Robert Rodriguez – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Superuomo, ammosciati!» ovvero l’eroe scassato e sconquassato da Philip José Farmer https://www.carmillaonline.com/2022/08/24/superuomo-ammosciati-ovvero-gli-eroi-scassati-e-sconquassati-di-philip-jose-farmer/ Wed, 24 Aug 2022 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72995 di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della [...]]]> di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della letteratura e del mito. Senza sconti e senza scampo per nessuno,
Del suo ruolo di innovatore della SF americana Valerio Evangelisti ha scritto:

Negli anni, la fantascienza era divenuta (aderendo al proprio oggetto) un’astronave proiettata fuori dal mondo letterario; e se al suo interno fiorivano le ipotesi vertiginose e i temi socialmente e politicamente scottanti, fiorivano anche le incrostazioni di tabù e divieti. Sappiamo, per esempio, da una testimonianza di Harry Harrison, che persino la menzione di un comune vaso da notte faceva storcere il naso agli editori americani, attenti a non scandalizzare un pubblico minorenne. Figuriamoci il sesso. Ma ecco che arriva Philip José Farmer ad abbattere le barriere a spallate. Non è il solo, ma certo il meno cauto. […] E non si tratta solo di sesso. La religione altro argomento precluso (ma molto meno), subisce la stessa sorte. Si pensi alla pagina di Venere sulla conchiglia in cui Gesù Cristo appare alla tv, dice «In verità vi dico…» poi viene oscurato perché il tempo è scaduto. Memorabile. […] Questo è in effetti Farmer: un rivoluzionario che magari nemmeno sa di esserlo1.

Nato a Terre Haute, nell’Indiana, il 26 gennaio 1918 e morto a Peoria il 25 febbraio 2009, Farmer è stato, fin dagli anni Quaranta, uno scrittore estremamente prolifico nell’ambito della fantascienza statunitense. A causa della rigida educazione impartitagli da una famiglia benestante e puritana, di origini inglesi, olandesi e irlandesi da parte di padre e scozzesi e tedesche da parte di madre, cercò sfogo nella lettura di romanzi fantastici e d’avventura. A nove anni scoprì i classici della letteratura greca e i libri di Oz, mentre l’anno seguente avrebbe iniziato a frequentare la letteratura di stampo fantascientifico e satirico-fantastico attraverso i romanzi di Edgar Rice Burroughs, Jules Verne e I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.

Di queste iniziali, infantili e disordinate letture avrebbe approfittato più avanti negli anni quando, nei suoi romanzi maggiori, ma anche in quelli minori e nei racconti, avrebbe mescolato figure e vicende prese a prestito da quella letteratura, oltre che da quella weird e pulp, per dare vita a saghe che avrebbero visto tra i protagonisti personaggi del calibro di Mark Twain, Erik il Rosso, Riccardo Cuor di Leone, Gesù Cristo, Tom Mix, Richard Francis Burton e molti altri ancora, come nel ciclo di Riverworld, il mondo del Fiume (cinque romanzi pubblicati tra il 1971 e il 1983, più svariati racconti).

Oppure descrivendo universi impossibili, con mondi strutturati come ziggurat, sui cui piani convivevano e combattevano esseri ed eroi provenienti dalla mitologia greca, come i centauri, così come da quella nordica o degli amerindi. Come avviene nel ciclo dei Fabbricanti di universi (sette romanzi pubblicati tra il 1965 e il 1993).

Infatuato fin dall’infanzia dai dirigibili e dai veicoli più leggeri dell’aria, avrebbe poi “riscritto” Moby Dick, ambientandolo su un pianeta dove le balene galleggiano nell’aria e gli equivalenti del capitano Achab e degli altri personaggi descritti da Melville danno loro la caccia a bordo di strane mongolfiere (Pianeta d’ariaThe Wind Whales of Ishmael, 1971), mentre nel 1973 avrebbe reinventato un classico di Verne, letto nell’infanzia: Il giro del mondo in ottanta giorni (Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973). Come ha affermato Diego Gabutti, in Fantascienza e comunismo:

Farmer è sempre stato, prima che uno scrittore, un riscrittore: tali sono anche, del resto, i padri fondatori della letteratura moderna. Vivendo come una sorta di vampiro emozionale i romanzi degli altri, impossessandosi di trame e personaggi non suoi […] Farmer è un grande lettore se non immediatamente un grande scrittore.

Così, se egli non ha mai veramente scritto romanzi propri, è solo perché nessuno l’ha mai veramente fatto: il romanzo è ripetizione infinita, nel senso in cui Bordiga definiva se stesso un «ripetitore» […] Meglio vecchi libri che cadaveri freschi. Tuttavia, la professione del bibliotecario non è soltanto il collaudato male minore: è una scelta di campo intransigente, fredda e determinata […] Se Farmer, ad esempio, ha riscritto Il giro del mondo in ottanta giorni è solo perché neppure Verne, lui in particolare, aveva evidentemente saputo o potuto dire tutto. Con la riscrittura del Voyage, in cui ci è svelata l’identità extraterrestre di Phileas Fogg, di Passepartout e della principessa Auda, viene soprattutto ad affermarsi in un corpo già consegnato alla classicità un po’ sudicia dei musei di scienze naturali della letteratura, un movimento che il divenire, compiacendone i tic, aveva radicalmente negato.

Statue di marmo non parlano più. Ma proprio perciò Farmer torna a quel che la statua era prima che divenisse un marmo, prima che s’indurisse nell’impotenza dei suoi tratti scolpiti per sempre […] D’altra parte, il filologo non si preoccupa tanto del suo oggetto quanto della propria salute: vuole sbarazzarsi dei fantasmi ululanti nelle sue ossessioni, ed è allora un fantasma ulteriore che egli prepara per gli altri. Tanto peggio per l’oggetto se ne risulterà massacrato […] Lo sforzo filologico ha un carattere insurrezionalista: quando, come ora, tutti i tempi tattici sono stati consumati e chi non è con noi è contro di noi, non c’è altro modello che non sia nuovamente quello che ha dato il là nei tempi moderni alla leggenda del filologo, la saga stessa di Nietzsche. Il filologo è senza paura, è stato terrorizzato a sangue. La sua è la parete che rimanda, inalterabile, l’eco dell’opera; chi, per averne accusato in pieno l’onda d’urto, ora si lamenta perché è stato ferito, perché non ci capisce niente, ha solo quel che si merita; la prossima volta si leverà di mezzo2.

Farmer “filologo insurrezionalista”, terrorista dell’ordine costituito dalla letteratura che finisce, non importa se inavvertitamente o volontariamente, anche per sabotare strutture sociali e religiose, oltre che appartenenti all’immaginario, date per scontate. Come la figura dell’Eroe o dell’individuo di eccezione.

Sono costruzioni reali apparse nella storia, e che hanno avuto materiali effetti di ogni natura e di massima portata, e ciò vale tanto per le varie forme e tipi di Stati di tutti i tempi, che per i grandi Capi e Maestri di tutti i popoli e di tutte le epoche.
Quel che vogliamo stabilire è che, come la teoria marxista dello Stato, dopo aver sciolto l’enigma della dinamica di questo formidabile fattore, chiude col suo invio in pensione, un processo analogo avviene per l’Io, inteso come finora l’hanno inteso i filosofi, ossia non solo come il soggetto che si troverebbe eterno ed assoluto in ogni animale-uomo, ma come l’entità immateriale e imponderabile che anima l’Uomo con la lettera maiuscola, il grande duce, il grande condottiero, l’innovatore che appare ad ogni tratto della storia ufficiale. Come lo Stato, anche questa “forma” del capo, ha una base materiale e manifesta l’azione di forze fisiche, ma noi neghiamo che abbia funzione assoluta ed eterna: stabilimmo che è un prodotto storico, che in un dato periodo manca; nacque sotto date condizioni, e sotto date altre scomparirà. Marx annunziò allo Stato moderno la sorte di essere fracassato e ridotto in frantumi. Engels e lui stesso definirono la sorte dello Stato rivoluzionario, che gli seguirà, come una lenta sparizione. All’Io di eccezione spetta la stessa sorte; deperire, svuotarsi, sgonfiarsi, dissolversi (sich auflosen), estinguersi, spegnersi (sich aufloeschen) come in Engels. Lenin ebbe un altro termine espressivo: assopirsi3.

Un’educazione come quella che l’autore americano aveva ricevuto doveva aver lasciato fantasmi e ossessioni piuttosto ingombranti per la sua psiche. E’ evidente che è proprio contro quei fantasmi che si levano prima di tutto la sua rivolta e il rigetto delle verità date, siano esse di carattere razziale, religioso, sessuale, politico o letterario.

Entrano, dunque, quei fantasmi nella sua scrittura e, in particolare, in tutta la sua azione di demistificazione degli eroi e degli dei. In particolare nel romanzo in cui più spavaldamente e provocatoriamente porta a segno la sua ristrutturazione, più che destrutturazione, filologica dell’eroe, riportandolo a ciò che è nella sua essenza.

Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia sudista con una tradizione protestante e puritana. Per di più, la sua mammy negra, che l’aveva allevata fin da quando aveva sei anni, era una battista del Sud di stretta osservanza. Nonostante ciò, Clio riuscì ad evolversi in una giovane donna appassionata e non particolarmente pudica, con una tendenza a quel che gli umani chiamano “sperimentazione sessuale”. E riuscì anche a liberarsi da quegli aberranti riflessi condizionati che gli umani chiamano pregiudizi razziali. Per lo meno, per quanto è possibile per un bianco nordamericano4.

Sono alcuni degli aspetti della compagna di Tarzan, Clio, alla quale l’autore americano attribuisce caratteristiche educative tratte dalla propria personale esperienza. In tali considerazioni è implicito il fatto che una volta superati i tabù del sesso, anche tutti gli altri di carattere religioso, politico e razziale possono essere, almeno in parte, superati. Una sorta di manifesto dei movimenti, soprattutto americani, di quegli anni, ma che Farmer aveva già anticipato nei racconti e romanzi che lo avevano fatto conoscere al pubblico.

Nel 1951 aveva infatti proposto il racconto breve Un amore a Siddo (The Lovers) ad «Astounding Science Fiction» e a «Galaxy» che lo rifiutarono per il tema, in esso contenuto, della relazione amorosa tra un umano e un’aliena, ritenuto troppo scabroso per l’America puritana e razzista degli anni cinquanta. Il racconto fu poi pubblicato sul numero di agosto del1952 di «Startling Stories», facendogli ottenere per la prima volta, nel 1953, il Premio Hugo.

Ma per Farmer il sesso, spesso esplicito e privo di infingardaggini e romanticherie, non è, come affermato da Charles Bukowski, qualcosa da aggiungere ai racconti per vendere di più. Costituisce il filo rosso che percorre gran parte della sua opera sia in chiave liberatoria che demistificatoria.
Insieme alla violenza, alla crudeltà, al sangue versato con indifferenza, che “filologicamente” restituiscono ad eroi e miti il loro originario e più veridico volto.

In particolare questo proposito è portato avanti, con singolare crudezza, proprio nel romanzo appena citato, Festa di morte, che si presenta, sia nel sottotitolo che nell’introduzione dello stesso Farmer, come l’ultimo volume dei nove che costituirebbero l’autobiografia di Lord Grandrith, meglio conosciuto come Lord Greystoke o Tarzan delle scimmie. Affermazione che, rispetto all’opera complessiva dello scrittore nordamericano, non è affatto una boutade, visto che almeno sei o sette dei suoi libri, non tutti tradotti in italiano, sono dedicati alla figura creata da Edgar Rice Burroughs. Senza contare quelli dedicati al ciclo della città di Opar che, di fatto, proseguono il ciclo avventuroso creato già da Burroughs.

Ossessione per l’”eroe della giungla” o altro?
Sicuramente nelle diverse opere dedicate, direttamente o indirettamente da Farmer alla figura di Tarzan, o consimili5, tutte pubblicate nell’arco di un quinquenni tra il 1969 e il 1974, non c’è soltanto la volontà di sperimentare tutte le possibili variazioni sullo stesso “tema”, ma, in primo luogo, quello di riportare l’”eroe” alla sua essenza e “reale” forma di esistenza. Quella bestiale, poiché, non per nulla, l’eroe sembra appartenere a ciò che Marx definiva la “preistoria” da cui l’umanità non sarebbe ancora uscita.

Sono le parole del magnate pazzo deus ex-machina di Lord Tyger a rivelarci, attraverso la scrittura di Farmer, l’intima essenza dell’eroe, del suo operato e di chi lo crea o rilancia nell’immaginario collettivo: «Io non sono malvagio! Non sono malvagio! Ma non si può avverare un sogno senza dolore!»6.

Ma se questo è il mandato dell’eroe, realizzare i sogni attraverso il dolore, in Festa di morte Farmer mette ancora più a nudo l’eroe, la bestia in quanto tale, lasciandogli solo la violenza, il sangue, la brutalità, la paura7, l’istinto primario e irrazionale. Scopo reso ancor più evidente dal fatto che l’eroe si aggira totalmente nudo per gran parte delle pagine del romanzo. Un ritorno allo stato di natura che non costituisce, nemmeno lontanamente, un ipotetico ritorno a uno stato di grazia. L’eroe, soprattutto se “bianco” e ancora ispirato dall’immaginario coloniale, può soltanto cadere, sempre più in basso e senza nemmeno poter avere la pretesa di trasformarsi in un anti-eroe.

E non solo poiché, per rafforzare il suo discorso, l’autore pluripremiato per le sue opere inserisce nelle vicende un altro classico protagonista della letteratura seriale statunitense degli anni Trenta: Doc Savage (nel romanzo Doc Caliban). Supereroe dalla pelle color bronzo che, simile a un bronzo di Riace dell’immaginario capitalistico americano, combatte il male, oltre che con dosi estreme di violenza, anche adottando radicali terapie psichiatriche correttive della personalità in funzione del ristabilimento dell’ordine sociale borghese8.

Ma ancora non basta. Tra ironia e immaginario trash l’”eroe” rivela le conseguenze, sul piano psichico e comportamentale, della sua educazione tra il popolo delle scimmie, che era costata al giovane Tarzan esperienze non sempre piacevoli nei primi anni di vita. Stimolando così in lui una tendenza alla violenza nei rapporti sessuali, in cui talvolta appare come dominatore e altre come dominato, che dipende però, e soprattutto, da un altro suo e più grande segreto: essere figlio, come Doc Caliban, di Jack lo squartatore.

Buon sangue non mente e per tutto il romanzo sia Tarzan che Doc Savage, alias Doc Caliban, raggiungeranno spesso l’orgasmo mentre uccidono o cercano di uccidersi a vicenda. Magari penetrando le ferite già inferte all’avversario. In un’autentica orgia di sangue. La ricerca del piacere e dell’immortalità trionfano attraverso l’egoismo più sfrenato, anche se l’eroe “mortale” defeca, piscia, si corica per dormire tra i propri o altrui escrementi o uccide con modalità che solo più tardi sarebbero state riprese dal cinema di Robert Rodriguez9.

Lo scagliai lontano con la sola forza del braccio, imprimendogli una parziale rotazione. Volò per la sala urlando. Ogni goccia di adrenalina di cui il mio corpo poteva disporre doveva essere stata chiamata a raccolta. I suoi intestini, lunghi pressapoco sette metri, fuoruscirono e caddero strappati dal suo corpo. Noli atterrò sulla faccia, le braccia spalancate, Era ancora vivo, per quanto livido per il trauma. I suoi intestini erano distesi come una scia sanguinosa sul pavimento dietro di lui. Ebbe un sussulto e morì10.

Dopo aver devastato religioni e dei, le forme della sessualità consentite e no, Farmer più che portare a fondo la filologia dell’essenza dell’”eroe”, finisce col distruggerlo o, meglio, devastarlo attraverso l’uso di una filologia degna di Rabelais e del suo Pantagruele che usava i pulcini per pulirsi il culo. Oppure raccogliendo la sfida di Céline a non scrivere come se si stesse “ricamando merletti”.

In Farmer, il machismo implicito nella figura dell’eroe viene portato alle estreme conseguenze in una giostra di attributi maschili fuori misura e sempre in erezione, pronti sempre alla bisogna e al richiamo della foresta. Il tutto in una girandola di cattivo gusto, violento e sadico, sarcastico e canzonatorio allo stesso tempo, che più che mettere alla prova il lettore, testa le probabilità che può avere l’eroe di sopravvivere ad un simile trattamento. In effetti, non lasciandogliene molte.

Vediamo dunque un poco la dottrina della fine e dell’origine del Battilocchio.
[…] vogliamo con questo stabilire e meglio chiarire, con motivi strettamente deterministici, come la funzione del Battilocchio (abbiamo così definito il Superuomo, l’Io extra misura, l’individuo “fuori classe”) che ha fin qui avuta una meccanica effettiva, debba eliminarsi insieme agli altri caratteri delle società di classe con la rivoluzione comunista. […] non nascondiamo una larga simpatia per i tempi del matriarcato. […] In questa società è la donna che trasmette il nome alla gens ed alla prole, ed è la donna che può fondare sola una gens nuova. Qui non incontriamo dunque ancora in circolazione la specie battilocchius clarissimus. Qui non viene ancora tra i piedi il Superuomo. […] La serie dei Battilocchi comincia da quando una complessa rete di possessi fondiari, di schiere di schiavi, di eserciti in armi, rovinato il comunismo primitivo e il matriarcato, deve tradurre il suo meccanismo da una generazione all’altra, e per tanto fare abbisogna di un centro, di un vertice, di una passerella di comando, di sinedri in cui si faccia la consegna delle chiavi e dei segreti di dominio. Qui l’uomo di eccezione viene sulla scena e comincia a rappresentare la sua parte […] Fin che funzione preminente è la difesa e la lotta materiale contro pericoli ed aggressioni, è chiaro che basta per capo quello più alto, dai muscoli solidissimi e dal cuore a battito formidabile; e basta a questi scegliere un giovane successore cui trasmetterà l’arte della lotta, del tiro dell’arco e della scherma. Al cospetto dei battilocchiali delusi Proci, Ulisse prova sprezzante e senza favellare la sua identità flettendo come fuscello il suo colossale arco. Stessa prova darà il figlio Telemaco, e quelli volgeranno le terga senza tentare la zuffa11.

Lontano dal comparativismo di Joseph Campbell12, tutto teso alla definizione di un eterno modus operandi della figura dell’eroe, o dalle edulcorate critiche di Umberto Eco13, Farmer, considerato in ambito fantascientifico un comparativista del mito più vicino al James Frazer del Ramo d’oro, sembra porre invece la necessità e l’urgenza di rivedere in profondità, se non distruggere, l’eroe, manifestazione suprema, arbitraria e anche un po’ ridicola del meschino Io borghese in età contemporanea.

Motivo per cui, nei confronti dei tentativi di rinnovare e riciclare l’eroe, occorre, parafrasando l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach, riaffermare che, mentre si è sempre cercato di interpretarlo variamente, è ora giunto il momento di abolirlo. Definitivamente, poiché non è altro che un fantasma o il rimasuglio di una vecchia ossessione e di un immaginario destinato a estinguersi, il cui viaggio è giunto, forse da tempo, al suo capolinea.

Le rivoluzioni a venire, per essere tali, difficilmente potranno proporre le gesta dei singoli, poiché, come scrive Emilio Quadrelli, in un suo testo di prossima pubblicazione, a proposito di uno dei più famosi “eroi proletari”:

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale14 .

Pur ammettendone la funzione simbolica, archetipica e mitica presso i popoli e le società antiche, oggi, sia che si tratti dell’eroe dotato di superpoteri (Superman, Super Mario o Super Zelensky) oppure destinato al martirio (Gesù Cristo, Beowulf o Che Guevara), a transitare soltanto tra i vivi oppure anche nel regno dei morti, sempre egli finirà con lo sconfinare nella negazione del sogno rivoluzionario, trasformandosi nel misero soldatino sacrificabile o sacerdote sacrificante dell’esistente immodificabile o della Patria, anche se “socialista”.

Forse non a caso, in una recente intervista, Yaryna Grusha Possamai, docente di Lingua e letteratura ucraina all’Università Statale di Milano, ha potuto affermare che in Ucraina «sta nascendo una nuova letteratura eroica»15. Infatti, anche se questo si è rivelato troppo spesso difficile da comprendere per molti compagni, il superamento del capitalismo e del suo immaginario non potrà avvenire cambiando di segno i suoi apparati politici, economici e culturali, ma soltanto rovesciandoli e negandoli totalmente.

Non fu il manifesto di Carlo Marx, o di lui e Federico Engels, fu il Manifesto del partito comunista. Di lì, e senza battilocchi, muovemmo. Purtroppo ne piovvero da ogni lato, e al loro effetto, antiproducente in partenza, si devono i ripetuti rovesci; tuttavia inevitabili, perché ogni forma ha la sua inerzia storica, e quella dei battilocchi resiste più che le cimici al D.D.T., si acclimata con disperata virulenza ai più drastici disinfettanti.
[…] Torniamo ai capi di Stato, uomini politici, condottieri, e se volete ai capi rivoluzionari. Fino ad oggi hanno avuto una parte negli eventi, se pure sempre riferita in modo più che distorto ed iperbolico. Tale parte non è quella di una causa primaria, di un primo motore; e non costituisce condizione necessaria, […] Alcune volte tuttavia la storia mostra di avere un protagonista, e alcune volte ancora il suo nome diviene noto all’universo mondo, benché tale identificazione non cambi nulla, e in dati casi sia un ulteriore impaccio ed un guaio nero, come per i movimenti rivoluzionari mostrammo16.


  1. Valerio Evangelisti, Farmer: Venere sulla conchiglia, Introduzione a «Urania collezione», n° 15, aprile 2004 ora in V. Evangelisti, Distruggere Alphaville, Edizioni l’ancora del mediterraneo, 2006, pp. 90-91  

  2. Diego Gabutti, Fantascienza e comunismo, La Salamandra. Milano 1979, pp. 159-163  

  3. Amadeo Bordiga, Superuomo, ammosciati!, “Il programma comunista” n. 8 del 1953  

  4. Philip José Farmer, Festa di morte, Ennio Ciscato Editore, Milano 1972 (titolo e edizione originale: A Feast Unknown, 1969), p.135  

  5. Si tratta, oltre che dell’opera già citata di: Lord of the Trees, Ace, 1970. (inedito in italiano); The Mad Goblin, Ace, 1970. (inedito in italiano); Lord Tyger (Lord Tyger, Doubleday, 1970) in I Massimi della Fantascienza n. 29, Arnoldo Mondadori Editore, 1992; Tarzan Alive: A Definitive Biography of Lord Greystoke, Doubleday, 1972. (inedito in italiano); L’ultimo dono del tempo (Time’s Last Gift, Ballantine, 1972) traduzione di Ugo Malaguti, Slan. Il Meglio della Fantascienza n. 22, Libra Editrice, 1974; Opar, la città immortale (Hadon of Ancient Opar, DAW n. 100, 1974), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 2, Arnoldo Mondadori Editore 1989; Fuga a Opar (Flight to Opar, DAW n. 197, 1976), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 8, Arnoldo Mondadori Editore 1990  

  6. P. J. Farmer, Lord Tyger, Delta fantascienza, 1970, p. 251  

  7. Farmer, in Festa di morte, fa dire a Tarzan: «Personalmente non ho paura della morte, però le mie cellule non sono razionali quanto me», op. cit., p.25  

  8. Personaggio cui Farmer dedicherà un’altra opera, inedita in italiano: Doc Savage, His Apocalyptic Life, Doubleday, 1973  

  9. Ad esempio in Machete, nel 2010  

  10. P. J. Farmer, Festa di morte, op. cit., p. 232  

  11. A. Bordiga, Superuomo, ammosciati!, cit.  

  12. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli 1958 – Lindau 2016  

  13. Si veda: Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 1978/2015, IV edizione Tascabili, pp. 135-139, in cui l’autore propone una lettura a dir poco esilarante, superficiale e perbenista proprio di Tarzan, oltre che della letteratura di genere nel suo insieme  

  14. Emilio Quadrelli, L’altro movimento operaio, introduzione alla ristampa integrale di La classe, giornale delle lotte operaie e studentesche (maggio-agosto 1969)  

  15. Jessica Chia, Il tabù è caduto, in Ucraina l’epos vive, «Corriere della sera», supplemento «La lettura» del 17 luglio 2022, p. 40  

  16. A. Bordiga, op. cit.  

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

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