Roberto Ciccarelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:09:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Decenni smarriti. Gli anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2024/07/07/decenni-smarriti-gli-anni-ottanta/ Sun, 07 Jul 2024 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83244 di Gioacchino Toni

AA.VV., a cura della redazione di Machina, Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, Machina libro – DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 208, € 16,00

Che nell’ambito della messa in discussione dell’esistente vi siano decenni decisamente più rilevanti di altri è fuori di dubbio. Dell’importanza degli anni Sessanta e Settanta per l’assalto al cielo che hanno prodotto è stato detto e scritto in abbondanza ed a volte anche in maniera acritica, autoreferenziale o con uno sguardo a ritroso segnato da omissioni e dimenticanze più o meno di comodo.

Se è vero che le ricostruzioni del passato [...]]]> di Gioacchino Toni

AA.VV., a cura della redazione di Machina, Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, Machina libro – DeriveApprodi, Bologna, 2024, pp. 208, € 16,00

Che nell’ambito della messa in discussione dell’esistente vi siano decenni decisamente più rilevanti di altri è fuori di dubbio. Dell’importanza degli anni Sessanta e Settanta per l’assalto al cielo che hanno prodotto è stato detto e scritto in abbondanza ed a volte anche in maniera acritica, autoreferenziale o con uno sguardo a ritroso segnato da omissioni e dimenticanze più o meno di comodo.

Se è vero che le ricostruzioni del passato parlano innanzitutto al/del presente, allora, forse, il limite maggiore, per quanto comprensibile possa essere, deriva da un tipo di sguardo a ritroso che, insieme alla sconfitta, ha introiettato l’idea della fine della storia. Si rischia di guardare ai decenni ribelli come se con la fine di essi fosse scomparsa ogni minima forma di conflittualità. Anche da ciò deriva la tendenza a leggere i decenni successivi in maniera non dissimile da quella propinata dai vincitori: seppure vissuti da una parte come trionfo e dall’altra come sconfitta, i decenni successivi al “lungo Sessantotto” tendono ad essere narrati come periodi riappacificati e privi di contraddizioni.

La storia e il conflitto non si sono evidentemente fermati alle soglie degli anni Ottanta lasciando campo libero al dominio ed al pensiero unico capitalistico. Non si può dunque che accogliere con favore l’iniziativa intrapresa dalla rivista “Machina”, in seno a DeriveApprodi, indirizzata ad occuparsi dei «decenni smarriti» riattraversando i «quaranta ingloriosi», dagli anni Ottanta agli anni Dieci del nuovo millennio, al fine di individuare i nodi centrali nel presente tentando di cogliere le tendenze in atto. Risulta indubbiamente efficace il ricorso al termine «smarriti» a proposito di questi decenni in quanto, come argomenta la redazione di “Machina”, si tratta di decenni in buona parte «perduti, rimossi o frettolosamente finiti fuori dai nostri radar, perché rappresentano, simbolicamente e concretamente, l’“inverno del nostro scontento”, conseguente al fallito assalto al cielo».

Certo, quelli successivi ai Settanta sono decenni di controrivoluzione capitalistica, di repressione e di riassorbimento delle lotte e degli immaginari ribelli, ma non sono stati decenni privi di contraddizioni e di conflittualità, per quanto queste ultime abbiano assunto forme e modalità inedite. L’aura del Lungo Sessantotto non dovrebbe ridurre a nullità, a mera sconfitta interi decenni di storie, condotte e immaginari di esseri umani che riconciliati non sono stati. Recuperare i «decenni smarriti» significa innanzitutto infrangere lo storytelling dominante della fine della storia, delle contraddizioni e del conflitto in tutte le sue molteplici forme. È con tali premesse che, dopo aver raccolto numerosi articoli sugli anni Ottanta, la redazione di “Machina” ha dato alle stampe un primo volume dedicato a quel periodo: Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio.

Gli anni Ottanta sono certamente stati anni all’insegna del rappel à l’ordre, di ristrutturazione e di riassorbimento delle insorgenze dei decenni precedenti, anni di disimpegno reclamizzato dai tubi catodici della neotelevisone e di cinico individualismo, ma dietro all’autocelebratoria narrazione patinata dell’oblio pacificato non sono mancate contraddizioni e conflittualità, sperimentazioni e immaginari non riconciliati che, in un clima repressivo da resa dei conti, è bene ricordarlo, hanno dovuto destreggiarsi tra la preservazione della memoria delle esperienze precedenti e il reinsediamento sociale e culturale a partire da un universo produttivo, un contesto urbano e un immaginario, soprattutto giovanile, in via di rapida mutazione.

A dare il senso dello spirito politico con cui il saggio guarda al primo dei “decenni perduti” rapportandolo all’oggi e al domani, non limitandosi dunque a ricavarne una, per quanto interessante, “mappa muta”, è soprattutto il contributo di Chiara Martucci e Bruna Mura che partono dall’esperienza personale che le ha portate a confrontarsi con l’affievolirsi in Italia, nel corso degli anni Ottanta, della tradizione marxista del femminismo, per poi soffermarsi sull’ambivalenza del processo di istituzionalizzazione in quel decennio di diverse conquiste ottenute dalla precedente stagione di lotta:

se da un lato vi e stato il risultato di aver strappato la formalizzazione di diritti e servizi, dall’altro si è reso molto complesso il garantire la portata conflittuale di quelle rivendicazioni, sia a causa di fattori estranei – quali quelli giudiziari – ma anche a causa delle stesse dinamiche formali dei percorsi di istituzionalizzazione. L’elemento profondamente trasformativo dei rapporti sociali e fondativo delle stesse rivendicazioni del femminismo marxista, è venuto meno nel passaggio al riconoscimento normativo (p. 153).

Tale ragionamento sugli anni Ottanta conduce Martucci e Mura a porsi importanti interrogativi sul presente:

ci stanno scippando la profondità dei concetti e la dimensione politico-conflittuale delle pratiche che per noi sono state la potenza della lotta alla violenza di genere? L’utilizzo semplificato e banalizzato di alcuni termini – patriarcato, su tutti – rischia di riprodurre quelle dinamiche di potere e quei rapporti di forza che stiamo combattendo? (p. 163).

Diventa importante comprendere quanto certe dinamiche istituzionali, supportate da una potente grancassa spettacolare-mediatica, assorbano le rivendicazioni depotenziandole e «quanto invece possa rivelarsi potente la diffusione nel discorso pubblico di pratiche e concetti costruiti in decenni di lotte» (Ibid).

Una serie di contributi presenti sul volume sono dedicati alle espressioni artistiche degli anni Ottanta: Jadel Andreetto tratteggia il panorama musicale del periodo evidenziando le tante sperimentazioni e contaminazioni che lo hanno contraddistinto; Rudi Ghedini offre una mappatura cinematografica di un decennio in cui il cinema si trova a fare i conti i conti con l’avvento dei videoclip televisivi e le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie nell’ambito degli effetti speciali; Manuela Gandini degli anni Ottanta tratteggia invece l’intrecciarsi di scenari mediatici ed artistici, costume, politica ed economia a cavallo tra modernità e postmodernità; Giorgio Mascitelli, guardando al dibattito letterario, artistico e filosofico che si è sviluppato all’epoca attorno al termine postmoderno, ricostruisce le avvisaglie della crisi del sistema letterario novecentesco, crisi che subirà un’accelerazione con l’arrivo di internet nel decennio successivo.

Delle forme aggregative e di militanza che si fanno strada negli anni Ottanta, soprattutto a partire dalla dimensione “emotiva”, si occupano Federico Battistutta e Massimo Ilardi: il primo si concentra sulla categoria della “fuga” per descrivere quanto avvenuto nei movimenti sociali del periodo condensabile nell’espressione di “militanza gioiosa” introdotta recentemente da Silvia Federici; il secondo guarda alla nascita delle rivolte contraddistinte da una conflittualità sfuggente alle letture politiche tradizionali in quanto scatenate da “pratiche di libertà” e “culture del consumo”. «Sono lotte che non hanno né il lavoro, né la produzione, né la conquista del potere al centro dei loro obiettivi, ma attaccano una forma e una tecnica del potere che vogliono destituire, quella più legata al controllo dei corpi e del territorio. Non cercano il nemico principale ma quello più vicino» (p. 99).

A partire Les années d’hiver, volume che raccoglie diversi scritti di Félix Guattari redatti nella prima metà degli anni Ottanta, e Les nouveaux espaces de libertés, testo steso attorno alla metà del decennio dal francese insieme a Toni Negri, Roberto Ciccarelli ragiona attorno alla questione della soggettività e dei periodi di “letargo politico”, mentre Paolo Virno, Marco Mazzeo e Adriano Bertollini dialogano tra di loro su quanto l’immaginario e l’universo valoriale degli anni Ottanta sia stato contraddistinto da opportunismo, cinismo e da un particolare intrecciarsi di paura e angoscia, valutando quanto la presenza di vie di fuga presenti in quel contesto avrebbero potuto essere sfruttate più proficuamente proiettando così il ragionamento sull’oggi.

L’ultima parte del volume vede Ubaldo Fadini ragionare attorno alla figura del soggetto e alla qualifica della “plasticità”, riemersa prepotentemente negli anni Ottanta, dunque i due scritti di Rita di Leo e Romeo Orlandi sono dedicati rispettivamente al mesto dissolversi dell’esperienza sovietica e alla trasformazione cinese avvenuti nel corso di quel decennio, infine un intervento di Christian Marazzi ragiona sul recupero al lavoro, nel corso degli anni Ottanta, di quelle soggettività che avevano rifiutato il modello fordista, con un occhio sulla contemporaneità:

Quali possono essere le direttive per una possibile ricomposizione di classe? È difficile rispondere, ma bisognerebbe puntare a un’iniziativa a livello planetario per riprenderci il tempo, lottando sulla riduzione dell’orario di lavoro a tutti i livelli. Il nostro lavoro produttivo di dati non e riconosciuto ed e all’origine di profitti sconfinati per i capitalisti. Va recuperata l’esperienza teorico-politica del movimento femminista, del lavoro all’interno della riproduzione, contro il lavoro non riconosciuto che va remunerato, salarizzato. Oggi siamo persino oltre la connotazione di genere perché il tempo di lavoro non riconosciuto, gratuito, è ormai del tutto pervasivo. La riappropriazione del tempo di vita deve diventare l’asse di una possibile ricomposizione soggettiva, nella forma di resistenza al dominio capitalista (p. 195).

Chi ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta in maniera non riappacificata lo ha fatto nella scomodità del trovarsi a cavallo tra passato e futuro, tra necessità di preservare la memoria ed urgenza di sperimentare per impattare le trasformazioni in atto, in un contesto sospeso tra oblio e solitudine che invitava a guardare al passato, ridotto ad “anni di piombo”, come a un cumulo di macerie e al futuro come al raggiungimento di uno stato di grazia in cui l’individuo, sostenuto dalle risate e dagli applausi a comando degli schemi televisivi, si sarebbe finalmente liberato da ogni minimo legame sociale. Insomma, sono stati decenni un po’ più complessi e contraddittori rispetto a come sono stati spesso raccontati.

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L’odio dei poveri https://www.carmillaonline.com/2023/12/28/lodio-dei-poveri/ Thu, 28 Dec 2023 21:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80561 di Francesco Festa

Roberto Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle grazie, Milano, 2023, pp. 328, € 18,00

La povertà è un “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, sia per quelle sfacciatamente populiste, sia per quelle che ci provano ma proprio non ce la fanno. D’altronde la povertà, quale concetto assai proficuo, si inserisce utilmente nella logica delle equivalenze di quel piano sintagmatico descritto da Ernesto Laclau, che di per sé enuclea un ossimoro: abbonda sulla bocca di molti, nonostante provochi passioni tristi, sofferenze, se non addirittura sentimenti di rabbia e violenza, a seconda di chi ne [...]]]> di Francesco Festa

Roberto Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle grazie, Milano, 2023, pp. 328, € 18,00

La povertà è un “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, sia per quelle sfacciatamente populiste, sia per quelle che ci provano ma proprio non ce la fanno. D’altronde la povertà, quale concetto assai proficuo, si inserisce utilmente nella logica delle equivalenze di quel piano sintagmatico descritto da Ernesto Laclau, che di per sé enuclea un ossimoro: abbonda sulla bocca di molti, nonostante provochi passioni tristi, sofferenze, se non addirittura sentimenti di rabbia e violenza, a seconda di chi ne subisce gli effetti o ne evochi la realtà. Ad esempio, sia i partiti sia i movimenti politici inanellano le più variegate domande in una sorta di catena che viene transustanziata da un significante vuoto in grado di sussumerle e produrne un discorso con una presa sul “popolo”.

I postfascisti meloniani o i leghisti – ma anche i socialdemocratici o i centristi – raccolgono domande disparate che vertono sul disprezzo per i meridionali oppure il rigetto degli immigrati; le accuse di fannullonismo ai percettori di svariate forme di welfare et similia (reddito di cittadinanza, sussidi sociali e familiari ecc.); e ancora, la richiesta di centralizzazione dei poteri nell’“uomo nuovo” al comando e la protesta per le tasse troppo alte. Insomma, le più diversificate istanze che abbisognano di un collante, cioè, di un significante vuoto che li concateni e, così, attragga a sé i sentimenti più ambivalenti e, infine, si traduca in voti e consenso diffuso. La povertà funge da collante, par excellence.

Beninteso, spostando lo sguardo dal dito alla luna, dietro quel significante vuoto vi è una sostanza poco nota ai più che ne nominano l’esistenza per ragioni politiche. La diffusione della povertà, e in particolare della povertà misurata in termini assoluti ha assunto dimensioni crescenti. La quota di famiglie povere è salita ulteriormente nel 2020 a causa della pandemia, rimanendo sostanzialmente stabile l’anno seguente; e nel 2022, i dati dell’Istat e di Eurostat sono drammaticamente tristi: il 63% delle famiglie non riesce ad arrivare alla fine del mese, mentre la media europea è del 45,5%, cioè, le famiglie in condizione di povertà assoluta sono poco più di 2,18 milioni e oltre 5,6 milioni di individui. I dati registrano un aumento significativo a partire dalla due crisi globali del neoliberismo: la crisi dei mutui subprime del 2008-09 e, a seguire, la crisi dei debiti sovrani della seconda metà del 2011. Il debito sovrano esplode proprio nel periodo aureo del neoliberismo: quando la sua egemonia è dispiegata ai massimi livelli, dopodiché quel sistema di “accumulazione tramite spoliazione”, per dirla con David Harvey, si accanisce ancor più contro i poveri e ai beni pubblici.

La neoliberalizzazione della società ha comportato la distribuzione della ricchezza, piuttosto che la sua produzione, per cui i soldi pubblici servono a finanziare una distorta forma di welfare morale piuttosto che welfare economico che trova applicazione in forme diverse, fra cui anche il dismesso reddito di cittadinanza del governo gialloverde. O per meglio dire: un reddito di povertà volto alla gestione dell’ordine dinanzi all’aumentare del numero dei poveri che attentano al banchetto della proprietà privata, come una sorta di regolazione della produzione ma soprattutto della riproduzione sociale.

Poveri e povertà sono quel significante da riempire, dunque. “Il ‘povero’ diventa così il risultato di un lungo e complesso lavoro tecnico, giuridico e amministrativo che trasforma la sua ‘povertà’ in una costruzione sociale. Tale costruzione è ispirata da progetti diversi, ma convergenti, che provano a guidare i ‘poveri’, spingendoli a ‘cercare un lavoro’ e, se è possibile, a trovarne almeno uno. In fondo, non importa quale” (p. 12).
È uno dei passi assai suggestivi dell’ultimo libro di Roberto Ciccarelli. Un’inchiesta rigorosa sul welfare, sulle trasformazioni della “forza lavoro”, sulla fenomenologia del “capitale umano” e, fra l’altro, anche del “Quinto Stato”, ossia, della moltitudine di lavori e di vite precarie, di coloro che dal neoliberismo e dalle sue crisi hanno subito “il senso della perdita di una posizione sociale” e di una identità.

Una spietata e a tratti distopica radiografia delle società neoliberiste, dove l’individuo è prodotto dall’incontro tra le tecniche di governo politico, la disciplina morale e la razionalità economica, per cui come Christian Laval e Pierre Dardot hanno mostrato nella fabbrica del soggetto neoliberista, l’io è giocoforza spinto a “mutare per sopravvivere nella competizione”, dunque, deve divenire “esperto di se stesso, datore di lavoro di se stesso, inventore di se stesso, imprenditore di se stesso”; non vi è spazio per la povertà e per i poveri, né tantomeno per reddito di cittadinanza o altre forme di ammortizzatori sociali. Fuori dai denti: è la stessa povertà che deve essere messa a lavoro e a valore, a seconda di quelle domande generate dagli attori sociali e politici.

In questa ricerca cui va il merito di aver complicato l’analisi, altrimenti assai semplicistica se non leziosa che interpreta la povertà come fenomeno da fronteggiare con azioni filantropiche per ripulire le coscienze borghesi, Ciccarelli redige innanzitutto un glossario genealogico sui termini entrati nel senso comune (in appendice al volume si trova la voce “glossario”), e al contempo una guida degli affetti, in senso spinoziano, cioè, delle passioni che suscitano la povertà o l’essere povero, fino a provocare quei sillogismi, ormai assunti come naturali, per cui la condizione di povertà arrischia la proprietà privata, essendo assai incline a condotte illegali e incasellabile fra le “classi pericolose”.

Difatti, “la vita precaria, come quella povera, restano esperienze incomprimibili in un’astrazione statistica. Questa condizione è odiata sia da chi è povero, e viceversa. In una società costruita sulla competizione questa è la leva del livello più basso dell’odio che porta alla guerra tra chi vuole sentirsi meno precario o povero di un altro. Più che la persona in uno stato di bisogno è odiata la posizione sociale di chi è costretto a sopravvivere. Nessuno vuole assomigliare a chi prova vergogna, cioè la conseguenza della tristezza provocata dall’idea che gli altri possano biasimare l’azione di chi è povero. Ci si vergogna perché non si sopravvive con i miseri guadagni. È meglio mangiare o andare dal dentista? Pagare il mutuo o la bolletta del gas? Comprare le medicine o versare la rata dell’autonomobile? Fare benzina o acquistare un paio di scarpe?” (pp. 42-43).

Una volta smontati gli stigmi sulla pericolosità sociale della povertà – su cui hanno pontificato le scuole rancorose e pregiudizievoli della broken window theory – , Ciccarelli si concentra prima sul “governo dei poveri” e poi su quello formazione e dell’occupazione, prendendo di petto quella che è la nuova vulgata delle politiche sociali, vale a dire il workfare. La cittadinanza passa così a maggior ragione dalla cruna del lavoro. Viene definita “inclusione attiva”, ché il povero non esiste in quanto tale, piuttosto esiste un individuo non vocato alla propria esistenza che è quella del lavoro. Esso non sarà beneficiario di alcun sostegno pubblico se non si presta alle condizioni dell’occupabilità (employability). Anche se i beneficiari non fossero ritenuti occupabili – com’è stato, in realtà, per i due terzi della platea di percettori del reddito di cittadinanza – poco importa: poiché è il messaggio che conta; e anche l’attivazione del dispositivo di governo dei poveri. Insomma è un altro ordine del discorso: l’abolizione di quella che era una misura di contrasto alla povertà, quale il reddito di cittadinanza, ha dato la stura alle politiche attive del lavoro, nella formula del workfare (work-to-welfare), vale a dire, del rovesciamento dello schema del welfare.

Se in quest’ultimo la cittadinanza sociale – scrive Ciccarelli, in altra occasione – è la prerogativa per il riconoscimento sia dei sussidi che del reinserimento al lavoro, nel workfare è l’effetto della volontà di un soggetto che si rende disponibile al lavoro (ad essere cioè ‘occupabile’ che non significa avere un’occupazione, perlomeno ‘fissa’), alla formazione obbligatoria e a svolgere la corvée dei ‘progetti utilità alla collettività’ (Puc). In alcuni casi potrebbero risultare un illusorio reinserimento sociale di persone dimenticate dalla società. In realtà, alla lunga, saranno la doppia pena dei poveri: esclusi e poi costretti ai lavori gratuiti pena la perdita del sussidio. Sull’incapacità di riconoscere e criticare modelli già noti in altri paesi si misura la forza dell’egemonia neoliberale sulla sinistra e sui sindacati, fautori in Italia di questo workfare.

Questo processo forzoso e a tratti violento – da menzionare le campagne livorose per cui il reddito di cittadinanza equivaleva al diritto al divano – rimanda ad un eterno ritorno della storia del capitalismo, all’“attualità della preistoria”, per adoperare una felice locuzione di Sandro Mezzadra, titolo della sua rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale di Marx, “La cosiddetta accumulazione originaria”. In questo saggio, Mezzadra restituisce con lo sguardo della critica postcoloniale quel processo sempre attuale, che è presupposto del capitale e il risultato della sua riproduzione, per cui il rapporto capitalistico non può esistere se l’individuo non è costretto a vendere la propria forza lavoro. Parimenti a quanto ricostruito da Karl Polanyi nell’Inghilterra della Rivoluzione Industriale, fra il XVIII e il XIX secolo, ossia il processo di proletarizzazione tramite l’abolizione della Speenhamland Law, la legge sul diritto di vivere che si scontrava inevitabilmente con l’esigenza di creare un mercato del lavoro e una classe lavoratrice che vivesse esclusivamente di salari.

Si può andare oltre nell’opera di smontaggio della grande narrazione neoliberale e della sua razionalità normativa – al cui centro vi è la norma di vita numero uno del mercato, cioè, la concorrenza – se adottassimo la “teoria del valore-lavoro”, come misura del valore del surplus, adattandola al sistema capitalistico e al succedersi di diverse modalità di accumulazione, al processo di valorizzazione definito da Andrea Fumagalli, “biocapitalismo”, come “superamento della separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro” e della “separazione tra produzione, circolazione e consumo”. Detto altrimenti, la povertà è una condizione inesistente nell’attuale modalità di accumulazione: è la vita messa a valore. Il che andrebbe riconosciuto sotto forma di remunerazione per tutte quelle attività che svolgiamo quotidianamente e che producono valore tramite un autentico reddito di cittadinanza: un reddito di base universale e incondizionato.

Il “che fare” passa dalla rottura del “ciclo neoliberale e invertire il suo senso politico”. Hic Rhodus hic salta. Lotta politica, costruzione di un potere sociale che scardini e rovesci la “pedagogia autoritaria del workfare […] con l’educazione alla potenza degli oppressi”, con la ripresa della lotta di classe, dei poveri e dei subalterni, “quella che incoraggia l’affermazione di virtù civili, pubbliche e politiche ispirate all’indipendenza, alla cooperazione, all’operosità. Riscopriremmo così il pensiero della liberazione a cominciare dalle pratiche femministe del partire da sé superando l’egolotria, dall’etica spinozista della potenza, della conoscenza e dell’agire e da quella che valorizza l’etica e la pratica della cura nelle relazioni sociali, economiche e politiche. Queste politiche, e i provvedimenti che possono generare, servirebbero a riorientare il welfare nella direzione di un commonfare, o di un welfare del benessere, delle libertà uguali e delle proprietà comuni.”

Il discorso di Ciccarelli non fa una piega e spinge a compiere un passo in avanti soprattutto alle analisi prodotte in questi anni, che sono anche programmi per un pensiero e per delle pratiche radicali all’altezza della sfida neoliberista. Sono tattiche per riacciuffare il bandolo della matassa e per incominciare a fargliela pagare. Il commonfare è un welfare del comune e della cooperazione sociale, di ciò che ci viene espropriato: un welfare adeguato al nuovo paradigma di accumulazione che, mettendo a lavoro e a valore la vita, estrae profitto espropriando la riproduzione sociale e il general intellect. Qualsiasi politica di welfare che abbia a cuore la coesione sociale non può quindi che partire dal comune. E, iuxta propria principia, come critica dell’economia politica, andrebbe ripresa la formula del “rifiuto del lavoro”. Formula che Toni Negri, in linea con il marxismo rivoluzionario, ci ha insegnato essere il baricentro della politica non dialettica di una relazione costruttiva, costituente, fra teoria e pratica rivoluzionaria. Situata dentro e contro lo sviluppo del capitale.

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Segnalazioni di saggistica, a partire da “Morti di fama” https://www.carmillaonline.com/2014/03/24/segnalazioni-di-saggistica-partire-da-morti-di-fama/ Mon, 24 Mar 2014 22:00:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13661 morti di fama[Stavo per impaginare una segnalazione di alcuni titoli di saggistica, quando il caso ha voluto che un collaboratore di Carmilla, Simone Scaffidi Lallaro, mi abbia proposto un’interessante recensione di uno dei libri che avevo intenzione di segnalare, cioè Morti di fama di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino. Ho colto al volo l’occasione montando la sua recensione assieme alla mia segnalazione, che sta in coda alle sue parole]  A.P.

Giovanni Arduino, Loredana Lipperini, Morti di fama. Iperconessi e sradicati tra le maglie del web, Milano, Corbaccio, 2013, pp. 137, € 12.90.

di Simone Scaffidi Lallaro

Un libro che [...]]]> morti di fama[Stavo per impaginare una segnalazione di alcuni titoli di saggistica, quando il caso ha voluto che un collaboratore di Carmilla, Simone Scaffidi Lallaro, mi abbia proposto un’interessante recensione di uno dei libri che avevo intenzione di segnalare, cioè Morti di fama di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino. Ho colto al volo l’occasione montando la sua recensione assieme alla mia segnalazione, che sta in coda alle sue parole]  A.P.

Giovanni Arduino, Loredana Lipperini, Morti di fama. Iperconessi e sradicati tra le maglie del web, Milano, Corbaccio, 2013, pp. 137, € 12.90.

di Simone Scaffidi Lallaro

Un libro che non avrei mai comprato e che a dirla tutta non ho comprato davvero. Il caso ha voluto che appena ricevuta la tessera magnetica per i prestiti fai da te ho notato tra le novità la copertina bordeaux di Morti di fama e non ho resistito all’attrazione di provare le nuove tecnologie bibliotecarie. Certo, le novità sullo scaffale erano molte e oltre al titolo ammiccante sono stati i nomi degli autori – Loredana Lipperini e Giovanni Arduino – a convincermi al grande passo.

Non l’avrei mai comprato perché so benissimo che Marco Zuccadalbergo & Co. lucrano quotidianamente e senza scrupolo alcuno sulla mia vita. Perché so che la rete non è un enclave pacificata e che i ritornelli sul web buono, partecipativo e democratico rappresentano mere retoriche consolatrici e strumentali. E lo so perché conosco i profili dei miei nemici: sono gli imprenditori di sempre, gli sfruttatori di sempre, i delatori di sempre. La rete non li ha resi più umani. Conosco le loro tecniche, il loro ostinato nascondersi dietro progetti filantropici e all’infinita bontà del progresso. Ma so anche qualcos’altro, e questo sì, incrina le mie certezze: leggendo Morti di fama sarò io il protagonista, non i miei nemici; io la voce narrante, loro le figure di sfondo. E questo mi turba. Titolo e sottotitolo provocano in me sentimenti contrastanti: e se anch’io fossi un morto di fama? Sto per abbandonarmi all’idea che gli aggettivi sostantivati iperconesso e sradicato calzino il mio profilo senza troppo sforzo quando recito a memoria il mantra auto-assolutorio abusato da almeno due generazioni: «l’importante è come lo usi». Formula che in realtà si sostituisce alla più sfacciata: «io lo uso bene» e che catapulta immediatamente chi la pronuncia al di fuori del conflitto che sta alla base di ogni interazione sociale mediata.

Qualcosa è scattato. Banali autoinganni profumati di certezze vacillano e anche le cristallizzate sicurezze sul conto dei nemici sembrano svanire. In Morti di fama non trovo risposte illuminanti ai miei dubbi, ma la contestualizzazione di domande che hanno poco a che vedere con l’etere e molto a che spartire con la quotidianità terrena delle nostre vite. Quanto valiamo per loro? Come contribuiamo ai loro imperi? Che ruolo abbiamo noi nella rete? Siamo o non siamo indici e molteplicità di dati da capitalizzare? E i guadagni della capitalizzazione come vengono distribuiti?

Giovanni Arduino e Loredana Lipperini sono stati bravi a costruire un phamplet di antropologia non egemonica capace di includere un’estesa moltitudine di autorialità. Le voci che si alternano nel libro sono infatti attente a comprendere i meccanismi della microfama senza giudicarne i protagonisti (molti dei quali hanno l’occasione di dire la loro), ma allo stesso tempo non si esentano dal condannare – e qui sì giudicare senza mezzi termini – le politiche dei grandi colossi del capitalismo digitale – che poi tanto digitale non è – tra cui spiccano Facebook, Google e Amazon. I concetti di microfama e morte per fama vengono affrontati dunque in maniera orizzontale dai due narratori, primi a mettersi in discussione e ultimi a tirarsi fuori dalla contraddizione di fondo che serpeggia tra i termini del discorso. Non è un caso infatti se nel testo si parla diffusamente di mercato editoriale e di self-publishing e se le frecciate contro le politiche dei grandi editori – sempre più conniventi con i grandi interessi economici – vengono scagliate senza nascondere la mano. Gli autori sanno bene che l’editoria non è un luogo pacificato, esattamente come non lo è il web; l’equazione diventa così elementare: web + editoria = contraddizione², o se preferiamo contraddizione 2.0. Meno elementari sono invece le motivazioni che spingono svariate milioni di esseri umani – di tutte le età – ad affollare i social network e a sgretolarsi in essi, ricercando l’emulazione di chi la fama già ce l’ha (microfama) o la celebrazione ad ogni costo –  per godere di quindici minuti di luce riflessa – di chi la fama ce l’ha avuta (necrofama).

L’attrazione/repulsione che genera questo phamplet è legata a una voglia/paura di fondo: quella di affrontare le contraddizioni in cui siamo immersi con la consapevolezza che chiamarsene fuori, oltre che essere impossibile, è un po’ da vigliacchi. Morti di fama bisogna leggerlo – e comprarlo – perché è contraddizione allo stato puro, esplosione feconda di domande a cui gli autori non pretendono di avere messianiche risposte. Provano anzi, con un linguaggio tanto denso di contenuti quanto semplice nella forma, a problematizzare e comprendere insieme al lettore i meccanismi nei quali, volenti o nolenti, siamo tutti coinvolti. Un testo importante anche nel sottolineare la natura collettiva e culturale di un problema che va affrontato senza fuggire la complessità del reale e interrogandoci sull’onestà delle nostre aspirazioni.

Multisegnalazione

di Alberto Prunetti

Sul comodino sono passati parecchi libri di saggistica. Alcuni servivano per documentarmi sui prossimi progetti di scrittura, qualcosa non era nelle mie corde e l’ho abbandonato. Altri, usciti di recente, mi sono sembrati assolutamente interessanti e li segnalo, con un po’ di ritardo rispetto alle mie intenzioni, ai lettori di Carmilla.

Cominciamo con Morti di fama. Iperconnessi e sradicati  tra le maglie del web di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini. Un pamphlet sulle pratiche di fruizione dei social media. Un lavoro brillante, ben scritto e affilato, che contribuisce a smontare il mito della Rete come un organismo democratico e creatore di scelte consensuali. Nello stesso tempo, le pagine di Arduino e Lipperini evidenziano le zone d’ombra dei social network. A cominciare da quelle pratiche di ignoranza e di grossolana esibizione della propria identità, mescolate al rancore verso gli altri, che tanti social diffondono: la condivisione del rancore, che altro non è che l’incapacità di incidere socialmente. Bisogna intendersi: non è la rete che ci fa hater rancorosi. Probabilmente fa da megafono, come diceva un tale: il problema è che amplifica il peggio e che, mortificando la lettura, alimenta un analfabetismo di ritorno.

Tra i tanti fenomeni negativi evidenziati da Morti di fama c’è la politica coniugata come una forma di “mipiaccismo” (del tipo: far girare una petizione e poi chiedere di mettere tanti mi piace sotto, senza nessun sbattimento nel mondo reale); le forme politiche di micropromozione di wonnabe scrittori e artisti che si auto-pubblicano a pagamento ma non leggono un libro in un anno; l’editoria digitale e le pratiche di sfruttamento dei colossi della nuova editoria online, come Amazon. E poi le strategie di marketing collegate ai blog personali, in cui le persone comuni diventano importanti brand che valgono tanto quanto un tempo i testimonial celebri. Un mondo da brividi, in cui l’economia utilizza tutti quei momenti di informalità che passano attraverso i “mipiace” sotto le  foto dei gattini di Facebook. E poi la vendita di follower su Twitter e di “mi piace” su Facebook, le campagne di rebranding… altro che rete libera e democratica, le rete è perlustrata e eterodiretta da quelle aziende che competono in ogni settore, che fanno campagne di marketing politico e che, grazie agli influencer. spostano byte da una tendenza, commerciale e politica, all’altra.

C’è qualche segnale in senso inverso. Non se ne parla nel libro, ma la citazione è doverosa: Lipperini si è inventata una sorta di rubrica nel suo profilo Facebook. Ogni sera inserisce come commento un passo, in genere una poesia, di Franco Fortini. E’ “il Fortini della sera”, una sorta di rubrica di culto su Facebook che sta contribuendo a far circolare, tra tanti nuovi lettori, la conoscenza di uno dei migliori poeti e critici italiani del Novecento.

Sempre di Loredana Lipperini – uscendo dal seminato della saggistica – segnalo questa bella incursione nella letteratura per ragazzi… e per vecchi: Pupa (Rrose Sélavy, pp. 29, euro 12). Un bel dubbio su questo librone formato quaderno, impreziosito dalle illustrazioni di Paolo d’Altan: non so se passarlo a mia sorella perché lo legga al mio nipotino (3 anni) o se passarlo a mia mamma perché lo legga a mia nonna (95 anni). Intanto me lo son goduto io per davvero e mi ha fatto venir voglia di leggere altri libri di letteratura per ragazzi.  Anche perché questa storia arriva a coronamento di un altro libro di Lipperini che ho apprezzato, Non è un paese per vecchie, che con Pupa ha tanto in comune (pur nel cambio di marcia stilistico). Pupa sta a metà tra la letteratura prospettica e quella per ragazzi: in una società futura molto uniformata gli adolescenti devono obbligatoriamente dedicarsi a compiti di cura degli anziani. Ma la vecchia signora Pupa, lontana dal farsi “badare” (che brutta parola, peraltro), rovescerà le carte in gioco. Una rivendicazione della bellezza della vecchiaia, in un’epoca in cui essere giovani a tutti costi è un triste imperativo sociale.

Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, Il quinto stato (Milano, Ponte alle Grazie, 2013, pp. 255, € 14)

quinto_statoQuesto è un libro di cui volevo parlare da tanto tempo ma non trovavo il tempo di farlo. Innanzitutto ero sicuro che sarebbe stato interessante leggerlo perché seguo sempre gli articoli di uno dei due autori su Il Manifesto, che si occupa di cose che attraversano il mio vissuto e quello di tanti nella mia condizione: il precariato, l’insegnamento, le trasformazioni del nuovo capitalismo. Nel Quinto stato è facile riconoscersi: Il problema è capire qual è la sua composizione e se questo stato riuscirà mai a sviluppare forme di mobilitazione, di antagonismo e di lotta come quelle espresse tanti anni fa dal quarto stato. Il saggio è scorrevole e acuto come un pamplet e insieme denso come un testo di filosofia. A tratti ha passi poetici, di quel tipo di poesia espressa da Hegel nella dialettica servo/padrone. E’ un libro che parla di “noi” precari e,  in una temperie editoriale tutta dedita al tema del precariato, è forse uno di quelli che lo fa meglio… Su alcuni punti sono un po’ scettico, ma temo che abbiano ragione loro, ovvero i due autori. Ovvero sul fatto che il lavoro non dipendente sarà il nostro futuro. Il saggio affronta anche la questione, complessa e rilevante, dei ceti medi in rapido impoverimento. L’ipotesi più interessante è quella dei piccoli imprenditori e dei ceti medi che si radicalizzano su posizioni anticapitaliste, che viene tra altre cose auspicata da Allegri e Ciccarelli. Non che non sia possibile: è successo anche in Argentina nel 2001, quando  i  piqueteros proletari e i ceti medi proletarizzati unirono le forze. E fu quasi una rivoluzione. Mi sembra però che la direzione che le cose stiano prendendo vada più verso una proletarizzazione del rancore dei ceti medi e piccolo imprenditoriali, mentre i veri imprenditori, i grandi padroni, aumentano la propria ricchezza cavalcando la crisi. Comunque leggersi questo libro è un momento di autoconsapevolezza, di coscienza di sé, una lettura che chi oggi subisce l’estrazione del plusvalore come cococo, cocopro o sotto uno dei mille contratti del cavolo, anche in un call-center con una laura in tasca,deve assolutamente fare.

Dimitri Papanikas, La morte del tango. Breve storia politica del tango in Argentina (Bologna, Ut Orpheus, 2013, pp. 122, € 16)

Un piccolo libro ma impegnativo, come dev’essere un libro. Se vi aspettate una storiella del tango statene alla larga. Il bel saggio di Papanikas è un’analisi storica e politica del tango, intrecciata con gli sviluppi musicali e sociali dell’Argentina. Dal ruolo dell’emigrazione europea allo sterminio degli immigrati di origine africana, dal genocidio degli indios a quello dei desaparecidos degli anni Settanta. Da Discepolo a Carlitos Gardel, dal tango canción alle orchestre di Pugliese, fino alle leccate di culo verso i potenti di turno di Piazzolla, i mondiali del ‘78 e la nuova stagione del tango-turismo. Papanikas, che lavora alla radio spagnolo, scrive un’opera molto lucida e profonda che rimane imprescindibile per chi voglia confrontarsi con il paese argentina e ha molte affinità con i saggi dei De Caro sull’Argentina, contenuti in Storia senza memoria (Colibrì, 2008). Il saggio esce non a caso per le edizioni bolognesi Ut Orpheus, dirette da Roberto De Caro, autore assieme al padre Gaspare di alcune delle pagine più incisive sulla storia del Novecento in Argentina. Agli amanti del genere suggerisco la lettura di La morte del tango in contrappunto con la scrittura del maestro Marco Castellani, redattore della The Tangueros Quarterly Review.

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