Roberto Faenza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2020/01/29/senza-chiedere-permesso-come-rivoluzionare-linformazione/ Tue, 28 Jan 2020 23:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57680 di Nico Maccentelli

Faccio una premessa necessaria: l’analisi critica che farò su alcuni temi di questa opera, Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, viene svolta con un approccio marxista rivoluzionario, ossia rispetta i paradigmi ideologico-politici dell’opera stessa. Anzi, proprio per essi e per la conseguente splendida analisi che il curatore Roberto Faenza fece, ho preso in considerazione questo suo saggio del 1973 e… senza chiedere permesso al curatore stesso che oggi probabilmente avrà altri punti di vista sull’argomento.

Infatti oggi, mentre le teorie dominanti sulle comunicazioni di massa non [...]]]> di Nico Maccentelli

Faccio una premessa necessaria: l’analisi critica che farò su alcuni temi di questa opera, Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, viene svolta con un approccio marxista rivoluzionario, ossia rispetta i paradigmi ideologico-politici dell’opera stessa. Anzi, proprio per essi e per la conseguente splendida analisi che il curatore Roberto Faenza fece, ho preso in considerazione questo suo saggio del 1973 e… senza chiedere permesso al curatore stesso che oggi probabilmente avrà altri punti di vista sull’argomento.

Infatti oggi, mentre le teorie dominanti sulle comunicazioni di massa non si pongono da alcun punto di vista che non sia quello “neutro”, puramente fenomenologico, il pregio di questo vero e proprio manuale di guerriglia comunicativa è proprio quello di rompere con gli impianti teorici convenzionali per conferire alla massa un altro valore e ruolo, oltre la passività. Quindi per dare ai movimenti e al popolo in genere un’arma critica e strumenti di intervento e comunicazione pratici che possano attivare partecipazione e rompere con l’informazione ufficiale e i valori dominanti propagati dal mainstream mediatico. 

Va da sé che la critica sostanziale che emerge da questo saggio riguardo il sistema dei media è una critica marxista e di classe. Lo è sia sul piano del punto di vista, delle pratiche e degli scopi che Senza chiedere permesso si prefigge, sia per la forte influenza che il contesto in cui è stato scritto aveva sugli intellettuali e gli studiosi della sinistra in genere. I movimenti di liberazione nel terzo mondo con la guerra in VietNam e le sue ricadute politiche con le mobilitazioni di massa antimilitariste, la vaste proteste sociali e politiche del lungo ’68 da Parigi a Berkeley, il socialismo reale ripartito tra URSS e Cina, la Rivoluzione Culturale, la forza sociale e politica dei movimenti operai, costituiscono lo scenario “naturale” in cui una parte della cultura di sinistra del tempo sviluppava sapere critico per una trasformazione sociale nel superamento del capitalismo.

Senza chiedere permesso, al di là degli aspetti tecnologici, talvolta anche anticipatori (e lo vedremo) ma comunque datati, rappresenta uno spunto di riflessione fondamentale per chiunque intenda coniugare media e democrazia, comunicazione e militanza, se non proprio affrontare il nodo fondamentale del potere capitalistico delle democrazie liberali borghesi.

Ho diviso la recensione in due parti per comodità nel mio lavoro in progress, ma è nella prima parte che sostanzialmente evidenzio le basi teoriche per la riformulazione di una visione antagonista, di democrazia di base e partecipata di quelli che sono i mezzi di comunicazione di massa.

 

Per un’analisi critica del sistema dei mezzi di comunicazione di massa

Dunque, questo saggio ci riporta a una critica del sistema dei media, oggi quasi del tutto scomparsa anche nel panorama politico dell’opposizione della sinistra radicale e di classe.

Della pervasività del sistema mediatico è stato scritto di tutto e di più: dalle tecniche di manipolazione delle informazioni a quelle dell’occultamento dei fatti e degli eventi, operate dagli uffici interni ai media stessi, in sintonia con le cancellerie e le centrali di intelligence. Tavole rotonde e convegni sull’argomento e sulle strategie per il consenso dell’opinione pubblica si sono sprecate.

Ma la dominante, alla fine, è sempre una critica alla disinformazione, al totalitarismo mediatico di chi ha il monopolio dell’informazione e della produzione culturale di contenuti che veicolano i valori della società dei consumi, che però non va oltre, ossia non critica il sistema dei media in quanto unidirezionale. Perché allora ci viene da chiederci: il sistema di comunicazione statale dei paesi del socialismo reale sovietico andava allora bene? Questa convinzione, vedremo, ha influenzato l’intera concezione della comunicazione alternativa o controinformazione anche negli anni successivi alla caduto del muro di Berlino.

Dunque, ciò di cui in questi ultimi decenni si è parlato poco e in modo non sufficientemente esaustivo è la struttura stessa del sistema dei media, il suo statuto ontologico, cosa che il saggio di Faenza invece va a mettere in discussione. Del resto, il contesto storico e politico dell’epoca (inizi anni ’70) vedeva l’esistenza nel mondo di movimenti e organizzazioni che mettevano in discussione radicalmente il sistema di potere capitalista in ogni suo ambito. Oggi invece, il pensiero unico neoliberale, e le nostalgie del controcanto del modello Pravda, hanno influito, a mio modo di vedere, persino sui gruppi più antagonisti su diversi aspetti politici e di relazione con la società. Un’influenza inconsapevole, tuttavia alla base dei limiti di un’azione politica antagonista. E la comunicazione è forse l’aspetto più rilevante e limitante.

Senza chiedere il permesso indica il punto fondamentale su cui sarebbe bene riprendere un’analisi e un percorso politico e di presenza sociale per un’avanguardia politica. 

Partiamo da una questione che fa da diapason dell’intero saggio:” La costituzione italiana, che nell’art. 21 sancisce il diritto di espressione e di opinione di tutti i cittadini, protegge il nostro diritto di accesso ai mezzi di comunicazione. In realtà noi non abbiamo alcuna possibilità di esprimere le nostre opinioni, le nostre esperienze, le nostre esigenze.”1

Questo passaggio è fondamentale non tanto per fare “gli avvocati della costituzione”, ma perché fotografa esattamente quello che è ed è stato in tutti i sistemi politici e sociali sin dalla nascita dei mezzi di comunicazione di massa: giornali, radio, tv, persino l’era della rete con i suoi dispositivi di controllo sviluppati dai grandi gestori in accordo con i centri del potere (anche se in quest’ultima fase il curatore non poteva prevedere cosa sarebbe accaduto).

Infatti, per media oggi si intendono dei mezzi di comunicazione unidirezionali, ossia un emittente comunica qualcosa a un ricevente, ma il ricevente non ha alcuna possibilità di fare lo stesso. 

“è un falso chiamarli mezzi di “comunicazione” quando con essi la comunicazione resta solo un’esigenza non soddisfatta. Nel momento in cui possiamo ricevere ma non rispondere ai messaggi, perdiamo la nostra capacità di soggetti e veniamo degradati al livello di oggetti.”2

Questa concezione unidirezionale che Faenza criticava nel suo saggio, è stata accettata e praticata anche da chi il sistema lo critica radicalmente. Se pensiamo quanto la manipolazione dell’opinione pubblica influisca sui processi democratici e di esercizio del potere nelle democrazie parlamentari (e non solo), non possiamo non renderci conto di come la comunicazione sociale e i media siano non un mero supporto a un sistema democratico, ma elementi ben connaturati alla struttura stessa del sistema istituzionale, delle sue espressioni politiche e delle sue innervature sociali. 

Pertanto già la loro unidirezionalità rappresenta in realtà non un fatto strutturale propositivo nella democrazie rappresentative, bensì l’elemento essenziale della crisi di democrazia dei sistemi politici parlamentari nel capitalismo.

Una delle ragioni con le quali si autolegittima la concezione unidirezionale dominante delle comunicazioni di massa, e che è supportata teoricamente dagli studi “neutrali” su questa materia, è la seguente: le masse non sono in grado di comunicare. Punto di vista assunto storicamente e politicamente anche da chi critica il sistema da sinistra. Faenza sulla questione è molto chiaro:

“Un atteggiamento comune tanto tra i conservatori quanto tra i progressisti e anche molti rivoluzionari è la sfiducia nella creatività delle masse. Le masse, dicono gli uni, non hanno nulla da comunicare. Le masse, dicono gli altri, sonooppresse e tenute nell’ignoranza, pertanto non sono in grado di comunicare. Prima che le masse possano usare i mezzi di comunicazione, devono venire liberate dall’oppressione. Prima che possano usare i mezzi di comunicazione, è necessaria la fase dell’informazione, che educa, libera e propaganda la linea giusta. È così che i vertici concepiscono generalmente il loro rapporto con le masse. Siccome è la linea politica quella che conta, non è importante che le masse comunichino, è importante che siano informate.”3 

Con buona pace di tutti: conservatori e progressisti, riformisti e rivoluzionari, capitalisti e socialisti e comunisti.

Il capitalismo non potrebbe controllare nulla e riprodursi senza questa unidirezionalità dei media, senza la mancanza di partecipazione popolare alla produzione di comunicazione.

Non avremmo produzione coatta di consenso, passivizzazione delle masse a mere consumatrici di notizie preconfezionate anche su ciò che accade dietro l’angolo di casa, spettacolarizzazione dei valori costitutivi della società dei consumi.

Nelle teorie delle comunicazioni di massa odierne, viene fatta una distinzione di qualità democratica tra il sistema occidentale: USA con i media commerciali, BBC tv di Stato britannica e modelli di media del capitalismo delle democrazie liberali, e dall’altra i media nel socialismo reale (il cosiddetto “mondo comunista” novecentesco), con la sua centralizzazione burocratica dei media come mezzi di comunicazione di Stato. In realtà, considerazione mia, entrambe non sono altro che forme diverse di controllo dell’opinione pubblica e del consenso sociale dall’alto, ottenute con modalità diverse di gerarchizzazione della produzione e diffusione dell’informazione.

In realtà, se seguiamo la critica di Faenza nel suo saggio, la scarsa o nulla qualità democratica a entrambi i sistemi mediatici è immediatamente chiara, se prendiamo l’unidirezionalità emittente/ricevente come denominatore comune, ben connesso al funzionamento stesso di sistemi sociali e politici differenti.

A ben guardare, il sistema mediatico del capitalismo liberale, di controllo gerarchizzato e di autocontrollo da parte dei centri di produzione mediatica secondo standard comunicativi prefissati da un’agenda politica, è molto più sofisticato ed efficace del modello sovietico: è il vero pilastro delle democrazie borghesi liberali, la macchina “perfetta” di manipolazione dell’opinione pubblica, di produzione del consenso e passivizzazione della massa. E ciò costituisce un vulnus molto grave per la qualità democratica nel capitalismo occidentale liberale. In pratica è ciò che lo rende totalitarismo capitalista, una delle ragioni sostanziali dell’egemonia classista borghese sulla società intera, senza i cannoni di Bava Beccaris (però sempre presenti e possibili…).

Come sopra accennato, anche nella tradizione politica del marxismo ortodosso abbiamo un’impostazione fortemente centralizzata e gerarchizzata dei mezzi di comunicazione di massa: sin dai tempi successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, che in quelli successivi della stalinizzazione e poi ancora per tutto l’arco della seconda metà del Novecento e ancora oggi in Cina. Un modello che ha fatto scuola non solo nei paesi socialisti dall’Albania alla Corea del Nord e in numerosi governi nati da rivoluzioni democratico-borghesi nel terzo e quarto mondo, ma anche nella concezione del rapporto partito/masse dei vari partiti e organizzazioni interne ai vasti movimenti sociali del lungo ’68. Senza distinzioni di “ismi”, trotschismi o stalinismi vari. Una concezione “dall’alto verso il basso” senza alcuna bidirezionalità dialettica né nell’organizzazione, né nella comunicazione. Un aspetto che non può non riguardare il dibattito nell’ambito delle forze comuniste e socialiste che su questo tema non ha fatto alcun passo in avanti se non a livello empirico, nell’autoproduzione da parte di gruppi e centri sociali e nei mezzi di comunicazione espressione di istanze e momenti di lotta e occupazione.

La questione è e resta quella posta da Senza chiedere permesso…: la mancanza di partecipazione popolare ai mezzi di comunicazione di massa è alla base della mancanza di partecipazione politica, di produzione culturale, di circolazione delle idee, di sviluppo di un immaginario soggettivo e collettivo che vada oltre la riproduzione di stereotipi e di quello che possiamo definire “pensiero prevenuto”.

 

La comunicazione orizzontale

Senza chiedere permesso ha rappresentato un tentativo a partire dalle tecnologie dell’epoca (il videotape) di ribaltare questa relazione emittente/ricevente per promuovere a livello sociale, operaio, popolare, nelle lotte e nel territorio, una comunicazione orizzontale alternativa che fosse di contrasto a quello che allora era il monopolio della Tv di Stato, la RAI.

Un tentativo ingenuo, e oggi ci sarebbe molto da ridefinire soprattutto sul piano tecnologico e con l’avvento della rete, ma con elementi d’analisi del sistema dei media e della tattica da sviluppare sul piano della contro-comunicazione che risultano essere preziosi soprattutto se prendiamo coscienza del fatto che non esiste rappresentanza politica e sociale antagonista al capitale senza comunicazione orizzontale, senza un network riconoscibile nella società che attiva ed esprime i percorsi dell’antagonismo stesso, le istanze popolari che emergono dalle contraddizioni sociali. Ma soprattutto senza la partecipazione diretta dei soggetti organizzati e non solo organizzati, in organismi di massa che producono iniziative, proposte progettuali a ogni livello, immediate, locali e generali. Il consiliarismo o è comunicazione orizzontale o non è.

Una sottolineatura di un pregio di questo saggio è la capacità anticipatrice di Roberto Faenza, determinata proprio da questa visione rivoluzionaria dei media.

Accenderemo i televisori e saremo in grado di ricevere non soltanto i soliti servizi televisivi, ma anche quelli della radio, el telefono e persino della stampa.4

È la descrizione degli attuali dispositivi di comunicazione, tv connessa, tablet, smartphone, pc, ecc. fatta nel lontano 1973.

È come dire prima la rivoluzione poi la comunicazione. In realtà La comunicazione orizzontale è lo strumento per l’organizzazione collettiva.

Nel saggio di Roberto Faenza si prendono a spunto concetti fondamentali da Mao Tse Tung e considerazioni dall’attivista delle Black Panther Kathleen Cleaver, riguardo “insegnare alle masse, educarle e prepararle” alla rivoluzione, da cui emergono metodologie di intervento come l’inchiesta e il ruolo dei rivoluzionari come “facilitatori” nella comunicazione antagonista.

“Da molto tempo sostengo che dobbiamo insegnare alle masse con precisione ciò che abbiamo ricevuto da esse (notare: questa frase da me sottolineata) con confusione. Per stabilire stabilire lo stretto contatto con le masse occorre conoscere le loro esigenze e i loro desideri. In ogni lavoro con le masse occorre partire dalla conoscenza delle loro esigenze.”5

“La repressione in America ha raggiunto un tale grado di intensità che nessun nucleo rivoluzionario, tanto meno il così detto movimento, è riuscito a venirne fuori. (…) Questa situazione ci porta a muovere verso un livello più generale, che non è più quello del partito e della lotta armata contro un nemico incredibilmente armato, ma quello dell’educazione e della preparazione delle masse, che è un problema di comunicazione. A questo punto molti dei nostri militanti hanno deciso di diventare dei ‘facilitatori’”6.

Il compito delle avanguardie politiche non si limita dunque a inchieste dall’esterno e a dettare poi la linea politica, come credono praticamente quasi tutti i gruppucoli di oggi. Educare, preparare e insegnare alle masse ciò che è stato ricevuto da esse con confusione, significa attivare la comunicazione orrizzontale. Un’inchiesta deve nascere dall’attivismo dal basso. Solo così ha senso la leninista “coscienza dall’esterno” come principio del binomio dialettico avanguardia/classe e non come modello reiterato nel tempo in modo antidialettico. Tale “esterno” è la sintesi di un processo di organizzazione e comunicazione molto più complesso del giornaletto o della webfanzina, della visione meccanicistica fin qui avuta. Un esterno che esiste solo se c’è un interno che ne fa da cuore e motore. Un esterno che non è separato dall’interno. Spesso si fa confusione sul ruolo del militante bolscevico di professione portato a modello universale, al di là della fase politica in cui era necessario e delle condizioni storiche e sociali della classe operaia e dei contadini russi dell’epoca.

Senza chiedere permesso rompe con questa visione meccanicistica, poiché mette in relazione l’attività rivoluzionaria con le masse proprio attraverso la bidirezionalità e reciprocità emittente/ricevente della comunicazione. Ed essere “facilitatori”, anche nelle condizioni peggiori sul piano della coscienza collettiva e dell’identità politica, significa lavorare sul campo per unire lotta a comunicazione, per attivare nei movimenti e nelle masse quegli strumenti di comunicazione orizzontale che rompono con l’inattivismo che è anche mentale, della routine quotidiana, della mancanza di alternative.

 

Senza chiedere permesso oggi

Il contesto in cui si svilupperebbe la comunicazione orizzontale Senza chiedere permesso lo indica nella rivoluzione del videotape, ossia del sistema analogico associato a un’altra grande trasformazione tecnologica: la tv via cavo. L’autoproduzione di contributi video associata a una sorta di diffusione della controinformazione popolare nei caseggiati, nelle università, nelle fabbriche. Siamo agli inizi degli anni ’70 e mentre in Italia e nel Regno Unito si sviluppavano modelli radiofonici e televisivi di Stato, negli USA avevamo il grande sistema mediatico dei network commerciali. Nei decenni successivi avremmo poi visto la commercializzazione anche del cavo con canali per lo più specifici, ma soprattutto in Italia l’avvento del modello statunitense con l’era di Mediaset e delle tv commerciali. 

Tuttavia, proprio oggi in cui l’evoluzione tecnologica dei media è progredita fino al digitale, alla multimedialità, alla rete, ai social media e all’interconnessione dei più diversi dispositivi di ricezione e nel contempo emissione di contenuti, la possibilità di una comunicazione orizzontale diviene ancora più concreta.

Lo smartphone e i social per esempio hanno fatto da veicolo collettivo di mobilitazione popolare in numerose proteste e rivolte sociali dalla Cina all’Egitto. Oggi con la rete, i social e i dispositivi diviene molto difficile per i regimi coprire le repressioni. Del Cile di Piñera e dei suoi massacri sappiamo tutto. La mobilitazione delle donne partita con un flashmob antisistema e anti- patriarcato da questo paese si è propagata velocemente in numerosi altri paesi con un linguaggio e contenuti antagonistici comuni. Eventi di comunicazione che evidenziano tutte le potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa utilizzati anche se sporadicamente come comunicazione orizzontale.

La guerriglia di massa diviene anche guerra sociale dal basso verso l’alto sul piano dell’informazione, nella trasmissione di esperienze, pratiche, riflessioni, analisi delle diversità e dei punti in comune. Solo le avanguardie gruppuscolari di un’ortodossia marxista ingessata non lo sanno e non lo praticano. Ma questa concezione della comunicazione orizzontale è invece propria del marxismo rivoluzionario, della partecipazione popolare ai processi di lotta, all’organizzazione di classe.

A chiusura di questa prima parte va detto che se intendiamo dichiarare la fine di una sinistra supina alle logiche economiche neoliberali, dei cespuglietti a sinistra del PD che vogliono “migliorare” ciò che si può solo distruggere, dobbiamo mettere fine anche a quella visione della comunicazione che relega nella passività generale la massa.

In altre parole, è finito anche il tempo dei giornaletti autoreferenziali, stampati o in rete, che declinano l’inconsistenza e le velleità gruppuscolari d’avaguardia, da partitini, dei tanti sogetti frammentati nella galassia di una sinistra antagonista. Utili giusto per le cerchie ritrette di aficionados ma non per arrivare a un pubblico più allargato, ma soprattutto inservibili per attivare percorsi di partecipazione popolare e autorganizzazione.

La rivoluzione può solo manifestarsi attraverso l’organizzazione e la partecipazione popolare dal basso e da elementi che la attivino in percorsi di democrazia diretta: la comunicazione orizzontale è elemento, fondamentale, imprescindibile e quindi decisivo, strumento di consiliarismo permanente, elemento di una costituente popolare. Diversamente continuerà a riprodursi anche nei discorsi rivoluzionari più roboanti il rapporto emittente/ricevente, attivismo/passività, che tanto avvilisce anche gli zoccoli politici più “duri e puri”.

 

NOTE:

  1. Senza chiedere permesso come rivoluzionare l’informazione, di Roberto Faenza, pag. 13.
  2. Ibidem, pag 18.
  3. Ibidem, pag 42.
  4. Ibidem, pag 21.
  5. Ibidem, Mao Tse Tung, pag. 43
  6. Ibidem, Kathleen Cleaver attivista delle Black Panthers, pag. 56
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Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

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Quando l’immagine è politica https://www.carmillaonline.com/2015/09/21/quando-limmagine-e-politica/ Mon, 21 Sep 2015 21:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25110 di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, [...]]]> di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, Grande, che per diversi anni intrattenne un dialogo vivace con Gilles Deleuze e Carmelo Bene, utilizza l’aggettivo politico non tanto per quei film che sviluppano il loro intreccio a partire dalla rappresentazione di un particolare contesto politico (è il caso della politica messa in scena nei film legati alla cronaca o in quelli di propaganda), quanto piuttosto per individuare le opere che possiedono un senso politico e suscitano interrogativi politici.
L’immagine politica si appropria del paradigma inaugurato da Grande. Pertanto il volume di Uva non è una storia per immagini degli anni Settanta e delle lotte che li hanno segnati ma un’analisi che, a partire da un accurato studio storico e critico delle riviste cinematografiche e di quelle dei gruppi extraparlamentari, del cinema, del video e della fotografia militante, offre al lettore un’analisi del contropotere delle immagini, delle sue forme e della sua efficacia sociale, politica, nonché della sua capacità di imprimersi nell’immaginario collettivo.

Il contropotere, ossia «contestazione, rivoluzione, resistenza, antagonismo» (p. 10), messo in atto dalle e per il tramite delle immagini configura queste ultime come armi capaci di enunciare un discorso e di sprigionare un senso politico di natura antagonista ma anche di denunciare, ossia di offrire una risposta, quella della controinformazione, al malcontento crescente nei confronti degli organi di stampa e dei mass media in varia misura conniventi con il discorso istituzionale.

L’immagine politica ha una scansione cronologica che intreccia gli eventi alle trasformazioni tecnologiche, stilistiche e contenutistiche connesse alle immagini e ai loro medium di propagazione e diffusione sociale. Il volume prende avvio dalle lotte studentesche e operaie della seconda metà degli anni Sessanta, un periodo in cui si afferma il “cinema militante”, una fase «nella quale fiorisce una nutrita produzione di materiali di “servizio alla causa” di matrice fondamentalmente documentaria» (p. 15). Al centro della seconda sezione, dedicata agli anni Settanta, vi sono i linguaggi elettronici del video: la tecnologia elettronica esce dagli studi televisivi e diventa un strumento accessibili ai molti per supportare, sovvertendo i mezzi di produzione, l’attivismo politico e le istanze trasformatrici del periodo. L’ultima parte di questo percorso sul contropotere delle immagini negli anni Settanta è dedicata alla fotografia, un apparato di cattura che in quel periodo è al servizio di scopi e regimi discorsivi molto diversi, dalle Polaroid delle Brigate Rosse alle “immagini del movimento” di Tano D’amico.

Andiamo per gradi e proviamo a offrire una panoramica su ciascuna delle sezione di cui si compone L’immagine politica.

Fotogramma tratto da Ipotesi su Giuseppe PinelliA cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il dibattito sullo specifico ideologico e linguistico del cinema politico imperversa su riviste come «Cinema&Film» «Ombre Rosse» e «Cinema Nuovo». A confrontarsi sono posizioni contrastanti a proposito della dimensione didattica del film, dell’accesso democratico al mezzo e alla grammatica cinematografica, della militanza e della rivoluzione culturale condotta attraverso il cinema. D’altra, parte anche la pratica del cinema militante si presenta come un coacervo di istanze produttive: dai gruppi extraparlamentari alle riviste come «Lotta Continua», dai collettivi studenteschi come il “Collettivo cinema militante Milano” a quelli operai e femministi, come il “Collettivo di Cinema femminista”, sino ai gruppi e ai comitati che riunivano registi e cineasti come il “Comitato cineasti italiani contro la repressione”, formatosi all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969. Uno dei gruppi del comitato dei cineasti, realizza, con il coordinamento di Elio Petri, Ipotesi su Giuseppe Pinelli (o Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli). Le tre versioni sul presunto suicidio dell’anarchico milanese sono restituite allo spettatore grazie alla capacità attoriale di Gian Maria Volonté «nella funzione di persona/personaggio interna/esterna alle tre “narrazioni” che ricostruiscono, sfruttando le diverse e contraddittorie indicazioni fornite dalla Questura, i vari scenari dai quali emerge in definitiva l’impossibilità materiale della caduta volontaria o accidentale dell’anarchico dalla finestra» (p. 70).
A livello delle tecnologie usate dal cinema militante dell’epoca, tematiche e rivendicazioni vengono documentate e raccontate attraverso quei formati ridotti come l’8mm e il 16mm che consentivano l’alleggerimento dell’apparecchiatura e davano al cineoperatore, professionista o amatoriale, la possibilità di cogliere sul fatto le manifestazioni e le proteste, le assemblee e gli scioperi.
Tra le esperienze più fertili e riuscite di questa stagione si può ricordare la serie dei Cinegiornali Liberi realizzati da Cesare Zavattini a partire dal 1967, nei quali l’utilizzo del piano sequenza “adegua” l’estetica del pedinamento di matrice neorealista ad un cinema di analisi e di intervento, militante e di azione, «un cinema di tanti per tanti» (p. 42) che però prevede la presenza e il supporto di intellettuali e registi.
In pieno Sessantotto il Movimento Studentesco dell’Università “La Sapienza”, con il coordinamento del regista Silvano Agosti, realizza quattro cinegiornali sulle manifestazioni romane. Ben presto alcune immagini di questi cinegiornali (il ferimento di Oreste Scalzone, allora leader del Movimento Studentesco, le cariche violente della polizia contro i manifestanti che protestano per l’arresto di Piperno e Russo) vengono «fagocitate e reiterate in più momenti dalla televisione, diventando tout court il simbolo di quella stagione» (p. 49).
Matti da slegareCon l’arrivo degli anni Settanta il cinema militante inizia a produrre immagini e discorsi su due nuove direttrici che possono essere definite a partire da alcune parole chiave la prima è sintetizzata dalle rivendicazioni sociali delle minoranze, la seconda, sulla scorta dell’ascesa del terrorismo di destra e la strage di piazza Fontana, fonde le lotte studentesche e operaie al passato della Resistenza. Nella prima direttrice rientrano opere importanti come il documentario, girato nel 1975, tre anni prima della legge Basaglia, Matti da slegare di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Gli autori di Matti da slegare mostrano gli spazi interni dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma) e le strutture esterne di recupero in cui venivano impiegati alcuni dei ricoverati dismessi e soprattutto deliberatamente rifiutano «un ruolo puramente documentaristico o di informazione, optando piuttosto per un intervento diretto sulla realtà politica e sociale di uno spazio fisico che, nel frangente, è quello dell’emarginazione dei malati di mente» (p. 58).

Fotogramma da Pagherete caro Pagherete tutto, la morte di ZibecchiLa seconda direttrice intrapresa dal cinema militante, a fianco di quella a vocazione sociale e femminista, è quella ideologica e militante. All’interno di questa direttrice, oltre al lavoro di Volonté e al già menzionato Ipotesi su Giuseppe Pinelli, rientrano operazioni di controinformazione militante che si impegna a offrire immagini e punti di vista sulle manifestazioni, sulle violenze della polizia e sul terrorismo nero opposti a quelli forniti dalla stampa e dalla televisione. Due titoli. Il primo è Pagherete caro pagherete tutto (1975) del Collettivo cinema militante Milano, «vero e proprio manifesto dell’antifascismo militante […], realizzato durante le “calde” giornate dell’aprile 1975» (p. 78). Pagherete caro pagherete tutto è il resoconto delle uccisioni compiute dall’estremismo di destra (l’omicidio di Carlo Varalli) e dalla polizia (Giannino Zibecchi, investito da una camionetta della polizia durante le manifestazioni per la morte di Varalli). Il secondo film è Filmando in città – Roma 1977, realizzato da Lotta Continua per documentare, con immagini fisse e in movimento, spesso a bassa definizione, la repressione di stato e le violenze della polizia. Uva, che nella sezione dedicata alla fotografia, analizzerà gli scatti realizzati da Tano d’Amico su quegli stessi eventi, in particolare l’arresto e il ferimento di Paolo Tommasini (Paolo) e di Leonardo Fortuna (Daddo), attribuisce alle immagini di Filmando in città la «funzione di inoppugnabili prove, tracce, indici di una violenza e di una criminalità di cui si intende responsabilizzare lo Stato» (p. 85).

Le tecnologie di ripresa e registrazione elettronica vengono impiegate per la prima volta al di fuori degli studi televisivi a metà degli anni Sessanta grazie a tre noti artisti, precursori della video arte: Andy Warhol, Les Levine e Nam June Paik. È soprattutto quest’ultimo a pensare e adoperare il video come strumento antagonista rispetto alla televisione e a sostenere la nascita di una controcultura fondata su questa tecnologia. Dal punto di vista tecnico, il video può essere considerata l’“arma” ideale per la militanza e la guerriglia urbana. Esso è in grado, seguendo la teoria e la pratica vertoviana, di cogliere e restituire la vita colta sul fatto, inoltre permette di produrre immagini facilmente rielaborabili in fase di post produzione, infine, come già accennato, l’utilizzo del video da parte delle controculture è in opposizione alla produzione televisiva con la quale condivide la stessa matrice tecnologica.
Nel 1964 il padre degli studi sui media, Marshall McLuhan, dà alle stampe Understanding Media: The Extensions of Man (Gli strumenti del comunicare). Nel volume McLuhan classifica come freddi i medium che hanno una bassa definizione e che quindi richiedono un’alta partecipazione dell’utente, in modo che egli possa riempire e completare le informazioni non trasmesse; i media caldi sono invece quelli caratterizzati da un’alta definizione e da una scarsa partecipazione. Leggerezza del dispositivo, bassa definizione dell’immagine e alto livello di partecipazione e coinvolgimento: il videoattivismo, cinquant’anni prima dell’avvento dei social media e del giornalismo partecipativo, sembra possedere, in misura maggiore rispetto al medium televisivo, tutte le caratteristiche per essere una di quelle pratiche mediali che McLuhan avrebbe definito come fredda.
Rispetto all’utilizzo coevo del mezzo televisivo e del cinema, la politicità dell’immagine video si esprime, in primo luogo a livello temporale. Il video, a differenza del cinema, non riproduce il tempo ma lo produce: l’immagine si genera e si trasforma mentre l’evento ha luogo. Inoltre, Uva rileva la centralità del flusso video che risponde a «quell’urgenza […] di porsi in presa diretta con la realtà» (p. 97). La registrazione in tempo reale e il long take ben si adeguano alle necessità di processualità, trasformazione e immediatezza che sono racchiuse nell’idea di rivoluzione permanente ritornata in auge negli anni Settanta.
In Italia, il termine “videoteppisti” compare in quello che potrebbe essere definito il manifesto del video militante: Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, un volume a cura di Roberto Faenza, edito da Feltrinelli nel 1975. Accanto ad alcune importanti proposte programmatiche ed estetiche sull’uso del video per una comunicazione partecipata e paritetica, Senza chiedere il permesso istruisce i suoi lettori sulla tecnica e la pratica del mezzo che, a differenze delle compatte fotocamere digitali, era ancora un sistema composto da due dispositivi separati, la telecamera con il microfono e il videoregistratore, e aveva dei costi elevati. Pertanto Faenza, che è ben consapevole della valenza politica dei media e della necessità per il proletariato di conoscere e controllare i propri mezzi di comunicazione, promuove un uso collettivo del videotape per «controllare e non di farsi controllare dalla tecnologia» (p. 95). All’esaltazione, tipica del periodo, di una produzione partecipata dal basso spesso fondata sullo spontaneismo, Faenza accosta la riflessione sulla dimensione processuale che la tecnologia video garantisce sia in fase di registrazione (la vita colta sul fatto) sia in fase di fruizione (il flusso di immagini che può restituire l’evento nel suo farsi) e che si oppone e nasce per contrastare l’idea di ricezione passiva del prodotto televisivo.
Come per il cinema militante, anche nel caso delle esperienze video i temi delle lotte sociali si affiancano all’antagonismo politico. è il caso di Processo per stupro (1979) di Loredana Rotondo, prodotto dal movimento femminista per denunciare l’arretratezza della legislazione italiana in materia. Trasmesso dalla Rai e presentato in diversi festival del cinema, Uva definisce Processo per stupro un oggetto narrativo non identificato per il suo carattere ibrido, «a cavallo tra prodotto televisivo di servizio pubblico e video militante» (p. 111).
Tra le esperienze di video attivismo più importanti, sia dal punto di vista della militanza sia per la consapevolezza tecnica e teorica del mezzo, c’è quella di Videobase. Il collettivo nasce nel 1971 e comprende Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leo. Lottando la vita (1975), girato tra i lavoratori italiani a Berlino, e Il lavoro contro la vita (1979), un’inchiesta sul petrolchimico di Porto Marghera realizzato per Rai Tre, condensano, già a partire dai titoli, la proposta teorica, estetica e politica di Videobase. Se il video è in grado di catturare il flusso vitale degli eventi e degli esistenti, allora esso è anche capace di “dirottare” questo flusso al di fuori delle processi di irreggimentazione a cui la politica ha sottoposto la vita. Ad una società disciplinare, fondata sull’esercizio della violenza e della repressione poliziesca delle manifestazioni, Videobase contrappone una biopolitica affermativa che, pur non potendo prescindere dalle lotte, è «intesa come politica condotta in nome e a difesa delle forme di vita» (p. 130). Per Videobase non esiste un confine tra osservatore e osservatore: nella loro pratica, in cui è evidente il debito nei confronti del documentario etno-antropologico, vige una tendenza “immersiva” nei confronti dell’ambiente, spesso i testimoni e gli intervistati vengono inquadrati mentre guardano e dibattono su ciò che è stato girato in precedenza. Tali strategie permettono a Videobase di rafforzare la dimensione performativa e partecipativa del video.
Le strategie del controllo, le forme della sorveglianza, le pratiche dell’irreggimentazione: al centro della produzione di Alberto Grifi ci sono molte delle tematiche studiate da Michel Foucault (Surveiller et punir viene pubblicato nel 1975; due anni prima, Gilles Deleuze e Félix Guattari avevano scritto L’Anti-Edipo, incentrato sulla contrapposizione tra desiderio e capitalismo). Ne Il festival del proletariato giovani al Parco Lambro (1976) Grifi coordina la regia di quattro troupe di “videoteppisti” catturando, contro il parere degli organizzatori, tutte le contraddizioni e le proteste emerse durante il festival milanese. In Lia (1977), un piano sequenza di oltre venti minuti serve a raccogliere le parole dell’omonima studentessa che, durante un’assemblea sull’antipsichiatria, smonta la retorica dei collettivi di sinistra. Fotogramma tratto da Anna di GrifiMa è soprattutto in Anna (1972-1975) che le tematiche sopra elencate incontrano le immagini più intense, immagini capaci di articolare un complesso discorso sulla follia e la sessualità. Anna è un progetto talmente sperimentale che la forma di vita che esso tenta di raccontare – la cronaca di una minorenne sarda, ospitata dall’attore Massimo Sarchielli, che sul proprio corpo gravido reca i segni della contenzione e della tossicodipendenza– impone continue trasformazioni alle forme della rappresentazione: dalla pellicola al video, dalla creazione di una traccia di lavoro per il film alla scelta di registrare tutto ciò che accade prima e dopo e le scene, sino allo scavalcamento dello spazio che separa la troupe e il profilmico per mezzo del gesto compiuto dall’elettricista Vincenzo Marra che entra in campo per dichiarare, di fronte all’obiettivo, il suo amore per Anna.

I primi congegni di ripresa foto-cinematografica sono costruiti e lessicalizzati sul modello dell’arma da fuoco: uno degli esempi più noti è il fucile cronofotografico di Étienne Jules Marey, fabbricato alla fine dell’Ottocento, con cui era possibile mirare e fotografare un oggetto in movimento nello spazio. Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia (1978) di Fabio Augugliaro, Daniela Guidi, Andrea Jemolo e Armando Manni, una sintesi delle buone pratiche per realizzare immagini della e per la lotta, è in perfetta continuità con la semantica e la pragmatica che legano le capacità scopiche, mediate dall’apparato fotografico, e la potenza di fuoco in ambito militare. Naturalmente, il manuale edito da Savelli compie un’operazione di parziale inversione, spostando “il fuoco” dal contesto bellico a quello delle lotte di piazza: «la messa a fuoco del soggetto su cui gioca il titolo del manuale si fa così lo strumento attraverso il quale l’atto fotografico diventa un vero e proprio atto politico» (p. 196). Come accade per altri volumi coevi – oltre al testo di Faenza già menzionato si può ricordare anche L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione, realizzato dal Laboratorio di Comunicazione Militante per fornire strumenti di analisi dell’immagine giornalistica capaci di svelarne il portato sensazionalistico e repressivo – l’educazione alla tecnica non è scindibile da quella politica.

giuseppe-memeoLa fine degli anni Settanta è caratterizzata dalla convivenza delle istanze vitali e desideranti che hanno animati i movimenti e la loro produzione audiovisiva, con una pulsione distruttiva e mortifera che trova nel terrorismo e nelle sue immagini fotografiche la fonte principale. Per questo Uva sottopone ad attenta analisi la nota istantanea dell’ “uomo che spara” (Giuseppe Memeo, esponente di Autonomia Operaia), scattata in via De Amicis a Milano il 14 maggio 1977, mostrandone le manipolazioni e gli ingrandimenti adoperati dai quotidiani dell’epoca, comparandola con le altre foto scattata durante quella giornata (Carmilla), rinvenendo le somiglianze e i rimandi tra questo corpus fotografico e i generi cinematografici all’epoca in voga, dal western al poliziottesco italiano, riportando il dibattito tra intellettuali che quella foto, fin da subito un simbolo (lavoroculturale), aveva scatenato. Pur ribadendo che con quella foto il terrorismo fa il suo ingresso nella cultura visuale italiana dell’epoca, Uva riconduce l’immagine dell’uomo che spara all’interno di una costellazione discorsiva più ampia, capace di individuare le molteplici ragioni che hanno trasformato via De Amicis nel set in cui si è consumato un momento importante per la capitolazione dei movimenti e l’esplosione della violenza terroristica.
Con l’arrivo del Settantotto l’immaginario è invaso dalle polaroid scattate dalle Brigate Rosse ad Aldo Moro. Nel formato scelto, che elimina le fasi di sviluppo e stampa della fotografia, e nelle modalità della messa in scena, la “prigione del popolo” nella quale campeggia la stella a cinque punte, il volto in primo piano del ministro che guarda in macchina, l’elemento metalinguistico e probatorio della prima pagina di Repubblica con il titolo cubitale del sequestro che compare in una delle polaroid, il modello «indiziario fondato sui canoni della fotografia segnaletica (denotante) e quello prettamente comunicativo-propagandisco (connotante) trovano una perfetta sintesi» (p. 205). Istantaneità dello scatto, efficacia indiziaria e persuasiva (il mezzo busto di Moro interpella lo spettatore alla stregua dello Zio Sam con suo il dito puntato e la didascalia “I want you”): la disfatta del corpo del potere immortalato nelle polaroid delle BR costruiscono un “canone” estetico per gran parte dell’iconografia terroristica coeva e di quella futura, sino a video diffusi su YouTube dall’IS (doppiozero).
Il poliziotto Giovanni Santone fotografato da DamicoChiude l’ultima sezione del volume il capitolo dedicato alla produzione di Tano D’amico (lavoroculturale) nella quale ritornano le istanze vitalistiche di cattura del flusso della vita e delle trasformazioni dei movimenti si legano alla necessità di denunciare le ingerenze del potere politico nelle sue bieche derive poliziesche. è il caso della fotografia che immortala l’agente di polizia Giovanni Santone infiltrato tra i disordini successivi al sit-in del maggio 1972, indetto a Roma dal Partito Radicale, in cui rimane uccisa Giorgiana Masi. Con gli scatti del fotografo siciliano si chiude il percorso intrapreso da L’immagine politica e il lettore può rivolgere il suo sguardo verso delle immagini disposte a raccogliere i volti e i sentimenti della storia dei movimenti. E D’Amico, seppur dietro l’obiettivo, si sente con fierezza parte in causa di questa storia.

Fotogramma da solo limoniLe immagini politiche analizzate da Uva custodiscono e sono ancora capaci di spigionare la loro efficacia? Queste immagini sanno offrire allo spettatore contemporaneo una risposta alla domanda di contropotere e di controinformazione? Queste domande sembrano emergere in filigrana in diverse parti de L’immagine politica e le risposte non risiedono esclusivamente nell’elevata accessibilità dei dispositivi di cattura e riproduzione digitale, quanto piuttosto nella volontà degli spettatori contemporanei di saper esporre e montare le immagini del presente assieme e a partire da quelle del passato, strappando queste ultime al fenomeno di fagocitazione degli immaginari legati alle contestazioni politiche spesso attuato dai media. Si tratta quindi di un processo di analisi, critica e storica, condotto attraverso le immagini che, per esempio, viene messo in evidenza dallo stesso Uva quando compara la frontalità del cadavere del militante antifascista Zibecchi, investito da una camionetta dei carabinieri durante le proteste milanesi dell’aprile del 1975, congelata in una delle inquadratura di Pagherete caro pagherete tutto con una delle tante immagini digitali del cadavere di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda durante le manifestazioni contro il G8 di Genova del 2011. Un’altra risposta giunge nelle conclusioni di Uva dove, ancora una volta, sono le “immagini povere” che ancora oggi si rendono disponibili a un’apertura delle potenzialità autenticative e rielaborative rese possibili dalla bassa definizione. È il caso della produzione poetica e militante di Pippo del Bono, condotta attraverso lo smartphone, in opere come Amore Carne (2011), Sangue (2013) e La paura (2009) o di Giacomo Verde che Solo limoni (2001) (vimeo.com), rimonta le immagini del G8 per rivelare come lo schieramento antisommossa adoperato dalla polizia in seguito alla morte di Giuliani abbia principalmente un obiettivo scopico, quella di occludere la visione del cadavere.

 

 

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