Robert Louis Stevenson – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La nave come scrigno di sogni https://www.carmillaonline.com/2024/07/25/la-nave-come-scrigno-di-sogni/ Thu, 25 Jul 2024 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83588 di Paolo Lago

Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00.

Nel nuovo romanzo di Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, incontriamo due spazi nettamente separati da tutti gli altri: l’isola e la nave. Si tratta di due vere e proprie eterotopie, per usare una definizione coniata da Michel Foucault. Non è un caso che il romanzo rechi come esergo proprio una frase dello studioso francese, tratta dal suo saggio sulle eterotopie: “Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura e la polizia i corsari”. La storia si dipana su un’isola del Mediterraneo del Sud, [...]]]> di Paolo Lago

Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, Giunti, Milano, 2024, pp. 205, euro 14,00.

Nel nuovo romanzo di Marco Marmeggi, L’isola di Medusa, incontriamo due spazi nettamente separati da tutti gli altri: l’isola e la nave. Si tratta di due vere e proprie eterotopie, per usare una definizione coniata da Michel Foucault. Non è un caso che il romanzo rechi come esergo proprio una frase dello studioso francese, tratta dal suo saggio sulle eterotopie: “Nelle civiltà senza battelli i sogni inaridiscono, lo spionaggio rimpiazza l’avventura e la polizia i corsari”. La storia si dipana su un’isola del Mediterraneo del Sud, ispirata a Linosa ma, come scrive l’autore in una nota finale, “non vi è stato alcun tentativo di raccontare un territorio specifico, bensì quello di costruire un’isola fantastica che prendesse spunto da una tra le isole minori italiane più piccole e lontane, in tutti i sensi”. Ci troviamo perciò di fronte a un’isola “fantastica”, che si trasforma in un vero e proprio contenitore di avventura perché il romanzo di Marmeggi si inserisce pienamente nel modo narrativo dell’avventura, oltre che in quello del cosiddetto ‘romanzo di formazione’, perché viene raccontata – appunto – la formazione di due ragazzi, Mimì e Flora, studenti dell’ultimo anno di scuola media. È un romanzo per ragazzi? Sicuramente sì, e dovrebbe figurare anche fra i libri consigliati nelle scuole, ma è anche un libro per tutti e che appassionerà tantissimo i grandi. Bisogna dire che è anche un romanzo antifascista, e oggi, vista la particolare temperie politica che si addensa su questo paese, ce n’è particolarmente bisogno. L’avventura e l’immaginazione, in L’isola di Medusa, diventano degli strumenti di resistenza all’odio e alla violenza che sempre di più circondano la nostra quotidianità.

Mimì e Flora, fin da quando erano bambini, percorrono in lungo e in largo la loro isola a caccia di tesori nascosti, realizzando una mappatura fantastica del territorio, come Jim dell’Isola del tesoro di Stevenson. L’isola è uno spazio eterotopico e fantastico, aperto all’avventura e all’immaginazione, uno spazio che, nella letteratura di tutti i tempi, ha sempre assunto connotazioni utopistiche (basti solo pensare ai Viaggi di Gulliver di Swift o al Robinson Crusoe di Defoe). Però, come già nel precedente romanzo di Marmeggi, Il respiro del dinosauro (qui la recensione su “Carmilla”), lo spazio insulare appare in netta opposizione a quello della nave. Se l’isola si configura come il luogo del controllo, dell’odio nei confronti dello ‘straniero’ portato avanti da alcuni personaggi (nel Respiro del dinosauro, ambientato nel 1929, i portatori d’odio erano proprio dei piccoli fascisti), della fuga continua per sfuggirgli, le navi e le imbarcazioni sono un vero scrigno di sogni, come leggiamo nella frase di Foucault citata in esergo: nelle civiltà senza battello, la mappatura del controllo poliziesco prende il sopravvento, e sostituisce l’immaginario avventuroso di pirati e corsari.

L’isola di Medusa è un romanzo antifascista anche perché mostra due giovani che, con tutte le loro forze, si oppongono all’odio strisciante nei confronti degli stranieri, dei migranti e degli immigrati, un odio che sembra attraversare in lungo e in largo l’Italia contemporanea, a cominciare da un tragico e recente fatto di cronaca – la morte del lavoratore indiano, sfruttato, sottopagato e abbandonato morente come un oggetto dal suo datore di lavoro – per arrivare alle frasi razziste contro ebrei e immigrati ad opera dei giovani ‘meloniani’, come è emerso da un’inchiesta nei giorni scorsi. Durante una delle loro scorribande sull’isola, dopo che il territorio è stato spazzato dalla furia del ciclone Medusa (che viene personificato e tratteggiato come il personaggio mitico da cui trae il nome), Mimì e Flora si imbattono in un giovane migrante africano, Seydou, arrivato clandestinamente a bordo di un peschereccio, e rischieranno anche la vita per aiutarlo a proseguire il suo viaggio. Figure dell’odio sono invece Santuzzo e la sua banda, che girano per l’isola a bordo di un’ape verde militare divertendosi a sparare agli uccelli. Sarà proprio la banda di Santuzzo, xenofoba e violenta, a dare la caccia a Mimì, Flora e Seydou con un feroce pitbull.

Non vorrei rivelare di più sulla trama di questo romanzo: è giusto che il lettore vi si immerga lentamente e scopra volta per volta i risvolti narrativi, anche sorprendenti, che si celano nelle sue pagine. Basti dire che, in maniera nettamente opposta rispetto al territorio dell’isola setacciato dalla banda dei violenti (non meno violenti dei rastrellamenti fascisti di Il respiro del dinosauro), si configura lo spazio navigante, sia esso peschereccio, barca da diporto, nave merci o traghetto. È grazie a un peschereccio che Seydou è arrivato sull’isola, fuggendo agli inferni libici, ed è grazie a esso che riesce a progettare una fuga (come nel film Terraferma di Emanuele Crialese): come quest’ultima si evolverà dovranno scoprirlo i lettori. Il traghetto, poi, per i ragazzini dell’isola, assume i tratti di un universo fantastico in movimento, che li conduce verso le nuove esperienze che la vita spalancherà loro nel continente, dove dovranno recarsi a studiare, lontano dall’isola. Il traghetto è la nave che li fa volare lontano, attraverso i sogni, come il mitico aviatore inglese George Birinchein, figura ispirata al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Vi sarà poi una nave merci, che dovrà portare gli aiuti dopo le devastazioni del ciclone Medusa, che appare veramente come un grande scrigno di salvezza per gli isolani.

La nave – dice Foucault – è “l’eterotopia per eccellenza” che, a partire del XVI secolo, non rappresenta “soltanto il più grande strumento di sviluppo economico […], ma anche la più grande riserva di immaginazione”1. Un’immaginazione che apre percorsi sempre più inesplorati anche alla letteratura ed all’arte, perché senza navi i sogni si inaridiscono e l’odio strisciante di nuovi, territoriali e sovranisti microfascismi rischia di imprigionare le nostre esistenze, nell’immaginario e nella realtà.


  1. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, trad. it. S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 316. 

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Una realtà mutevole: La spiaggia di Falesà di R. L. Stevenson https://www.carmillaonline.com/2024/02/17/una-realta-mutevole-la-spiaggia-di-falesa-di-r-l-stevenson/ Fri, 16 Feb 2024 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81222 di Sergio Cimino

Quando Wiltshire, io narrante della Spiaggia di Falesà, racconto lungo di Robert Louis Stevenson, arriva in prossimità dell’isola su cui dovrà occuparsi dell’emporio della compagnia per la quale lavora, non è né giorno né notte. Già fin dall’incipit il racconto porta uno dei marchi tipici del suo autore: l’impossibilità di un’interpretazione univoca della realtà. L’indeterminatezza del momento, descritta come un limbo dal cielo rosa con una luna che non ha ancora abdicato alla sovranità del cielo e la stella del mattino che brilla come un diamante, conduce Wiltshire a fare la conoscenza dell’isola prima ancora che visivamente, attraverso l’olfatto, [...]]]> di Sergio Cimino

Quando Wiltshire, io narrante della Spiaggia di Falesà, racconto lungo di Robert Louis Stevenson, arriva in prossimità dell’isola su cui dovrà occuparsi dell’emporio della compagnia per la quale lavora, non è né giorno né notte.
Già fin dall’incipit il racconto porta uno dei marchi tipici del suo autore: l’impossibilità di un’interpretazione univoca della realtà.
L’indeterminatezza del momento, descritta come un limbo dal cielo rosa con una luna che non ha ancora abdicato alla sovranità del cielo e la stella del mattino che brilla come un diamante, conduce Wiltshire a fare la conoscenza dell’isola prima ancora che visivamente, attraverso l’olfatto, raggiunto dall’odore pungente della limetta selvatica che lo fa starnutire.
Ad una caratterizzazione netta si sottrae anche, fin dal suo apparire, la figura dell’antagonista del racconto, il mercante Case, che cercherà di portare alla rovina commerciale Wiltshire come già fatto con tutti coloro che l’hanno preceduto.

Anche questo racconto è pienamente ascrivibile alle opere nelle quali maggiormente tangibile è l’approccio dello scrittore scozzese, che, come evidenzia Paola Della Valle nel suo bellissimo saggio Stevenson nel Pacifico, è improntato all’alienazione da sé, alla disposizione all’ascolto e ad un’identità mai stabile ma in continua evoluzione.1
Così Case, pur se stigmatizzato complessivamente per la sua condotta amorale («…e se adesso non è all’inferno, vuol dire che l’inferno non esiste…»), non manca di suscitare in Wiltshire un certo entusiasmo per l’abilità mostrata nei più diversi frangenti e persino per la sua diabolica capacità di elaborare piani criminosi.
Proprio uno di questi piani introduce il personaggio di Uma, donna dichiarata tabù dalla comunità dell’isola e che Case fa sposare all’ignaro Wiltshire per determinarne il fallimento commerciale attraverso l’ostracismo degli indigeni.
La rilevanza che progressivamente assume Uma nel racconto, in un modo non forzato ma naturale, riassume bene l’atteggiamento di Stevenson verso i popoli colonizzati. La sua impostazione si distacca dalla letteratura tradizionale sui mari del sud che aveva come scopo la legittimazione culturale del colonialismo, visto come missione civilizzatrice di quei popoli. Ma si differenzia anche dalla vuota mitizzazione e idealizzazione, che enfatizzano la purezza degli indigeni, i quali però alla fine vengono mostrati bisognosi di una guida razionale che può essere fornita solo dal colonizzatore.
Anche per Uma il percorso che porta il lettore a fare la sua conoscenza ricalca il sentiero zigzagante di Stevenson nell’avvicinarsi alla complessità del reale.
La prima apparizione di Uma è accompagnata da un segno sensuale. Vediamo ed in parte immaginiamo le sue forme attraverso la camicia bagnata incollata al corpo. Poi affondiamo nella tenerezza dell’innocenza, mentre osserviamo il viso un po’ allungato, la fronte alta e lo sguardo timido, strano, indefinito, un misto tra quello di un gatto e quello di un bambino.
La sua figura successivamente inizia a prendere consistenza, con Uma che mostra una dignità di sposa che punge dolorosamente la coscienza di Wiltshire per il matrimonio fasullo che la ragazza ignora, non staccandosi mai dal certificato di matrimonio come se fosse un lasciapassare per il Paradiso.
L’approccio antidogmatico di Stevenson e il rifiuto delle certezze inossidabili si manifesta anche in senso dinamico. Così Wiltshire che all’inizio del racconto non nasconde aspetti della classica mentalità del colonialista, convinto della propria superiorità sugli indigeni, mostrerà nello sviluppo della storia un cambiamento interiore che intaccherà persino il credo religioso più potente dell’ondata civilizzatrice occidentale: la sacralità del profitto. In tal senso, dopo aver scoperto il brutto tiro giocatogli da Case e il tabù che grava su Uma, mostrerà di essere consapevole che l’amore per lei supera l’interesse commerciale, spingendolo a far celebrare un matrimonio regolare dal missionario.

Ma Stevenson va oltre. Uma non è solamente la sposa indigena meritevole, il che ne farebbe già una sorta di eccezione nel panorama letterario di fine Ottocento. Non è racchiudibile in un recinto per quanto dignitoso.
Uma è una donna che spariglia le carte, capace di rompere gli schemi e di sorprendere sia Wiltshire che noi lettori, già indirizzati verso l’epilogo della storia.
Dopo aver scoperto che Case riesce a tenere soggiogati gli indigeni grazie a fantocci e manufatti costruiti nella parte dell’isola che si dice infestata dagli spiriti malvagi, dei quali egli mostra di poter governare ed indirizzare le forze maligne, Wiltshire decide di andare alla resa dei conti con il proposito di eliminare il mercante e di distruggere la sua costruzione orrorifica.
Quando tutto sembra incanalato verso un finale tutto maschile, ecco che l’aiuto arriva da una diavolessa, proprio una di quelle di cui raccontano le leggende degli indigeni, che altri non è che Uma travestita, la quale, pur ancora timorosa, si è lasciata guidare dalle necessità pratiche, dopo aver ascoltato il sodale di Case e aver intuito il pericolo corso dal marito. E per non far mancare il continuo sgretolamento delle facili certezze, questo aiuto provvidenziale vestito diabolicamente, arriva poco dopo le riflessioni di Wiltshire, il quale durante l’attesa del nemico nella boscaglia oscura pervasa da sinistri rumori, dichiara di non aver paura di Case, ma delle creature mostruose narrate dagli indigeni.
Nel finale scopriamo che Wiltshire non ha coronato il sogno di aprire una locanda in madrepatria grazie ai guadagni della sua attività commerciale. Ha preferito restare sull’isola. Un po’ come il suo creatore, che visse gli ultimi anni della sua vita, in perfetta simbiosi con l’isola di Upola, la maggiore delle Samoa, dove è sepolto, e dove, come è scritto nell’epitaffio, sotto il cielo ampio e stellato egli giace dove desiderava essere.


  1. Cfr. Paola Della Valle, Stevenson nel Pacifico, una lettura postcoloniale, Aracne Editrice, 2013. La Della Valle fa risalire questa attitudine dello scrittore al contesto familiare, nel quale Stevenson svilupperebbe, secondo le coordinate lacaniane, una soggettività eccentrica, nel senso di fuori dal centro, con un conseguente bisogno dell’altro per diventare sé. 

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Uno spazio mitico antifascista e resistente https://www.carmillaonline.com/2023/12/19/uno-spazio-mitico-antifascista-e-resistente/ Tue, 19 Dec 2023 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80452 di Paolo Lago

Marco Marmeggi, Il respiro del dinosauro. Fuga da Lipari, Giunti, Milano, 2023, pp. 252, euro 16,00.

L’isola, in letteratura, ha spesso assunto connotazioni utopistiche e fantastiche, anche in virtù di essere uno spazio nettamente separato dal resto del mondo: basti pensare all’isola di Circe del racconto omerico o a quella volante di Laputa, dove si reca il protagonista dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, episodio che ispirerà Hayao Miyazaki per un suo lungometraggio del 1986. Più di un secolo dopo, Guido Gozzano, in una poesia che a sua volta ispirerà Guccini per un suo album del 1970, [...]]]> di Paolo Lago

Marco Marmeggi, Il respiro del dinosauro. Fuga da Lipari, Giunti, Milano, 2023, pp. 252, euro 16,00.

L’isola, in letteratura, ha spesso assunto connotazioni utopistiche e fantastiche, anche in virtù di essere uno spazio nettamente separato dal resto del mondo: basti pensare all’isola di Circe del racconto omerico o a quella volante di Laputa, dove si reca il protagonista dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, episodio che ispirerà Hayao Miyazaki per un suo lungometraggio del 1986. Più di un secolo dopo, Guido Gozzano, in una poesia che a sua volta ispirerà Guccini per un suo album del 1970, canterà “l’Isola non trovata” che “si annuncia col profumo, come una cortigiana” e che “rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro, color di lontananza”. L’isola è però sia un’utopia che un’eterotopia, per usare un termine coniato da Michel Foucault: come già accennato, si tratta di uno spazio completamente separato da ciò che lo circonda, che vive di per sé, con regole proprie, regolato da un tempo che è diverso da quello ‘normale’ e quotidiano. Uno spazio circondato dal mare, un’azzurra distesa solcata dalle navi che, secondo il filosofo francese, sono altri esempi perfetti di eterotopie, scrigni di sogni e d’avventura che fanno varcare inesplorati confini all’immaginazione. Il mare affascina ma, fin dai tempi antichi, inquieta anche, e terribilmente, poiché è simbolo di perdita del sé e perfino di follia: è il “liquido grondante” – per citare ancora Foucault – che si oppone alla “rocciosa ragione”.

L’isola come eterotopia e come spazio utopico nonché il mare come “un territorio ingannevole e meraviglioso” li incontriamo nel recente romanzo di Marco Marmeggi, Il respiro del dinosauro. Fuga da Lipari. Negli ultimi momenti narrativi, il protagonista Michele, un bambino di dieci anni che vive a Lipari, riflette sulla spazialità dell’isola:

L’isola era una condizione geografica su cui non aveva mai riflettuto, ma, si accorse, aveva caratteristiche uniche che la rendevano qualcosa di diverso dai paesi della costa. Cercò la sintesi di quel pensiero e stabilì che il centro della questione fosse determinato proprio dal mare che lui amava tanto.
Un territorio ingannevole e meraviglioso. Definiva i confini con precisione, ma quella linea era così grande ed estesa da ingannare chiunque. Il mare illudeva di poter vedere lontano, ma in realtà costringeva la gente dell’isola a guardarsi le spalle, verso la terra, l’unica in grado di promettere qualcosa che loro potevano realizzare davvero.

Ma nel romanzo di Marmeggi c’è molto di più: lo spazio eterotopico dell’isola di Lipari si riveste di connotazioni resistenti perché la storia è ritagliata all’interno di un tempo storico ben preciso. Siamo nel 1929 e a Lipari si trovano confinati molti oppositori del regime fascista. Fra di essi c’è anche Emilio Lussu, chiamato nel romanzo “l’onorevole” o, dall’ottica di Michele, “il signor Emilio”, che sta progettando la sua rocambolesca fuga insieme ad altri antifascisti di spicco come Carlo Rosselli e Francesco Nitti. L’incontro con Lussu segnerà per sempre l’esistenza del piccolo protagonista che maturerà idee di libertà in netta opposizione con gli ideali e le violenze fasciste.

Se la figura del politico e intellettuale antifascista al confino ci può far venire in mente diverse opere della letteratura italiana del Dopoguerra (ricordiamo soltanto Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi), il romanzo di Marmeggi, come il mare che circonda l’isola, si apre però verso i liberi territori dell’immaginazione per cui l’Emilio Lussu che ci viene raccontato è sì il personaggio storico ma appare rivestito di connotazioni quasi fantastiche. Lussu e gli altri antifascisti confinati diventano il simbolo di un immaginario resistente che attraversa qualsiasi epoca storicamente definita. Si potrebbe pensare, allora, agli antifascisti confinati a Ventotene che ci racconta Wu Ming 1 in La macchina del vento (2019), in cui la spazialità dell’isola si trasforma in una vera e propria fantastica eterotopia di resistenza. La figura di Lussu, guardata dal piccolo Michele, assume quasi le connotazioni di un antico eroe, un coraggioso cavaliere che si batte per la libertà. E allora non può che trasformarsi in un esempio da seguire, tenace, saggio e coraggioso maestro di libertà. Infatti, il romanzo mette in scena una vera e propria formazione: Michele, grazie al “signor Emilio” e a Bruna, una ragazzina di Parma che si trova a Lipari perché figlia di un altro oppositore del regime, raggiunge una sua autonoma presa di coscienza chiaramente antifascista. Il respiro del dinosauro è perciò anche un romanzo da far leggere nelle scuole, capace di liberare un immaginario resistente più che mai necessario in questa contingenza sociale e politica in cui, dagli stessi detentori del potere, viene attaccata e stigmatizzata qualsiasi esistente e viva ‘diversità’ non conforme ad una presunta ed inesistente ‘italianità’.

La Lipari raccontata da Marmeggi assume perciò anche connotazioni utopistiche, come un territorio incantato. È lo spazio di sogno in cui un ragazzino compie le sue prime scoperte e comincia il suo difficile percorso di formazione. Ma se Arturo, il protagonista de L’isola di Arturo (1957) di Elsa Morante, vive in un mondo incantato dominato dalla figura di un padre che, in maniera deludente, non rispecchia le mitiche aspettative del suo sguardo fanciullo, Michele (forse allora più simile al Pin del Sentiero dei nidi di ragno di Calvino) è segnato dalla lontananza del padre, anch’egli antifascista, emigrato in Australia e, soprattutto, dalle figure del “signor Emilio” e di Bruna, nei confronti della quale prova un’attrazione alla quale cerca di dare il nome di amicizia. Sullo sfondo, Lipari è uno spazio al contempo ‘mitico’ e realistico: è mitico, perché nella magia dei suoi tramonti, nel freddo pungente di un inverno segnato addirittura da una nevicata, nelle sere d’estate sul mare e nel brullo entroterra, è reso appunto magico dallo sguardo sognante del protagonista, immerso in un’infanzia che si sta mutando in adolescenza; è realistico perché attraversato dalla violenza tangibile del regime, coi miliziani che fanno la guardia ai confinati che non sono poi tanto diversi dai detenuti (non dimentichiamo che lo stesso spazio isolano si configura allora anche come un carcere a cielo aperto), le violenze feroci e gratuite (come l’uccisione di un cane e il pestaggio del detenuto che di esso si prendeva cura), gli slogan urlati di una roboante e prepotente ideologia che trovano una sintesi perfetta nel personaggio di “Testa di Legno”, un bambino figlio di un personaggio di spicco del regime, raffigurazione del perfetto fascista in erba (un personaggio che inevitabilmente assume anche connotazioni buffe e ridicole).

Comunque, rispetto alle crude connotazioni realistiche, la Lipari del romanzo sembra attraversata da un alone di magia e di mistero, tanto più se pensiamo che nell’immaginazione di Michele assume le connotazioni di un gigantesco essere vivente, un enorme dinosauro appunto, di cui il personaggio riesce a percepire il “respiro”. L’isola, nel travestimento sognante attuato dallo sguardo di Michele, è anche il territorio fantastico dell’avventura poiché su di esso, forse, è nascosto il “tesoro della Bella Diana” che cercherà insieme a “Testa di Legno” e a un “bambino dalla maglietta bianca” il quale, proprio grazie a Michele, maturerà anch’egli un ideale antifascista. Lo sguardo dell’autore, allora, pare rivolto a un filone avventuroso che definire semplicemente ‘per ragazzi’ sarebbe un errore: mi riferisco in particolare all’Isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson.

Però, in fin dei conti, Michele si rende conto che “il tesoro della Bella Diana” è soltanto un inganno ben architettato nel quale può cascare solo un sempliciotto ottuso come “Testa di Legno”. Piuttosto che cercare il tesoro, allora, è ben più importante correre al porto, nella notte estiva, per aiutare il “signor Emilio” nel suo piano di fuga (i cui dettagli certamente qui non intendo svelare). Rispetto alla pura e fantasiosa utopia del tesoro, Michele sceglie un’altra utopia che ha radici ben solide e reali: la lotta e la resistenza al fascismo. Ed è così che matura e cresce la sua progressiva presa di coscienza: la Storia penetra nell’universo incantato del mito. Anche se Michele continuerà a vivere nello spazio utopistico e mitico dell’isola, sarà una vita segnata dalla consapevolezza e da un irrefrenabile desiderio di capire sé stesso e la realtà sociale e politica che lo circonda. Insieme ad un altrettanto irrefrenabile desiderio di libertà.

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Esperienze estetiche fondamentali / 9: Dr Jekyll, Mr Hyde e Herr Wittfogel nella Baghdad occidentale, più basiti che perplessi https://www.carmillaonline.com/2023/10/02/esperienze-estetiche-fondamentali-9-dr-jekyll-mr-hyde-e-herr-wittfogel-nella-baghdad-occidentale-piu-basiti-che-perplessi/ Mon, 02 Oct 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78856 di Diego Gabutti

Guardala, eccola in lontananza, l’Asia, l’Asia profonda al punto che ti viene da tremare al pensiero di quanto sia vicina a Mosca. (Vasilij Golovanov, Verso le rovine di Čevengur)

Ricordo benissimo in che occasione mi sono procurato Il dispotismo orientale di Wittfogel. Fu a Firenze nell’estate del 1971: era l’ammezzato d’una grande libreria del centro (adesso me ne sfugge il nome, e chissà se esiste ancora). Ma proprio non saprei dire dov’ero (e quand’ero) il giorno in cui mi è capitata per le mani la prima copia dello [...]]]> di Diego Gabutti

Guardala, eccola in lontananza, l’Asia, l’Asia profonda al punto che ti viene da tremare al pensiero di quanto sia vicina a Mosca. (Vasilij Golovanov, Verso le rovine di Čevengur)

Ricordo benissimo in che occasione mi sono procurato Il dispotismo orientale di Wittfogel. Fu a Firenze nell’estate del 1971: era l’ammezzato d’una grande libreria del centro (adesso me ne sfugge il nome, e chissà se esiste ancora). Ma proprio non saprei dire dov’ero (e quand’ero) il giorno in cui mi è capitata per le mani la prima copia dello Strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson (The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, 1886). Troppe versioni ne ho lette e palpate nell’altro secolo e in questo. Non so neanche se la prima volta ho letto il romanzo oppure un fumetto ispirato al romanzo (allora ne circolavano parecchi, alcuni molto belli, e ne appaiono di nuovi anche adesso) o se non era piuttosto un’«edizione ridotta» del libro (buona l’ultima, credo, ma chi lo sa). Sempre che il mio primo contatto col romanzo di Stevenson non sia stato né il romanzo né il fumetto, ma il film del 1941 con Ingrid Bergman (la bella) e Spencer Tracy (il dottore impasticcato).

Ai tempi, quando la televisione era ancora una mezza novità, Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, regia di Victor Fleming, candidato all’Oscar per la migliore fotografia black and white, passava spesso «sul piccolo schermo», come si diceva una volta, prima che gli schermi diventassero piccolissimi, tipo l’iPhone, o più piccoli ancora, come il mio primo iPod, che aveva uno schermo non più grande d’un francobollo (eppure io ci ho visto Ghostbusters, Lawrence d’Arabia e le tre stagioni della serie classica di Star Trek mentre marciavo sullo stepper, in palestra, macinando chilometri su chilometri senza mai arrivare da nessuna parte né togliermi mai dal punto). Immagino che, rivisto oggi, quel vecchio film babau sembrerebbe ridicolo (tutti quei peli, e quei denti, e il cilindro, le ghette) ma all’epoca mi aveva impressionato, da tenere la luce accesa sul comodino.

Solo Le sei mogli di Barbablù, quando passò in tv più o meno negli stessi anni di Jekill e Hyde, m’aveva spaventato di più: le povere soubrette da scannare, Totò sospeso sulle vasche piene d’acido, un Tino Buazzelli mannaro. Per anni, dopo aver visto le Le sei mogli di Barbablù, girato nel 1950 da Anton Giulio Bragaglia, regista nonché futurista della vecchia guardia, la faccia storta del Principe De Curtis mi è sembrata più agghiacciante di quella del Joker. Totò veniva inseguito da Aldo Fabrizi in Guardie e ladri, oppure finiva tra gli esistenzialisti capresi in Totò a colori, e io pensavo che al posto degli esistenzialisti con la mossetta ambigua e l’erre moscia, o di Aldo Fabrizi in divisa XXXL da questurino, mi sarei ben guardato dal frequentare Totò, il cui sorriso sghembo e scardinato, che ai babbani poteva sembrare buffo, era in realtà un rictus satanico, una smorfia loffia. Totò aveva due anime, pensavo io. Era un attore comico, ma anche un mostro.

Avevo capito niente. Prima di tutto, e a ciascuno il suo, il mostro era Buazzelli e non Totò. E poi, anche se allora non lo sapevo e lo capisco soltanto ora, stavo confondendo Totò con Spencer Tracy, Isa Barzizza con Ingrid Bergman. Era Tracy, e non Totò, ad avere due anime.

Stevenson, col suo apologo sulla location del bene e del male, aveva riscritto la Bibbia: non Caino e Abele ma Caino-Abele. Siamo stati creati doppi, con due anime, una luminosa, l’altra no. È questo che raccontava Lo strano caso. Stevenson non aveva ancora finito d’enunciare il suo filosofema che già era storia vecchia, neanche l’avessimo sempre saputo. E non lo sapevamo, qualunque cosa ci dicessimo dopo averlo letto.

Adesso so che cosa mi piace dello Strano caso, e quel che mi piace c’entra poco col romanzo ma c’entra con l’idea che me sono fatto dopo averci almanaccato su. Alcuni non hanno orecchio per la musica o per la poesia. Io non ho orecchio per la musica, per la poesia e per il romanzo gotico. È più forte di me: le storie de paura mi fanno paura. Mi agito nel letto, senza trovare sonno, dopo aver visto L’esorcista (e persino L’esorciccio) o dopo aver letto Frankenstein e Il miglio verde di Stephen King. Mai visto un serial di zombie, nemmeno i trailer. M’impressionano, e così li evito, i film sulla Shoah – compreso Schindler’s List, di cui tutti dicono un gran bene – e confesso di non avere mai letto, sempre per non sognarmelo di notte, Se questo è un uomo. Ci sono libri sul Gulag o sulle imprese d’ayatollah, talebani e alqaedisti di cui salto intere pagine. Appena qualcuno viene arso vivo o decollato io mi teletrasporto qualche capoverso più in là. Ma Lo strano caso non è voyeurismo. È una metafora illuminante. Ergo non può essere facilmente scansata. Stevenson ne fu il profeta.

Al pari della felicità, che secondo Saint-Just era un’idea nuova in Europa, anche la natura doppia dell’homo era un’idea nuova, forse non particolarmente felice, però nuova, o abbastanza nuova, almeno in quella forma estrema. Non era la prima volta, infatti, che ricorrendo al concetto di doppiezza i filosofi s’affannavano a spiegare le difficoltà (Adorno, un ragazzo snob, le chiamava «aporie») nelle quali s’imbatte il pensiero quando gli si para di fronte qualcosa d’inspiegabile, «l’orrore! l’orrore» con cui si chiude Cuore di tenebra, la banalità del male di Hannah Arendt, Lee Marvin nell’Uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford, qualcosa insomma che fa disperare dell’umana natura, e che dà i brividi persino a chi non se ne aspetta niente di buono. Metti Iago nell’Otello di Shakespeare, metti Barbablù-Buazzelli nel film di Totò. Oppure metti il totalitarismo moderno, metti Gengis Khan, metti i terrificanti sistemi sociali d’India e Cina, oppure metti l’Unione Sovietica, come fa Karl August Wittfogel quando s’interroga sulla piega che, dopo il golpe dei bolscevichi a Pietroburgo, fino a poco prima San Pietroburgo e subito dopo Leningrado, hanno preso gli eventi, e prova a spiegarsi su quali radici prosperano le catastrofi sociali. Ma Lo strano caso era una primizia. Era cioè la prima volta che la natura doppia della natura umana, il segreto dei segreti, cioè che gli umanesimi e i disumanesimi sono (disilludiamoci) la même chose o poco ci manca, trovava il suo avatar, la sua icona o meglio, per così dire. la sua zazzera d’Albert Einstein, o di Che Guevara: Jekyll-Hyde. C’era già stato Giano, vero, ma Giano non era «bifronte» per via d’una doppia personalità, una altruista e l’altra bastarda, ma perché una delle sue facce era rivolta al passato, l’altra al futuro, tutt’altra partita.

Unde malum? Unde Hyde?
Questo era il problema che illustrava (e a cui dava risposta, una risposta pop, gotica e moralistica) Robert Louis Stevenson, che giusto tre anni prima, nel 1883, aveva pubblicato L’isola del tesoro, dove il pirata Long John Silver, gamba di legno, un pappagallo sulla spalla, la stampella, era già una specie di Jekyll-Hyde, probo o infame secondo estro e convenienza. Perché Hyde? Perché Long John Silver? Da dove arrivano costoro? Chi li ha mandati? Arimane, il dio malvagio? E Ahura Mazdā, il dio buono… lui niente, lascia fare? Führer, Duci, Godzilla, Padrini e Gruppi Wagner, Segretari Generali? Com’è che ci sono i cattivi? Perché la fetta di pane cade sempre dalla parte imburrata? La verità, vi prego, su odio, vizio e «orrore! orrore!»

Stevenson ha un’intuizione da feuilleton, diventata col tempo e l’evoluzione dei media per l’intrattenimento un’intuizione da fumetto: il male siamo noi, ce l’abbiamo dentro, e basta molto poco per far emergere il lato oscuro, un beverone, le corna, una crisi economica, insomma l’occasione che fa l’uomo peccatore. A scatenare Hyde contro Jekyll, originando il gran conflitto metafisico, può essere un trauma, come dirà poi Sigmund Freud, o anche solo una botta in testa, come capita a Pippo nei fumetti, e allora il socio di Topolino cambia carattere, da scemo diventa un’aquila, da tamarro un intellò, era generoso e simpatico, ed eccolo avaro e gretto. Questa intuizione ha, volendo, anche un suo bel risvolto teologico, perché è evidente che, se Pippo è un intelligentone come Hulk è Bruce Banner, allora nessuno può fingere stupore, tant’è vero che nessuno lo fa, se salta fuori che Ahura Mazdā è Arimane, l’Alto il Basso e la Luce Tenebra. Nessuno come i nerd, niente come la cultura pop, ha mai preso così sul serio gnostici, manichei, albigesi e dolciniani (vedi, per dire, Il nome della rosa).

Nella cultura pop del Novecento Jekyll-Hyde ha avuto più imitazioni della Settimana Enigmistica: il turista tedesco di Morte a Venezia che sembra un tranquillo compositore e invece, «Two-Face» nelle storie di Batman, lo stesso Batman cavaliere oscuro e naturalmente anche tutti gli altri supereroi in maschera con i loro poteri misteriosi e le loro identità segrete, lì a dimostrare che abbiamo tutti qualcosa da nascondere (Flash e Lanterna Verde, Paperinik, il barista qui sotto, tutt’e quattro i Fantastici Quattro). Per non parlare del Sosia di Dostoevskij, col suo spirito beffardo e distruttore, o di Darth Vader nell’interminabile ciclo di Star Wars, che in gioventù era la speranza dei Cavalieri Jedi, forse il Prescelto medesimo, maiuscola e tutto, e che poi si trasforma nel monumento a cavallo del Lato Oscuro, di nuovo maiuscole e tutto. Sappiamo come Hyde si manifesta, così come sappiamo che per lui ogni occasione per far danni è buona, ma non sappiamo altro, la sua natura è fumosa, imprecisa, scontornata come le sequenze sfuggenti e disallineate dei sogni, le sue motivazioni arcane.

Mr. Hyde, il lato oscuro, «non è facile a descriversi», dice Stevenson dando espressaione alla difficoltà (o all’aporia) di descriverlo. «C’è qualcosa che non va nella sua fisionomia; qualcosa di sgradevole, qualcosa d’assolutamente detestabile. Non avevo mai visto un uomo che mi ripugnasse quanto Hyde mi ripugnava eppure non so neanche come mai. Deve avere un che di deforme: dà una forte impressione di deformità, benché mi sia impossibile specificarne la natura. È un tipo assolutamente fuori dal comune, eppure non saprei indicare niente d’insolito. No, signore, niente da fare… non riesco a descriverlo. E non per un vuoto di memoria; vi posso assicurare, infatti, che ce l’ho davanti agli occhi anche in questo momento».

Non sappiamo a quali leggi risponda, donde arrivi, né che aspetto precisamente abbia, perché soltanto l’Hyde cinematografico è sempre dotato di caratteristiche inconfondibili in tutte le sue multiple manifestazioni: le zanne à la Friedrich March, che fu Hyde nel film di Rouben Mamoulian dieci anni prima di Spencer Tracy, la mascella sbieca di Totò, Jerry Lewis senz’ombra di trucco da lupo cattivo nelle Folli notti del dottor Jerryl. Non sappiamo, semplicemente, a che scopo il fantasma di Mr Hyde infesti il nostro DNA, ma che il gene hydiano ci sia, questo sì, lo sappiamo. Evidentemente, in un lontano passato, tra gli ominidi o prima ancora, tra nostri antenati anche più remoti e pre-scimmieschi, quando persino l’albero delle banane era ancora nel mondo della luna, agire da orchi ha rappresentato un vantaggio evolutivo. È per questa via che si è fissato, come un post-it diabolista, nel nostro codice genetico.

Per capire il perché e il percome d’un tale fenomeno evolutivo ci vorrebbe la macchina del tempo di H.G. Wells. Così come sta la faccenda, e fin quando non si potrà viaggiare indietro negli anni, ci dovremo accontentare d’un feuilleton del 1886 e dei suoi derivati cinematografici e fumettistici. Ma sulle macchine del tempo, se posso aprire qui con permesso una parentesi, non farei nessun conto: gli scienziati dubitano che ce ne sarà mai una, ahinoi, e avanzano quale prova ontologica dell’impossibilità di muoversi attraverso il tempo l’affaire del Golgota, nel senso che se viaggiare nel tempo fosse possibile allora i viaggiatori nel tempo si dirigerebbero-dirigeranno-sarebbero diretti tutti lì, sotto le croci, a farsi i selfie con Barabba e Longino, e ci sarebbe – last but not least, ultimo ma non meno importante – anche un Vangelo secondo H.G. Wells. Ma c’è un romanzo di Poul Anderson – Tempo verrà, in originale There Will Be Time, e forse ci torniamo – in cui sul Golgota, confusi tra la folla, ci sono effettivamente parecchi crononauti, tutti ben camuffati, niente AppleWatch al polso, nessuno con lo smartphone o con gli occhiali scuri. Uno dei viaggiatori si rivolge al protagonista del romanzo: «Es tu peregrinator temporis?»

Ammesso che non si possa viaggiare nel tempo, ok, non importa, consoliamoci, va bene lo stesso, che ci sono macchine del tempo a vapore: le biblioteche, i musei e la fantasia romanzesca degli storici, per venire finalmente a Karl August Wittfogel, che tuttavia non fu semplicemente uno storico, anzi fu ben altro che uno storico. Fu allo stesso tempo storico, filosofo e sociologo. Ce n’era di gente così a cavallo tra l’Otto e il Novecento. Anche Marx era uno di costoro: la storia è storia delle lotte di classe, uno spettro s’aggira per l’Europa, finem historiae, il comunismo primitivo, roba kolossal. Un altro era Oswald Spengler: l’Occidente al tramonto, la danza e contraddanza delle civiltà. C’era poi Johann Jakob Bachofen, giurista e antropologo, oltre che storico: decretò ab origine una società matriarcale, da cui le moderne società patriarcali derivano, frutto di preistorici tumulti «men-lib». Non dimentichiamo Freud, appena citato: ribattezzata l’anima «inconscio», ne fece una barretta di pongo plasmata dai palpeggi delle esperienze traumatiche, e con l’inconscio tutto acquistava senso, lo stesso senso, dall’edificazione delle piramidi al motto di spirito, dai sogni al sorriso della Gioconda.

Erano filosofi, costoro e costruttori di cattedrali. Ce sono ancora, anche oggi, di simili pensatori in cinerama che proiettano le loro elaborate e barocche teorie fantasy su vasti – tra loro dissimili, e spesso (per non dire sempre) incompatibili – schermi accademici. Sono pensatori senza rete. Con un solo sguardo, e una sola idea fissa, abbracciano ogni orizzonte e spiegano ogni cosa. Ma sono talenti sempre più rari, e nessuno vale i primi della specie. Altro, e molto peggio, che viaggiatori nel tempo: il tempo sono loro.

Quanto a me, personalmente sono un fan di questi pifferai di Hammelin del piffero (ci vuole poco, come dimostrano queste pagine, a incantarmi). Si può capire che mi appassioni allo strano caso illustrato da R.L. Stevenson. Ma cosa ci trovi, onestamente parlando, in Karl August Wittfogel, teorico grossier, prosatore noioso? Ci trovo, ci trovo. In primis l’enormità.

Raccolgo queste opere monumentali e talvolta le apro a caso, come faceva Betteredge – il maggiordomo della Pietra di luna (The Moonstone) di Wilkie Collins, un romanzo del 1868 – con La vita e le avventure di Robinson Crusoe, che consultava come l’I Ching, per aprirsi la strada a colpi di machete attraverso la giungla dei giorni. Più in piccolo, io cerco le citazioni di cui sono goloso, sia per hobby sia per lavoro (fossi un porco, non le chiamerei citazioni ma perle, che per l’uso che ne faccio siamo lì). In queste opere, oltre alle seduzioni spicciole, dico le frasi tirabaci, da biscotto della fortuna, colleziono e ammiro le visioni iperboliche, i concetti spropositati, che svettano alte come grattacieli, o minacciose come mulini a vento agli occhi dell’hidalgo, sulle culture del loro tempo, negandole ed esaltandole insieme.

Wittfogel, lui, cominciò da drammaturgo nel primo dopoguerra. Fu membro del KPD, il partito comunista tedesco, quando il comunismo poteva sembrare ancora un’avventura (ma chi aveva la testa sul collo sapeva perfettamente che già non lo era più, e che anzi non lo era mai stata). Prese in fretta le distanze. Comunista di sinistra, conseguì un dottorato in sinologia. Rimanendo sempre un drammaturgo, e sempre sedotto dall’idea che cambiare il mondo poteva essere, chissà, «la più grande delle avventure», come la morte secondo Peter Pan, Wittfogel aderì alla Scuola di Francoforte intanto che scopriva l’Asia e il suo enigma. Perché libertà e diritto in Asia non facevano problema? Perché i khanati? Perché il modo di produzione asiatico, come l’aveva battezzato Marx, non funzionava in maniera razionale ma era un affare curvo, gobbo, sadomaso: schiavitù, lavoro servile, la frusta, le caste, il bushido, la pelata e i colori di guerra di Marlon Brando-Kurtz in Apocalypse Now, poi l’occhio torvo di Martin Sheen che emerge dalle acque del Mekong e (aritanga) «l’orrore! l’orrore!»

Wittfogel comprese che, dopo la prima, per numerare così la natura umana, era doppia anche la seconda natura, quella sociale, e che le comunità umane potevano essere distanti tra loro quanto Jekyll e Hyde. Già lo sapevano i greci, che una cosa sono le libere assemblee, un’altra i Gulag e le mandrie umane, una cosa l’Oriente, tutt’altra l’Occidente, di là Putin e noi di qua. Capì questo da comunista di sinistra: aveva visto avanzare Hyde in Occidente, prima via Comintern e movimenti operai filobolscevichi, poi via Wehrmacht, SS ed Einsatzgruppen a caccia di giudei. Era in corso l’ennesimo tentativo d’invasione, l’Orda d’Oro, i Turchi a Vienna, oggi Putin nel Donbass. Eravamo di nuovo lì, pensò forse Wittfogel (di sicuro non saprei, mica c’ero, ma lo credo). Eccoci, pensò, di nuovo a un passo dalle Termopili, minacciati dal Grande Re, come sempre deciso a estendere il suo Impero, infettandoci con la peste del suo modello sociale.

Quel vale per Jekyll, sempre sotto il bando di Hyde, vale anche per le società aperte, a loro volta minacciate da brutti e cattivi, dai fondamentalismi religiosi, sociali e socialreligiosi. Wittfogel lo sapeva, come lo sapeva Stevenson, ma lo sappiamo, per istinto, anche tutti noi: la possibilità della catastrofe ci scorre nel sangue, e semina memi ideologicamente mortali nelle nostre culture, specie le più progressiste, dove si nascondono meglio, agghindate da retto pensiero, woke, politically correct.

È a questo, d’altra parte, che servono le metafore: ad aprire gli occhi quando le cose si fanno confuse. Mai state così confuse, a memoria d’uomo e d’elefante, come nella seconda parte del secolo breve, che caduto il comunismo avrebbe dovuto chiudersi lì, bon, la storia è finita, ma che invece s’allunga nel XXI secolo, alimentandosi di social, guerre sante, cancel culture, brutti film, talk show. Non so se le metafore, oggi, possono erigere barricate abbastanza alte da scoraggiare gl’Imperi dell’Acqua, come li descrive (ma è un’altra storia) Wittofogel, e da esorcizzare le mattane cannibali di Mr. Hyde.

Circolano, temo, pochi libri giusti, e con giusti non intendo i buoni autori né i buoni titoli, ma i formati, le edizioni giuste. Quand’ero bambino, negli anni cinquanta e primi sessanta, c’erano collane specializzate nelle edizioni ridotte dei classici della letteratura: Taras Bulba, I viaggi di Gulliver, Tartarino, Senza famiglia, Pel di carota, L’ultimo dei Mohicani, I miserabili, Il piccolo Lord, Moby Dick, Ivanhoe, Il giro del mondo in ottanta giorni, I ragazzi della Via Paal, Zanna bianca, David Copperfield, Le avventure di Tom Sawyer. Erano libretti smilzi, facilmente leggibili, tirati un po’ via, qualche incertezza sui congiuntivi ma niente fuffa letteraria. Da passarci in perfetto relax pomeriggi interi. Erano edizioni Bemporad, o Bemporad-Marzocco, se ricordo bene, ma di sicuro ce n’erano anche altre edizioni che mi sono scordato. Erano stampati su cartaccia. Costavano due lire, oppure li potevi prendere a prestito, se eri un bambino buono, dalle biblioteche di classe, all’epoca molto fornite (dagli stessi scolaretti, che mettevano qualche loro libro a disposizione). Io ne avevo per casa pile alte mezzo metro da terra. C’erano, ricordo di preciso, anche le edizioni ridotte di tutti o quasi tutti (non so) i romanzi d’Emilio Salgàri, che non ho mai capito se mi piacesse o no, ma più no che sì. Epurato dall’aggettivazione troppo esclamativa, ripulito, igienizzato, sfrondato della prosopopea da osteria, Salgari ci guadagnava parecchio. C’era qualcosa di doppio, a pensarci, anche in lui, per tornare da dove siamo partiti una o due digressioni fa: Emilio Jekyll era uno scrittore che anelava a rispettabilità e quieto vivere, mentre Emilio Hyde anelava ai bagordi esotici e i suoi personaggi erano tutti killer e massacratori.

Fumetti e film a parte, è certamente in edizione ridotta – su qualche panchina ai giardinetti di Piazza Cavour, a Torino, o in qualche viale alberato di Alassio, o Diano Marina, nelle lunghe estati dell’Italia miracolata dal boom – che ho letto per la prima volta il romanzo di Stevenson. Avrei letto volentieri e con profitto, sempre in edizione ridotta, anche Il dispotismo orientale del professor Wittfogel, se qualcuno avesse provveduto a metterne in commercio una sintesi per piccoli bibliomani, ma niente, Bemporad o Bemporad-Marzocco non ci hanno mai pensato, e così m’è toccato spiluccare poche pagine qua e là (teleportandomi spesso da un capitolo all’altro) parecchi anni dopo, scoraggiato dall’impianto troppo dottoreggiante. Non so cosa ne avrei concluso, riguardo a nature prime e seconde, ma qualche bislacca idea da nerd sociologico mi sarebbe venuta.

Tutti parlavano malissimo, e lo fanno ancora, pomposi e incompetenti, delle edizioni ridotte, rovina dei giovani, e oggi infatti non se ne scrivono né se ne ristampano più. Ci sono, in compenso, edizioni per giovani e giovanissimi con su la scritta in caratteri boriosi e soddisfatti «edizione integrale». Fai e fai, i ridottofobi hanno ottenuto quel che volevano: che nessuno dai sei anni in su sappia più leggere niente di buono o di utile, e soprattutto niente di più complicato di Gianni Rodari. Vien da piangere a leggere i titoli dei libri che la scuola consiglia ai bambini. Ne citerei qualcuno, come per esempio Gli adoratori del ragù d’alga, o Le mitiche avventure di Capitan Mutanda, ma mi viene il magone e rinuncio.

Abolito il mercato delle edizioni ridotte dal piano quinquennale delle edizioni integrali e dei libriminchia, perché non consigliare ai giovani la lettura di buoni, solidi fumetti, diciamo Tex Willer, ranger e capo navajo? A me da bambino, quando cioè avrei dovuto leggerlo come facevano tutti, m’era un po’ sfuggito. Conoscevo in pratica giusto i primi dieci-dodici volumetti, da La mano rossa al Figlio di Tex. Avrei rimediato a New York, quattro o cinque anni fa. Era primavera, e niente, dice Meg Ryan in C’è posta per te, «è come New York in primavera». Avevo scaricato sull’iPad, prima di partire, l’intera collezione di Tex, 600 volumetti e più, e me li lessi tutti, dal primo all’ultimo, dove vivevo, nella 98th, e sulle panchine del Central Park. Un pomeriggio, mentre leggevo Tex Willer, Danny Aiello (o qualcuno che gli somigliava molto) sedette nella panchina accanto alla mia.

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“Io capitano”: morfologia di una fiaba vera https://www.carmillaonline.com/2023/09/25/io-capitano-morfologia-di-una-fiaba-vera/ Mon, 25 Sep 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79179 di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare [...]]]> di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare mondo poetico e creativo. Per cui, non posso certo essere d’accordo con alcune recensioni uscite nei giorni scorsi che lo criticano per mancanza di verosimiglianza, definendolo addirittura un “falso storico”, definizione che nasce da un delirio allo stato puro nonché da una ignoranza pressoché totale dell’intera opera dell’autore. Chi pretende verosimiglianza ad ogni costo crede anche che su temi scottanti come migrazioni, guerre, disastri, distruzioni, omicidi efferati non si possa che lavorare in maniera ‘neorealista’ o documentaria. L’interpretazione fiabesca o fantastica di tali fenomeni, in molti casi (compreso quello in questione), non induce davvero a una inutile spettacolarizzazione o a gratuiti estetismi ma serve a edulcorare, per mezzo del linguaggio artistico, fenomeni spesso difficili da raccontare. Mi viene in mente la trasposizione fiabesca realizzata da Fabrizio De André con La canzone di Marinella: come dichiarò il cantautore, quella sua fiaba messa in musica derivava da un fatto di cronaca nera relativo all’uccisione di una giovane prostituta scaraventata in un fiume. Compito dell’arte è anche questo: sublimare, creare metafore, visioni, spazi incantati liberi e resistenti. In tema di migrazione possiamo ricordare il delicato Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film che racconta con tono fiabesco e visionario l’avventura del piccolo Idrissa, arrivato nel porto francese come migrante clandestino in un container.

Il più importante tema ‘garroniano’ – se così si può dire – presente nel film è quello della crescita e della formazione. Il giovane Seydou (Seydou Sarr), dal Senegal, vuole intraprendere una migrazione verso l’Europa che si trasforma in un viaggio di formazione irto di pericoli. Il film non ha la pretesa di raccontare documentaristicamente i viaggi dei migranti verso la Libia ma di narrare l’avventura personale di Seydou, assimilabile quasi a un nuovo Pinocchio che vuole scappare di casa per compiere il suo viaggio scendendo negli inferi della coscienza. Non si dimentichi che Garrone è l’autore di una versione cinematografica (2019) del celebre romanzo di Collodi, versione in cui importanti sono appunto i temi della crescita e della formazione, del corpo e del suo mutamento (si veda la metamorfosi in asino e i risvolti più fisici e dolorosi che ne derivano, come lo scricchiolio delle ossa che sentiamo durante la trasformazione). Il mutamento del corpo, coi suoi dolorosi e angoscianti risvolti, nel cinema di Garrone è poi presente in Primo amore (2004), in cui il personaggio di Sonia, interpretato da Michela Cescon, martirizza il proprio corpo dimagrendo fino all’anoressia per assecondare le ossessioni di Vittorio (uno strepitoso Vitaliano Trevisan). Seydou scende negli inferi delle prigioni libiche, laddove il corpo viene ferito e martoriato, legato e appeso con lacci di cuoio durante le torture (anche in questo caso avvertiamo il ‘perturbante’ suono dei lacci che stringono). Il film racconta la fiaba vera di Seydou, una fiaba che rimanda in forma allusiva all’atroce e cruda realtà che i migranti africani sono costretti ad affrontare per arrivare in Europa. D’altra parte, è lo stesso Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, a ricordarci, in un’altra sua opera – Le radici storiche dei racconti di fate – che le fiabe non nascono certo dal nulla ma possiedono un sostrato storico ben radicato nella realtà sociale delle popolazioni che le creano.

Seydou e suo cugino Moussa, interpretato da Moustapha Fall (insieme al quale il ragazzo vuole intraprendere il viaggio), a Dakar, si recano presso un anziano riparatore di televisori il quale sconsiglia i due giovani dall’intraprendere il viaggio perché andranno sicuramente incontro alla morte, dal momento che lui stesso lo ha intrapreso e ha incontrato solo morte e sofferenze. Non è un caso che l’uomo appaia circondato di vecchi televisori, sui quali sta lavorando, che rappresentano un lembo malato di quell’Europa che i giovani vogliono raggiungere e che, appunto con i suoi strumenti mediatici, attira tanti africani desiderosi di ricostruirsi una vita. Ma quegli strumenti appaiono adesso come vuote scatole inerti, marchingegni fossilizzati in una funebre inutilità, contenitori di falsità abbrutenti, latori della civiltà occidentale e consumistica. Se l’Europa per l’anziano senegalese è un luogo di morte, così sono morti anche quegli oggetti che lo circondano, simbolo dei fasti promessi dalla ricca società del capitalismo. Seydou e Moussa però non captano i messaggi della ricca Europa tramite quei vecchi e inutili involucri, bensì con il loro smartphone; il musicista Seydou, allora, arriva a creare dal nulla una canzone composta da brevi frasi giunte via internet attraverso il telefonino. Si tratta però di frasi tristi (“perché non mi chiami più?”, “Dove sei?”, “perché mi hai lasciato?”), segno che quella stessa Europa, alla fine, non è il paese di Bengodi ma è attraversata anch’essa dalla solitudine e dal dolore.

Intraprendere un viaggio difficile, che può mettere a repentaglio la stessa vita, possiede risvolti attinenti alla sfera del sacro, ed è così che i due ragazzi, prima di partire, si recano presso uno sciamano. Visitano anche un vecchio cimitero nel quale riposano i loro antenati perché per partire è necessario avere, in un certo senso, la loro ‘benedizione’. Vicino al cimitero svettano degli alberi che si muovono al vento e sembrano quasi impersonare antiche e quiete divinità che ondeggiano per proteggere i due giovani: si potrebbe pensare alla rappresentazione delle Furie, destinate a trasformarsi in Eumenidi, cioè in “benevole”, negli Appunti per un’Orestiade africana (1969) di Pier Paolo Pasolini, mostrate dal regista sotto la forma di alberi. Anche nel documentario di Pasolini, perciò, sono presenti diversi elementi di finzione dal carattere ‘fiabesco’ e immaginativo. A fianco di alcuni documenti filmici dell’epoca, anche molto crudi, relativi a uccisioni e massacri, Pasolini effettua in diversi momenti del suo film delle scelte antirealistiche, immagini che mostrano in forma allusiva la difficile situazione dei paesi africani della fine degli anni sessanta.

Il racconto fiabesco di Garrone apre a dei momenti di resistenza che sembrano confermare il verso di Hölderlin che recita, più o meno, “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il viaggio nel deserto mostra spazialità sconfinate care al cinema di Garrone: spazialità che sembrano quasi inghiottire i personaggi; si può pensare, allora, al già citato Pinocchio ma anche agli sfondi di Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) che, in alcuni casi, inglobano e annichiliscono le figure umane oppure, ancora, alle periferie di Roma solcate dal ‘canaro’ Marcello (Marcello Fonte) in Dogman (2018), spazi che sembrano inchiodare il personaggio al suo triste destino. Ma appunto, in questo spazio annichilente e assassino, Seydou incontra dei momenti incantati che sembrano allontanarlo dalla disperazione. Non potendo fare niente per salvare un’altra migrante che morirà di stenti nel deserto, il ragazzo immagina di farla volteggiare in una levitazione semplicemente tenendola per mano: il dolore, la morte e la disperazione vengono sublimati ma certo non spariscono. Si potrebbe pensare a certi momenti incantati di Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica, momenti che salvano i personaggi dalla dura realtà che li circonda, la povertà, le faide, la microcriminalità e la violenza diffusa. La scena della levitazione è una via di fuga dal dolore, un momento di resistenza in cui si può essere liberi e, appunto, resistere alle afflizioni e ai dolori inflitti ai più poveri dalla società basata sull’accumulo di capitale. In modo non troppo diverso, i migranti siciliani di Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, durante il terribile viaggio di terza classe sul piroscafo (costruito come una grande scenografia teatrale) che li conduce a New York, si immaginano squarci incantati che restituiscono loro la dignità e la libertà sottratte da un sistema malato e meschino che offre agi e possibilità soltanto ai ricchi.

Un’altra spazialità che ingloba i personaggi è quella del mare: uno spazio “liscio”, secondo l’analisi di Deleuze e Guattari, che l’egemonia dell’Occidente ha sempre cercato di ‘striare’, di sottoporre, cioè, alle griglie del controllo. La ‘striatura’ del mare emerge nelle inquadrature che mostrano il passaggio del peschereccio guidato da Seydou vicino a delle gigantesche piattaforme petrolifere: se dapprima i migranti, vedendo delle luci, credono di aver finalmente raggiunto la terra, si rendono successivamente conto di trovarsi di fronte a delle costruzioni mostruose a cui non sanno bene dare un nome. È l’egemonia dell’Occidente, lo sfruttamento capitalistico del petrolio che erige quei mostri, un interesse economico che produce sempre nuove ricchezze a scapito dei “dannati della terra”, per utilizzare un termine di Frantz Fanon. Qui, la fiaba diviene dura realtà: pur apparendo, in immagini dalla forte impronta visionaria, come delle costruzioni mostruose, quelle piattaforme sono reali. In una fiaba, forse, i migranti avrebbero incontrato delle navi da crociera predisposte dagli stessi stati occidentali per accoglierli invece di lasciarli morire in mare. Dagli spazi ‘striati’ reali, invece, è impossibile aspettarsi qualcosa che non sia puramente dettato dagli interessi economici.

Il film si chiude con un grido: Seydou, giunto in prossimità delle coste della Sicilia, urla le parole che danno il titolo al film, “Io capitano”. Parole urlate che entrano in conflitto con il suono ossessivo e meccanico delle pale di un elicottero della Guardia di Finanza che si staglia sul peschereccio dei migranti. Sì, è vero, l’elicottero li trarrà in salvo ma poi verranno rinchiusi in un CPT e magari espatriati; nella fiaba vera raccontata da Garrone, il peschereccio sarebbe probabilmente arrivato sano e salvo fino alla costa (quando, invece, nella dura realtà, molte imbarcazioni fanno naufragio). Il rumore dell’elicottero è il rumore dello spazio “striato” che si contrappone alle spazialità “lisce” e “nomadi” da cui i migranti provengono: è il suono del potere, del controllo, del respingimento. È il suono dell’egemonia occidentale che costruisce le piattaforme petrolifere e costringe molti giovani africani ad affrontare la morte nei loro terribili viaggi. Il grido di Seydou (“sono io il capitano”) è lanciato anche contro la finta costruzione mediatica occidentale del mito dello scafista, figura che in realtà non esiste. Non sono certo i trafficanti di esseri umani a mettersi alla guida delle barche ma i migranti stessi, arruolati dalla manovalanza inviata dai trafficanti di alto bordo, i quali magari se ne stanno tranquilli nei loro palazzi del potere. Il cosiddetto “scafista” è un mito mediatico che serve a spostare l’attenzione dal mancato salvataggio di esseri umani ad opera delle istituzioni verso la criminalizzazione di una figura da utilizzare come capro espiatorio. Seydou non fugge, accetta fino in fondo la sua responsabilità di essere il “capitano”, parola che, se ci pensiamo bene, rimanda ancora una volta ad un universo favolistico e avventuroso ed entra in contrasto con la costruzione mediatica dello “scafista”: il giovane, infatti, grida forte il suo rifiuto di essere inquadrato in un ruolo preconfezionato dal perbenismo occidentale, da un potere che non si assume le proprie responsabilità di fronte al fenomeno contemporaneo delle migrazioni. “No, non sono uno scafista” – dice Seydou, “sono un capitano”, parola che sembra uscire da un mondo letterario e incantato, fatto di storie di mare, dei romanzi di Conrad e di Stevenson, dei capitani delle navi pirata e di quelli “coraggiosi” di Kipling.

Seydou, urlando di essere il capitano, innalza il suo immaginario coraggioso, libero e resistente contro il suono granitico del controllo, del potere che lo vorrebbe imprigionare nel ruolo anonimo e indefinito del ‘diverso’, dell’“immigrato” o dello “scafista”. Nella fiaba vera raccontata da Garrone, Seydou è diventato – parafrasando i versi di William Ernest Henley ripetuti come un mantra da Nelson Mandela durante la sua prigionia – il “padrone del suo destino”, “il capitano della sua anima”. E nessun potere e nessun controllo, mai, lo potrà fermare.

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Il patto col demonio prima di Faust https://www.carmillaonline.com/2017/01/03/il-patto-col-demonio-prima-di-faust/ Mon, 02 Jan 2017 23:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34987 di Gioacchino Toni

cover_antenati-faustAlfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 10,00

L’interessante saggio di Alfonso D’Agostino tratta le narrazioni dei patti che gli esseri umani stringono con il maligno – per sete di conoscenza, di potere, di ricchezza o di sesso – nella letteratura medioevale. Si tratta di uno studio di tipo letterario su un tema antropologicamente significativo concentrato sui tipi narrativi che anticipano la comparsa di Faust. Ad essere prese in esame sono fondamentalmente la letteratura latina [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_antenati-faustAlfonso D’Agostino, Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 10,00

L’interessante saggio di Alfonso D’Agostino tratta le narrazioni dei patti che gli esseri umani stringono con il maligno – per sete di conoscenza, di potere, di ricchezza o di sesso – nella letteratura medioevale. Si tratta di uno studio di tipo letterario su un tema antropologicamente significativo concentrato sui tipi narrativi che anticipano la comparsa di Faust. Ad essere prese in esame sono fondamentalmente la letteratura latina medievale e le letterature romanze dell’Età di Mezzo, pur non mancando riferimenti ad alcuni testi in altre lingue (es. greco) e di altri periodi (es. il teatro barocco).

A tale scopo l’autore, docente di Filologia romanza presso l’Università degli Studi di Milano, passa in rassegna tanto capolavori letterari – come Cantigas de Santa María di Alfonso X, Miracoli di Gautier de Coinci, Miracolo di Teofilo di Rutebeuf, Conde Lucanor di Juan Manuel, Libro de buen amor di Juan Ruiz, El mágico prodigioso di Calderón de la Barca… – quanto testi che, pur affrontando la tematica indagata, risultano di minore qualità letteraria.

The Tragical History of Doctor Faustus (ca. 1590) di Marlowe e Faust (1808) di Goethe hanno reso la vicenda di Faust “il patto col demonio per antonomasia” generando una miriade di varianti successive. D’Agostino sottolinea come la creazione di Marlowe, sicuramente debitrice di una lunga tradizione medievale, riesca a dar vita, «sulla base di una struttura testuale dai tratti fantastici, a un complesso sistema di potenzialità che avrebbe incrociato alcuni dei temi più scottanti della riflessione filosofica e dell’ispirazione artistica presenti e futuri. In primo luogo, la meditazione etica sulla scienza (da un lato) e le teorie dell’Uebermensch (ossia del Superuomo, dall’altro) assimilano a volte scienziati folli (o “stregoni”) e superuomini a Faust novelli, innescando non di rado procedimenti narrativi come quello fantascientifico degli universi paralleli o quello moral-metafisico del Doppelgänger (la figura del “doppio”). Ma […] anche la passione amorosa, il denaro e la volontà di potenza sono rappresentati sovente come daimones (spiriti, guide od ossessioni semi-divine) in grado di soggiogare l’animo umano. E nelle metamorfosi del tema s’inseriscono pure le tensioni polari fra libero arbitrio e necessità, fra titanismo e melancolia, fra pentimento e conversione» (p. 10).

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1. Un mago conduce Teofilo presso il diavolo che gli consegna un cartiglio con un sigillo: il patto è siglato – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

L’autore, nell’accennare agli esempi di patti col demonio moderni meglio riusciti indica The Bottle Imp (Il diavolo nella bottiglia, 1893) di Robert Louis Stevenson, l’incompiuto Master i Margarita (Il Maestro e Margherita, ante 1940) di Michail Bulgakov, Doktor Faustus (1947) di Thomas Mann, Mulata de Tal (Mulatta senza nome, 1963) di Miguel Ángel Asturias, oltre ad alcune opere che “affrontano o sfiorano” il patto diabolico, come The Picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray, 1890) di Oscar Wilde e The Monkey’s Paw (La zampa di scimmia, 1902) di William W. Jacobs.

D’Agostino opera una distinzione fra creature demoniache non-umane ed esseri umani che intrattengono rapporti col demonio, dunque in grado di stipulare accordi con esso. È di quest’ultima categoria che si occupa il saggio, sebbene le stesse creature demoniache a cui fa riferimento la prima tipologia possono risultare dalla trasformazione subita da esseri umani votati al male (es. i dibbuk della tradizione ebraica o il “principe impalatore” che diviene Dracula).

Altra distinzione esplicitata dall’autore è fra le narrazioni che trattano un vero e proprio patto col maligno e quelle in cui interviene il demonio, come nel caso del tema dell’alleato del diavolo o dei “figli di Satana”.

Un racconto che intende rappresentare il patto col demonio deve esplicitare come esso si sviluppi in una sua sequenza narrativa. Patti tra esseri umani e dèi sono presenti nella mitologia greca e latina o nella tradizione pagana ma, sostiene l’autore, non si trovano miti o vicende assimilabili al patto di tipo faustiano. È solo con l’aprirsi dell’era cristiana che si sviluppa tale tematica; la stessa interpretazione del serpente dell’Eden (Genesi) come demonio avviene in epoca decisamente posteriore.

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2. Grazie al patto demoniaco Teofilo entra in possesso di ingenti ricchezze – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Nel suo studio D’Agostino, sulla falsariga di quanto fatto da Adolfo Mussafia a fine Ottocento con le novelle del Libro dei Sette Sapienti, distingue i diversi tipi di patto col diavolo indicandoli con un lemma latino, anche se il più delle volte i testi propongono contaminazioni tra tipi diversi. I principali lemmi individuati e proposti dall’autore sono: Servus, Theophilus, Gerbertus, Fur, Uxor, Abnegatio e Cyprianus.

A questi sette aggiunge altri nove “tipi minori” di patto col diavolo, poco studiati, a cui l’autore attribuisce un lemma provvisorio: Visio, Sosia, Triplicatio, Mater, Columba, Hostia, Marinus, Raptus, Odium.

Oltre a soffermarsi sullo studio dei tipi principali di patto ed una successiva più sommaria trattazione dei minori, il saggio affronta anche alcuni “tipi affini”, ove il protagonista nello stringere un patto col diavolo, anziché se stesso, gli offre la moglie od il figlio. Tali tipi affini vengono così indicati dallo studioso: Substitutio, Robertus ed Oblatus.

Passando in rassegna i sette tipi principali di patto col demonio, con il lemma Servus l’autore indica il patto di Proterio, servo di Felladio, contenuto nella Vita Sancti Basilii Caesareae Cappadociae Archiepiscopi (prototipo greco del V-VI sec) ove si ritrovano tanto gli attanti base (essere umano e diavolo ed oggetto del patto) che gli elementi facoltativi (intermediario, documento e sabba).

Con il lemma Theophilus si fa riferimento alla leggenda di Teofilo giunto a noi in forma scritta in greco da Eutychianos verso il 661 ove «il patto è descritto in tutta la sua ampiezza, con la “doppia conversione” del protagonista, lo stato di necessità, l’intermediario satanico, il sabba, il documento (che a un certo punto della metamorfosi del racconto sarà firmato col sangue dell’apostata), il rito di sottomissione, il pentimento, la preghiera alla Vergine e così via. Da risaltare la promozione del culto mariano e, al tempo stesso, l’evidente antisemitismo» (pp. 26-27). A tale tipo appartiene il Miracle de Theophile di Rutebeuf (sec. XIII).

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3. Teofilo si pente e prega la Vergine Maria – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

A proposito del terzo tipo di patto medievale, indicato con il lemma Gerbertus, l’autore riprende la leggenda relativa a Gerberto d’Aurillac, papa Silvestro II (m. 1003), di cui vengono ricordati tanto gli studi di Arturo Graf (di fine Ottocento) quanto quelli di Massimo Oldoni (di fine Novecento). A partire dall’analisi del racconto di Walter Map, l’autore individua tra i caratteri specifici del Gerbertus: «la complessità dei moventi (l’erotismo si aggiunge alla passione per la scienza e al desiderio di potenza); la posizione ambigua del protagonista, che, contro il mònito biblico, pare in realtà voler servire due padroni; la sostanziale mancanza degli elementi “secondari”, come l’intermediario e il sabba; e il profilo tutto particolare del demonio, che risulta o poco determinato (come nella vicenda maggioritariamente ripetuta dalla tradizione) o al contrario fortemente virato nei colori della mitologia celtica» (p. 34). Il racconto di Walter Map introduce il personaggio del “diavolo-servitore” che è originariamente un folletto servizievole, animato da intenzioni più o meno buone che conduce al personaggio di Mefistofele.

La storia del ladro (spesso un ricco caduto in povertà) che stipula un patto col demonio al fine di poter rubare impunemente rappresenta il quarto tipo fondamentale di patto indicato dallo studioso con il lemma Fur. Tra gli esempi più importanti il saggio indica una novella del Conde Lucanor di Juan Manuel e un racconto del Libro de buen amor di Juan Ruiz, entrambi spagnoli e databili attorno agli anni Trenta del XIV secolo. A proposito del primo esempio D’Agostino sottolinea l’abilità nell’uso della “sospensione d’animo” (suspense) ed il ricorso ad un tempo della narrazione dilatato o contratto in maniera inversamente proporzionale al tempo del narrato.

Con il lemma Uxor viene indicato il quinto tipo di patto. Si tratta di un tipo scarsamente usato e può essere identificato da un exemplum raccolto da Klapper ove si narra di una donna che, maltrattata dal marito, ricorre ai consigli di un’anziana che al fine di farle riconquistare l’amore del marito coinvolge il demonio che impone alla donna il sacrificio dell’unico figlio e di rinnegare Cristo e i santi. Nonostante la sottomissione al volere del demonio la donna continua ad essere maltrattata dal marito ed il racconto termina con il pentimento al cospetto di un sacerdote della peccatrice che ottiene così il perdono. Abbiamo dunque il peccatore, l’intermediario, il demonio, l’abiura (con infanticidio), il pentimento e la redenzione. Oltre a ciò compare la figura del sosia, visto che il diavolo compare alla donna sotto le spoglie del marito.

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4. La Vergine Maria sconfigge il demonio facendogli vomitare il cartiglio con il patto – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Con Abnegatio viene indicato il sesto tipo di patto che, sottolinea D’Agostino, «va considerato a parte, dato che in verità il patto col diavolo non giunge quasi mai a perfezionarsi, perché il peccatore, disposto a rinnegare Dio e i santi, si rifiuta di fare lo stesso nei confronti della Madonna» (pp. 45-46). Probabilmente la prima espressione latina di tale tipologia è rappresentata dal Dialogus miraculorum di Cesario di Heisterbach ma lo studioso preferisce «presentare il racconto, con parole di Angelo Monteverdi, secondo il testo dello Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavanti, che peraltro segue l’Alphabetum narrationum di Arnoldo da Liegi, il quale a sua volta si ispira proprio a Cesario» (p. 47).

Il settimo tipo di patto viene indicato con il lemma Cyprianus. In questo viene fatto riferimento alla leggenda di San Cipriano del IV secolo anche se nella sua forma originaria manca l’apostasia. Si deve attendere qualche tempo affinché la vicenda si accosti al tema faustiano: «la piena adesione dell’exemplum ciprianeo al patto col diavolo si ha con gli sviluppi moderni del tema, che raggiungono il punto più elevato nel dramma di Calderón de la Barca, El mágico prodigioso» (p. 61).
Al tipo di patto definito Cyprianus nel saggio viene accostata la vicenda di Antemio e di Maria di Antiochia ove si rintracciano diversi tratti tipici come il movente passionale, l’intermediario, l’abiura, il documento scritto, l’incontro notturno col demonio, la processione… Si tratta comunque di un caso particolare visto che il peccatore pentito non riesce a rientrare in possesso della scrittura, resta dubbia la salvazione ed Antemio viene palesemente descritto con tratti diabolici prima del patto stipulato col demonio. Nonostante tale racconto si allontani da Cyprianus anche perché «il protagonista non è un mago (prima) né un martire (dopo)» (p. 66), vi sono elementi, come il movente passionale, la magia ed i ripetuti tentativi di seduzione della ragazza che lo possono accostare a tale tipologia.

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5. Teofilo si salva – Taymouth Hours (Inghilterra, prima metà del XIV secolo), British Library, Londra

Circa gli “altri tipi” di patto, con il lemma Visio l’autore si riferisce ad un peccatore che reso omaggio al demonio e consegnatogli un documento firmato col sangue ha una visione del suo giudizio. Con il lemma Sosia nel saggio viene fatto riferimento in particolare alla storia di un cavaliere che stipula un patto col demonio impegnandosi a non prestare ascolto ad una predica, a non farsi il segno della croce e ad evitare di entrare in chiesa. Convinto da alcuni amici il cavaliere entra in chiesa e, dopo che il diavolo, prendendo le sue sembianze, litiga coi vicini, il cavaliere decide di confessarsi. Con il lemma Triplicatio si rimanda alla storia di un uomo che per divenire ricco accetta di sottomettersi al diavolo a condizione che questi gli appaia tre volte prima della morte. Dopo che il demonio gli è apparso tre volte – non riconosciuto – sotto le sembianze di un povero, nella quarta apparizione il travestimento viene svelato e, nonostante le proteste, il demonio se lo porta all’inferno. Nel caso del Mater viene fatto riferimento alle vicende di un figlio che con la sua penitenza libera la madre – che aveva stretto un patto col maligno – dalle pene infernali. Con il lemma Columba il riferimento è alle vicende di un monaco che verrà perdonato dopo aver rinnegato il battesimo e Gesù per poter prendere in sposa la figlia di un sacerdote pagano. A proposito del tipo indicato con Hostia D’Agostino rimanda al patto non riuscito dell’exemplum del negromante di Magdeburgo nella raccolta di Klapper, mentre un altro patto non riuscito è nell’assempro 25 di Filippo degli Agazzari definito dallo studioso con il lemma Marinus dal nome del protagonista. Al XXXIX assempro di Filippo degli Agazzari è accostabile anche un originale racconto di Giovanni Sercambi in cui il protagonista «distilla odio allo stato puro» (p. 78) e per tale motivo viene lemmatizzo Odium.

Relativamente ai “tipi affini”, con Substitutio viene fatto riferimento al «miracolo della Madonna in cui Maria sostituisce la moglie ceduta al demonio» (p. 3) a partire dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze (storia ripresa, con qualche variazione nel Dit du povre chevalier di Jean de Saint-Quentin). Con il lemma Robertus ci si riferisce alla tipologia in cui è la prole ad essere offerta al maligno, mentre con Oblatus si prende in esame la storia di un fanciullo consacrato al demonio la cui prima redazione pare essere quella di un testo latino pubblicato da Mussafia simile a quello di Vincenzo di Beauvais, a cui ricorre Gautier de Coinci nel miracle intitolato Dou jovencel que li dyables ravi, mais il ne le pot tenir contre Nostre Dame.

 

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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