’occasione per mettere a contatto le diversità regionali in una visione globale della nazione che rinasce (D. Forgacs, “Neorealismo, identità nazionale, modernità” in: L. Venzi, a cura di, Incontro al Neorealismo. Luoghi e visoni di un cinema pensato al presente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2007).

In Stromboli, terra di Dio (1950) di Roberto Rossellini compaiono diverse soggettività migranti. La profuga lituana Karin, interpretata da Ingrid Bergman, che vive “da straniera” il territorio e le regole sociali in cui è proiettata, trovandosi di fronte al rifiuto del visto per emigrare in Argentina, finisce con lo sposare un militare italiano che la conduce alla propria terra natale, l’isola di Stromboli. La coppia si trova a doversi confrontare con un tessuto sociale deformato dai processi migratori: una terra che ha visto da una parte i giovani emigrare in Australia e gli anziani fare ritorno sull’isola dopo essere stati emigranti all’estero.

In Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi, qui all’esordio come regista, si racconta di una famiglia romana costretta dalla povertà a imbarcarsi verso il Sudamerica. Dopo la partenza da Roma e le trafile burocratiche presso il Consolato argentino a Genova, i protagonisti del film si imbarcano su una nave affollata per raggiungere l’Argentina ove, tra mille peripezie, riescono a sistemarsi. Scrive a tal proposito Coviello: «Il film di Fabrizi è una minuziosa ricostruzione delle fatiche dell’emigrante al quale non manca il lieto fine con tanto di matrimonio annunciato tra nazionalità e classi sociali differenti, tra la figlia del manovale italiano e l’ingegnere edile argentino» (p. 337).

Sempre attingendo dal prezioso studio di Massimiliano Coviello “Emigrazione” si tratta ora di vedere quanto accaduto a partire dalla seconda metà del Novecento iniziando dalla rappresentazione degli emigranti italiani proposta dalle commedie realizzate tra gli anni ’50 ed i ’70, periodo caratterizzato, oltre che dalla prosecuzione dell’emigrazione verso l’estero, dalla “grande migrazione interna”, cioè da un massiccio spostamento dalle zone rurali del Sud verso le città industriali del Nord e dal cosiddetto “miracolo economico”.

Scrive a tal proposito Coviello: «Industrializzazione, esodo, inurbamento di massa, modernizzazione, miracolo economico: mentre questa successione causale di fenomeni sociali ed economici pone gli italiani di fronte a grandi cambiamenti, il cinema […] scandaglia e svela i meccanismi tragicomici, grotteschi, alla base del progresso e della conquista “forzata” del benessere» (p. 339). A titolo esemplificativo si possono citare film come I vitelloni (1953) e La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, Il boom (1963) di Vittorio De Sica.

Molti personaggi che popolano le pellicole di questo periodo incentrate sulla questione migratoria soffrono di nostalgia ma, sottolinea Coviello, con gli anni ’60, la commedia inizia a mettere in scena la deflagrazione della società negli anni del boom economico.

La soggettività introflessa su cui si fonda la chiusura nostalgica è alla base della disseminazione degli stereotipi comportamentali che caratterizzano le forme di rappresentazione commediche, grottesche e quindi in bilico tra il comico e il patetico, dell’emigrante. La riconoscibilità dell’italiano all’estero, come del meridionale emigrato al Nord, è contrassegnata da una spessa patina di cliché, ma questi ultimi, al pari di una presunta capacità di adattamento (“l’arte di arrangiarsi”), lungi dal costruire quello spazio discorsivo necessario alla negoziazione di norme e valori, sono la causa di un volontario e fin troppo esplicito disadattamento o, all’estremo opposto, di un’integrazione subita o delegata (p. 342).

Numerosi emigranti messi in scena dalle commedie degli anni ’60 e ’70, si pensi, ad esempio, a diversi personaggi interpretati da Alberto Sordi, «indossano maschere della prestazione (l’immagine del sé proposta in pubblico) attraverso un eccesso di dissonanza» (p. 342). Si tratta sovente di personaggi impostori sia con gli altri sia con se stessi, veri e propri millantatori, «caricature afflitte dal peso delle origini nei confronti delle quali non riescono a creare uno scarto, chiusi all’interno di stereotipi che li rendono estranei rispetto ai contesti di arrivo» (p. 343).

Ne Il diavolo (1963) di Gian Luigi Polidoro

la trasferta di lavoro verso la Svezia viene “deformata” già a partire dal viaggio in treno, dove il finestrino dello scompartimento si trasforma in uno schermo sul quale la voce di Sordi proietta le sue attese e lascia trasparire bellezze nordiche. Il personaggio interpretato da Sordi è un catalizzatore di pulsioni plasmate dall’immaginario massmediatico – è una guida turistica acquistata prima della partenza a orientarlo nei comportamenti – che vanno alla ricerca di soddisfacimento. Ancora una volta, non si tratta di compiere degli aggiustamenti alla propria identità, ma di imporre una differenza e di subire gli scacchi dell’estraneità. Invece, quando il desiderio è di assomigliare all’altro, Sordi lo asseconda sfruttando modelli precostituiti, “indossando” stereotipi che risulteranno fallimentari (p. 343).

Coviello sottolinea come ne Il gaucho (1964) di Dino Risi si possano individuare due diversi modelli d’integrazione fallimentare dell’emigrante. Al primo modello è riconducibile il personaggio interpretato da Amedeo Nazzari, un esempio di nostalgia patologica per l’Italia, esplicitata come anacronistica. Il secondo modello, di cui veste i panni Nino Manfredi, è quello di chi, avendo fallito nel far fortuna, si torva a dover vivere nell’ombra, tentando di celare il più possibile il suo essere straniero e povero.

La commedia è un potente strumento per esasperare e deformare molti dei temi e dei correlati passionali legati all’emigrazione. Bloccato nei cliché, all’emigrante non resta che un destino parodico. L’orizzonte commedico non garantisce alcuna negoziazione ma solo il modellamento o lo scontro grottesco con un mondo ostile. Se la colpa aveva marchiato la figura dell’emigrante durante il fascismo e imposto una dinamica narrativa fondata sul riscatto attraverso il ritorno, nel modello sentimentale della commedia l’eccesso nostalgico si manifesta anche attraverso l’impossibilità del rimpatrio. Chiusura nel sé, incapacità di comunicare con l’altro o, al contrario, conformazione, assuefazione: le forme della commedia scandagliano i tratti patologici della nostalgia attraverso maschere consonanti o dissonanti rispetto a modelli sociali già infermi (p. 346).

Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola

In film come Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Tutto a posto e niente in ordine (1974), entrambi di Lina Wertmüller, il mondo operaio di chi ha lasciato il Sud per stabilirsi al Nord è presentato come esasperato dalle conflittualità tanto politiche quanto amorose. In Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola, attraverso la parabola di un pugile fallito che diviene minatore in Alaska, si racconta il desiderio di chi, intendendo riscattarsi socialmente, finisce travolto dalla frenesia consumistica lungo le strade di Chicago.

Coviello si sofferma anche su un paio di commedie dei primi anni ’80 in cui ravvisa il tentativo di abbandonare o di denunciare i cliché, dopo averli subiti: Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone e Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi. Uno degli episodi che strutturano il primo dei due film, incentrato su personaggi che attraversano l’Italia per recarsi a votare, ha come protagonista Ametrano, un emigrante lucano trasferitosi a Monaco di Baviera che fa ritorno in Italia proprio per recarsi alle urne al paese natale. Il tragitto compiuto da questo emigrante si rivela un incubo costellato da una serie interminabile di angherie: l’Italia si rivela del tutto inospitale nei confronti di chi vi fa ritorno, seppur momentaneamente, dopo essersi trasferito all’estero. Nella commedia di Troisi, invece, il protagonista tenta di opporsi allo stereotipo che identifica per forza di cose nel napoletano presente al nord un emigrante. Ad essere rivendicato dal protagonista è il “diritto al viaggio”, «la possibilità di trasformare la sua identità, senza per questo doversi allontanare dalle sue origini culturali» (p. 347).

Nell’ambito delle migrazioni comprese tra gli anni ’50 e ’70, le difficoltà di integrazione sono al centro di diverse pellicole che adottando prevalentemente il tono drammatico. Nel cortometraggio Il bar di Gigi (1961) di Gian Vittorio Baldi, ad esempio, vengono documentai gli incontri in un bar che funge da punto di ritrovo a Torino per molti emigranti, mentre in Fata Morgana (1962) di Lino Del Fra ad essere documentate sono le storie degli emigranti in viaggio sul treno che dal Sud li porta a Milano.

In Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti si mostrano le vicissitudini di una famiglia costretta a lasciare il Sud, dopo la morte del padre, in cerca di lavoro nella Milano industriale. A proposito di tale pellicola scrive Coviello: «Man mano che la trasformazione identitaria, le prospettive di integrazione e l’assorbimento nella vita urbana si manifestano […], l’integrità del nucleo originario, l’iniziale coesione familiare si disgrega» (p. 349). Se il contatto col nuovo spazio urbano settentrionale in cui viene a trovarsi a vivere segna il disfacimento della famiglia meridionale, nel film Così ridevano (1998) di Gianni Amelio c’è chi opta per una volontaria autoesclusione dalla città e dalla società in cui si trova proiettato e l’unico contatto che ha con esse è dato dal luogo di lavoro, mentre il resto delle giornate è trascorso frequentando solo gli scantinati fatiscenti abitati dai suoi pari. L’emigrante catapultato all’interno dei cancelli della grande industria del Nord, costretto a fare i conti con la catena di montaggio, è invece raccontato da Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat Nam (1973) di Ettore Scola, film che ricorre anche ad alcune immagini documentarie.
Se ne Il posto (1961) di Ermanno Olmi si narra il trasferimento dalla campagna brianzola alla metropoli milanese, nel film I fidanzati (1963) il medesimo regista focalizza invece l’attenzione su un individuo che si trova a dover affrontare una trasferta lavorativa in una Sicilia rurale, passando le sue giornate tra la desolazione dei caseggiati industriali ed un mondo contadino a lui del tutto sconosciuto.

Non mancano nemmeno film che fanno riferimenti a tragici episodi reali che hanno toccato gli emigranti italiani all’estero. Nel film La ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer, ad esempio, la lunga sequenza che mostra i minatori intrappolati rimanda palesemente al disastro consumatosi soltanto qualche anno prima, nel 1957, nelle miniere di Marcinelle, in Belgio, ove hanno lasciato la vita tanti emigranti italiani.

Nel cortometraggio Emigranti (1963) di Franco Piavoli viene mostrato lo spaesamento generato dalla grande stazione ferroviaria di Milano negli emigranti che

manifestano la loro incapacità di adeguamento, l’impossibilità di acquisire punti di riferimento. Lo spaesamento indica quella condizione di radicale incapacità di gestione dell’ambiente circostante, a cui si accompagna la consapevolezza di essere fuori posto. D’altra parte, la condizione di spaesamento contraddistingue anche il viaggio di ritorno e il reinserimento del migrante. A partire dall’interazione tra i ricordi personali e l’ambiente considerato familiare, il soggetto ha bisogno di rintracciare, attraverso quelle forme di interazione quali il discorso o la memoria collettiva, gli elementi che suturino il divario, temporale e culturale, accumulato. Il rischio è la percezione di un sentimento di duplice estraneità, all’interno e all’esterno della propria dimora (p. 352).

A partire dagli anni ’90 l’immigrazione verso l’Italia inizia a divenire un fenomeno importante, vissuto ed affrontato dal mondo politico, non senza una nutrita dose di demagogia, soprattutto come “emergenza da arginare”. Il cinema italiano nell’affrontare la questione di questo diverso e nuovo tipo di immigrazione ha spesso elaborato particolari modalità di rappresentazione, come ad esempio il miscelare fiction ed immagini documentarie di repertorio.

I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come vengono rappresentati gli zombie in molti film e serie televisive, come folla indistinta, come orda trasandata che avanza mettendo in pericolo la vita delle comunità civili. Si tratta di un vero e proprio processo di deindividualizzazione quello operato dai media nel rappresentare i nuovi arrivati che finisce con l’agire in profondità nell’immaginario collettivo.

Dai cinegiornali di epoca fascista al racconto cinematografico delle migrazioni, l’inquadratura oggettiva, il totale, è espressione del controllo sul territorio e sui corpi compressi nello spazio inquadrato. Il totale delle navi sovraccariche di migranti – inquadratura che esclude il punto di vista soggettivo – collabora alla costruzione della massa migrante, insieme compatto in cui le singolarità si annullano. I mass media nazionali mostrano, spesso attraverso le immagini prodotte dagli stessi apparati legalizzati di cattura ed espulsione, i profughi che da alcuni decenni sbarcano sulle coste italiane come un insieme ammassato su imbarcazioni di fortuna. Attraverso questo registro stilistico – esemplificato dal totale dall’alto che esprime un punto di vista estraneo alla diegesi (oggettiva irreale) – si realizza un processo di fusione che degrada e dissolve le identità in una massa (p. 356).

Lamerica (1994) di Gianni Amelio

Si può individuare una data precisa in cui i media italiani hanno iniziato a trattare i fenomeni migratori: l’8 agosto 1991, quando il mercantile Vlora approda al porto di Bari con a bordo ventimila albanesi in fuga dalla miseria ed attratti dall’immagine dell’Italia offerta dai canali televisivi italiani captati in Albania. A quell’evento si ispira il film Lamerica (1994) di Gianni Amelio, il cui incipit propone un parallelismo tra le immagini dei cinegiornali di epoca fascista che raccontano l’annessione “civilizzatrice” dell’Albania al Regno d’Italia (1939-1943) e l’arrivo degli albanesi lungo le coste pugliesi nei primi anni Novanta. In questo intreccio di immagini del passato e del presente, immagini documentarie ed immagini di fiction, si ha una moltiplicazione dei piani temporali utile a ricomporre i legami tra i fenomeni migratori. All’intreccio tra passato coloniale ed immigrazione albanese, si aggiunge la storia del protagonista del film, un militare italiano che alla fine della Seconda guerra mondiale non riesce a far rientro in Italia e resta in Albania sotto falso nome per evitare guai. Restato senza identità, il protagonista perde totalmente la nozione del tempo tanto che, pensando di trovarsi ancora negli anni ’40, s’imbarca su una nave stipata di albanesi in fuga dal paese immaginando di emigrare in America. Sul finale del lungometraggio Amelio inserisce un palese riferimento alle immagini televisive del mercantile Vlora preoccupandosi però di scomporre nelle sue singolarità la massa di emigranti sull’imbarcazione attraverso primi piani dei volti dei passeggeri e sguardi in macchina rivolti allo spettatore. L’autore si oppone così a quel processo di deindividualizzazione operato dai media nel mostre l’arrivo dei migranti.

Lo scritto di Coviello, a proposito dell’arrivo del mercantile Vlora al porto di Bari, cita anche La nave dolce (2012) di Daniele Vicari e Anija (2013) di Roland Sejko, due produzioni documentarie che ricorrono ad immagini di archivio rimontate e rielaborate attraverso zoom, rallentamenti e modifiche cromatiche per farle dialogare con racconti di alcuni protagonisti di quel viaggio verso l’Italia. «Queste interviste costituiscono il controcampo delle immagini di repertorio e se ne discostano non solo perché girate nel presente ma anche perché danno un volto e una voce agli individui prima compressi nella massa anonima, in quell’orda che i media dell’epoca hanno commentato e rappresentato come una minaccia» (p. 359).

Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese

Paolo Lago, nel libro La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis, 2016), nel capitolo dedicato alle “Navi emigranti e dell’esilio”, si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. A tal proposito scrive lo studioso: «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione” si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea Lago, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti.

Tornando ai migranti che giungono sulle coste italiane, Paolo Lago si sofferma invece su Terraferma (2011) di Emanuele Crialese. All’arrivo in Italia i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello subito un secolo prima dai migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi. Nel film viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

A proposito di Terraferma Coviello, nel suo studio, sottolinea come la figurazione dell’indistinto raggiunga i suoi estremi:

Mentre all’inizio del film il peschereccio sul quale lavorano alcuni dei protagonisti avvista in mare un gommone e porta in salvo un gruppo di migranti, nella seconda parte questi ultimi riappaiono nella notte, alla stregua di un banco di pesci. Eliminato il mezzo di trasporto, i naufraghi nuotano all’unisono nel mare buio non appena intravedono una fonte luminosa, per poi essere brutalmente allontanati a bastonate. La sequenza è speculare a una precedente in cui i turisti in villeggiatura affollano un’intera barca e, al ritmo di Maracaibo, ballano in attesa di tuffarsi. Senza soluzioni di continuità sembra possibile passare dalle navi che salpavano per il “nuovo mondo” [come nel film Nuovomondo] ai gommoni che approdano lungo le coste pugliesi e siciliane. Ciò che si sottopone al processo di indistinzione risulta facilmente assimilabile, “digeribile” oppure, proprio perché reso irriconoscibile, espulso. Pur producendo effetti opposti – nel primo caso il superamento del confine, l’esclusione nel secondo –, le due procedure non hanno conseguenze molto differenti. Infatti, in entrambi i casi, il processo di traduzione e negoziazione delle soglie tra le culture viene ostacolato e, nel caso dell’espulsione, annullato (pp. 360-361).

Con la globalizzazione non sono spariti i confini:

Pur mantenendo il suo statuto di tecnologia giuridico-politica utile a regolare il regime della legalità attraverso la dicotomia accesso/espulsione, il confine si è deterritorializzato, separando le sue funzioni di controllo dallo spazio cartografico, e diventando condizione esistenziale, dispositivo biopolitico in grado di determinare le possibilità di vita o di morte per coloro che tentano di raggiungere l’Europa. Il dispositivo di assoggettamento del confine implica meccanismi di soggettivazione che costringono il migrante a rendersi invisibile […], bruciando i documenti […] o nascondendosi nelle navi cargo e nei traghetti. I confini “virtuali”, deterritorializzati, sono le stesse imbarcazioni che trasportano i migranti nel Mediterraneo e che vengono monitorate e spesso respinte dagli organismi di sorveglianza delle frontiere (pp. 361-362).

Nel documentario A Sud di Lampedusa (2006), di Andrea Segre, Stefano Liberti e Ferruccio Pastore, si racconta l’attraversamento del deserto del Sahara da parte di tanti migranti attraverso camion di trafficanti senza scrupoli. In Come un uomo sulla terra (2008), di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Yimer, la migrazione libica è invece raccontata direttamente da Yimer che partecipa all’opera sia come testimone-narratore sia come regista che, con la sua videocamera, registra storie per poi compararle con i documenti televisivi.

In Mare chiuso (2012), di Andrea Segre e Stefano Liberti, si raccolgono le immagini e le voci registrate direttamente dai migranti con l’intento di mostrare punti di vista diversi da quelli messi in onda dalla televisione italiana a proposito dei flussi migratori. Il punto di vista dei migranti raccolto attraverso i loro smartphone documenta la disumanità dei respingimenti in mare. Dei CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, presenti in molte città italiane, si occupano alcuni documentari come, ad esempio, In nome del popolo italiano (2012) di Gabriele Del Grande e Stefano Liberti, La vita che non Cie (2012) di Alexandra D’Onofrio ed EU 013. L’ultima frontiera (2013) di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese.

Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi

Una serie di opere documentano gli ambienti degradati in cui si trovano a vivere i migranti ed il loro venire a contatto con gli ambienti benestanti delle città. Appartengono a tale filone opere come Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi, Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, Terra di mezzo (1996) ed Ospiti (1998) di Matteo Garrone, Civico 0 (2007) di Francesco Maselli, Good morning Aman (2009) di Claudio Noce. Storie di solidarietà sono narrate da Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi, ove si racconta di una chiesa ormai chiusa al culto in attesa di essere sconsacrata che diviene rifugio per un gruppo di individui definiti “clandestini” dalla legge italiana ed “ospiti del Signore” dall’anziano parroco locale, ed in Isole (2011) di Stefano Chiantini.

Una parte della recente cinematografia italiana ha provato a raccontare l’attraversamento della penisola da parte degli immigrati, i loro sentimenti dello spostamento, scegliendo di restituire allo spettatore l’azione di uno sguardo “altro” che prova a collocarsi all’interno di un paesaggio spesso deturpato dall’azione umana, nella precarietà dei luoghi di lavoro, tra i pregiudizi della socialità (p. 366).

Pummarò (1990) di Michele Placido racconta di un immigrato ghanese che, intenzionato a raggiungere il Canada, decide di far visita al fratello in Italia. Durante l’attraversamento della penisola alla ricerca del fratello, il protagonista incontra le varie forme di sfruttamento a cui sono sottoposti i migranti. Una storia analoga è raccontata dall’opera documentaria Lettere dal Sahara (2005) di Vittorio De Seta ma, in questo caso, il protagonista, dopo aver subito le angherie riservate ai migranti, decide volontariamente di far ritorno in Senegal, ove racconta la sua tragica esperienza italiana ad altri suoi compaesani. Il resto è storia dei nostri giorni tutta da scrivere, filmare, raccontare e, soprattutto, determianre.

Ricapitolando

Il cinema italiano da inizio Novecento ai nostri giorni ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Nei film in cui la migrazione è considerata una colpa ed un rimorso doloroso, il ritorno si propone come via obbligata per la redenzione. Il cinema fascista e quello coloniale tendono a nascondere le cause politiche ed economiche del fenomeno dell’emigrazione italiana, mentre invece esaltano la figura del colono in quanto artefice del progetto espansionistico. Tra gli anni ’30 e ’40, la cinematografia nazionale riduce l’emigrazione ad un fatto individuale, senza mai mettere in luce le dinamiche che determinano migrazioni di massa. Al termine della Seconda guerra mondiale, il cinema neorealista ha affrontato il fenomeno ponendo l’accento sul riscatto sociale cercato attraverso l’emigrazione. La commedia, dagli anni ’60 agli anni ’80, ha dato immagine ad una figura dell’emigrante schiacciata tra la nostalgia delle origini e l’integrazione forzata e ha dato vita ad una galleria di personaggi spesso grotteschi costruiti sui cliché dell’italiano all’estero e del meridionale al Nord. Negli anni ’90, il cinema nazionale ha iniziato ad affrontare le migrazioni verso l’Italia ed il confronto con l’altro ha spesso fatto ricorso a soluzioni espressive in cui immagini documentarie e finzione si sono spesso intersecate al fine di «costruire un immaginario con cui disinnescare le retoriche massmediatiche, le barriere culturali e i dispositivi biopolitici che relegano i migranti nella condizione esistenziale di confinati […] Attraversando la storia delle migrazioni e dei fili che le intrecciano sino al presente, il nostro cinema si affaccia sul contemporaneo e ci offre immagini in cui scoprire l’altro e ripensare la nostra identità» (p. 370).
 

]]>
Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

]]>
Un uomo fortunato: intervista a Morando Morandini https://www.carmillaonline.com/2014/07/17/uomo-fortunato-intervista-morando-morandini/ Thu, 17 Jul 2014 21:10:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15601 di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film? Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: [...]]]> di Filippo Casaccia

Intervista MorandiniLunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.

Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film?
Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: possiamo chiamarlo “critico”? Meravigliavo le signore, amiche di mia madre, snocciolando i nomi di attori e attrici, e a poco a poco cominciai a distinguere un regista dall’altro. Da molti anni ho un sogno che non realizzerò mai: un saggio sulla critica italiana di cinema, suddivisa in generazioni. Sono convinto che in ciascun critico conti la sua infanzia cinematografica, cioè i film con cui “è nato al cinema”, quelli che cominciato a vedere in un certo modo. Parlo di film, ma il discorso si potrebbe estendere ad altri settori: libri, quadri, musica. C’è anzitutto una generazione, ormai quasi scomparsa, che nacque al cinema negli ultimi anni del muto, a cavallo tra gli anni ‘20 e ‘30. Venne poi quella degli anni ’30 sonori, quando, poiché il cinema italiano contava poco, si nutriva di film americani e francesi. Clair, Carné, Duvivier e un po’ meno Renoir che per ragioni politiche era poco importato. Seguirono la generazione del neorealismo, che scoprì il cinema a partire dal ’45 con Rossellini, De Sica, Visconti e quella della Nouvelle Vague a cavallo tra i ’50 e i ’60. In termini anagrafici dovrei appartenere a questa generazione, ma, essendo stato un precoce (ride), faccio parte della precedente. Venne poi la squadra degli anni ’70, quella che rivalutò Matarazzo, Mattoli, Totò e gli altri, insomma quel cinema commerciale, artigianale, non d’autore che le generazioni precedenti avevano ignorato, snobbato, spregiato. L’ultima generazione è quella che ha tettato il cinema sul televisore, ha l’inconscio colonizzato dai film hollywoodiani e scrive saggi pensosi e interminabili sul trash e sul gore. Ma per dirla secca, sono nato al cinema con i film francesi degli ultimi anni ’30. I miei idoli erano Jean Gabin, Arletty, Michèle Morgan. E Gary Cooper tra gli attori americani. Tra le attrici la Davis, la Hepburn, Carole Lombard. E Dorothy Lamour di cui mi innamorai col tramite di John Ford in Uragano (1937). Ford e Hawks erano i miei director preferiti, ma ricordo che mi lasciai incantare da Winterset (Sotto i ponti di New York, 1936) di Al Santell e rimasi sconvolto da Delitto senza passione (1934) di Ben Hecht. Riuscivo già ad andare fuori dai sentieri battuti. A dodici anni, come ho già detto, leggevo Filippo Sacchi, poi passai al settimanale “Film” di Doletti (era un lenzuolo, come il primo “Espresso”) e, infine, al liceo approdai alla rivista “Cinema” e a qualche numero di “Bianco e nero”.

Morandini 1E quand’è che questa passione diventa un mestiere?
C’è un intervallo bellico, diciamo il biennio 1944-45, in cui ho visto pochissimi film. Un buco nero. A guerra finita mi trovai iscritto al quarto anno di Lettere alla Statale di Milano senza aver dato nemmeno un esame. Qui comincio a fare il giornalista in un quotidiano cattolico di Como. Si chiamava “L’Ordine”. Sono un milanese che ha passato vent’anni, tra i 5 e i 25, sulle rive del Lario, dunque in provincia, il sale d’Italia. Il I° luglio del ’47 ero già giornalista professionista. Nella primavera di quest’anno una medaglietta dell’ordine per i 50 anni di professionismo, e ti assicuro che tra gli altri colleghi medagliati e cinquantenari ero tra i più arzilli. Non capitava spesso nemmeno allora di entrare in giornalismo a ventun anni. All’“Ordine” eravamo in quattro, e facevo un po’ di tutto, ovviamente, soprattutto cronaca nera e bianca. Anche un po’ di recensioni di film, ogni tanto. Recensì Paisà, parlandone bene (ride). Succede che nel ’49 mi licenziano. Passo nove mesi da disoccupato o, meglio, senza stipendio poiché collaboravo all’altro quotidiano comasco, “La Provincia”: teatro, cinema, libri, mostre d’arte, qualche articolo di cronaca locale. Nel ’50 trovo un posto a Milano, in un altro quotidiano cattolico: “L’Italia”, dove lavoro per due anni come redattore alle pagine provinciali. Raramente, approfittando delle vacanze o delle distrazioni del titolare della critica cinematografica, riesco a fare anche qualche recensione: Cronaca di un amore (1950) dell’esordiente Antonioni, per esempio. Finché alla fine del ’52 esce un nuovo quotidiano del pomeriggio, “La Notte”: fui promosso sul campo, sin dal primo giorno, critico del teatro di rivista. Si giocava a tutto campo, allora. A fare il successo della “Notte” contribuirono molto la pagina degli spettacoli e quella complementare del “Dove andiamo stasera?” dove per la prima volta su un quotidiano apparvero le famigerate “stellette” della critica, presto accompagnate dai “pallini” del successo di pubblico. Per nove mesi feci anche il vice di Biagi (e così mi firmavo) per il cinema. Recensivo più film io come vice che lui come titolare, ma in quel momento Enzo Biagi aveva il suo daffare come redattore capo del settimanale “Epoca”, appena uscito. Al festival di Venezia 1953 andai io, e da quel momento divenni titolare. Da ragazzo avevo due passioni: la letteratura e il cinema. Se mi guardo indietro, posso dire di essere un uomo fortunato: ho fatto coincidere presto uno di quei due amori col lavoro.

Morandini 2Il piacere della visione: doversi porre davanti a un film con un atteggiamento critico l’ha mai privata di qualcosa?
Sono cresciuto in provincia, a Como, città che non è mai stata culturalmente vivace come Bergamo, Pavia, Parma. Nel ’49 a Como fondai un Circolo del cinema. C’erano molte ragioni per farlo, non ultima quella che volevo vedere i film del passato. Il piacere della visione… è un discorso complesso. Parto da un esempio. Negli anni ’50 a Milano ci si incontrava spesso, tra colleghi, alla prima proiezione pomeridiana dei film nuovi. Incontravo Ugo Casiraghi dell’“Unità”, amico carissimo con cui poi lavorai nella supervisione del primo cinema d’essai italiano. Mi capitava di vedere con lui un film di Jerry Lewis o con Jerry Lewis (il suo primo film di regia è del 1960). A certe gag Ugo rideva come un matto, mentre io rimanevo in silenzio. Non che non mi divertissi anch’io, ma è una questione fisiologica: posso divertirmi moltissimo, ma non rido. Mi capita raramente. Poi, però, leggevo la sua recensione del film con Jerry Lewis, e non si capiva che s’era divertito. È soltanto un esempio, s’intende, ma fin d’allora mi ero posto il problema: come superare i filtri ideologici? Fino a che punto un critico ha il dovere di controllare la propria soggettività? È giusto rimuovere il piacere della visione? D’accordo: Casiraghi era comunista, un marxista di quelli veri, mentre io non lo ero. Di sinistra, è vero, ma di difficile collocazione. Qualche volta penso di essere un liberalsocialista un po’ anarchico: oggi, che si sposta tutto a destra, faccio figura di estremista perché non mi sono mosso! Ebbene, come critico, almeno nella misura in cui ne ero consapevole, mi sono sempre posto il problemi dei filtri ideologici. Facciamo un altro esempio: Samuel Fuller. Da quando alla mostra di Venezia del ’53 arrivò Mano pericolosa, Fuller era stato presentato come un regista di destra, reazionario, muscolare e un po’ fascista. Nel 1961 lascio “La Notte” per “Stasera”, altro quotidiano del pomeriggio, ma di sinistra, pendant del romano “Paese Sera”. Esce a Milano quel che per me ancor oggi rimane uno dei film migliori di Fuller: L’urlo della battaglia (1962). Lo recensisco in modo molto, molto positivo. E su “Cinema nuovo” di Aristarco, baluardo della critica marxista, si scandalizzarono. Già non avevano probabilmente digerito il fatto che su un quotidiano di sinistra avessero preso me, critico di “La Notte”. Per giunta elogiavo apertamente un film di Fuller. Uno scandalo. Mi bacchettarono con un corsivo anonimo al quale risposi con una letterina troppo ironica perché potessero capirla. L’umorismo non era il loro forte.

È possibile giudicare serenamente un cinema ideologicizzato? O semplicemente distinguere destra da sinistra?
Forse per ragioni d’età, ma, nonostante la confusione che regna oggi, so ancora distinguere tra destra e sinistra, almeno in certi campi. Dipende dai livelli, però. Sopra un certo livello mi rifiuto di discutere in termini di destra e sinistra. Nel cinema hollywoodiano che conta, per esempio: che m’importa di stabilire se Ford o Hawks siano o no di destra? È di destra o di sinistra Kubrick? E Altman, Coppola, Abel Ferrara, Scorsese dove li mettiamo? Passiamo in Francia. Resnais è sempre stato un uomo di sinistra: Notte e nebbia (1956), Hiroshima mon amour (1959), La guerra è finita (1966). Ma ha diretto anche L’anno scorso a Marienbad (1961) e Smokin – No smoking (1993). Sono film di sinistra? Godard cominciò con film anarchici di destra (Le petit soldat, 1960, per esempio) e dieci anni dopo diventò maoista. Come la mettiamo con Truffaut? L’alternativa destra-sinistra si riferisce ai contenuti o anche alla forma? Comunque credo nella distanza critica, non ideologica.

Morandini 3Va al cinema con amici? Discute con loro dei film visti?
Al cinema vado solo o in coppia, quasi sempre con mia moglie, raramente in gruppo. Certo che discuto con gli amici, ma quasi sempre a botta fredda. Non ho mai fatto presse parlé, anche perché non sono tanto bravo a parlare. Anche ai festival raramente scambio opinioni con i miei colleghi all’uscita da un film. Non voglio farmi influenzare né influenzare gli altri, soprattutto quando si esce da un film che mi ha intrigato, colpito, sorpreso. In quei casi ho bisogno di una fase di riflessione, e voglio farla in solitudine prima di scrivere. Negli altri casi posso limitarmi a un sí o un no, mi piace o non mi piace. Per quel che ricordo, una volta sola sentii il bisogno di scambiare impressioni e idee, e trovai la persona adatta come interlocutore. Fu nel 1959 quando a Cannes si vide Hiroshima mon amour. E l’interlocutore era Casiraghi. Un critico di una generazione successiva non può immaginare l’impressione che a molti fece quel Resnais che, dieci anni dopo, rivedendolo per la terza o quarta volta, mi sembrò di una semplicità straordinaria. Non in quel giorno di maggio del ’59. Non fui sconvolto da À bout de souffle, ma da Hiroshima mon amour che mi sembrò un film libero come può esserlo un romanzo. Dieci anni dopo era un film trasparente, ma in mezzo c’erano stati gli incontri con i film nuovi degli anni ’60.

Guardando a ritroso, riconosce errori di valutazione su certi registi e sui loro film?
Secondo me sono più gravi le sottovalutazioni che le sopravvalutazioni. Ritengo più grave – nel mio mestiere ma anche nella vita di ogni giorno – sbagliare per difetto che per eccesso, per avarizia che per generosità. Ovviamente anch’io ho commesso errori di questo tipo. Qui bisognerebbe parlare dei rapporti tra espressione e comunicazione. Forse dipende dal fatto che, tirate le somme, sono un giornalista prima di essere un critico. Il primo dovere di un giornalista è saper comunicare, no? Se poi riesce a esprimersi, tanto meglio. In termini diversi, il problema si pone anche per l’artista. Il suo primo dovere è esprimersi, ma non può trascurare la comunicazione, ossia il rapporto col pubblico, con lo spettatore. Diffido dei film che sono “contro” il pubblico, per principio. O forse sono soltanto più esigente. Fossi costretto al gioco della torre, tra Truffaut e Godard, butterei giù Godard. Estremizzo, è chiaro, ma , secondo me, il problema critico dell’ultimo decennio è la svalutazione eccessiva dei film ben costruiti. So anch’io che è una vecchia storia, si ripete in letteratura da duecento anni: classici contro romantici. Se si va contro il pubblico, o si è a un livello molto alto – come Tarkovskij, per esempio – o è meglio lasciar perdere. So benissimo che Lo specchio (1974) è un film per pochi, e io faccio parte di quei felici pochi! Il mio compito di critico è di far aumentare il numero di quei pochi.

Avrà delle antipatie…
Ne ho tante, e non le nascondo. Tinto Brass o Zeffirelli, tanto per fare dei nomi, per non scendere al livello dei Vanzina. Anche in questi casi, però, seguivo un criterio etico: mi astenevo. Dopo due o tre stroncature consecutive, lasciavo il compito di recensire il nuovo film al mio socio Silvio Danese. Insomma, evitavo quel che poteva sembrare un accanimento critico. E risparmiavo il mio tempo. Oltre alle antipatie esistono le ottusità. C’è un regista che ho amato subito, sin dall’inizio: Marco Ferreri. Eppure, di fronte al suo Diario di un vizio (1993), io, ferreriano della prima ora, sono rimasto chiuso. Non mi è piaciuto, non l’ho capito. Le chiamo ottusità provvisorie. Vai a vedere un film e per ragioni tue private (fisiologiche?), lo vedi “male”. Magari sei costretto a scriverne subito, non hai il tempo di rivederlo, ma sai che l’hai visto male. Il guaio è quando non lo sai.

Morandini 6Come si comporta con i film degli amici o dei registi che conosce?
Occorre fare una distinzione tra i critici romani (intesi come critici che abitano a Roma) e gli altri. Io sono un critico di frontiera, per esempio. Abito a 50 km. da Chiasso, (ride), dunque ho meno occasione di frequentare la gente del cinema: produttori, sceneggiatori, registi, attori ecc. Detto questo, considero l’ambiente del cinema italiano romanocentrico un cortile di merda. Puoi scriverlo: un cortile di merda, per intrallazzi, ruberie, omertà mafiosa, raccomandazioni di partito o di corrente, meschinità, gelosie, invidie, politica per bande. È di una corruzione almeno pari a quella di tutto il resto dell’Italia. Il guaio è che, pur vivendo a Milano, questa corruzione mi è più evidente. Sono pochi, pochissimi i registi che posso definire come amici: Bertolucci (tutti e due), Luigi Faccini, Nichetti a Milano, Olmi, Vincenzo Cerami tra gli sceneggiatori. Potrei aggiungere Valerio Zurlini e Gianni Amico, ma se ne sono andati. Per altri può esserci stima e una certa confidenza. Per Gianni Amelio, per esempio, ho una stima grandissima, anche a livello personale, come per De Seta, così come ho stima e confidenza con Marco Tullio Giordana, Emidio Greco, lo stesso Benigni, Bellocchio. Nel 1997 a Venezia diedero a Bertolucci il premio Pietro Bianchi. Poiché di Bianchi sono il successore sul “Giorno” e di Bernardo sono amico, il Sindacato Giornalisti Cinematografici mi chiese di fare un discorsino prima della consegna del premio. Parlai anche del problema che si pone al critico quando deve giudicare il film di un autore amico. Può capitare che si scrivano sul film riserve, qualche dissenso. I casi sono due: se i due sono veramente amici, continuano a esserlo, magari dopo un periodo di silenzio da parte del ferito; se rompono i rapporti, non erano veri amici. Nel primo caso, però, può rimanere un’ombra, paragonabile a quella di un tradimento tra marito e moglie. Appartiene al passato, può essere stata metabolizzato, il tradimento, ma l’ombra resta. Non è un gran problema, comunque. Se ho riserve da fare sul lavoro di un amico, cerco di scriverle in maniera più gentile. Tutto qui. C’è un altro rischio, invece. Se si conosce bene un regista, e gli si vuol bene, il rischio, per il critico è di scambiare le intenzioni per risultati.

Questi erano gli amici. E, invece, le polemiche con occasionali “nemici”?
Polemiche? Le ho avute più a voce che per iscritto, ma molte le ho dimenticate. Magari non so perdonare, ma dimentico spesso. Ebbi una polemica scritta con Alberto Bevilacqua, strascico di un duro attacco che gli feci da Venezia nel 1985 quando fu messo in concorso La donna delle meraviglie. Non replicò subito. Aspettò un’altra occasione per mandarmi una lettera oltraggiosa. Non aveva tutti i torti, però: la mia era stata un’invettiva. Ebbi una polemichetta in pubblico con Tinto Brass. A proposito di un suo film scrissi sul “Giorno” che mi aveva fatto venire la tentazione – come si ha voglia ogni tanto di fare con certi bambini – di mettere il regista nella condizione di non nuocere. Apriti cielo! Brass mandò una lettera al giornale accusandomi di voler limitare la sua libertà d’espressione e di avere auspicato la sua messa al bando. Gli risposi che avevo commesso uno sbaglio nel ricorrere all’ironia sebbene mi meravigliasse il fatto che non fosse stata capita da chi, come Brass, si dava tante arie di trasgressivo, ironico, caustico. Eppure conoscevo la regola: non usare mai l’ironia quando si scrive sui giornali perché c’è il rischio che un lettore su due prenda alla lettera quanto hai scritto. Se scrivessi per iperbole antifrastica e ironica, che Pieraccioni è più grande di Chaplin, sicuramente qualche lettore si scandalizzerebbe.

Morandini 4Ha scritto che le piace essere invaso dai film, non evadere grazie ai film… cosa rende buono un film?
Al più alto grado, come per certi libri, un film dovrebbe cambiare lo spettatore. Uno vede un film e ne esce cambiato nel senso che ha ricevuto tanto che non è più la stessa persona. È un po’ un paradosso letterario, ma ha un suo fondo di verità. Sai, mi tengo sempre sul paragone con la letteratura o con la poesia: i film per il 99% sono in prosa però ci sono anche quelli di poesia. Per cui un film ti può emozionare, ti può dar da pensare, porti delle domande, anche perché credo che l’arte in generale ponga delle domande, non dia delle risposte. Anzi, sono i film che danno delle risposte che sono discutibili. Significa che sono “a tesi”, in fondo in funzione di un programma, politico, civile… o un programma pornografico (ride). Insomma, film che subordinano la loro autonomia di prodotto artistico a qualche cosa d’altro.

Non ha mai provato la tentazione di passare dall’altra parte della barricata?
La questione va divisa in due parti, una autobiografica ed una più generale. Il primo libro di cinema che ho posseduto, mi fu regalato da mia madre quando avevo quattordici quindici anni e purtroppo è un libro che è andato perso negli anni di guerra. Un libro pubblicato da Bompiani, l’autore era Seton Margrave, ma non ricordo più il titolo. Fu un regalo di compleanno di mia madre e mi ricordo ancora la dedica: “a Morando che vuole diventare regista”. C’è stato anche un momento a guerra finita, credo nel ’47, in cui andai a sostenere un esame di iscrizione al Centro Sperimentale – facevo già il giornalista – e non fui ammesso. Ho avuto l’occasione di collaborare alla sceneggiatura di un altro, ma sono sfumate. Una volta è stato quando il mio amico Gianfranco Bettetini m’invitò ad andare ad Alba per conoscere Beppe Fenoglio perché c’era in ballo il progetto di un film su soggetto suo, tra l’altro non sulla guerra partigiana, ma ambientato nelle Langhe del dopoguerra. Andai due volte almeno ad Alba e conobbi Fenoglio. Passammo delle bellissime ore assieme. Si parlò pochissimo del film da fare (ride). Si parlò molto delle Langhe, del vino e poi sei mesi dopo Fenoglio s’ammalo.

E ci sono film che avrebbe comunque voluto fare?
Ogni tanto, una volta ogni due o tre anni, mi succede o di leggere un libro o di vedere un film che mi piace tanto e mi piace in un modo particolare che mi dico che questo è un film che avrei voluto fare io. Non chiedermi titoli perché non me li ricordo più! È un pensiero che hanno in molti, credo. Non è molto profondo!
(Milano, 24/7/98 e Levanto, 4/8/98)

]]>