Robert Redford – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Novissime) – 81 https://www.carmillaonline.com/2022/01/21/le-novissime-divine-divane-visioni-2021-22/ Fri, 21 Jan 2022 00:25:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70126 di Dziga Cacace

Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema.Tutti parlate di CINEMA! TUTTI! Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io? (Nanni Moretti, Sogni d’oro)

1888 – Giochiamo all’inesorabile Squid Game di Hwang Dong Hyuk, Corea del Sud, 2021 La conta sui social è cominciata non appena Netflix ha messo a disposizione la serie: qualcuno ha timidamente ammesso “m’è piaciuta”, ma perlopiù nella mia bolla ho letto tanti “m’ha fatto schifo, i coreani hanno rotto, è copiata, è infantile, è troppo [...]]]> di Dziga Cacace

Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema.
Tutti parlate di cinema.Tutti parlate di CINEMA! TUTTI!
Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io?
(Nanni Moretti,
Sogni d’oro)

1888 – Giochiamo all’inesorabile Squid Game di Hwang Dong Hyuk, Corea del Sud, 2021
La conta sui social è cominciata non appena Netflix ha messo a disposizione la serie: qualcuno ha timidamente ammesso “m’è piaciuta”, ma perlopiù nella mia bolla ho letto tanti “m’ha fatto schifo, i coreani hanno rotto, è copiata, è infantile, è troppo violenta, non sono capaci” etc. etc. La tentazione di rispondere FALLO TU ALLORA e infilarmi in discussioni insensate è stata molto forte ma avessi trovato uno che mi citava il Battle Royale di Kinji Fukasaku come nobile ascendenza di Squid Game per combattere almeno ad armi pari… macché. Ma in fondo, è importante? Saltavano più agli occhi le ambientazioni alla Mai dire Banzai (che, di nuovo, pochi sanno essere una creatura di Kitano: Takeshi’s Castle), con colori esasperati alla Teletubbies e architetture assurde alla Escher. Ma esaurito il citazionismo in cui mi sono anch’io appena esibito, arrivava la stroncatura irritata. Perché Squid Game mette così in crisi? Perché è una distopia brutale (che poi tanto distopia non è), crudele nella messa in scena e con una stilizzazione iperreale, contraltare pop/gameficato della realtà altrettanto violenta che viviamo ogni giorno, solo che della seconda non ce ne rendiamo mai conto abbastanza e vederla in scena innesca il rifiuto. È la stessa conclusione della serie a dirci che non c’è grande differenza tra la nostra vita e la rappresentazione ludica e mortale che si tiene su un’isola, dove si gioca volontariamente e l’eventuale eliminazione è totale e comporta la morte. L’annullamento dell’individuo nel lavoro, stritolato dai meccanismi del Capitale e sommerso di debiti più o meno occulti, e consolato dall’ossessione per il gioco in tutte le sue forme, è il tema evidente, un tema perlopiù rifuggito dal cinema occidentale mainstream, non so se per acquiescenza, calcolo o proprio obnubilamento. Ad ogni modo, com’è questo Squid Game? Merita di stare al gioco? Beh, fatta la tara alla recitazione talvolta esasperata dei coreani (con una curiosissima cadenza vocalica che assomiglia a dei miagolii) e ad alcune lungaggini, a degli sviluppi e dei meccanismi talvolta prevedibili, a diversi luoghi comuni emotivi e tutto quello che volete… si fa vedere molto piacevolmente, altroché. Possiede un rigore formale ineccepibile, un uso straniante e sinistro della musica e una buona dinamica che alterna azione (su almeno due piani) e intreccio psicologico. E se ci sono dei difetti – come detto sopra – comincio anche a credere che siano semplicemente i sintomi del nuovo linguaggio seriale, come una convenzione a cui ci stiamo sempre più abituando. Ah, solo in Italia si poteva far polemica sulla visione della serie da parte dei bambini: è esplicitamente indicata per un pubblico sopra i 14 anni e mi pare incredibile che nel 2021 si sposti ancora sull’apparecchio televisivo l’onere dell’educazione e non sui genitori. E vabbeh: siamo un paese dove si cerca sempre un colpevole altro per non guardarci allo specchio e riconoscerci. (Netflix, ottobre 2021)

1893 – Evitabili Imprevisti digitali di due cialtroni, Francia/Belgio 2020
Orso d’argento a Berlino a Benoît Delépine e Gustave Kervern, due registi considerati arguti e provocatori, una trafila di riconoscimenti e recensioni entusiastiche (si veda l’imbarazzante pagina francese di Wiki), voti medio alti su tutti i siti specializzati. Dove però evidentemente scrivono dei ventenni brufolosi che non sanno di cosa cazzo stiano parlando. Perché questo film è una porcata come non credevo fosse possibile realizzare, uno dei peggiori film che io abbia mai visto in sala (e ne ho visti diversi che facevano cacare a spruzzo). Insomma: peggio non potevo scegliere per il mio ritorno al cinema un anno e mezzo dopo la peste, in una sala parrocchiale con non poche persone tutte immote e silenti (salvo che per l’unica trovata del film, con un tizio che si appiccica un telefono sborrato alla guancia). Per il resto la commedia che non fa ridere MAI vorrebbe raccontarci la dittatura della tecnologia digitale e lo fa attraverso le disavventure di tre coglioni che dimostrano che in mano a degli imbecilli la tecnologia è effettivamente pericolosa. Ma perché si tratta di imbecilli. Tutte le tre vicende che li riguardano banalizzano in modo atroce veri problemi (cyberbullismo, ricatti sessuali, gig economy sfrenata) ma non c’è mai uno sguardo acuto, anzi, siamo dalle parti di un boomerismo ottuso e conservatore che canta le lodi della vecchia antica vita col telefono senza fili. Non c’è grazia, intelligenza, simpatia: i protagonisti hanno tre facce da cazzo che è raro trovare assieme in una pellicola. Lo sviluppo narrativo è irricevibile e offensivo, il copione satirizza la Rete e la vita digitale ma le battute sono al livello del Bagaglino ma con in più la spocchia di chi la sa lunga. C’è inoltre un vago accenno ai gilet arancioni e alle mode ecologiste ma tutta la critica sociale è fasulla e reazionaria, così come l’affetto per questi deficienti patentati per i quali non puoi provare neanche un po’ di pena o compassione. Mettiamoci inoltre che la fotografia sembra quella di un Super8 conservato male senza neanche il beneficio della messa a fuoco, in un mondo che ormai della qualità fotografica ha fatto un primo discrimine, e il quadro è completo: un disastro totale, un film disgraziato come intenzioni e come esiti. Dopo 5 minuti di visione ha cominciato a crescermi il terzo coglione perché è dalla prima scena che si capisce di aver pestato una merda grossa come l’Australia. L’Orso d’argento a Berlino suggella la morte del buon senso e del buon gusto cinematografico. Amen, andate in pace. (Cinema Orizzonte, Milano; 22/10/21)

1898 – L’evasione (evasiva?) di Freaks Out di Gabriele Mainetti, Italia/Belgio 2021
Film curioso per tanti motivi, pieno di invenzioni visive e di rimandi a grandi classici pop USA (Il mago di Oz, Guerre stellari, le saghe dei supereroi) e non solo (Roma città aperta). Ho sofferto un po’ il frenone con la lunghissima scena della battaglia finale e anche la complicazione del secondo tempo ma soprattutto ho avvertito una mancanza di vero senso finale. Ma ci arriviamo. Qual è il nucleo centrale del film? Un banale scontro tra Bene e Male, teatralizzato nella rappresentazione dei nazisti? Non lo so, anche perché l’avventura di questi freak si conclude in gloria, mentre c’è un conflitto mondiale che va avanti e mica si capisce cosa abbiano conquistato i nostri eroi, se non aver salvato la pellaccia. Hanno ottenuto dignità nella loro diversità? Un ruolo futuro? Boh, è tutto sfumato e un po’ buttato lì, con il sospetto che si sia voluto giocare con dei supereroi in un’epoca diversa dal presente/futuro e per vederli alle prese col male assoluto. Che poi la cosa valga anche come inno all’inclusività può anche sembrare un accessorio: tutti i supereroi hanno sempre avuto – più o meno sfumati – degli handicap. Qui siamo tra il Tarantino che riscrive la storia di Inglourious Basterds e il Garrone che vola di fantasia nel Racconto dei racconti ma ho un po’ il sospetto che ci si accontenti del piacere della vicenda messa in scena. Che poi è un traguardo mica da poco, eh? Perché Freaks Out è divertente e coraggioso e per fortuna è un film post ideologico che evita l’impantanarsi in schematismi politici. Il fascismo è quasi un fantasma (ricordato solo da due frasi e qualche scritta dipinta sui muri) e la rappresentazione stilizzata ed eroica dei partigiani è efficace: qui sono brutti, sporchi, cattivi e pressoché tutti mutilati. È azzeccato anche il fascino ambiguo del nazismo e della abilità scenica del personaggio Franz e funziona far convivere fianco a fianco la tragedia immane (il bombardamento o le uccisioni sempre crude, per nulla cartoonesche) a momenti di clownerie e comicità. Ma tornando alla perplessità iniziale forse alla fine quello che mi manca è proprio un senso leggibile più alto (che peraltro sarebbe stato a forte rischio moralistico) ma sono anche un vecchio novecentesco che deve trovare una lezione in ogni creazione artistica e forse qui la lezione non la intravedo io per miopia: l’immaginazione del regista ci regala una storia sorprendente e un mondo inaspettato e tanto può e deve bastare. Forse. (Anteo CityLife, Milano, 13/11/21)

1901 – Il Minculpop di Spy Game di Tony Scott, Usa 2001
Spy Game uscì un mese dopo l’11 settembre e fa impressione vedere oggi un film così spiccatamente di propaganda (tanto quanto Black Hawk Down del fratello Ridley, uscito a fine dicembre). Film tecnicamente clamorosi, ben costruiti e molto godibili, con un sottofondo politico oggi evidentissimo e concepiti ben prima delle Torri e poi perfettamente funzionali a quello che accadde con l’attacco all’Afghanistan e poi con la guerra in Iraq, dicendo al mondo la solita tiritera: the greater good, la democrazia più grande della terra, esportiamo libertà e bla bla bla. E niente, ho ripensato a come prima del 1991 vedevamo chiaramente dov’era la propaganda (anche facilona e smaccata, vedi Rocky IV, Rambo II, Top Gun, Il sole a mezzanotte etc. per dire i primi casi che mi vengono in mente). Dopo è diventato tutto più sottile, subliminale e accettabile, quasi naturale: sconfitti i sovietici, il mondo è diventato un posto minacciato da cinesi infidi e arabi straccioni e vigliacchi (come in Spy Game) e gli USA sono gli unici che possono portare libertà e prosperità al mondo derelitto. I nemici non hanno nome e i loro volti spesso si confondono, non sono importanti, sono l’Avversario, il Male. Che potrebbe anche essere una rappresentazione archetipica se non fosse che dietro ci sono nazioni vere con cui si è in conflitto latente: qui la Cina (con cui si era già in guerra, senza che lo sapessimo noi o un Rampini qualunque) è rappresentata solo attraverso un carcere, non c’è altro, e tanto sembra che basti. Redford, da sempre volto dell’America democratica, interpreta un agente della CIA che in nome della realpolitik ha accettato in carriera qualunque guerra sporca. L’unica cosa che il buon Robert non accetta è – l’ultimo giorno di lavoro – di lasciare in mano ai musi gialli il suo allievo Brad Pitt. Qui la fedeltà alla bandiera vacilla perché Redford vede nel giovane una purezza che lui ha perso da quel dì: tutto l’inghippo nasce da Pitt andato da solo a liberare una idealista bombarola di cui era infatuato e che Redford aveva consegnato ai cinesi. Ovviamente lo pigliano e Langley decide di far finta di nulla e qui la nostra amata faccia di cuoio non ci sta. La ricostruzione storica, l’intreccio e tutto l’apparato tecnico sono clamorosi e si vede che il film trasuda fantastilioni. Certo, nei flashback Pitt e Redford sono poco credibili, per quanto i truccatori facciano miracoli, ma in generale il ritmo e la dinamica della vicenda funzionano e Spy Game è oltremodo sollazzevole. Peccato che sia un po’ fascistone. (12/9/21)

1903 – È stata la mano di Dio, più o meno, di Paolo Sorrentino, Italia 2021
È come se Sorrentino si aprisse e ci raccontasse non solo cosa ha vissuto ma anche come è diventato il regista che conosciamo. Il desiderio di fuggire la realtà scadente e deludente (che proviene da Fellini e si conferma davanti al regista Capuano) l’abbiamo visto in scena nei suoi film precedenti, in quella visionarietà fuori dal comune. Qui invece, la realtà la si mette in scena per superarla e ne viene fuori il film più intimo e diretto del regista. Napoli è bella e terribile, una città dove convivono con naturalezza alto e basso, delinquenza e legalità, civiltà e disagio, splendore e miseria. C’è una prima parte con la Napoli degli anni Ottanta, gli interni borghesi, le strade affollate, piazza del Plebiscito invasa (proprio come in un film di Fellini). E c’è il ritratto umano e tenerissimo dell’amore dei genitori di Fabietto, alter ego del regista: un amore con qualche spigolosità ma anche sincero, tra pranzi, scherzi e scorribande in Vespa. E c’è la famiglia di contorno, iperbolica, com’è tutto a Napoli (e come l’ho conosciuta e amata io): i colori degli abiti, le unghie delle donne, i cortili fatiscenti, i sentimenti espressi, l’esibita fisicità prorompente. Quando arriva la frattura del film – la morte dei genitori di Fabietto a causa di un incidente – comincia la vera venuta al mondo del protagonista. Capisce cosa vorrà fare grazie a diversi maestri (Maradona, la baronessa Focale, la zia zinnona Patrizia, l’amico contrabbandiere, Capuano). Il mondo di prima, quello reale, viene superato e il passaggio finale vedendo il monacello – col treno diretto a Roma verso il Cinema – è l’abbraccio finale al mondo della fantasia (quello della sorella fantasmatica chiusa in bagno, quello di San Gennaro che si aggira per la città come un gagà): un mondo (più) felice. Perlomeno io la leggo così. Poi c’è l’amico caro che mi dice, come tanti: “La liasion con la zia sembra venir fuori da una commedia scollacciata anni Settanta. Ci sono troppo finali. Macché poesia”. Eh, e chi sono io per contraddirvi tutti? Io prendo volentieri questo Sorrentino, compresi eventuali ipotetici errori o scivoloni, perché qui leggo un sapore di verità: m’è piaciuto che il regista abbia rielaborato tutti i suoi cliché per risultare invece più personale anche a costo di risultare un po’ slabbrato com’è in fondo Napoli, sporca e viva, lietamente imperfetta. Il fellinismo poi… mah, a me è sempre sembrata una scorciatoia critica. È vero, e Sorrentino l’ha dichiarato pure, ma sotto c’è un immaginario completamente diverso e nelle svisate strambe che anche qui non mancano leggi altro: la loro origine partenopea, l’esasperazione di tutto in un abbraccio passionale all’esistenza. La musica è praticamente assente: è rinchiusa in quelle cuffiette del walkman che accompagnano sempre Fabietto. Nell’ultima scena scopriamo anche noi cosa ascoltava: una liberatoria Napule è, scelta apparentemente banale ma che qui, in questo contesto e con questo significato, diventa in qualche maniera assolutamente imprescindibile, perché c’è tutto quello che abbiamo visto. Buon film, non facile, non compiacente ma molto intenso. (Cinema Ducale, Milano, 3/12/21)

1904 – Rich and Famous di George Cukor, USA 1981
Ricche e famose è uno straordinario puzzapiedone (© di non ricordo chi!) del grande George Cukor. È la storia di un’amicizia conflittuale tra due donne, scrittrici di diverso successo e che si palleggiano alcuni amori. Il costante confronto passa attraverso epocali scazzi e poi, per magia, la volta dopo, stima e amore incondizionati, perdoni, abbracci, pianti e bicchierate alcoliche che stroncherebbero un vichingo. Si sente l’ascendenza teatrale del film e ogni scena vuole essere un apice drammatico ma con un gusto molto démodé e se la storia ogni tanto intriga, più spesso imbarazza, ma di quell’imbarazzo di cui godi tipo le sensazioni che provo per Ufficiale e gentiluomo, film che ho amato odiare e che ora odio amare e al quale, non c’è nulla da fare, torno sempre con l’affetto che si prova per il parente picchiatello. Ricche e famose è un inno al kitsch, con una volontà artistica che risulta clamorosamente datata, una supposta profondità che invece suona superficialissima e una ricchezza visiva che si vorrebbe artistica e invece è accumulo di cattivo gusto. Non siamo dalle parti del camp che presupporrebbe una consapevolezza ma a 40 anni di distanza dal film forse l’effetto è più questo (ma dovrei ristudiarmi tutto dalla Susan Sontag in giù, confesso). Ad ogni modo il rapporto fondante la vicenda è schematico, per frasi che vorrebbero dire tutto e sono in realtà molto generiche e ti becchi questa amicizia femminile che fin dall’inizio non ti sembra credibile per nulla. Ma stai al gioco. Loro sono due bellone straordinarie chiamate a fare gli straordinari drammatici, talvolta con esiti discutibili se non proprio drammatici ma in diversa accezione. Mi sembra più misurata Jacqueline Bissett (che ha un capoccione incredibile: se non l’aiuta l’acconciatura rischia di sembrare un’aliena di Mars Attacks, seppure con gli occhi più belli del cinema di sempre). Candice Bergen invece pare sull’orlo dell’ictus: bellissima ma costantemente con gli occhi sgranati e la bocca e il collo tesi. M’è passato piacevolmente: è un inevitabile guilty pleasure, c’è poco da fare. (5/12/21)

1905 – Il reality migliore di sempre: The Beatles: Get Back di Peter Jackson, USA/UK/New Zealand 2021
S’è cominciato a parlare di questa serie l’estate scorsa, quando hanno cominciato a circolare i primi trailer. I soliti cialtroni che devono subito dire la loro avevano gridato alla mistificazione: stava arrivando un documentario mistificatorio, dove tutte le tensioni della band erano state nascoste in nome di un falso ritrovato entusiasmo marchiato Disney. Beh, nulla di più lontano dal vero: Get Back non è per niente revisionistico rispetto al Let It Be originale: la sofferenza è ancora tutta lì, leggibilissima, solo ammorbidita dalla completezza del racconto e dalla parabola che porta a un finale in qualche maniera provvisoriamente lieto. Questo documentario su un documentario (il Let It Be di Michael Lindsay-Hogg) è il tentativo di raccontare un gruppo che lotta strenuamente per provare a divertirsi di nuovo, è la cronaca di un divorzio che aleggia, è uno scontro di ego e di aspirazione all’ombra di quel mostro ingombrante che erano stati – ed erano ancora – i Beatles, quattro ragazzi che tra il 1963 e il 1969 sono stati tra le personalità più importanti del pianeta, senza una vita privata, sempre assieme, riveriti e perseguitati, a ragione o meno. La serie documentaria è interessantissima e non solo per motivi musicali: potrebbe essere un saggio di psicologia per osservare azioni e reazioni di quattro individui in un luogo chiuso, in una situazione di stress emotivo e con un compito creativo da portare a termine. Tutto ci racconta questo processo: la prossemica, l’entusiasmo reale o esibito, l’evidente fatica fisica e mentale. Certo: con oltre 60 ore di girato a disposizione bisogna essere ingenui a pensare che questa non sia che una delle letture possibili scelta da Jackson, che avrebbe potuto montare altri documentari, tutti con piena dignità, ma forse con storie diverse e altri sentimenti prevalenti. Io credo che il regista neozelandese abbia scelto la strada più autentica, quella della complessità, senza una visione prestabilita. Ma chissà. Da spettatore osservo che Jackson riesce dove Lindsay-Hogg ha fallito (se avete mai visto il film Let It Be originale, parecchio depressing) e ci riesce con gli stessi materiali a disposizione perché capisce che ha davanti una storia universale, con un arco narrativo perfetto (e il tempo per poterla sviluppare): quattro eroi e una missione da compiere che inizia con mille difficoltà in un posto inospitale, il teatro di posa di Twickenham. Inoltre uno dei protagonisti, George Harrison, è riluttante. Poi si arriva a un chiarimento e a uno spostamento di location e nello studio approntato a Savile Row (sede allora della Apple beatlesiana) la band comincia a funzionare, a trovare una chimica condivisa e il piacere antico del fare musica assieme. Infine arriva l’organista Billy Preston, una sorta di catalizzatore musicale che stempera le tensioni: si ha un ulteriore mutamento d’atmosfera in positivo. E diventa anche evidente che uno dei problemi è stato proprio il regista: quando non c’è Lindsay-Hogg e si pensa solo a suonare e non a produrre uno special per la Tv, allora le cose filano lisce, non si perde tempo a fare filosofia o a porre questioni in quel momento irrisolvibili. Nella sala di Savile Row ci sono solo due cineprese, gli operatori e il direttore della fotografia. Lindsay Hogg si limita solo a qualche comparsata in cabina di registrazione, con l’immancabile sigaro (come Orson Welles, di cui pretendeva di essere figlio illegittimo). Alla fine ha l’intuizione di fare un concerto sul tetto e, anche se si tratta di un furto con scasso di quanto aveva fatto Jean-Luc Godard con i Jefferson Airplane a New York due mesi prima, l’idea è buona e lo tiene ancora per un po’ lontano dalle prove. Fino al giorno prima dell’esibizione prevista, quando torna e riemergono i dubbi dei quattro Beatles: siamo qui per fare un concerto, un TV show, un album o cosa? E il film c’è? E Lindsay-Hogg riesce a dire che non c’è la storia, quando ce l’ha esattamente tra le mani da ormai 20 giorni. Dichiara che manca il finale che invece è precisamente quello che sta organizzando, ma è troppo miope per rendersene conto. McCartney palesa tutti i suoi dubbi, forse perché ha perso il controllo delle cose, forse perché il manager Allen Klein è il pericolo che incombe sulla band, forse perché è semplicemente insoddisfatto di quanto hanno prodotto (e Let It Be sarà un grande album disordinato, con pietre preziose e qualche pataccone). Harrison torna alla cocciutaggine iniziale: ribadisce la volontà di incidere un suo album solista e preferirebbe non far nulla dal vivo. Ma è in minoranza e accetta la decisione comune. Alla fine la soluzione per arrivare musicalmente a un risultato è disinteressarsi del benedetto concerto e del maledetto film: che ci pensi il regista. C’è del nervosismo ma per il gran finale sembra che tutto s’incastri al posto giusto e si trovi ancora una scintilla d’entusiasmo. Lindsay-Hogg piazza dieci cineprese (l’importanza di avere i soldi quando non hai le idee chiare…) e le divide tra il tetto del palazzo in Savile Row e la strada e poi, seppure nel caos, si scrive la Storia con un finale che riesce a passare dal drammatico all’esaltante al comico, con i Bobbies che fanno interrompere l’esibizione che disturba la pubblica quiete. Alla fine la miniserie dura oltre 7 ore e abbiamo visto nascere alcuni capolavori (in modo banale, come nascono le canzoni, sia belle che brutte) e il momento del concepimento porta con sé qualcosa di emozionante e pornografico. Vediamo anche delle dinamiche interpersonali potenti e intuiamo cose significasse e quale peso comportasse essere un Beatles (e con quanta insofferenza ormai vivessero il ruolo sia John Lennon che George Harrison). Peter Jackson mette in esergo, nei primi 10 minuti del documentario, un riassuntone della storia della band e anche qualche indizio dei caratteri dei protagonisti. John è quello estremo, McCartney quello mediano, Ringo il jolly, George quello in disparte, meditativo. Poi si racconta semplicemente quale fosse il piano di quel gennaio del 1969: realizzare un ipotetico speciale TV, con un’agenda che prevedeva prove per 3 settimane e poi la registrazione di un live show il 19 e il 20 gennaio. Dal 2 gennaio comincia il circo nello studio cinematografico di Twickenham, in una situazione oggettivamente respingente, con il quartetto al centro di uno spazio bianco, asettico, con intorno i cameramen a riprendere tutto, senza alcuna privacy. Inoltre tra le balle c’è Lindsay-Hogg che blandisce i nostri eroi in modo infantile e continua a proporre cose irrealizzabili. In tanti, oggi, ancora preda del retaggio vagamente razzistico di allora, sono rimasti inquietati dalla presenza di Yoko Ono che però è tranquilla e silente e funziona come ammortizzatore sociale per John. Al terzo giorno c’è il famoso scazzo tra George e Paul, col primo indisponente nella sua passività aggressiva e il secondo disperatamente impegnato a tenere a galla una band sull’orlo del divorzio. Sotto l’occhio delle cineprese non parte neanche un vaffanculo, è tutto trattenuto. La cosa paradossale è che sei il re del mondo, puoi fare il cazzo che vuoi e finisci in questa situazione assurda da reality con le camere accese e il compito impossibile di tirare giù 14 canzoni in 12 giorni, impararle, inciderle e poi fare un concerto. Da qualche parte. Lindsay-Hogg insiste: facciamolo in Libia, nel teatro romano di Sabratha. Oppure in crociera. O in un orfanotrofio. Diventa una macchietta cui nessuno dà retta. Negli anni Novanta ho visto un suo film, Guy, ed era una cosa di una povertà intellettuale drammatica (vedi qui). Voleva essere un’opera altissima sui concetti di visione, libertà e controllo e franava clamorosamente. Più o meno come rischia di accadere qui: in fondo questo Get Back c’è grazie a lui ma per me soprattutto nonostante lui. La ricostruzione di Jackson non ci nega nulla e, per scelta di tempi narrativi e visione d’insieme, assistiamo a nervosismo, momenti di serenità improvvisa, scintille creative, fastidio, noia. Quando si parla di allestimento dello studio Tv, lo scenografo propone dei bozzetti a Paul che lo manda via e aggiunge con feroce ironia: “Parlane a John e Yoko. Loro sono artisti”. Scopriamo anche che la versione iniziale della canzone Get Back era interpretata come se la stesse cantando un seguace razzista di Enoch Powell, un Salvini senza bidet dell’epoca, per capirci, tentativo per fortuna presto accantonato. Al settimo giorno avviene la frattura più grave: mentre c’è grande chimica tra John e Paul, George è estraniato e distante e al termine della sessione mattutina abbandona laconicamente il gruppo. Dopo pranzo la situazione è strana. I tre rimasti si scatenano in tante prove confuse e Yoko urla nel microfono, come a coprire il momento di imbarazzo. Servono tre giorni per suturare la ferita e quando si riparte il feeling è finalmente diverso e sarà tutto un crescendo fino al 31 gennaio, guadagnando una settimana, in un’atmosfera agrodolce, con la soddisfazione di aver portato a termine la missione, l’entusiasmo dell’esibizione e l’evidente sensazione liberatoria di fine lavori. In definitiva, cosa posso dire? Jackson ha realizzato una serie incredibile, che sfida ogni convenzione e fa anche tesoro degli ultimi vent’anni di reality show. Esibisce l’attesa, qualcosa che 50 anni fa era troppo distante dal gusto del pubblico. E c’è di mezzo anche l’ulteriore mitizzazione del gruppo, la nostalgia divenuta valore così come la distanza critica per comprendere meglio cosa stesse accadendo. Non so quanti realmente abbiano visto tutte le puntate ma la costruzione narrativa funziona egregiamente e immagini e musica sono realmente eccezionali. Alla fine, bravi tutti, anche quel cialtrone di Lindsay-Hogg. (Disney+, dicembre 2021)

1918 – Problematico, Don’t Look Up di Adam McKay, USA 2021
Di questo film ho letto pressoché solo commenti entusiastici e, no, non riesco a essere d’accordo: Don’t Look Up è sicuramente un film interessante e con un senso. Ma capolavoro no, non ci sto, come uno Scalfaro qualunque. L’ho trovato un po’ velleitario e soffocato dal suo gigantismo. E compiacente con lo spettatore. Il film satirizza comunicazione, media, potere, interessi etc. e mi sembra l’esatto frutto di questo clima dove tutto è buttato in burla. Ma veramente vi è piaciuto? O ha soltanto solleticato i brandelli rimasti della vostra coscienza? Adam McKay è un ottimo regista e direi che sappia anche come si fa ridere ma ho sempre il sospetto che quando sceglie storie edificanti pensi troppo a montarci su il baraccone, a fare sciato, come diciamo a Genova. Ma la partecipazione e la passione è come se non venissero fuori. Sia La grande scommessa (dei suoi film che ho visto, il migliore) che Vice mi sono sembrati tecnicamente e attorialmente ineccepibili ma alla fine freddi, senza coinvolgimento palpabile. Oh, sto leggendo con piacere Contro l’impegno di Walter Siti e assolutamente non voglio l’indignazione a tutti i costi o il funesto cinema didattico – da lui, poi! – ma se mi fai il pippotto apocalittico devo pur sentire un po’ più di tensione civile sotto, eh, se no è solo pura messa in scena e strizzarsi l’occhio e darsi di gomito. Inoltre qui in Don’t Look Up ho trovato confusione, troppi registri, troppa carne al fuoco, troppi colpevoli. E questo mondo è lo stesso che produce un film così, che accusa e allo stesso tempo si autoassolve dando anche la patente di bontà a chi lo apprezza. Ora, è evidente che sono un cacacazzo ottuso e se non riesco a vivere serenamente il film il problema probabilmente attiene più al gusto mio che all’effettiva bontà del lavoro di McKay. Però, detto questo, qui ci sono attori bravissimi, ma sulla carta, perché sprecati in macchiette e caricature con dialoghi implausibili. Poi non sento grande finezza o una coerenza formale. La metafora della catastrofe climatica in atto è leggibile ma è anche travisata e persa nella confusione: uno dei pochi momenti di verità è quando DiCaprio dice “per soldi ci portate all’autodistruzione”. Però questa cosa fondamentale mi sembra la sparata per avere l’apice drammatico, non per significare veramente che il capitalismo è il tumore del mondo e ci sta portando all’olocausto. Mi sembra tutto pura rappresentazione, così come la citazione di Zabriskie Point in coda. Molti hanno fatto paragoni con Il dottor Stranamore (peraltro nuovamente citato) ma quello era uno stracazzo di capolavoro inarrivabile, qui io non vedo la classe, coglionazzo, ecco. È una grande idea realizzata con troppa fiducia nella propria abilità e non avverto mai un cambio di passo autentico. McKay satirizza tutto: Trump, i movimenti, l’attivismo da poltrona, i social, il linguaggio giovanile e l’apatia ottusa della società, ma lo fa appoggiando tutto lì e facendo carta carbone della realtà, senza nessuno scatto che non sia la deformazione grottesca che banalizza al posto di problematizzare. Questo è un film timballo, con ingredienti ottimi ma poco equilibrati: si riscatta nel finale salvo poi metterci la scena del nuovo pianeta che aspetta le élite che il nostro lo hanno distrutto. Ed è subito cinepanettone, Vacanze su Marte. Non so. C’è un altro momento in cui DiCaprio – il migliore di tutto il cast, il più controllato – scazza in diretta tivù e dice: “La volete smettere con tutte queste battutine?”. Ecco, troppe battutine. Il magnate guru della Bash è un pagliaccetto, Meryl Streep è senza freni, come del resto l’altrimenti adorabile Jonah Hill. Timothée Chamelet poi è uno di quegli incomprensibili misteri gaudiosi (e non dimentico come ha trattato Woody Allen, il pezzente). Quella con un registro drammatico più congruente potrebbe essere Jennifer Lawrence ma anche lì si alterna la rabbia incontrollata (poco credibile nei contesti in cui esce) a gag deprimenti (che il generale faccia pagare gli snack alla Casa Bianca vuole dirci che è tutto per denaro? Ma davvero ce la passi così questa grande rivelazione?). Vabbeh. Qualcosa mi sarà pure piaciuto, no? Ma certo. L’ho detto: sono io il problema. Perché la fotografia è notevole, diverse singole scene funzionano, i brevi inserti documentari sono poetici, i titoli di testa e coda pop risultano elegantissimi. Ma se tiro le somme alla fin fine ho trovato più onesto e coerente di Don’t Look Up quel fetecchione di Armageddon. No dài, scherzo. Anche perché la verità è che quell’asteroide ce lo meritiamo veramente. (Netflix, 14/1/22)

(Continua – 81)

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 78 https://www.carmillaonline.com/2017/12/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-78/ Thu, 14 Dec 2017 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42128 di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007 Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un [...]]]> di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007
Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un momento ho pensato a una conclusione con evidente money shot. Del resto questo è un film pornografico. Viceversa i persiani sono guidati dall’equivoco omaccione Serse, inanellato come una cotta di maglia e zeppo di piercing. Nelle file del suo esercito anche dei ninja che sembrano mutanti post nucleari (gli immortali) e l’omunculo traditore Efialte, uno che pare uscito dallo sgabuzzino di Pulp Fiction. Traditi da questo gobbo di Notre Dame (sgorbio = cattivo), i trecento burini spartani andranno incontro alla bella morte. E sapete che vi dico? CAZZI LORO: tenevo troppo per i persiani, io. 300 è un classico film da polemica davanti a una birra. Per cui stappatevene una e vi dico la mia: io l’ho trovato semplicemente non divertente come mi sarei aspettato e abbastanza fascista come invece previsto. Non così divertente perché noiosetto, senza gran ritmo e perché mi aspettavo più botte e azione, qualcosa che almeno appagasse il mio lato pagano. E fascista invece perché è una lagna continua su onore, rispetto, libertà, “non mi arrendo”, “puntate qui al cuore”, “bello morire così” e via via littoriamente declamando, mancando giusto un rauco “Roma ladrona”. Durante la visione ero così distaccato che in testa resuscitavano nomi che non sentivo dalle scuole medie, tipo Milziade. Ma chi cazzo era Milziade? Era lui che aveva corso fino a Maratona? Ma no, dai, con la milza che scoppia non può essere lui… e Filottete, chi era costui? E poi, scusate: ma i persiani dovevano passare esattamente da lì, da quel cunicolo stretto stretto delle Termopili? Con le migliaia di chilometri di costa della Grecia è quello l’unico punto da cui imbucarsi? Maddai! 300 è un fumettone (Frank Miller, infatti) secondo la peggiore accezione del termine, graficamente elegante (e questo lo apprezzo, ma finisce lì, dopo 10 minuti), completamente irreale, fotografato in toni rossobruni virati appena al seppia e sessualmente ambiguo, cosa che di per sé potrebbe anche essere una qualità. Se non fosse che l’omosessualità latente degli spartani sfugge gaiamente di mano alla regia e palesa il tentativo di nasconderla sotto una virilità tutta proclamata, tipica del fascismo. E invece quella degli avversari è esplicitata, sommandola agli altri buoni motivi per difendersi – in questo scontro di civiltà – da chi viene da Est. In 300 non c’è solo il terrore e l’odio per l’invasore diverso (e storicamente potrebbe anche starci) ma anche il fastidio mal celato per ogni devianza: l’omosessualità non meno dell’invasione culturale, l’imbastardimento dei costumi, il drammatico perdere la limpieza de sangre. E tutto mentre nel mondo reale la stessa cultura che ha prodotto questo film riusciva a distruggere manufatti storici che avevano resistito 3000 anni. Un film come questo, per innovazione tecnica, storia raccontata e battage pubblicitario pervasivo entra nell’immaginario, nel repertorio culturale, specialmente di chi è debole neuronalmente. Eroismo, fratellanza, sacrificio e purezza contro lascivia, malvagità, ricchionaggine, mollezza e infingardia (o come si dirà). È tutto narrato per exempla icastici, esasperati, leggibili immediatamente, com’è nella miglior tradizione epica, ma di 30 secoli fa. E per questo 300 è un film pericoloso. Perché diverte (cioè distoglie, o almeno ci prova e dagli incassi direi che ci riesce) ed è (apparentemente) bello da vedersi. Ora: la vicenda la conosciamo tutti e non avremmo certo potuto sperare in una versione politically correct. Non mi scandalizzano certe deformazioni storiche (che leggo esserci state e in gran copia) anche perché è da quando ho sette anni che so delle Termopili e non me l’hanno mai raccontata in maniera molto diversa. Però qui i persiani diventano addirittura creature bestiali. Nel loro esercito (di schiavi, che in realtà i persiani non avevano mentre a Sparta esistevano eccome) militano anche mostri degni de L’armata delle tenebre. La corte di Serse (conciato come una Priscilla in scala 1 e ½ a 1 e con la voce di Amanda Lear) è popolata di debosciati e suicide girls dalla sensualità putrida in un delirio di intolleranza ripugnante, questa sì. È tutto talmente pacchiano che quando Leonida perde la pazienza – cioè quando ha la forza e la velocità di sferrare il colpo di giavellotto che potrebbe chiudere la vicenda – riesce soltanto a sfregiare l’orrido Serse e a strappargli un piercing sulla guancia, una fallibilità umana che agli occhi della regia ingigantisce ancora di più l’eroismo del personaggio di fronte alla natura bestiale dell’avversario.
Ecco: è grave un film così? Bisogna guardarselo senza menate e sentendosi echeggiare nella testa il memento dell’amico un po’ ciula che ti dice “e fattela ‘na risata”? No: vedo che qualunque mentecatto fascistello, su Facebook e nella vita, trova in questo Better dead than red dei tempi classici una fonte ispirazionale. E vi posso dire? Questa non è Sparta, questa è una pericolosa cazzata. (Dvd; 21/1/12)

909 – Requiem for a Dream di Darren Aronofski, USA 2000
Madre, figlio, ragazza e amico, finiscono tutti malino causa droghe assortite da cui si crede di poter uscire: drogati di tivù, di soldi, di zucchero, di carne rossa, di successo, di visibilità, di sesso, di soldi, di bellezza, di pillole, di coca, di eroina. Perché la droga è una sostanza che altera stato fisico e mentale con conseguenze sulla salute ed è riconosciuta come tale solo in base al contesto sociale, politico e legislativo in cui viene consumata, al di là della gravità degli effetti fisici che comporta. Può sembrare banale ma ce lo dimentichiamo spesso e il film, invece, va dritto al punto. È bellissimo da vedere ma un po’ angosciante da seguire: con pellicole così grafiche, così stilizzate, io ho un problema: non mi scatta la partecipazione. Requiem for A Dream non è compiaciuto ma è anche troppo tirato a lucido per sembrarmi compassionevole, troppo freddo e distaccato, a mio parere. Per cui non lo partecipo, lo subisco. Detto questo, qualche scintilla di vitalità l’ho provata di fronte a Jennifer Connelly, che – anche truccata da drogata marcia, imbruttita dall’abbrutimento – rimane la ragazza più bella di tutti i tempi. Lo era anche in Phenomena, in The Hot Spot, in C’era una volta in America e pure – paffuta nei suoi quindi anni – in quella fetecchia di Labyrinth. E sapete perché? Ma perché è la più bella ragazza di tutti i tempi, stupidi! Quante volte devo ripeterlo? E continuerà a esserlo anche quando avrà 70 anni. E non vi dico il perché, ci potete arrivare da soli. Ciao. (Dvd; 22/1/12)

910 – Una palla al cazzo che non t’immagini: Zathura di Jon Favreau, Usa 2005
Più che Zathura, spazZathura. Buio, noioso, ripetitivo, senza che i protagonisti abbiano un ruolo attivo, subendo invece le bizze di un gioco magico trovato da dei bambini in cantina. E ti chiedi tutto il tempo: “chissà quale sortilegio, chissà quale escamotage”. E invece, niente: il gioco ti proietta nello spazio e son cazzi tuoi. È una sorta di seguito di Jumanji, se non ho capito male, anche se ogni legame col film (e romanzo) è reciso. Anche qui, per salvarsi dal mondo in cui si è proiettati, bisogna giocare e vincere, ma se – per quel che mi riguarda – faceva schifo Jumanji, figuratevi questo. I bimbi protagonisti poi sono simpatici come un herpes e alla fine trovo motivo di soddisfazione solo nel volto scontroso di Kristen Stewart. Film brutterrimo che alle bimbe passa (ma un po’ Sofia si rende conto). Mediamente considerato dai critici (…) e rifiutato dal pubblico, non senza motivo, risultò un flop clamoroso al botteghino, incassando meno della metà del budget speso. Godo. (Dvd; 25/01/12)

911 – L’onesto Brubaker di Stuart Rosenberg, USA 1980
Ah, quel solido cinema anni Settanta, con belle storie, ritmo interno e grandi caratterizzazioni! Brubaker non lo vedevo da oltre vent’anni ed è un film carcerario democratico, non individualista come Fuga da Alcatraz, ed è qui che si misura tutta la distanza tra un Clint Eastwood e un Robert Redford, eh! (Vabbeh, la faccio facile. Ma ci siamo capiti). Il film è riformista come il direttore del carcere di Wakefield in Arkansas, uno che porta l’orologio sulla destra, che prova a cambiare le cose dall’interno, iniettando forzosamente un po’ di democrazia tra i detenuti. Gli concede le elezioni e un consiglio del carcere, li chiama a partecipare. Solo che non funziona, troppi nemici. E anche chi potrebbe essere liberato preferisce rimanere schiavo del sistema e chiamarsi fuori dall’assunzione di responsabilità. E alla fine, questo Brubaker, da che parte sta? È un film velleitario, come viene accusato di essere il suo protagonista, o è un film tragicamente realista, che dimostra l’impossibilità della riforma? Io – da menscevico parolaio, quale alla fin fine sono – mi fido della buona fede del regista e penso a un film sincero, che fa vedere quali siano i problemi. E la scena finale coi carcerieri che salutano l’ormai ex direttore è una commovente concessione alla retorica strazzacore, inverificabile nella realtà, che leggo come un augurio onirico: forse un dì ci arriveremo. Per fortuna da noi non è (ancora) in agenda rendere le carceri delle aziende con un profitto economico in attivo, a qualunque costo, con tutto quello che ne consegue quando è il guadagno la legge suprema (va anche detto che peggio di come son messe, certe nostre carceri, non so se si potrebbe… ma vabbeh). Ma in USA ci pensò quel cercopiteco di Reagan e gli effetti sono stati devastanti, con una popolazione carceraria altissima, a livelli dell’Unione Sovietica di Stalin, e non scherzo, tenuta in parte in detenzione proprio perché fonte di profitto (arresti facili per quisquilie, regime carcerario gestito autonomamente che prevede allungamenti di pena in base a regolamenti interni, condizioni di vita atroci per consentire il guadagno, lavoro sfruttato a pochi centesimi all’ora… Orwell fatto e finito). E il film è profetico nel parlarci anche delle dirigenze del PD con 30 anni di anticipo: riformatori e finti liberali che fanno qualche passetto a favore di telecamera, che incassano interviste e stampa e rendita elettorale e tutto rimane come prima. Robert Redford era all’apice della gloria prima della mummificazione e so solo che quando Brubaker affronta i suoi avversari, questi rispondono come i lettori del Giornale e di Libero. Ma di oggi, non nell’Arkansas degli anni Settanta. (Diretta Iris; 29/1/12)

912 – Più scomoda del previsto, Una poltrona per due di John Landis, USA 1983
Premetto che vedere questo film a febbraio è come festeggiare il Natale a marzo. E rivedendolo – ahi! – lo ritrovo meno scintillante di quanto ricordassi. Però dobbiamo mettere nel conto il mio precoce invecchiamento e le tantissime visioni passate, per cui, facendo la tara, credo che sia ancora il vecchio amato capolavoro, un’adorabile fiaba natalizia aggiornata agli anni Ottanta. C’è la sapienza chirurgica della costruzione e il crescendo inarrestabile, sono tante le situazioni comiche e in generale il ritmo è sostenuto. Stupisce, oggi che tutto è addomesticato, la mancanza di ogni correttezza politica (su neri, handicap, omosessuali) in un film che poi – fatto salvo l’affetto innegabile – ha invece una morale solo apparentemente eversiva, in anni di reaganomics rampante. Quella dei protagonisti (un cialtrone che si arrangia, un ragazzo “bene” ridotto in povertà e una prostituta dal cuore d’oro) è una rivincita contro gli straricchi e avidi Duke & Duke (con Reagan e Nixon in foto sulla scrivania) per arrivare allo stesso risultato: ricchi sfondati con barca ai tropici, sfruttando gli stessi meccanismi economici e senza metterli in discussione. Mah, consueta confusione ideologica yankee! Ma chi sono io per fare la morale? Sono i sensi di colpa televisivi che mi fanno vedere male i film, ecco cosa, mannaggia. Cast eccezionale (Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Denholm Elliott, Don Ameche, Ralph Bellamy e – gulp! – Jamie Lee Curtis) e musica di Elmer Bernstein che saccheggia alcuni classici (riconosco Mozart ed Elgar). Nel mio personalissimo taccuino rilevo anche una marea di parolacce che rendono felici Elena e Sofia e poi una nota amara che rimanda al talento che fu di John Landis. Ma è comunque Natale, dài, SMETTILA. (Dvd; 5/2/12)

913 – I nuovi mostri di Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola, Italia 1977
Questo l’ho visto la prima volta in un alberghetto in Francia nell’autunno del 1994, in una serata in cui avevo beccato anche un film a episodi giapponese che non mi son segnato e che non saprò mai più quale titolo avesse: c’era un tizio in coda in macchina, ingorgato in non so quale tangenziale nipponica, che metteva fine alle sue sofferenze pisciando in una lattina. Se magari qualcuno l’ha visto e mi dice cos’è, mi fa cosa grata, perché vorrei completare il file con tutti i film della mia vita e questo mi manca. Esiste il file, giuro. Vabbeh. Dunque, de I nuovi mostri questa è l’edizione televisiva, più corta di quella per le sale. Ed è un film che non mi era piaciuto granché allora e non mi fa impazzire neanche stasera: lo trovo – come tanto cinema italiano di quegli anni – di un cinismo un po’ ipocrita, che si appoggia a moduli satirici e grotteschi prevedibili e che tenta degli agganci alla realtà quotidiana per sentirsi gggiovani. Ma se avete la pazienza di leggere fino in fondo troverete anche un parziale pentimento tardivo. Scola ha la parte del leone e firma quattro episodi. L’uccellino della Val Padana vede Ugo Tognazzi sfruttare le qualità canore della moglie Orietta Berti, storia ambientata al Picchio Rosso di Formigine dove, di lì a pochi anni, avrebbe cambiato il corso della storia Vasco Rossi. Ma non c’entra niente (però ho il bootleg). Hostaria è una epocale ed esilarante litigata in cucina tra un cuoco (Tognazzi) e un cameriere (Vittorio Gassman), gay e amanti, tutto mentre la clientela radical chic apprezza un cibo di dubbia fattura. In Come una regina Alberto Sordi abbandona la madre in una tremenda casa di riposo privata. L’elogio funebre è probabilmente l’episodio più famoso del lotto, con Albertone senza freni nel ricordare un collega attore, elogio che culmina nel famoso “stocazzo!” che Blob dedicava spesso al giornalista Onofrio Pirrotta, appena morto mentre scrivo e che, invano, aveva tentato di bloccare l’ingiuria più volte riproposta (che ovviamente tutti hanno carognescamente ricordato anche nei coccodrilli dedicatigli). Dino Risi ha la regia di tre episodi. Tantum Ergo è feroce, ma gli yankee lo definirebbero half baked, perché parte bene e poi rimane sospeso, un po’ lì, con un alto prelato che seda con belle e fatue parole la plebe di una parrocchia di periferia aizzata da un giovane e combattivo prete. Con i saluti degli amici è poco più di un’orrenda barzelletta sui siciliani omertosi anche in punto di morte. Senza parole narra un amore fulminante e falso, con sorpresina finale. E mentre lo vedevo continuavo a chiedermi chi fosse il partner mediterraneo della bella hostess Ornella Muti. Ma dove l’ho visto, questo? E quel nome, Yorgo Voyagis… Lo butto su Google e, patapam!, è Giuseppe nel Gesù di Zeffirelli, ecco chi! Però l’episodio… mah. Infine c’è Monicelli che firma solo due storie. La prima è Autostop con di nuovo la Muti, bella e intelligente (e abbastanza cagna, in termini recitativi), uccisa dal maschilista Eros Pagni (orco qualunquista e reazionario che, pur ritenendosi “femminista”, sfrutta il lavoro nero e non esita a sparare non appena si senta in pericolo). Boh: mi sembra poco sincero nella sua schematicità, come a voler accalappiare facilmente un po’ di pubblico giovane. L’altro episodio è Pronto soccorso, che parte da un’idea bellissima: il ritratto di un nobilastro dissoluto, volgarissimo e legato alle gerarchie ecclesiastiche romane, che dovendo soccorrere un morto di fame mostra il suo vero volto: indifferente più che ipocrita, in definitiva letale. Però è tutto talmente grottesco e spinto in avanti che la macchietta dopo un po’ mi risulta insopportabile e l’episodio dura 14 minuti interminabili. Questo Sordi sembra che ci parli dell’Italia del 2012, dove tutto, e il suo contrario, è confluito nel berlusconismo che lecca il culo al Vaticano e fa contemporaneamente partouzes con le ragazzine raccattate da amici equivoci: Giovan Maria Catalan Belmonte è un ricettacolo di confusione lessicale (linguaggio magniloquente e improvvise impennate volgarissime), culturale (il monumento a Mazzini che diventa dedicato a Mussolini) e religiosa (osservante lefevriano senza pietà alcuna). Però l’amara chiusa finale è un anti climax che mi pare non valga lo sviluppo (eterno). Penso tutto questo e poi la collega Alez che vede lontano, certamente più lontano del mio sguardo appannato, mi fa notare come la chiusura a cerchio abbia un preciso e spietato significato. E in effetti ci sta eccome e quello che forse scambio per pigrizia registica e cinismo è una trovata notevole. Ma che faccio ora, riscrivo tutto? No. Continua a non piacermi la forma, ma sul significato (e quindi sul valore ultimo dell’episodio) credo abbia ragione lei. (Dvd; 10/2/12)

914 – Fate la storia senza di me di Mirko Capozzoli, Italia 2011
Fate la storia senza di me è un documentario intenso e a tratti dolente, molto, che racconta la vita e la morte di Alberto Bonvicini, ragazzo torinese che con la sua vicenda attraversa paradigmaticamente gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Però è come se la regia rimanesse a distanza. Perché la materia è densa ed entrare in un’altra vita è difficile e la vita di Bonvicini era difficile assai, da esplorare e soprattutto da vivere. Il rischio era di fare un bignamino sulle tensioni degli anni della contestazione, okay, perché il protagonista ha vissuto sia il dramma dei manicomi – arrivandoci per burocrazia da un orfanotrofio – che quello delle carceri, ha frequentato attivamente il movimentismo giovanile, sfiorato il terrorismo (rifiutato recisamente) e infine è stato vittima della droga e poi dell’Aids. Il Bignami viene evitato, e ha un senso perché si racconta la Vita e non la Storia. Però, qui, sembra che si faccia sempre un passo indietro anche di fronte all’esistenza del protagonista suo malgrado, dedicando un approfondimento solo al famigerato dottor Coda, l’“elettricista”, che seviziava i suoi pazienti a colpi di elettrochoc. È come se la telecamera si ritraesse di fronte al dolore, allo sgomento e anche alla commozione della famiglia adottiva e intellettuale della Torino borghese, che rimane sconvolta da questo ciclone, un ragazzino che a 14 anni ruba una macchina e finisce in carcere minorile, che rimane coinvolto (e poi assolto) nella vicenda agghiacciante dell’Angelo azzurro, che si dissocia da chi stava abbracciando la lotta armata con la fatidica frase “Fate la storia senza di me”, che finisce in carcere con una marea di addebiti poi rivelatisi fasulli e che, lì dentro, diventa eroinomane. Sono belle e interessanti le testimonianze di compagni di strada, in prigionia e nella politica, sfrondate di ogni retorica e molto umane: Albertino cercava solo un po’ di tranquillità. E la troverà finalmente lavorando prima al quotidiano Reporter con Enrico Deaglio e poi in tivù, con Giuliano Ferrara, morendo infine di Aids. Ma la storia di questo ragazzo – che ha lasciato un segno indelebile in tutti quelli che gli son stati amici – è solo sfiorata, delicatamente, narrando in modo ellittico e lasciando la voglia allo spettatore, secondo me troppa. Ma credo sia colpa mia, ché vorrei sempre un film definitivo che non si potrà mai realizzare. (Dvd; 18/2/12)

915 – Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, USA 1988
Ullalà! Nei miei primi anni di vita assieme a Barbara, Roger Rabbit era un film visto e stravisto. Lei possedeva il videoregistratore e questo film era uno dei pochi posseduti in Vhs, un regalo natalizio, immagino. Siccome a casa di Barbara le registrazioni erano sempre qualcosa di stocastico (cassette da 90 minuti per film da due ore, programmazioni sballate, nastri smagnetizzati, titoli messi alla cazzo, film scomparsi nel magma della videocassetta da 4 ore) alla fine ricordo di averlo visto più volte, nonostante le proteste di Barbara che se un film lo vede una volta sola, le basta per sempre (mentre io continuerei a rivedere sempre lo stesso film, possibilmente Novecento). Comunque, per farla breve, lo conosco bene, questo Zemeckis, e lo incontro di nuovo a oltre vent’anni dall’ultima volta. Lo regalo a Sofia che si sente adulta pur non capendo una mazza di questo intrigo molti anni Quaranta, con la cantante sciantosa, l’investigatore privato alcolizzato e questioni di testamenti ed eredità. Ma la commistione tra animazione e attori in carne ed ossa, tra Disney e Spielberg e tra atmosfere noir e commedia, funziona anche per lei, che si diverte, perché non c’è niente da fare: pupe, pistole e cascatoni fan divertire chiunque, e gli americani lo sanno bene. Rivisto, il film è simpatico e denso, più per grandi con le loro memorie da bambini che per bambini stessi. Bravissimi gli attori (su tutti lo straordinario Bob Hoskins), oleografica e convincente la ricostruzione degli USA di metà secolo scorso, straordinarie (per l’epoca, ma ancora validissime) le invenzioni e gli effetti speciali. Il gioco metacinematografico è intelligente (tutto il mondo dei cartoni è utilizzato e affettuosamente parodizzato), i rimandi ironici alla modernità azzeccati (la critica alla civiltà delle autostrade) e il ritmo è indiavolato, come certi cartoni insegnano. In effetti, nel suo campo, trattasi di un piccolo capolavoro. (Dvd; 19/2/12)

916 – Los Cronocrímenes di Nacho Vigalondo, Spagna 2007
Sono solo a casa, temporaneamente abbandonato da tutte le mie donne che provano l’ebbrezza delle nevi. Ho un carico di lavoro pesantissimo e modero il malumore con un film consigliato dall’amico Mauro, sempre raffinato suggeritore, dalla musica brasiliana al cinema con un quid. La tagline di questo film distribuito nel mondo come Timecrimes potrebbe essere pochi soldi, tante idee. E aggiungo: quattro attori, quattro ambientazioni e mille idee di scrittura. Il classico piccolissimo film tutto fosforo dove la mancanza di milioni di euro, di attori di fama e di chissà quali invenzioni tecnologiche non si sente minimamente. La vicenda narra di viaggi nel tempo e detta così sembra che ci sia pure il dottor Enigm. Invece il contesto è il più borghese e innocuo che si possa pensare. Hector (un Toni Servillo iberico e dinamico) è nella sua nuova casa di campagna assieme alla moglie. Guarda al di là del recinto con un binocolo e nota una ragazza che si spoglia. Va a vedere da vicino e un uomo tutto bendato lo ferisce a un braccio. Hector scappa e arriva in un misterioso centro studi, dove l’antitesi visiva dello scienziato pazzo (ma non meno pericoloso) sta facendo degli esperimenti sui viaggi nel tempo. E da lì si rimane prigionieri di un loop temporale ben gestito. Vi dico solo che Hector sarà uno e trino e la vicenda non perde colpi, anzi: alza sempre più la posta in gioco e regge fino alla fine. Bellissimo, nella sua astrusa semplicità: non vi ricordo cosa succede non perché voglia evitarvi spoiler ma proprio perché io, a riassumere trame fantascientifiche con diversi piani della realtà, vado in fusione cerebrale. Comunque: film da vedere, sul serio. (Dvd; 20/2/12)

917 – Chitarromani! It Might Get Loud di Davis Guggenheim, USA 2009
Mi godo l’ultimo giorno di libertà familiare, dedicando un po’ di tempo alla mia passione preferita, la pornografia, e scelgo un film dedicato alla chitarra, quel It Might Get Loud che sembrerebbe il Graal per gli amanti della 6 corde. Ma la chitarra è un paravento neanche troppo occulto, perché qui si parla di creatività, di musica, di rock e di come uno strumento sia esattamente tale, per esprimere ed eventualmente portare al pubblico delle idee. A confronto tre generazioni e tre modi di diversi di essere musicisti. Ci sono: Jimmy Page, la divinità suprema del rock degli anni Settanta; The Edge (chitarrista degli U2), che cresce nella contestazione punk a quel mondo; Jack White, l’ultimo ribelle e inventore, che negli anni Zero ha riportato quelle sonorità nel mainstream, soprattutto grazie all’usurato ma geniale riffone di Seven Nation Army (il po-poppopo-poopoo cantato negli stadi). Si parla di rapporto con la tecnologia, di chitarra come oggetto del desiderio, di tecnica come mezzo e non come fine (non c’è un assolo in tutto il film, uno che sia uno, e non se ne sente minimamente il bisogno): diverse chitarre, diversi modi e diverse capigliature, perché si può essere rockettari anche con un sacco di effetti, un computer e un berrettino sulla pelata, come The Edge. Non c’è un vero sviluppo narrativo, purtroppo, e il film ha un aplomb in palese contraddizione con l’idea di rock che la chitarra suggerisce, ma detto ciò il film si fa vedere: qualche idea è carina (il Jack White adulto che insegna a sé stesso giovane cos’ha imparato crescendo) o lo stesso White che costruisce uno strumento a corda in qualcosa come 5 minuti secchi. Alla fine, però, rimane la sensazione di un elegantissimo lavoro un po’ inerte. (Dvd; 25/2/12)

(Continua – 78)

E’ in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

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