rivoluzione russa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura /1: Asia ribelle 1900-1930 https://www.carmillaonline.com/2024/11/13/la-rivoluzione-come-avventura-1-asia-ribelle-1900-1930/ Wed, 13 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85272 di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare [...]]]> di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare il cambiamento sociale.

Così la serie di articoli che ha inizio con la presente recensione del bellissimo testo di Tim Harper, per i motivi suddetti ed altri ancora, vuole costituire per chi scrive, oltre che la ricostruzione di momenti storici particolarmente significativi e convulsi dal punto di vista socio-politico e militare, ancora una volta un omaggio sia al genio letterario di Emilio Salgari che a quello politico dell’amico e compagno di riflessione teorica Emilio Quadrelli, recentemente scomparso.

Il primo per la gran mole di libri avventurosi prodotti, in cui il tratto anticoloniale e antimperialista si accompagnava, sia che si trattasse dei romanzi del ciclo del Borneo e della Malesia che di quelli ambientati nelle Filippine durante la guerra ispano-americana del 1898 oppure di quelli dei fuggiaschi dalle prigioni siberiane dello zarismo o, ancora, ambientati sulle grandi pianure del West durante le guerre indiane, una ricca mole di osservazioni decisamente antirazziste che, nell’insieme, contribuirono a formare generazioni di futuri scrittori e rivoluzionari. Come lo stesso Che Guevara che, prima di diventare egli stesso un personaggio da avventure leggendarie a Cuba, in Africa e, infine, in Bolivia, aveva letto tutti i romanzi dell’autore italiano1, intendendoli sempre come parte fondamentale della sua formazione rivoluzionaria.

Il secondo per la concezione dell’audacia necessaria per i rivoluzionari nel momento in cui si pongano il problema dell’azione destinata a combattere e rovesciare l’esistente. Un’audacia nell’osare che deve costituire, nella riflessione di Quadrelli, la diretta conseguenza dell’espressione piena e cosciente della soggettività della classe, al di là ed oltre i limiti imposti da qualsiasi tipo di ortodossia comunista, socialista o d’altro genere ancora2.

E nel libro di Tim Harper di avventura, determinazione e audacia ce n’è davvero moltissima, come ben si adatta ad un progetto che, sorto sotto il tallone dell’imperialismo e colonialismo occidentale nel momento della sua massima espansione e forza militare, dovette sembrare ai più, soprattutto tra coloro che rappresentavano le potenze coloniali europee a cavavllo tra XIX e XX secolo, davvero incredibile e folle.

Tim Harper è, dal 2020, a capo della School of the Humanities and Social Sciences e Direttore del Centro per la Storia e l’Economia dell’Unversità di Cambridge, oltre che essere membro, da quest’anno, della Accademia Britannica. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla Storia del Moderno Sud-est asiatico e le connessioni globali di quella regione. Il suo primo libro, The End of Empire and the Making of Malaya (1999), costituiva uno studio sulla guerra, la ribellione comunista e il raggiungimento dell’indipendenza sia della Malesia che di Singapore.

Da allora ha pubblicato, insieme a Christopher Bayly, un resoconto storico in due volumi della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze nell’Asia meridionale e del Sud-est: Forgotten Armies (2004) e Forgotten Wars (2007). Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale (uscito originariamente come Underground Asia: Global Revolutionaries and the Assault on Empire nel 2020) costituisce il suo lavoro più recente. Oltre a ciò ha collaborato a svariate riviste, come «Modern Asian Studies», con una grande mole di articoli e contributi compresi in raccolte di saggi.

La ricerca appena pubblicata in Italia da add editore è stata accolta e segnalata come libro dell’anno sia dall’«Economist» che dal «Financial Times». E, sostanzialmente, prende avvio da una annotazione contenuta in un un pamphlet anonimo del 1913, di autore indiano, a metà fra il manuale bellico e l’esortazione alla rivolta: «Come può liberarsi dal terrore chi dal terrore è oppresso? Come possono gli schiavi ottenere la libertà? Ecco la risposta: con la “Bomba”».

A inizio Novecento l’Asia coloniale – l’immensa rete di località marittime, passi montani, piantagioni e vie d’acqua compresa tra l’oceano Indiano e le coste orientali cinesi – costituiva una polveriera pronta a mandare in frantumi gli imperi europei. Da Bombay a Shanghai, da Singapore a Manila, le banchine dei porti e i transatlantici che facevano la spola dall’Europa diventarono la via d’accesso di idee anarchiche e marxiste, oltre che il teatro di un continuo scambio di personalità, traduzioni, ricette politiche tanto varie quanto originali. I pellegrini di questo sottosuolo antimperiale – come il futuro Ho Chi Minh, Sun Yatsen, la nemesi di Gandhi M.N.Roy e Mao Zedong – hanno tutti un ruolo nelle vicende narrate, ma non sono necessariamente i protagonisti, anche se quasi tutti avrebbero finito col convergere verso una nuova Mecca, la Mosca dei primi anni Venti, per poi diffondere in Asia il verbo di un mondo che non sarebbe più stato lo stesso.

Confermando in tal modo come la Rivoluzione russa e la successiva fondazione dell’Internazionale Comunista all’interno del paese dei Soviet più che servire alla causa della liberazione del proletariato dell’Europa Occidentale, soprattutto dopo la fallita e disastrosa avanzata sulla Polonia del 1920 fermata alle porte di Varsavia, sia servita alla liberazione dell’Asia dal giogo imperiale e coloniale europeo.
Come afferma l’autore nella Premessa:

Ho scritto dalla prospettiva di attori diversi, molti dei quali oggi trascurati dalle storie nazionali, partendo da ciò che sapevano, vedevano o pensavano sarebbe stato possibile. Ricostruendo le loro vicende, ho cercato di non indulgere troppo nel giudizio postumo dello storico. Con il senno di poi, molti potrebbero sembrare degli sconfitti; invece, con i loro trionfi, i fallimenti e le avversità che hanno attraversato, hanno segnato a fondo il futuro dell’Asia.
Questo libro fornisce consapevolmente una visione eccentrica, nel senso più letterale del termine, della storia asiatica, traccia la geografia ribelle della rete clandestina dei rivoluzionari asiatici, descrivendone le traiettorie e illustrando come certi contesti abbiano contribuito alla nascita di nuove idee e strategie di lotta. Racconto di vite vissute negli interstizi degli imperi, di battaglie in cui lo Stato nazionale non era il fine ultimo e nemmeno l’ordine naturale del mondo futuro. Sebbene gran parte dei protagonisti del libro si trovassero su posizioni assai distanti, spesso in violento contrasto, in tutti era vivo l’impegno per una «nazione umana mondiale», secondo la definizione del giornalista, scrittore e militante indonesiano Mas Marco Kartodikromo. Questi intellettuali sottolineavano con particolare enfasi di vivere in un’epoca di transizione, in un tempo e in uno spazio tra l’impero e la nazione. O forse, per essere più precisi, accanto all’impero e alla nazione. Mas Marco Kartodikromo e i suoi contemporanei celebravano un «mondo in movimento» e un «mondo sottosopra». Parole che rimandavano a un’idea di Asia – e del mondo nel suo complesso – più aperta di quanto non fosse mai stata e forse non sarebbe stata mai più 3.

In un contesto in cui rivoluzione anticoloniale e rivoluzione proletaria si svilupparono inizialmente in un breve tempo, anteriore allo sviluppo di qualsiasi successivo dogmatismo, in cui si concretizzò in “un’onda inarrestabile di consapevolezza collettiva” volta a liberarsi dalla violenza, dai soprusi e dallo sfruttamento coloniale più implacabile. Un contesto, però, che ci rivela anche come tali istanze rivoluzionarie fossero ben distanti dalle successive affermazioni nazionalistiche espresse a rivoluzioni avvenute e, altrettanto, dalla attuale conflittualità antioccidentale espressa dai BRICS, sia ristretti che allargati.

Terroristi, ammutinati, femministe con i capelli a caschetto, doppiogiochisti, tipografi clandestini, facinorosi che s’imbarcarono come marinai: tra fonti d’archivio, stampa dell’epoca e documenti privati, Tim Harper ripercorre, in un affresco affascinante e magistrale, le traiettorie avventurose degli uomini e delle donne che, attraverso l’intero continente ma anche attraverso i mari e gli oceani, posero le basi del mondo di oggi. Le cui radici affondano forse più in quelle aree e in quelle rivolte che non in Occidente e nelle sue sempre parziali rivoluzioni.

E’ un racconto epico quello che attende il lettore in queste pagine, attraversato da decine di vicende individuali e collettive che sarebbe qui troppo lungo riassumere, ma di cui vale la pena di raccontare almeno alcuni episodi. Come quella di Pham Hon Thai, il giovane rivoluzionario vietnamita che nel giugno del 1924 aveva attentato alla vita di Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese recatosi in visita all’isola di Shamian, una delle più antiche enclave coloniali in terra cinese, posizionata di fronte a Canton, la più grande città autonoma del continente.

Città già attraversata da contraddizioni estreme di carattere nazionale, sindacale, militare, politico e sociale, che nel 1923 divenne sede del neonato governo nazionalista di Sun Yat-sen, che controllava tutte le sei province meridionali, mentre il resto della Cina era ancora suddiviso fra cricche militari capeggiate dai cosiddetti «signori della guerra», in continua lotta tra loro per succedere agli ultimi eredi della dinastia Qing.

Nei primi mesi del 1924 venne presa la fondamentale decisione di creare una base militare indipendente del governo nazionalista e di fondare l’accademia militare di Whampoa, a una ventina di chilometri da Canton. Una delle sue principali funzioni sarebbe stata la formazione politica, tanto che i giovani radicali cinesi, coreani e del Sudest asiatico sgomitavano per essere ammessi. Canton, ora il centro ideale della nuova nazione, era un luogo di intense sperimentazioni sociali in nome dell’unità e del progresso, ed esportava nuove idee e pratiche: un faro per l’Asia libera4.

Mentre l’isola di Shamian, era posta al di là di un canale largo appena trenta metri e unita alla terra ferma da due ponti sigillati all’ingresso da filo spinato e sorvegliati rispettivamente da soldati sikh e vietnamiti.

In quell’avamposto dell’Occidente, costruito su un banco di sabbia artificiale di circa ventidue ettari nel cuore della città cinese, risiedevano cinquecento cittadini britannici, un centinaio di francesi e una manciata di tedeschi, americani e giapponesi. In seguito all’intervento anglo-francese in Cina del 1860, il porto di Canton, soggetto ai trattati di pace, era stato suddiviso in due concessioni extraterritoriali: una, che occupava i quattro quinti dell’isola, era amministrata dagli inglesi; l’altra, dai francesi. […] I piroscafi e le cannoniere europee ormeggiati al Bund – la banchina nella zona meridionale di Shamian – navigavano lungo il fiume delle Perle, una delle vie d’acqua interne più trafficate del mondo, affollata di sampan cinesi, giunche, enormi battelli a ruota a propulsione umana, case sull’acqua e flower boats, i leggendari bordelli galleggianti. A nord e a est, i due ponti collegavano Shamian alla vecchia periferia occidentale di Canton, con il suo labirinto di mercati e botteghe, abitata da oltre un milione di cinesi. Per questi ultimi l’isola era un luogo «quasi proibito»: per accedervi era necessario il permesso del consiglio cittadino di Shamian, che ne limitava comunque l’ingresso a zone ben precise, mai dopo mezzanotte, e beninteso con il divieto di calpestare i prati. [Motivo per cui] All’epoca Shamian era al centro di forti tensioni patriottiche ed era sostanzialmente sotto assedio. Come scrisse un giornalista locale: «Chiunque, a parte i collaborazionisti cinesi, mettendo piede su quest’isola segnata dal marchio dell’infamia sentirebbe il cuore accendersi di rabbia e disprezzo»5.

Ma fu proprio in quel contesto, ultra-sorvegliato e protetto, che il giovane Pham Hon Thai osò applicare il metodo indicato dall’anonimo libello indiano del 1913 citato in apertura di questa recensione.

Il 19 giugno 1924 sua eccellenza Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese, fece il suo ingresso in quella polveriera. Arrivò in serata da Hong Kong, dove aveva fatto tappa rientrando da una visita in Giappone e nel Nord della Cina, in tempo per partecipare a una cena nella concessione britannica di Shamian. Merlin apparteneva alla prima generazione di funzionari civili coloniali e aveva raggiunto l’attuale posizione dopo un turbolento periodo di servizio nei nuovi possedimenti francesi in Africa. Se all’inizio della carriera aveva sostenuto la politica di «associazione» con le élite native, i cosiddetti évolués, nel corso dell’ultimo incarico in Senegal aveva adottato la posizione opposta: gli évolués, ammoniva, erano déracinés («sradicati») ed era compito della Francia ripristinare la coesione sociale di fronte agli «appelli individualistici e alle promesse fallaci degli agitatori di professione». […] La cena, per una cinquantina di invitati, si tenne nel salone principale, con le grandi finestre aperte sulla strada. In occasione della visita, il governo di Canton aveva disposto un rigido sistema di sicurezza su entrambe le rive del canale. I due ponti di pietra che collegavano l’isola alla città erano chiusi e presidiati. Agenti di polizia, seppure non armati, pattugliavano le strade. Gli ospiti si sedettero a tavola alle 20:30; dieci minuti dopo, mentre veniva servita la minestra, un uomo «molto ben vestito» si affacciò a uno dei finestroni. Secondo un testimone oculare, si mise a osservare la tavolata «come farebbe chiunque, gentiluomo o coolie». Poi, tutto a un tratto, lanciò all’interno una ventiquattrore che finì dritta sul tavolo, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Dopo qualche secondo la valigetta esplose. Il boato rimbombò per tutta l’isola6.

L’esplosione fece diversi morti e numerosi feriti tra i commensali, anche se non raggiunse l’obiettivo principale, ma con il suo fragore esplose nella via illuminando l’aria, proprio come la «bomba proletaria» cantata da Francesco Guccini quasi cinquant’anni dopo7. Innescando una serie di eventi che, nonostante la morte del giovane attentatore, inseguito e ferito dagli agenti e successivamente morto suicida, avrebbero scosso il continente dalla Cina all’Indocina francese.

Ma era stato già prima, al momento del coinvolgimento delle truppe coloniali nel primo conflitto mondiale, che l’antagonismo tra colonizzati e colonizzatori si era acuito. Come in quel lunedì 15 febbraio 1915, festa del Capodanno cinese, quando il 5º Fanteria Leggera indiano si ammutinò alla caserma Alexandra di Singapore. Il reggimento, composto interamente da truppe musulmane, era il pilastro della guarnigione dell’isola. Intorno alle 15:00 erano stati sparati dei colpi, quando i soldati avevano tagliato le linee telefoniche militari. Gli ufficiali britannici del reggimento erano fuori servizio, riposavano a casa o sulla spiaggia, e la notizia della rivolta tardò a diffondersi. Nessuno, a quanto pare, pensò di dirlo alla polizia. Così un gruppo di ribelli si diresse verso la Chinatown di Singapore, uccidendo i britannici incontrati lungo la strada. Altri si diressero verso una batteria vicina, presidiata da Sikh reclutati localmente dalle Guide degli Stati Malesi: uccisero l’ufficiale britannico e lanciarono le armi contro le Guide, ma la maggior parte di loro fuggì nella giungla vicina. La più numerosa e risoluta banda di ribelli si diresse a ovest verso il campo di Tanglin, dove erano detenuti 307 internati e prigionieri di guerra tedeschi, e offrì loro armi e libertà. Ma le gerarchie coloniali tennero: nelle parole riportate da un tenente di marina, “un ufficiale tedesco non combatte senza la sua uniforme o nelle file degli ammutinati”. Alcuni militari e alcuni uomini d’affari, tuttavia, colsero l’occasione per fuggire. Nei confusi combattimenti in tutta l’isola, 47 soldati e civili furono uccisi: cinque cinesi e malesi morirono, ma la maggior parte erano britannici, presi di mira sui campi da golf, in auto e in carrozze. Le loro donne e i loro bambini si ritirarono – “come le immagini cinematografiche dei profughi belgi” – sui piroscafi nel porto, provocando una brutta rissa razziale quando le donne eurasiatiche e altre donne asiatiche tentarono di unirsi a loro. Gli inglesi persero il controllo della loro fortezza sull’isola per due giorni e la fragilità di fondo della società coloniale fu messa a nudo8.

Ma non solo, poiché ancora una volta la rivolta contro la guerra e l’occupazione coloniale era partita proprio da coloro che avrebbero dovuto ubbidire agli ufficiali. Anticipazione non soltanto delle successive rivoluzioni asiatiche, ma anche delle insurrezioni nelle trincee europee del 1916 e 1917 che portarono in Russia alla Rivoluzione di Febbraio prima e a quell di Ottobre poi. E successivamente alla capitolazione tedesca dopo l’insurrezione dei soldati, dei marinai e degli operai nel 1918. Chiudendo idealmente un cerchio che ancora oggi ha qualcosa di importante da ricordarci e suggerirci. Come lo splendido testo di Harper riesce ancora a fare con qualsiasi lettore appassionato di rivoluzione e di avventura.


  1. Si vedano in proposito: P. I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024 e S. Moiso, Il Magister e il Capitano. Sogno e immaginario guerrigliero in S. Moiso, A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 119-138.  

  2. Per cogliere tutta la riflessione sul tema da parte di Emilio Quadrelli, si vedano: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa, in corso di pubblicazione su «Carmillaonline» e, ancora, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024 e, infine, sempre dello stesso, Cronache marsigliesi capitoli 7 e 8: la guerra civile in Francia, «Carmilaonline», 6 e 13 luglio 2023.  

  3. T. Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 21-22.  

  4. T. Harper. op. cit., p. 29.  

  5. Ibidem, pp. 27-28.  

  6. Ivi, pp. 30-31.  

  7. F. Guccini, La locomotiva, nell’album Radici del 1972.  

  8. Si veda in proposito proprio il capitolo 7, Navi fantasma (1915) in T. Harper, op. cit.  

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Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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La storia segue vie diverse, come la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2021/10/25/la-storia-segue-vie-diverse-come-la-rivoluzione/ Mon, 25 Oct 2021 04:05:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68485 di Fabio Ciabatti

Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, Meltemi, Milano 2021, pp. 312, € 20,90

Il multiculturalismo è stato una delle ideologie delle classi dominanti durante gli anni rampanti della globalizzazione. Non bisognerebbe dimenticarlo quando ci si accinge a criticare l’idea che la storia sia un percorso unilineare dalle società primitive a quelle più evolute. Certamente questa visione ci può condurre facilmente a una concezione eurocentrica che, volenti o nolenti, finisce per essere di supporto alle politiche colonialiste e imperialiste dell’Occidente. Un relativismo poco accorto, però, [...]]]> di Fabio Ciabatti

Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, Meltemi, Milano 2021, pp. 312, € 20,90

Il multiculturalismo è stato una delle ideologie delle classi dominanti durante gli anni rampanti della globalizzazione. Non bisognerebbe dimenticarlo quando ci si accinge a criticare l’idea che la storia sia un percorso unilineare dalle società primitive a quelle più evolute. Certamente questa visione ci può condurre facilmente a una concezione eurocentrica che, volenti o nolenti, finisce per essere di supporto alle politiche colonialiste e imperialiste dell’Occidente. Un relativismo poco accorto, però, ci può portare con altrettanta facilità all’accettazione acritica non solo delle culture “altre”, ma anche degli effettivi sistemi politico-sociali extra-occidentali perché considerati espressioni dirette o indirette di quelle culture. Anche quando questi sistemi colludono di fatto con il dominio imperialistico.

Se vogliamo orientarci in questo orizzonte problematico non possiamo prescindere dal contributo del vecchio rivoluzionario di Treviri. Ma come, si potrebbe obiettare, non fu Marx artefice di una filosofia della storia finalistica e meccanicistica che lascia poco spazio alla pluralità delle traiettorie storiche? Le cose non stanno così secondo Umberto Melotti: “L’unilinearismo costituisce indubbiamente una delle tentazioni del pensiero di Marx, e più ancora di Engels, così come di tutti i sistemi storicistici e positivistici dell’Ottocento. Eppure Marx unilinearista non è”.1 Fu infatti lo stesso Marx a scrivere che “La storia non fa niente, non possiede alcuna ricchezza, non combatte alcuna lotta! È l’uomo, l’uomo reale e vivente, che fa tutto, possiede tutto e combatte tutto”.2 Un pensiero che viene così completato da Melotti: “Come risultato dell’agire degli uomini, la storia non è, né può essere, unilineare sviluppo di un processo finalisticamente necessario, ma è manifestazione multilineare e disgiuntiva di qualcosa di variamente possibile, se pure non privo di senso”.3

L’autore argomenta questa posizione nel libro Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, testo ripubblicato e ampliato a circa cinquant’anni dalla sua prima edizione. Secondo una visione ortodossa, scrive Melotti, Marx sosterrebbe l’esistenza di uno sviluppo unico della storia che parte dalla comunità primitiva, passa per la società antica e per quella feudale, per approdare al capitalismo, dal quale scaturisce il socialismo. Lo schema multilineare proposto dall’autore, invece, sostiene che allo stesso livello storico della comunità antica Marx pone (senza pretesa di esaustività) le comunità slavica, asiatica e germanica. Dalle prime due scaturiscono rispettivamente la società semi asiatica (Russia) e quella asiatica (Egitto, Cina e India). La società schiavistica, ben lungi dall’essere uno stadio storico necessario, è frutto della dissoluzione della sola comunità antica. La società feudale europea è a sua volta il frutto di due fattori: la crisi del sistema schiavistico e le cosiddette invasioni barbariche, portate avanti da popolazioni appartenenti alla comunità germanica. La dissoluzione del feudalesimo dà infine luogo al capitalismo. Fermiamoci qua, per ora, e notiamo subito che il capitalismo europeo è figlio di uno specifico percorso storico che nulla ha di universale (per una schematizzazione completa, vedi la tabella pubblicata di seguito, ripresa dal libro di Melotti). 

Ciò nonostante, secondo Melotti, Marx non rinuncia all’idea che la storia sia un processo orientato alla liberazione dell’uomo. Questa concezione si basa in ultima istanza sull’idea che il procedere della storia porti con sé lo sviluppo delle forze produttive e dunque la possibilità oggettiva che cessi la necessità dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ogni generazione, infatti, può elaborare e accrescere le proprie forze produttive a partire da quelle conquistate dalle generazioni precedenti.
Sebbene l’argomento sia solo sfiorato da Melotti, vale la pena sottolineare che oggi possiamo vedere con maggiore chiarezza di Marx gli immani rischi ecologici legati alla crescita senza limiti della produzione. Rimane però il fatto che nel mondo contemporaneo, popolato da quasi 8 miliardi di esseri umani, stipati per più della metà nelle metropoli, le soluzioni che portano ad una società in equilibrio con la natura non possono essere le stesse delle società precapitalistiche. In questo senso è difficile pensare di fare a meno di un ponderato sviluppo delle forze produttive, profondamente diverso da quello finalizzato al profitto, anche da un punto di vista strettamente tecnologico. Non sarà proprio lo stesso sviluppo che aveva in mente Marx, ma ne contiene alcuni elementi importanti, primo fra tutti la produzione finalizzata al valore d’uso e non al valore di scambio.

Tornando a temi più attinenti al libro di Melotti, bisogna notare che Marx non può essere considerato un ingenuo evoluzionista. È lo stesso rivoluzionario tedesco a sottolineare che la crescita della produttività del lavoro nei primordi della storia non consente solo di liberare l’umanità dalla tirannia della natura, ma produce anche la divisione della società in classi perché permette a una porzione della società di non occuparsi della produzione diretta e di sfruttare il lavoro altrui. Questo fatto ci segnala che la produzione materiale non è mai un affare che riguarda solo il rapporto tra uomo e natura, ma avviene sempre nell’ambito di determinati rapporti tra esseri umani che tendono a riprodursi  ponendo dei freni più o meno significativi e una specifica direzione allo sviluppo delle forze produttive. Fino a che, fatalmente, i rapporti di proprietà di ogni società si trasformano in vere e proprie catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive, dando luogo a intere epoche di rivoluzione sociale. I differenti contesti naturali e i differenti rapporti sociali, dunque, fanno sì che lo sviluppo materiale non possa avvenire nella stessa misura e nella stessa direzione in tutti i tipi di società. Rimane il fatto che, per quanto diluito nel tempo, il solo effetto dello crescita della produttività del lavoro e dell’aumento della popolazione impedisce nel lungo periodo la riproduzione senza mutazione anche delle società più statiche.  

Queste dinamiche sono accelerate massimamente con il modo di produzione capitalistico, mentre il sistema storico (cioè successivo alle comunità primarie) che è caratterizzato maggiormente dalla staticità è quello asiatico. Quest’ultimo, ci ricorda l’autore, è definito da Marx sulla base di tre caratteristiche: la proprietà in ultima istanza dello Stato sulla terra e, parallelamente, la scarsissima diffusione della proprietà privata del suolo; la persistenza di comunità di villaggio separate e autosufficienti, data l’integrazione tra  attività agricola e artigianato domestico; il ruolo centrale dello Stato nell’esecuzione di grandi lavori idraulici o di altra natura, condizione per un’agricoltura in grado di far fronte alle necessità derivanti dall’aumento della popolazione.
Attorno al modo di produzione asiatico si è sviluppato un ampio dibattito in ambito marxista che l’autore passa in rassegna. C’è chi lo ha equiparato a una variante del sistema feudale o schiavistico, chi l’ha considerato una fase precedente al modo di produzione antico e chi ne ha negato del tutto l’esistenza. Di fatto, ci ricorda Melotti, l’utilizzo di questo concetto  può avere due esiti opposti: da una parte la conferma dell’eccezionalismo della società occidentale di fronte al dispotismo orientale, soprattutto se la riproposizione di quest’ultimo nell’Unione Sovietica e nella Repubblica Popolare Cinese viene interpretata come una sorta di meccanica fatalità; dall’altra la confutazione di una visione unilineare della storia incentrata sull’eurocentrismo in considerazione del fatto che larghe porzioni dell’umanità hanno seguito uno sviluppo storico differente rispetto a quello che ha portato alla modernità capitalistica.

Le forti resistenze delle società caratterizzate dal modo di produzione asiatico o semi-asiatico alla penetrazione del capitalismo hanno inoltre posto i marxisti di fronte ad un profondo dilemma: questi sistemi dovevano passare sotto le forche caudine del capitalismo prima di poter aspirare a uno sviluppo socialista o potevano, a partire dalle proprie forme comunitarie ancora persistenti, incamminarsi su un percorso autonomo verso la società senza classi? Marx, con riferimento all’impero zarista, si è espresso per la seconda ipotesi, anche se ha segnalato la necessità di una rivoluzione in Russia che interagisse per tempo con quella occidentale anche al fine di potersi appropriare delle forze produttive più moderne.
Come risulta chiaro dal testo di Melotti la posta in gioco non è meramente teorica ma ha a che fare con questioni direttamente politiche. Per sostenere la concezione dell’URSS come stato guida, per esempio, Stalin obliterò completamente l’idea di un modo di produzione asiatico perché essa avrebbe indicato la specificità del percorso storico russo, mettendone in dubbio la replicabilità universale. Sta di fatto che la rimozione della specificità storica della Russia ha avuto come contrappasso la replica, sebbene in forma nuova, di alcune delle sue caratteristiche: l’URSS, secondo la concezione di Bruno Rizzi, ripresa parzialmente da Melotti, si è trasformato in un collettivismo burocratico che riproduceva in forma differente la centralità dispotica dello stato, tipica delle società asiatiche.  L’URSS, dunque, non era né capitalista né socialista, ma un nuovo tipo di società antagonistica caratterizzata da una “nuova classe” sfruttatrice che, grazie alla proprietà collettiva, si era “saldamente insediata nello Stato” assicurandosi il controllo dei mezzi di produzione e del plusprodotto.
E questo vale anche per la Cina nonostante il tentativo di Mao di contrastare l’involuzione burocratica del paese, promuovendo la “grande rivoluzione culturale proletaria”. Ma quel movimento, sostiene Melotti, era in realtà un’ambigua e contraddittoria iniziativa, configurandosi  come una sorta di “rivoluzione per decreto reale”, disposta a rientrare nei ranghi non appena se ne fosse impartito l’ordine relativo.
Ciò detto, secondo Melotti,  sarebbe un errore ritenere, come ha sostenuto Rizzi, che il collettivismo burocratico sia stato regressivo rispetto al capitalismo. In realtà capitalismo e collettivismo burocratico sono formazioni economico-sociali parallele che, in diversi contesti, hanno assolto, e assolvono, la funzione primaria di assicurare un forte sviluppo delle forze produttive.  Oggi sappiamo che il collettivismo burocratico alla lunga non si è dimostrato capace di fronteggiare la concorrenza economico-militare del capitalismo. E questo spiega sia la dissoluzione dell’Unione Sovietica sia le riforme sempre più significative che hanno introdotto in Cina elementi di capitalismo di Stato e di capitalismo privato, inserendola nel processo di globalizzazione e rendendola, con sorprendente rapidità, la seconda potenza economica del mondo.

In conclusione, la concezione multilineare della storia porta Melotti a sostenere che “Il passaggio a quel socialismo di cui parlava Marx è possibile tanto nei paesi economicamente più avanzati che negli altri, anche se a determinate condizioni, date anche le loro specificità strutturali e culturali”.4 A dire il vero, per argomentare fino in fondo questa posizione, sarebbe stato utile, quantomeno, accennare a quelle forze sociali e politiche interne alle rivoluzioni extraeuropee che, in alcuni frangenti storici cruciali, avrebbero potuto avviare una traiettoria storica diversa da quella che ha portato al collettivismo burocratico. In mancanza di ciò una concezione unilineare ed eurocentrica della rivoluzione si può ancora nascondere sotto il manto della storia multilineare, contro le intenzioni dello stesso autore. Per comprendere la traiettoria della rivoluzione russa, per esempio, è necessario richiamare il mancato scoppio della rivoluzione in Europa: dall’Occidente si aspettavano alleati in grado di mettere a disposizione della rivoluzione i frutti dello sviluppo capitalistico, ma di lì vennero potenti nemici che si sommarono a quelli interni. Certamente queste circostanze condizionarono pesantemente gli esiti della rivoluzione. Ma altra cosa è sostenere che li determinarono tout court, quantomeno perché si innestarono su dinamiche endogene alla rivoluzione stessa, favorendone alcune (la centralizzazione del potere e la taylorizzazione dei rapporti di produzione) a scapito di altre (la pluralità dei poteri rappresentata dai Soviet e dalle forme di autogoverno contadine). 

Se accettiamo l’idea che esista un’unica via per la rivoluzione, d’altra parte, la pretesa esemplarità dell’Occidente può essere facilmente ribaltata. E questo è effettivamente accaduto con la Russia stalinista. Uno schema che qualcuno oggi prova a ripetere con la Cina. Se, invece, coerentemente con il multilinearismo storico, assumiamo la molteplicità delle possibili traiettorie rivoluzionarie, non possiamo che essere diffidenti, insieme a Melotti, nei confronti di “ogni residuo mito di ‘paesi guida’.  Russia e Cina non sono mai state, né sono, più avanti dell’Occidente sulla strada del socialismo, così come l’intendeva Marx”.5
Ciò detto, una cosa è parlare di modelli da replicare pedissequamente, cosa assai diversa è sostenere che certe realtà possono rappresentare uno sprone, un’ispirazione e un concreto aiuto per altre. Differenti esperienze possono, anzi devono, dialogare tra di loro, essere reciprocamente traducibili. Certamente, ci dice l’autore, sul piano valoriale i paesi extraeuropei sono portatori di istanze importanti per l’affermazione del socialismo come lo spirito solidaristico e comunitario, la concezione di un necessario equilibrio fra uomo e natura, l’idea dell’integrazione del mondo sociale nell’ordine naturale, ma li hanno spesso elaborati in chiave repressiva. Per questo è importante che tali istanze possano dialogare con la migliore eredità del mondo occidentale, come il rispetto dell’individuo e delle libertà personali o la concezione laica del potere e della conoscenza. A condizione di non dimenticare, aggiungiamo, quanto scriveva Fanon a proposito dell’Europa che non la finisce mai di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra. 


  1. Umberto Melotti, Marx passato, presente, futuro. Una visione alternativa dello sviluppo storico, Meltemi, Milano 2021, Introduzione, edizione Kindle. 

  2. K. Marx, La sacra famiglia, cit. in U. Melotti, Marx passato, presente, futuro, Introduzione, ed. Kindle. 

  3. U. Melotti, Marx passato, presente, futuro, Introduzione, ed. Kindle. 

  4. Ivi, Premessa, ed. Kindle. 

  5. Ivi, Indicazioni conclusive, ed. Kindle. 

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Il dialogo rivoluzionario tra i molti mondi che insorgono https://www.carmillaonline.com/2021/10/01/il-dialogo-rivoluzionario-tra-i-molti-mondi-che-insorgono/ Fri, 01 Oct 2021 03:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68281 di Fabio Ciabatti

Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21

Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno  aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. [...]]]> di Fabio Ciabatti

Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21

Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno  aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. Peccato che, in quelle terre, la malapianta del fondamentalismo, ben lungi dall’essere il frutto autoctono di un preteso sottosviluppo, fu coltivata proprio dagli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati sauditi e pakistani, per infestare il cortile di casa del fu impero sovietico. La realtà dei fatti, però, deve essere rimossa dall’ideologia dominante che deve trasformare una prova contraria in una sorta di prova per assurdo per confermare l’idea di una “storia universale” destinata a viaggiare in un’unica direzione possibile, la modernità capitalistica. Come dimostra il caso afghano, infatti, l’unica alternativa possibile a questo percorso è un’assurda catastrofe.

L’idea di una storia universale, come ci spiega Massimiliano Tomba nel suo libro Insurgent universality. An alternative legacy of modernity (testo che ha avuto una nuova pubblicazione nel 2021 in formato paperback), ha una connotazione eminentemente eurocentrica dal momento che finisce per svalutare ogni possibile traiettoria storica qualitativamente differente da quella percorsa dalla modernità occidentale. Ogni forma sociale non statuale o non capitalistica diventa semplicemente pre-statuale e pre-capitalistica, destinata perciò a scomparire in quanto forma arretrata rispetto alla modernità occidentale.
Non sorprende dunque l’esigenza di Provincializzare l’Europa, come recita il titolo di un celebre libro di Dipesh Chakrabarty, per consentire ai paesi del Sud globale di sperimentare forme autonome di sviluppo. Senonché questa linea di pensiero, sostiene Tomba, ha finito per essenzializzare l’Occidente, ignorando, al pari dell’ideologia dominante, che nel suo ambito si sono espresse ripetutamente traiettorie storiche alternative per quanto fugaci e violentemente represse. Riportare al centro dell’attenzione queste possibili biforcazioni del tempo storico è il compito che si pone l’autore prendendo in considerazione quattro frangenti storici: la rivoluzione francese del 1789, la comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e l’insurrezione zapatista del 1994 in Messico.

Concentriamoci per ora sulla storia europea. I tre episodi rivoluzionari mostrano alcuni elementi comuni. In opposizione alla centralizzazione statuale del potere che caratterizza la traiettoria storica dominante, i sanculotti, i comunardi parigini e i rivoluzionari russi hanno sostenuto e praticato una concezione dell’organizzazione sociale che prevedeva una incomprimibile pluralità di poteri: club, sezioni cittadine, soviet ecc. Una simile pratica portava con sé l’impossibilità di comprimere il conflitto mantenendo sempre aperta la possibilità di imprevisti sviluppi.
L’universalità insorgente è costituita da soggettività collettive che praticano direttamente i propri diritti e le proprie libertà sperimentando nuove forme di organizzazione sociale e politica. Lo stato moderno, invece, si afferma come potere centralizzato perché prevede un’assenza di organizzazioni intermedie. Esso dunque governa su una massa di individui atomizzati, trattati sempre come potenziali vittime che, per esercitare diritti e libertà, devono essere tutelate e limitate dal potere statale.
L’universalità insorgente non circoscrive a priori il suo raggio d’azione perché ha una natura intrinsecamente espansiva: si pensi alla repubblica universale presagita durante la rivoluzione francese e ripresa dalla Comune, o alla “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato” del 1918 che non fa appello a un’identità nazionale o etnica predeterminata, ma a un soggetto che vuole abolire ciò che definisce la sua stessa identità, il rapporto sociale di sfruttamento. Il potere moderno, invece, per definirsi deve chiamare in causa un’alterità per poi escluderla. La cittadinanza moderna lascia fuori per necessità chi non appartiene alla nazione.
Durante i tre episodi rivoluzionari vengono messi in discussione i rapporti di proprietà capitalistici anche quando, come nel caso dei due eventi francesi, non si abbraccia direttamente la pratica dell’espropriazione dei più ricchi. Nelle società moderne la proprietà privata non è soggetta, come in passato, a un insieme articolato di limiti e obblighi, ma diventa diritto assoluto ed esclusivo di disporre dei propri beni. Nel corso degli avvenimenti rivoluzionari viene invece posto il problema di quanto la proprietà privata sia compatibile con la democrazia. Ne consegue la necessità di riorganizzare la fabbrica sociale nel campo della produzione e della riproduzione attraverso la riproposizione aggiornata di concetti come quelli di dominium utile o di possesso/utilizzo come distinto dalla proprietà. Emerge, in sintesi, un concetto di socializzazione dei mezzi di produzione che è cosa diversa da quello di statalizzazione perché si incentra sulla restituzione del controllo dei mezzi di produzione, in primo luogo la terra, nelle mani delle collettività organizzate.

Un ulteriore aspetto, centrale nell’argomentazione di Tomba, è quello dei diversi strati temporali che si intrecciano nel corso degli eventi rivoluzionari. Le comunità insorgenti fanno frequentemente ricorso ad arcaismi, cioè tradizioni, memorie e istituti del passato, come guida per il presente. Per esempio l’istituzione medievale del mandato imperativo riemerge nelle esperienze dei sanculotti, dei comunardi e dei Soviet. Tomba precisa che “non si tratta di mettere in contrasto la tradizionale temporalità delle forme comunitarie con quella dello stato nazione e del modo di produzione capitalistico. Questa opposizione rimane astratta o romantica”.1 La tensione generata dall’attrito tra differenti strati temporali genera infatti nuove e inedite configurazioni di un preesistente materiale giuridico, politico ed economico. Il passato presenta se stesso come un arsenale di possibili futuri che possono riemergere perché i soggetti insorgenti rendono attuale ciò che sarebbe potuto essere, ma è stato represso.
Questa repressione può essere attuata dalle classi dominanti, come nel caso della Comune, ma anche da alcune componenti delle forze rivoluzionarie: i giacobini con il Terrore mettono la pietra tombale sull’“eccesso democratico” rappresentato dai sanculotti; i bolscevichi intraprendono una “guerra contro il tempo” per superare l’”arretratezza” russa facendosi portatori di una centralizzazione del potere nelle mani dello stato e di una taylorizzazione delle forze produttive a discapito delle forme di autogoverno contadine e della pluralità dei poteri rappresentata dai soviet.

Insurgent universality è un libro originale e ambizioso. L’affresco storico-filosofico di Massimiliano Tomba merita di essere approfondito da tutti coloro che non vogliono rassegnarsi a un presente spacciato come unico esito possibile della storia universale ma, nello stesso tempo, devono fare i conti con le macerie di quella che è stata per molto tempo la tradizione rivoluzionaria dominante, finendo per apparire come l’unica possibile. Per questo può essere utile interloquire idealmente con l’autore su alcuni punti che meriterebbero un approfondimento. Per iniziare, si può concordare sul fatto che il concetto di storia universale, così come ci viene generalmente presentato, sia il frutto di una filosofia della storia unilineare che, concretamente, si è imposta grazie a “una robusta dose di violenza economica e extraeconomica”. Una precisazione, però, può essere opportuna: la storia universale ha cominciato ad esistere realmente dal momento in cui il capitalismo ha iniziato ad espandersi su tutto il globo. E tale espansione non è stato soltanto il frutto “di una pretesa superiore efficienza della proprietà privata sulla proprietà comune”2. Il capitalismo, infatti, ha avuto l’effettiva capacità di sviluppare, in misura mai vista prima, quelle forze produttive che si sono rivelate la base materiale sia per il trionfo definitivo delle politiche di potenza degli stati moderni sia per la riproduzione, sempre più allargata, di uno sfavillante mondo delle merci dall’indubbio fascino planetario.
Ciò non si significa sostenere che il capitalismo sia stato un gradino necessario dello sviluppo storico, ma soltanto che la sua comparsa, dovuta a fattori storico-geografici contingenti, ha finito per determinare un salto storico a livello globale, ponendo condizioni nuove e ineludibili con cui si deve confrontare l’universalità insorgente. Per evitare fraintendimenti si precisa che per salto storico, come nota Tomba, non si deve intendere un’accelerazione verso un esito predeterminato, ma un cambio di traiettoria che pone la storia su un percorso imprevisto.
Si potrebbe anche ipotizzare che sia possibile parlare di universalità insorgente solo dopo questo salto storico. Forse la scelta è casuale, ma sta di fatto che la narrazione di Tomba parte dal 1789, cioè dalla prima rivoluzione che fa dell’universalismo borghese la sua bandiera proclamando tutti gli uomini liberi e uguali. In questo frangente storico, ci dice Tomba, le donne, i poveri e gli schiavi di Haiti obiettano che quel concetto di “uomo” non li rappresenta. Ma, precisa l’autore, non si è trattato di una negazione pura e semplice del valore universale dei diritti dell’uomo proclamati dalla rivoluzione. Il termine “uomo”, utilizzando un linguaggio che non appartiene all’autore, diventa un significante vuoto il cui significato è conteso dai differenti attori sociali in conflitto. In altri termini, più vicini a quelli del testo, il significato di “uomo” viene reinterpretato dalle comunità insorgenti facendolo diventare il vettore di una nuova universalità capace di presagire una forma sociale diversa da quella borghese. Insomma, l’universalità insorgente è in qualche misura debitrice dell’”universalismo emaciato” della borghesia.

A questo punto una domanda si impone. Perché qualificare le soggettività insorgenti come universalità? Opponendosi a una pretesa storia universale, non dovrebbe farsi valere la loro natura irrimediabilmente particolare come vorrebbe un approccio post-colonial o postmoderno? Il dubbio viene rafforzato quando leggiamo che l’universalità insorgente costituisce un esperimento incompleto e che proprio questa incompletezza può essere condivisa. In realtà l’autore argomenta lungo tutto il libro che questi esperimenti hanno qualcosa in comune. Essi certamente parlano lingue diverse, ma tra loro traducibili. C’è un legame significativo, sostiene Tomba, tra traducibilità e universalità anche quando ci occupiamo della reciproca comprensione tra differenti culture e pratiche sociali. Queste, ci ricorda l’autore citando Gramsci, possono comunicare tra loro perché rappresentano differenti risposte a problemi storici sostanzialmente comuni. Si può allora aggiungere che questa traducibilità è rafforzata dal fatto che i differenti soggetti insorgenti si trovano per la prima volta nella storia ad affrontare lo stesso nemico, il capitalismo che si fa storia universale.
Tutto ciò è confermato dall’esperimento Zapatista che si afferma in un contesto storico e geografico assai diverso da quello europeo. “Gli Zapatisti hanno intrapreso la strada che fu abbandonata in Russia dai Bolscevichi: la strada lungo la quale la politica rivoluzionaria si unisce con le comunità indigene”.3 Nonostante la pratica zapatista sia profondamente radicata nella cosmologia, nella epistemologia, nel rapporto con la natura dei popoli indigeni del Chiapas, è possibile ravvisare molti punti di contatto con le rivoluzioni europee: la pluralità dei poteri, la proprietà collettiva delle comunità contadine, il mandato imperativo ecc. “Il mondo che vogliamo contiene molti mondi”, ci dicono gli zapatisti. Mondi in grado di dialogare tra di loro, possiamo aggiungere.

In conclusione, si può notare che sarebbe stato interessante approfondire maggiormente l’organizzazione militare degli zapatisti e le condizioni che hanno reso possibile il suo consolidamento. Questa organizzazione, senza rinunciare alle caratteristiche proprie dell’universalità insorgente, è un tentativo contemporaneo di rispondere ad alcune esigenze pratiche che ogni rivoluzione ha dovuto affrontare per non soccombere. La centralizzazione del potere nelle mani dello stato è certamente frutto di scelte politiche figlie di una specifica visione del mondo. Tomba ci ricorda, per esempio, “L’ossessione [dei bolscevichi] di correre avanti in modo da accelerare l’esito socialista trasformò lo stato in un apparato estremamente centralizzato e modellò l’industria in un laboratorio tayloristicamente disciplinato”.4 Ma occorre aggiungere che le scelte di cui stiamo parlando sono sottoposte a una notevole forza di inerzia perché rispondono a problemi oggettivi: l’urgenza di rispondere in maniera più efficiente agli immancabili attacchi dei nemici interni ed esterni; un compito che porta con sé l’impellenza di ripristinare il funzionamento della fabbrica sociale, inevitabilmente sconvolta dagli eventi rivoluzionari anche in considerazione del fatto che gli embrioni di una nuova organizzazione necessitano di tempo per germogliare. Riuscire ad immaginare come una rivoluzione possa consolidarsi senza che le esigenze militari schiaccino le istanze di libertà e di autogoverno è un passo necessario per capire come l’universalità insorgente si possa sottrarre a quello che sembra il suo tragico destino: squarciare ripetutamente il cielo come un lampo glorioso che, ogni volta, viene rapidamente inghiottito dall’oscurità della reazione.


  1. M. Tomba, Insurgent Universality, Oxford University Press, New York, 2019, p. 9. Traduzione mia, come le seguenti. 

  2. Ivi, p. 224. 

  3. Ivi, p. 211. 

  4. Ivi, p. 123. 

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Il comunismo possibile della Comune di Parigi https://www.carmillaonline.com/2021/01/01/il-comunismo-possibile-della-comune-di-parigi/ Thu, 31 Dec 2020 23:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64120 di Fabio Ciabatti

Kristin Ross, Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi, Rosenberg & Sellier, Torino 2020, pp. 260, 16,00 euro

La scarsità delle risorse disponibili e la sperequazione nella distribuzione della ricchezza a danno delle classi popolari: questi fenomeni sociali sembrano oramai accettati come dati naturali e ineluttabili da un senso comune che è stato rafforzato da una crisi oramai più che decennale e appena intaccato dalle politiche di contrasto alle conseguenze economiche della pandemia in atto. È proprio su questi presupposti, e non prioritariamente su pregiudizi etnico-culturali, che, [...]]]> di Fabio Ciabatti

Kristin Ross, Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi, Rosenberg & Sellier, Torino 2020, pp. 260, 16,00 euro

La scarsità delle risorse disponibili e la sperequazione nella distribuzione della ricchezza a danno delle classi popolari: questi fenomeni sociali sembrano oramai accettati come dati naturali e ineluttabili da un senso comune che è stato rafforzato da una crisi oramai più che decennale e appena intaccato dalle politiche di contrasto alle conseguenze economiche della pandemia in atto. È proprio su questi presupposti, e non prioritariamente su pregiudizi etnico-culturali, che, per esempio, la destra ha costruito un discorso sull’immigrazione semplice e apparentemente razionale: gli stranieri sottraggono agli autoctoni bisognosi lavoro, case popolari, servizi pubblici. Oggi sembra impossibile intaccare le premesse di tale ragionamento e anche per questo non si riesce a incidere sul senso comune.
Eppure non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui è stato possibile rivendicare la ricchezza per tutti e tutte. Ce lo ci ricorda Lusso comune, il libro di Kristin Ross che indaga, come chiarisce il sottotitolo, L’immaginario politico della Comune di Parigi. Sul significato dell’espressione “lusso comune” torneremo più avanti. Per ora notiamo che il libro di Ross non è una storia della rivolta che ebbe luogo nella capitale francese nel 1871. Si tratta piuttosto di seguire il filo delle idee che anticipano la rivolta nei club popolari parigini, che animano la prassi dei comunardi nel fuoco della lotta e che prolungano la storia dell’insurrezione parigina ben oltre la sua sanguinosa repressione attraverso le elaborazioni degli esuli e dei loro sostenitori (come William Morris, Pëter Kropotkin e Karl Marx) che non avevano preso parte direttamente alla Comune. Idee che mantengono, anche negli anni successivi, i tratti di un pensiero in costruzione che concepisce sé stesso come partecipazione concreta all’evento rivoluzionario e per questo possono apparire poco raffinate e coerenti.

Da questo punto di vista, riprendendo quella che Henri Lefebvre definiva la dialettica del vissuto e del pensato, Ross afferma perentoriamente: “sono le azioni che generano i sogni e le idee, e non viceversa”. L’autrice, insomma, parla della Comune di Parigi come di un evento che dischiude orizzonti di possibilità prima impensabili. In quanto esperienza vissuta di un’uguaglianza in azione, la Comune fu innanzitutto un insieme di operazioni dirette allo smantellamento dell’apparato burocratico statale messe in atto da uomini e donne qualsiasi. Marx scrive che la cosa più importante della Comune di Parigi non sta tanto negli ideali che aveva cercato di realizzare quanto nella sua “esistenza operante”. La Comune fu cioè un laboratorio ricco di sperimentazioni politiche improvvisate sul momento o concepite rielaborando scenari e idee provenienti dal passato sulla base delle necessità della lotta in corso e dei desideri emersi nelle assemblee popolari negli anni della fine dell’Impero.
Ross, per esempio, sostiene che la fondazione dell’Unione delle Donne ha rappresentato la convergenza delle teorie di Marx e Černyševskij (autore del celebre romanzo Che fare?, fonte di ispirazione per i populisti russi e per Lenin). La sua principale animatrice fu infatti la russa Elisabeth Dmitrieff, che passò i tre mesi precedenti la Comune a Londra parlando quasi quotidianamente con Marx a proposito delle riflessioni dei populisti sulle organizzazioni rurali russe come l’obščina, la comune agricola. L’Unione divenne l’organizzazione più grande e attiva della Comune progettando una riorganizzazione totale del lavoro femminile e la soppressione delle disuguaglianze economiche fondate sulla disparità di genere nel mentre partecipava ai combattimenti, direttamente o assistendo chi si batteva sulle barricate. Proponendo di formare officine di cucito come comunità produttive libere, organismi che si sarebbero dovuti diffondere oltre i confini cittadini per creare una federazione internazionale di cooperative indipendenti, l’Unione delle Donne trasportò a Parigi lo spirito dell’obščina russa, liberato da ogni contaminazione con lo sciovinismo slavofilo. Partecipò così a quella pratica corale di importazione di modelli, di idee, formule e slogan da terre e tempi lontani, tutti sottoposti a febbrile rielaborazione. Il nuovo poteva essere modellato solo a partire dagli anacronismi sepolti nel presente, sostengono Kropotkin e Morris, esponenti di un filone di pensiero definibile come comunismo anarchico che, essendo elaborato proprio attraverso le riflessioni sulla Comune, presenta significativi punti di contatto con il contemporaneo sviluppo del pensiero di Marx, anch’esso profondamente influenzato dall’evento parigino del 1871. “Stare attenti alle energie del passato – commenta Ross – era una maniera per pensarsi rivolti verso il futuro”.

Questa peculiare dialettica tra passato e futuro si ritrova anche nell’ideale della Repubblica Universale che animò la Comune. Lo slogan era nato durante la rivoluzione francese del 1789, ma la sua ripresa nel 1871 costituisce, allo stesso tempo, una rottura con quella eredità nella direzione di un internazionalismo operaio. La Comune, come ricordò anni dopo la sua sconfitta uno dei suoi partecipanti, è stata prima di ogni cosa “un coraggioso atto di internazionalismo”, non solo per il gran numero di stranieri che vi partecipò, ma proprio perché fu un’insurrezione condotta sotto la bandiera della Repubblica Universale. La Comune non ambiva ad essere la capitale della Francia, a farsi Stato ma, nel momento in cui si apprestava a smantellare la burocrazia imperiale iniziando con esercito e polizia, volle rappresentare un collettivo autonomo all’interno di una federazione universale di popoli.
Affinché questa federazione avesse qualche possibilità di realizzazione i comunardi capirono presto che era fondamentale costruire un nuovo rapporto tra città e campagna, tra operai e contadini. “Come base della giustizia economica proponiamo due tesi fondamentali: la terra appartiene a coloro che la lavorano, cioè alle comuni agricole. Il capitale e tutti gli strumenti di lavoro appartengono ai lavoratori e alle loro associazioni”. Questa affermazione la troviamo nell’indirizzo programmatico di Le cause du peuple, rivista della sezione ginevrina dell’Internazionale, animata da esuli russi poco prima della Comune di Parigi. E queste stesse tesi le troviamo riecheggiate nello scritto di BenoÎt Malon e Adré Léo indirizzata alla classe contadina francese dall’interno di una Comune oramai sotto assedio. Ma c’è di più. Secondo le successive elaborazioni di Reclus e Kropotkin, la gestione cooperativa della “grande fabbrica della terra” conduce a una società caratterizzata dalla riproduzione semplice e dai ritmi ciclici della natura e, allo stesso tempo, ci porta verso un mondo contraddistinto dall’uguaglianza nell’abbondanza.

E con ciò torniamo al lusso comune, espressione inventata da Eugène Pottier per designare quella specifica forma di emancipazione immaginata dalla Federazione degli Artisti, sorta durante la Comune. Il manifesto della Federazione dell’aprile 1871 si chiude così: “Lavoreremo insieme per la nostra rigenerazione, il lusso comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale”. Questa espressione indica dunque la volontà di rompere con la follia rappresentata dalla produzione della ricchezza per pochi attraverso la povertà dei molti e lo spreco delle risorse; esprime l’intenzione di dare vita a nuovi legami sociali, a una nuova attività produttiva fondata su rinnovati rapporti di solidarietà e cooperazione e sul rispetto della natura. Per i comunardi il comunismo non è privazione, condivisione della povertà, ma un mondo radicalmente diverso caratterizzato da abbondanza, apertura e ricchezza. Un mondo in cui il tempo di lavoro smetterà di essere la misura della ricchezza e la ricchezza stessa non sarà più misurabile in termini di valore di scambio. Con il comunismo, che esige e riconosce il contributo di ciascuno per il bene comune, sarà possibile il vero sviluppo dell’individuo e il godimento dell’autentico lusso che può essere solo il lusso comune. “La varietà della vita è un obiettivo del vero Comunismo tanto quanto l’uguaglianza di condizioni”, sostiene Morris.
Tutto ciò significa anche trasformare le coordinate estetiche dell’intera comunità superando la divisione tra chi può permettersi il lusso di giocare con le parole e le immagini e chi non può farlo. In questo senso va la rivendicazione e l’attuazione in forme embrionali di un’educazione “politecnica” e “integrale” in grado di superare la divisione tra lavoro intellettuale e manuale. Lusso comune significa perciò rivendicare un’arte pubblica perché la bellezza non deve prosperare solo negli spazi privati o nella dimensione monumentale. L’arte si deve trasformare in qualcosa di vissuto, integrato nella vita di tutti i giorni, non superfluo ma essenziale per la vita della comunità.

In conclusione, per Kristin Ross rivendicare l’immaginario della Comune significa andare ben oltre la considerazione della rivolta parigina come un’anticipazione imperfetta, in quanto sconfitta, di quella che sarebbe stata la vittoriosa rivoluzione russa. Per non parlare dell’iscrizione dell’insurrezione della capitale transalpina nell’ambito della storia del patriottismo repubblicano francese. Tutto ciò è certamente condivisibile, ma è quanto mai opportuna la considerazione che a tale proposito fa Mario Pezzella nella postfazione al volume. La Comune libertaria dei consigli e dell’autogestione è stata solo una parte dell’evento, quella parte che ha prevalso nei provvedimenti e nei comportamenti che riguardavano l’organizzazione dello spazio e della vita quotidiana. Se prendiamo in considerazione la sua espressione più propriamente politica dobbiamo, però, prendere atto dell’importanza assunta da posizioni blanquiste e giacobine che hanno sbandato sempre di più verso la ripetizione delle forme di emergenza del 1792, Comitato di salute pubblica compreso. Se ci rivolgiamo alla Comune “sociale” cercando un’ispirazione per un comunismo ancora possibile dobbiamo comprenderne anche la sua debolezza di fronte alle tendenze autoritarie e giacobine. Anche perché, possiamo aggiungere, la potenziale scissione tra l’anima sociale e quella politica è una caratteristica forse ineliminabile di ogni evento rivoluzionario. Non ha senso perciò sostituire l’immagine mitica della rivoluzione del 1917 con quella, altrettanto mitica, della rivolta del 1871. “La nostra intenzione – conclude Pezzella – non deve essere la ripetizione di un fatto, ma la liberazione di un possibile”.

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Rosa Luxemburg e la rivoluzione impossibile https://www.carmillaonline.com/2019/06/09/luxemburg-rivoluzione-impossibile/ Sat, 08 Jun 2019 22:02:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52900 di Fabio Ciabatti

In un periodo come quello attuale in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo può essere utile riprendere le parole di Rosa Luxemburg a proposito della rivoluzione:

“non esiste nulla di più inverosimile, di più impossibile, di più fantasioso di una rivoluzione un’ora prima che scoppi. Non esiste nulla di più semplice, di più naturale e di più evidente di una rivoluzione nel momento in cui ha sferrato la sua prima offensiva e ha riportato la sua prima vittoria”.

A partire da queste [...]]]> di Fabio Ciabatti

In un periodo come quello attuale in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo può essere utile riprendere le parole di Rosa Luxemburg a proposito della rivoluzione:

“non esiste nulla di più inverosimile, di più impossibile, di più fantasioso di una rivoluzione un’ora prima che scoppi. Non esiste nulla di più semplice, di più naturale e di più evidente di una rivoluzione nel momento in cui ha sferrato la sua prima offensiva e ha riportato la sua prima vittoria”.

A partire da queste righe dedicate agli avvenimenti russi del 19171 si potrebbe dire, utilizzando un linguaggio che non appartiene alla Luxemburg, che la rivoluzione si configura come evento. Cos’è un evento? Seguiamo Badiou. Si tratta di un immanente rovesciamento delle leggi dell’apparire che ha come conseguenza di far esistere in una data situazione un termine prima inesistente. Si tratta, in altri termini dell’imprevedibile inizio di una rottura che si impone su tutti gli elementi che contribuiscono a creare la sua esistenza.2 Detto in modo ancora diverso, un evento è ciò che porta alla luce nuove possibilità che prima erano invisibili e addirittura impensabili. Non è in sé stesso la creazione di una nuova realtà, ma soltanto la creazione di una imprevista possibilità, ponendo in essere nuove soggettività e dando il via ad una serie di avvenimenti che aprono una nuova sequenza storica.3

Come noto il pensiero della Luxemburg è stato spesso accusato di spontaneismo. Però, se si può applicare, almeno in parte, la categoria di evento alla sua opera, allora parlare di spontaneismo non è la cosa più appropriata. Certo l’autrice contrappone spesso l’attività spontanea delle masse e la loro capacità di innovare la prassi politica all’inerzia e alla funzione frenante del partito e del sindacato. Ma se volessimo parlare in senso proprio di spontaneità dovremmo presupporre un tipo di comportamento che appartiene ad un soggetto come suo necessario attributo. Nel mettere in atto questo modo di agire il soggetto dovrebbe rimane identico sé stesso. Quello che compare nello sciopero di massa e nella rivoluzione si configura, invece, nello spirito della Luxemburg, come un vero e proprio “termine nuovo”. Il soggetto proletario si trasforma profondamente nel corso dell’evento rivoluzionario negando quell’incapacità di autogoverno delle masse sostenuta tanto dal socialdemocratico Kautsky quanto dal bolscevico Lenin, concordi nell’affermare che il socialismo va portato alla classe operaia dall’esterno. Attenzione però. Per la Luxemburg allo scoppio della rivoluzione non compare istantaneamente un soggetto bello e pronto per impadronirsi del potere e instaurare il socialismo. La rivoluzione rende visibile questa possibilità “estirpando dalle radici … lo spirito schiavistico” proprio della disciplina “inculcata dallo Stato capitalistico”.4 In sintesi, la rivoluzione fa parte del costituirsi del soggetto.

Non esiste, in altri termini, un soggetto che nella sua conformazione prerivoluzionaria sia in grado di innescare e portare avanti un’azione rivoluzionaria. Non esiste, cioè, un termine che, mantenendosi identico a se stesso, possa costituire la mediazione tra il prima e il dopo. E questo vale tanto per il soggetto sociale, il proletariato, quanto per il soggetto politico, il partito. Per questo non è raffigurabile una prassi/processo che per mero accumulo possa costituire la transizione da un periodo “normale” a uno rivoluzionario.
Una simile tematica è in continuità con quanto sostenuto da Marx: “la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società”.5

Torniamo a Rosa Luxemburg. “La prassi del socialismo esige una totale trasformazione dello spirito delle masse degradato attraverso i secoli di dominio della classe borghese”. Ciò che accade nella tormenta del periodo rivoluzionario è appunto il fatto che il proletario si modifica “da padre di famiglia prudente”, a “romantico della rivoluzione”.6 In sintesi secondo la rivoluzionaria polacca il soggetto proletario prima dello scoppio rivoluzionario si presenta come degradato, polverizzato, sbriciolato, dominato, egoista, prudente, passivo; dopo, svegliato improvvisamente da una sorta di scossa elettrica, si trasforma in un soggetto unitario, attivo, solidale, idealista, insofferente verso le sue catene. Attraverso l’unità e la perfetta reciprocità di lotte economiche e lotte politiche, per mezzo della politicizzazione dei bisogni immediati della vita quotidiana il proletariato diventa in grado di “sentire immediatamente come questione generale, come faccenda di classe ogni questione di un qualunque piccolo gruppo di operai e di reagire istintivamente come un tutto”.7
Se questo scarto vale per il proletariato, possiamo invece invocare l’esistenza dell’organizzazione politica come elemento mediatore che rimane identico a se stesso prima e dopo il periodo della tormenta? Secondo Rosa Luxemburg la funzione del partito nei periodi rivoluzionari soggiace intrinsecamente a forti limitazioni. Il partito non può stabilire l’inizio della rivoluzione: troppo complessi sono i fattori che portano da un conflitto singolo a un’esplosione generalizzata. Ma c’è di più. Il partito non può, in senso proprio, dirigere una rivoluzione perché un programma, anche il migliore, può contenere solo indicazioni generali di carattere essenzialmente negativo e non la miriade di provvedimenti positivi per introdurre elementi di socialismo nei rapporti sociali. Siamo lontani dalla convinzione di Lenin per il quale “La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta”.8
E’ vero che il rapporto tra masse partito nei diversi scritti subisce delle oscillazioni. Ripetutamente la Luxemburg sostiene che la socialdemocrazia deve prendere la leadership politica durante un periodo rivoluzionario. In altri brani si sottolinea invece la capacità del movimento di massa di creare la propria organizzazione nel corso degli eventi rivoluzionari. In ogni caso “l’iniziativa e la direzione non consistono nel comandare a freddo, ma nell’adattamento più accorto possibile alla situazione e nel contatto più stretto possibile con le disposizioni della massa”.9
Una cosa è però certa: le organizzazioni della classe operaia sono soggette a una necessaria dialettica che vede la costante tensione tra un riformismo di massa e un’ortodossia settaria. Le deviazioni opportunistiche, infatti, “non scaturiscono dal cervello degli uomini ma dalle condizioni sociali”,10 e per questo non possono essere evitate ma solo superate. Il socialismo “non si afferma automaticamente in ogni circostanza della lotta quotidiana della classe operaia”.11 Le organizzazioni della classe operaia si modellano sull’attività ordinaria finendo per acquisire un ruolo conservatore che si esplica nel rielaborare di continuo le piattaforme già acquisite. L’organizzazione da mezzo diventa fine che, per autoconservarsi, favorisce la cieca obbedienza delle masse e la direzione di un ceto di professionisti, mentre viene messa a rischio dalla mobilitazione rivoluzionaria delle masse.
Simili conclusioni potrebbero essere contestate se si potesse ipotizzare una catena continua di riforme che porta al socialismo. Cosa che la Luxemburg nega recisamente. Se è vero che la crescente socializzazione dell’economia capitalistica contiene in nuce elementi di socialismo, è altrettanto vero che questi elementi si manifestano attraverso l’esasperazione di antagonismi di classe e l’inasprimento del carattere classista dei rapporti giuridico-politici. La borghesia, sostiene l’autrice, rinnega la democrazia non appena diventa permeabile alle istanze popolari.
Al contrario, per il proletariato salito al potere la democrazia è un elemento vitale. “La democrazia socialista non comincia solo nella Terra promessa, dopo che è stata creata la sottostruttura dell’economia socialista, non è un regalo natalizio bello e pronto per il bravo popolo che nel frattempo avrà fedelmente sostenuto un manipolo di dittatori socialisti. La democrazia socialista …. comincia nel momento della presa del potere da parte del partito socialista”.12 Ma se quello che abbiamo fin qui detto è vero né le masse né il partito possono essere pronti per la rivoluzione prima della rivoluzione. Questa dunque, quando scoppia, è sempre “prematura”. Durante una rivoluzione bisogna sempre spingersi avanti, non indugiare a metà strada altrimenti ci si consegna alla reazione. Affinché ciò sia possibile è necessario preservare quella libertà che è sempre libertà di chi la pensa diversamente. Non si tratta di “fanatismo della ‘giustizia’”,13 ma della convinzione che l’aspetto creativo, soprattutto durante una periodo rivoluzionario, è appannaggio delle masse. La rivoluzione proletaria può procedere soltanto attraverso sperimentazioni, errori, sconfitte.

L’insistenza della Luxemburg sulla capacità di avanzare attraverso le sconfitte mette in evidenza un elemento di continuità che va ad integrare il carattere evenemenziale della rivoluzione. Esiste un legame tra le diverse esplosioni rivoluzionarie anche se sono separate da periodi di apparente calma o di reazione. Con un’osservazione dal tono benjaminiano la rivoluzionaria polacca afferma: “Tutte le infinite sofferenze del proletariato moderno rievocano il ricordo delle vecchie sanguinanti ferite”.14 Viene qui evocato un vissuto collettivo proprio degli sfruttati, una memoria latente degli oppressi, un sostrato comune dal quale possono avviarsi percorsi condivisi di trasformazione soggettiva. Tutto ciò risulterebbe impensabile se non si presupponesse una rigidità dei rapporti sociali di produzione tale da rendere possibile un sentimento, per quanto vago, di un comune destino, una percezione condivisa dell’impossibilità di sottrarsi ai rapporti di sfruttamento e oppressione.
E’ questa stessa rigidità dei rapporti sociali di produzione che giustifica anche la necessità della rivoluzione. Ma necessità non significa inevitabilità. La rivoluzione è necessaria soltanto nella misura in cui si vuole evitare di cadere nel baratro cui ci conduce inerzialmente lo sviluppo capitalistico. Il capitalismo, infatti, tende al crollo una volta assorbite le aree non capitalistiche. Il crollo economico è però soltanto un punto logico di approdo, prima arriva la barbarie dell’imperialismo e della guerra, strumenti necessariamente utilizzati dalla borghesia per ritardare l’arresto dell’accumulazione capitalistica. In altri termini l’unica certezza che non può essere messa in discussione è l’alternativa tra socialismo e barbarie.

In conclusione veniamo ai nostri giorni per sottolineare il fatto che la richiamata impossibilità di pensare la fine del capitalismo non potrebbe presentarsi con tanta forza se non si accompagnasse alla radicata convinzione relativa all’incapacità di autotrasformazione dei soggetti potenzialmente interessati a tale fine. Al massimo, in una logica populista, si riesce a pensare ad una sommatoria di rivendicazioni portate avanti da gruppi sociali che rimangono essenzialmente separati, chiusi nel particolarismo delle rispettive identità. Pensiamo ad una parola d’ordine come “prima gli italiani”. Ti manca la casa, sei disoccupato, ti sfruttano sul lavoro: ognuno può interpretare questa parola d’ordine pensando alla sua situazione particolare proprio perché si tratta di una parola d’ordine vuota. L’identificazione di una causa fittizia dei problemi sociali permette di prefigurare cambiamenti per i quali non è necessario modificare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, rivendicare alcun cambiamento nella distribuzione della ricchezza tra le classi, invocare alcun nuovo indirizzo di politica economica. E di conseguenza l’unità costruita attraverso questo significante egemonico vuoto non richiede alcuna effettiva mobilitazione, tanto meno la concreta solidarietà tra i gruppi portatori di differenti istanze rivendicative. E’ sufficiente un leader carismatico.
E’ possibile utilizzare questo schema coniugandolo a sinistra, come vorrebbero due autori quali Laclau e Mouffe? Tale possibilità riposa sull’idea che una simile sommatoria di interessi possa modificare i fondamentali rapporti di forza nella società. Ma affinché ciò sia possibile occorre interpretare i rapporti sociali di produzione come estremamente elastici. Da questo punto di vista, non esistono, in senso proprio, meccanismi cogenti di funzionamento del sistema. Esisterebbero soltanto delle combinazioni contingenti di interessi dei diversi gruppi politico-sociali che possono dare luogo a configurazioni estremamente differenziate e modificabili. In questa ottica, l’articolazione dei gruppi sociali è per sua natura frammentaria, determinata da una logica tutta politica. Non esisterebbe dunque un sistema in senso proprio che possa configurare un principio di continuità tra i gruppi sociali subalterni, un sistema che possa obbligare gli oppressi e gli sfruttati a un salto di qualità nella loro capacità di confliggere con l’ordine esistente in ragione dei limiti connaturati alle possibilità di trasformazione interne al sistema stesso.

Solo se si riconosce una necessità socialmente determinata, le leggi di sviluppo del capitalismo, diventa ipotizzabile un evento che apre nuove possibilità. Se tale necessità non viene riconosciuta le possibilità sembrano già essere tutte aperte, senza bisogno di modificare alcunché della sostanza dei comportamenti sociali quotidiani. Ma il fatto di non riconoscerla non significa che non esiste. Per questo credo che occorra ancora indagare, sulla scia di Rosa Luxemburg, come il particolare (il singolo conflitto) si possa sollevare al livello dell’universale (lo sciopero generale) attraverso una prassi che trasforma e unisce i soggetti coinvolti, piuttosto che mettersi alla ricerca di un universale (il significante egemonico) che possa essere rabbassato al livello del particolare (la singola rivendicazione) attraverso un’operazione ideologica che lascia inalterati, separati e passivi i soggetti coinvolti. La seconda via potrà forse sembrare più semplice, ma configura comunque una strategia di presa di potere dall’alto. Rosa Luxemburg invece suggerisce una via diversa: “conquistare il potere politico non dall’alto ma dal basso”.15 Oggi potrà sembrare impossibile e fantasioso, domani potremmo considerare questa via come qualcosa di semplice e naturale.

[L’articolo pubblicato è la relazione tenuta in occasione del convegno “Rosa Luxemburg … la rosa rossa era, è e sara”, organizzato a Roma il 25 maggio dal gruppo Devianze, attivo all’interno dei COBAS Lavoro Privato. Il medesimo gruppo sta organizzando un secondo appuntamento dedicato alla rivoluzionaria polacca per Ottobre 2019, sempre a Roma. Al momento hanno confermato la partecipazione: Chiara Giorgi (docente di Storia delle istituzioni politiche) e Maria Turchetto (docente di Storia del pensiero politico).]


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, Prospettiva, Roma 1997, p. 18. 

  2. Su questo tema si può per esempio vedere, tra i tanti testi di Alain Badiou, L’ipotesi comunista, Cronopio, Napoli 2011 e, in particolare il capitolo III, “La Comune di Parigi: una dichiarazione politica sulla politica”. 

  3. Per una sintesi sul pensiero di Alain Badiou cfr. il libro intervista Philosophy and the Event, Polity Press 2013. 

  4. R. Luxemburg, “Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa”, in Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 224. 

  5. Karl Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 29. 

  6. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, in Scritti politici, ed cit. p. 335. 

  7. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, ed cit., p. 346. 

  8. Lenin, “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”, in Marx, Engels e il marxismo, Newton Compton Editori, Roma 1973, p. 75. 

  9. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, ed. cit., p. 334. 

  10. R. Luxemburg, “Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa”, ed. cit, p. 235. 

  11. R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Prospettiva, Roma 1996, pp. 45-46. 

  12. R. Luxemburg, La rivoluzione russa, ed. cit, p. 68. 

  13. R. Luxemburg, La rivoluzione russa, ed. cit, p. 68. 

  14. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, ed cit., p. 315. 

  15. R. Luxemburg, “Discorso sul programma”, in Scritti politici, ed. cit., p. 630. 

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Classe operaia e rivoluzione: un equivoco secolare? https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/classe-operaia-rivoluzione-un-equivoco-secolare/ Wed, 17 Jan 2018 23:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42768 di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.

Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:

“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
Il vortice portentoso del modo di produzione capitalistico, basato sulla concorrenza, chiama l’uomo ad abbandonare la logica del minimo sforzo, a sgomitare, a camminare sui morti, divide le persone per ruoli e categorie produttive, integrandole nel suo tessuto, alimentandone continuamente la corsa. In questo modo gli uomini di tutte le classi sociali sono permeati dalla legge della concorrenza; è questo meccanismo che genera i ruoli cui le persone sono asservite. Se sono i ruoli ad assumere la funzione di soggetto e le persone fisiche fungono da oggetti alienati, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può questo meccanismo essere razionalizzato? La classe operaia, pur subendo lo sfruttamento nel suo ruolo subordinato, proprio perché è una classe complementare perché dovrebbe abbattere il modo di produzione capitalistico come ipotizzato da Marx e Engels?”1

Per affrontare questo spinoso problema l’autore compie un lungo viaggio a ritroso tra gli scritti di Marx, soprattutto quelli dedicati alla Comune di Parigi, quelli di Lenin sulla rivoluzione e la sua concezione, poi bolscevica, della società russa e, infine, analizzando la rivoluzione russa nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze. E proprio a Lenin e alla Rivoluzione “bolscevica” è dedicata la parte più consistente dell’opera: otto capitoli su undici, 350 pagine su 446.

All’interno di tale parte del progetto, Castaldo analizza in particolare, riprendendo anche tesi già esposte da Ettore Cinnella nei suoi studi sulla Rivoluzione,2 il rapporto conflittuale che si stabilì tra il pensiero leninista e l’azione bolscevica da una parte e le aspirazioni e le richieste della gran massa dei contadini, quasi sempre poveri, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Russia imperiale prima e successivamente dell’Unione Sovietica.

Oltre a questo l’autore pone il problema, già posto da Amadeo Bordiga,3 di come possa definirsi socialista una società in cui il lavoro continui ad essere salariato e quindi “monetizzato” in una contabilità a partita doppia in cui appaiano sia la colonna dei costi che quella dei “profitti”. Problema tutt’altro che secondario nell’analisi del risultato della rivoluzione sovietica, soprattutto nei decenni successivi all’Ottobre del ’17.

Le conclusioni cui giunge l’autore si articolano intorno al fatto che:

“I riflettori della storia puntati sull’arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento hanno messo in luce la forza dirompente del moto-modo di produzione capitalistico che, da un lato, ha scosso le vecchie classi come i servi della gleba in Russia e, dall’altro, ha posto alla ribalta della scena storica una nuova classe come il proletariato, che si è andato affermando in maniera definitiva come classe complementare nel modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine del globo. […] Siamo arrivati alla conclusione che il potere bolscevico, sorto da quella rivoluzione, fu costretto alle nazionalizzazioni economiche e alla centralizzazione politica per accelerare il processo di accumulazione capitalistica.[…] Uno Stato che fu definito sovietico dai bolscevichi, ma che aveva in sè tutte le caratteristiche di un apparato teso a dirigere lo sviluppo di un’accumulazione capitalistica originaria ed era molto distante dalla natura del potere della classe operaia e della dittatura del proletariato. “4

L’osservazione che il proletariato si è andato affermando come classe complementare al modo di produzione capitalistico sembra però dare per scontato che proletariato e classe operaia coincidano, fatto non così scontato nella realtà. Il proletariato inteso come massa dei diseredati, di coloro che sono stati espropriati non solo della ricchezza sociale prodotta, andata progressivamente ad accumularsi nelle mani dell’altro polo sociale, ma anche della decisione di come e quanta ricchezza o beni materiali produrre, pencola costantemente tra forme sociali integrate nella produzione (classe operaia in generale) e forme escluse dalla stessa (disoccupati e sottoproletariato o, ancora come nel mondo d’oggi, in forme precarie di occupazione) tese a demolire qualsiasi presunta omogeneità di classe e di coscienza.

Prima di andare avanti nell’analisi delle conclusioni occorre quindi sottolineare che l’autore, pur critico della vulgata più semplicistica della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo della classe operaia, tende a subire ancora le influenze di una visone politica in cui sostanzialmente proletariato e classe operaia tendono forzatamente a coincidere. Visione riscontrabile a partire da Plechanov e nel suo allievo Lenin oltre che nel successivo marxismo-leninismo che, però, non si presenta allo stesso modo in Marx ed Engels.

Sostanzialmente si potrebbe dire che mentre in Lenin e nel bolscevismo il proletariato deve farsi classe operaia per acquisire piena coscienza dei suoi compiti, in Marx e in Engels, fatto dovuto forse all’epoca, il proletariato deve negarsi in quanto tale per poter liberarsi dalle catene e dalle pastoie che lo legano al capitalismo. Non deve contribuire, soprattutto dopo la Comune di Parigi, a svilupparlo ma a negarlo. Non solo per l’abbrutimento e l’alienazione di cui troviamo la critica in Marx e più difficilmente in Lenin, ma anche per l’attenzione che Marx, nella parte finale della sua vita, prestò all’analisi delle società primitive e alla stessa comune contadina russa e alla possibilità che avrebbero avuto di giungere al socialismo e al comunismo saltando la fase, orrenda, del capitalismo.5

In questo la radicalità dell’azione rivoluzionaria del proletariato non deriva da una coscienza importata dall’esterno (leninismo), ma dalla ribellione contro le proprie condizioni di alienazione, abbrutimento ed espropriazione economica e culturale.6 Mentre l’ipotesi su cui si basò gran parte dell’azione bolscevica in prima istanza e, successivamente, del marxismo-leninismo, si adagiò sulla concezione deterministica e gradualistica derivata da Plechanov (prima pieno sviluppo del capitalismo poi trasformazione dei rapporti sociali ed economici di produzione) che, pur di affermarla nella sua battaglia con il populismo russo, aveva nascosto fino alla morte la risposta di tutt’altro tenore che Marx aveva inviato in una lettera a Vera Zašulic sullo stesso problema.7

Nel primo caso il proletariato e la classe operaia devono impadronirsi dello Stato per distruggerlo e per negarsi in quanto classe nella negazione dei rapporti di produzione capitalistici che la forma Stato avevano determinano, rimanendone a loro volta determinati, mentre nel secondo caso proletariato e classe operaia devono farsi Stato per sviluppare le forze produttive e rinforzare la propria funzione di e come classe. Ancora una volta lo scontro non è soltanto all’interno dei rapporti sociali reali, ma anche, e talvolta soprattutto, nell’immaginario politico che ne consegue.

Se poi qualcuno rimanesse ancora perplesso di fronte all’uso degli scritti del Marx più giovane in possibile antitesi alle le proposizioni leniniane, basterebbe ricordare che anche il Marx più vecchio (1875, otto anni prima di morire), nella sua critica al programma del partito socialdemocratico tedesco detto di Gotha, avanza riserve infinite su numerosi aspetti che poi, proprio attraverso l’influenza socialdemocratica su Plechanov, sarebbero entrati nelle formulazioni del marxismo-leninismo.

Afferma, ad esempio, Marx all’inizio della sua critica, proprio là dove il programma dichiara: «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà»:

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro umana.
Quella frase si trova in tutti gli abbecedari […] ma un programma socialista non deve pemettere a tali luoghi comuni borghesi di nascondere le condizioni che sole danno loro un senso. Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, solo nella misura in cui l’uomo si comporta fin dal principio come proprietario nei confronti della natura, la fonte prima di tutti i mezzi e ogggetti di lavoro, e la tratta come osa di sua proprietà. I borghesi hanno i loro buoni motivi per affibbiare al lavoro una forza creativa soprannaturale, perché […] ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della propria forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni oggettive di lavoro. Egli puà lavorare solo con il loro permesso e solo con il loro permesso può quindi vivere”.8

Altro che orgoglio del lavoro operaio!
Senza poi tener conto del fatto che se Marx, come ebbe a dire più volte, non voleva essere “marxista”, altrettanto Lenin non pensò mai di essere “leninista”; mentre il cosiddetto marxismo-leninismo fu formulato per la prima volta come ideologia dell’Internazionale e del Partito bolscevico o comunista dell’URSS da Stalin, alla fine del suo resoconto al XVII Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) il 26 gennaio 1934. Ma fu soltanto a partire dal 1938, nel Corso breve di storia del Partito bolscevico, redatto dall’apposita commissione del Comitato centrale del PCU(b), che tale pensiero e la stessa storia del partito acquisirono la forma di un dogma. Nello stesso anno vennero istituite in URSS le prime Università di marxismo-leninismo come una delle istituzioni della formazione dei militanti.
Ma continuiamo con le conclusioni cui giunge Castaldo;

“La nostra tesi sostiene che il proletariato è una classe complementare alla borghesia e come tale è un pilastro del modo di produzione capitalistico, finché le leggi lo sorreggono nel suo processo di riproduzione dell’accumulazione, Solo un’implosione per sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione del sistema capitalistico potrà aprire scenari all’oggi del tutto sconosciuti.[…] Assegnare a una parte del tutto, cioè al proletariato-classe operaia, la possibilità di precostituire una forza aggregata per abbattere l’altra parte del tutto, cioè la borghesia detentrice dei mezzi di produzione, equivale a definire i rapporti sociali da un punto di vista etico, cioè ideale, piuttosto che vedere deterministicamente il loro sviluppo e la loro crisi causata dalle leggi immanenti del suo funzionamento, che diviene crisi di un tutto, cioè di sistema, del modo di produzione. Se tiene la legge generale dell’accumulazione, questa tiene unito il tutto, dunque lo stesso proletariato che non può in alcun modo separarsi e distaccarsi perché materialmente vincolatodalle stesse leggi dell’accumulazione”.9

Ecco allora che dopo aver accettato una funzione meramente produttivistica della classe operaia, viene sventolata la determinazione delle leggi immanenti alla produzione capitalistica (ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto) come unica causa della fine possibile del capitalismo stesso, negando al proletariato qualsiasi soggettività politica che, sia nel caso della Comune che della iniziale rivoluzione russa, esso aveva avuto invece la capacità di affermare.

In un mondo dove la proletarizzazione ha assunto, nei paesi imperialisti d’Occidente come in quelli degli altri continenti, dimensioni mai viste prima, tale conclusione significa volere affidarsi ad un mantra che recita sostanzialmente che la fine verrà da sé, per leggi che sfuggono al controllo della classe e della specie umana e che soltanto una particolare setta o un determinato partito saprà individuare. Come ogni religione rivelata e ogni organismo di carattere sacerdotale tende a fare e promettere.

Spogliando così il proletariato delle sue capacità di riflessione e di lotta in grado di competere con le sirene del capitalismo e del nazionalismo. Condannandolo ad essere succube dei Trump, dei sovranisti o dei populisti di ogni risma. Contribuendo col fargli assumere, come nel caso della rivendicazione del valore assoluto del lavoro, un’identità artificiale attraverso un’invenzione impostagli dalle classi dominanti.

Peccato, perché la proposizione iniziale poteva servire a ben altre riflessioni sul ruolo della classe operaia, del proletariato tutto, della sua azione e delle sue differenti forme organizzative nel divenire della storia passata e futura della specie e della comunità umana.


  1. Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, pag. 11  

  2. Ettore Cinnella: 1905, la vera rivoluzione russa, Della Porta edizioni, Pisa –Cagliari 2008; 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta edizioni 2012; La tragedia della rivoluzione russa, Luni Editrice, Milano-Trento 2000  

  3. Nel suo Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista 1976 che va ben al di là della riflessione sulla burocratizzazione impostata da Trockij e seguita dai suoi vari epigoni  

  4. Castaldo, pp.420-422  

  5. Si veda ancora una volta su questo tema: Ettore Cinnella , L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014  

  6. Si confrontino: Marx- Engels, La sacra famiglia, cap.IV, II , Nota marginale critica e K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968 pp. 71-84. Testi che all’epoca Lenin non poteva conoscere perché ancora da ri/scoprire 

  7. Si veda ancora E.Cinnella, L’altro Marx, op. cit.  

  8. Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Massari editore, 2008, pp. 33 – 35 

  9. Castaldo, pp. 422 – 423  

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1917, un anno da non dimenticare https://www.carmillaonline.com/2017/12/28/1917-un-anno-non-dimenticare/ Wed, 27 Dec 2017 23:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42158 di Sandro Moiso

China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00

Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.

Forse per questo motivo, il [...]]]> di Sandro Moiso

China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00

Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.

Forse per questo motivo, il testo non è opera di uno storico tradizionale e non è figlio soltanto di un impegno militante, ma proviene dalla penna di uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi anni: China Miéville (Londra 1972). Vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premi Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), lo scrittore è stato e rimane però ancora militante della sinistra radicale inglese.

Queste due passioni l’hanno portato a ideare una letteratura visionaria che, soprattutto nella trilogia della città di New Crobuzon (Perdido Street Station, La città delle navi e Il treno degli Dei),1 mescola al suo interno socialismo utopico, aspetti steampunk, lotta di classe, rivoluzione sociale, orrori di sapore lovecraftiano, scienze magiche, creature aliene e avventura. Generando una sorta di anticipazione distopica di un mondo che assomiglia fin troppo al passato dell’industrializzazione e delle rivolte dell’Occidente a cavallo tra Otto e Novecento.

Sarà per questo motivo che China Miéville, pur lavorando su testi tratti sia dalla storiografia classica sull’evento quanto da quella degli ultimi decenni (sono una sessantina in tutto quelli elencati nella bibliografia), andando dalle opere di Edward Carr, Reed e Trockij a quelli ancora inediti in Italia di Ian D. Thatcher, Sarah Badcock e Lars T. Lih, solo per citarne alcuni, è riuscito a dare una ricostruzione estremamente originale, dinamica e interessante di un periodo storico su cui molti credono, ingiustamente, che non ci sia più nulla da dire o scrivere.

Molto vicino, nello sguardo e nella prospettiva, a Victor Serge, l’autore ricostruisce i fatti in dieci capitoli dedicati il primo a ricostruire La preistoria del 1917 (ovvero un sunto degli avvenimenti che condurranno alla Rivoluzione, dalla fondazione di Pietrogrado nel 1703 alla prima rivoluzione del 1905 e fino al disastro della partecipazione zarista al primo conflitto mondiale e alla morte di Rasputin) e gli altri nove ognuno ad un mese di quell’anno fatale per le sorti della Russia e del mondo, tra il Febbraio e l’Ottobre.

Il punto di vista è immediatamente chiaro al lettore: radicale e dal basso, senza inutili geremiadi sul bene o sul male rappresentato da quell’evento e, soprattutto, senza soffermarsi troppo sui meriti e demeriti dei grandi protagonisti, da un parte o dall’altra della barricata.
Ciò che conta è ciò che viene dal basso e chi sono quelli (soldati e operai, donne e contadini) che spingono avanti la Rivoluzione. Ancor prima che questa si imponga chiaramente nella testa di coloro che poi pretenderanno di averla guidata fin dagli inizi.

Il testo lo afferma chiaramente fin dalle pagine del primo capitolo: Quello che porrà fine al regime russo sorgerà dal basso. (pag. 54) Così, invece di dilungarsi troppo sulle storie dei partiti e dei presunti demiurghi dell’evento, l’autore porterà subito in scena i soldati, gli operai e le operaie di Pietrogrado con i loro desideri, le loro richieste concrete, le loro speranze di riscatto e di rispetto, il loro immaginario.

Un immaginario politico che non è fatto soltanto di slogan partitici e dibattiti ideologici, ma che è suggerito ed esaltato dalle dure condizioni della guerra e del lavoro. In una città che all’epoca , con i suoi due milioni e mezzo di abitanti e quasi mezzo milione di operai, era la più grande città industriale del mondo. Più di Detroit in cui pur già stava esplodendo l’industria dell’automobile.
Una città industriale che si trovava a galleggiare all’estremità occidentale del più grande impero del mondo (24 milioni di chilometri quadrati) i cui due terzi si trovavano in Asia e la cui popolazione di circa 160 milioni di abitanti era composta per 4/5 da contadini.

Una città fabbrica in cui l’età media era molto bassa e la popolazione, soprattutto quella operaia, giovane. Almeno 30.000 lavoratori avevano meno i 16 anni e le operaie, che erano 130.000, per il 68% avevano meno di trent’anni. L’età giusta per iniziare una grande avventura. La più grande che si possa immaginare: rovesciare un regime plurisecolare corrotto e marcio per instaurare una nuova società. Un tema epico, una prospettiva appassionante, una dinamica inarrestabile che sembra correre come un’onda anomala oceanica dalle trincee alle fabbriche fino alle campagne e alle regioni più lontane per poi ricadere col suo immenso ricciolo di schiuma sui palazzi del potere e sulle fantasie liberali e gradualistiche di quasi tutti i partiti coinvolti.

China Miéville con grande perizia letteraria e efficace ed incisiva documentazione sa trasmetterci l’autentico sense of wonder di quegli avvenimenti e di quei giorni intensi e movimentatissimi. In cui nel giro di poche ore tutto poteva cambiare, essere rovesciato e modificato. Una suspence continua che accompagna il lettore, anche chi già pensa di conoscere lo svolgersi di quegli avvenimenti non così lontani nel tempo, per tutta la lettura e dove, alla fine, la presa del Palazzo di inverno è un brindisi senza botto, senza l’enfasi che troppi hanno posto su un fatto che chiudeva un periodo ben più emozionante e denso di avvenimenti.

Molti degli episodi narrati lo erano già stati in altri libri e in altre memorie, ma qui sembrano assumere un nuovo splendore un nuovo significato. Luoghi e personaggi assumono una dimensione che sfugge alla tradizione della narrazione burocratica oppure agiografica, che poi è la stessa in fin dei conti, fatta successivamente dai vincitori o dagli esclusi.
Qui le masse non si muovono sullo sfondo, ma in primo piano. Semmai sullo sfondo, spesso arrancando in una direzione o in un’altra, stanno i battilocchi della Storia,2 sia che si di tratti partiti ed organizzazioni formali, sia che si tratti di individui, “grandi” o “piccoli” non importa.

Valga un episodio narrato per tutti che si svolge durante l’insurrezione di luglio, il giorno 4, quando soldati e operai pongono massicciamente e concretamente all’ordine del giorno la presa del potere da parte del Soviet di Pietrogrado, mentre questo tentenna dichiarando di preferire una via più graduale e democratica per la trasformazione della società russa e lo stesso Lenin si accontenta di chiedere una manifestazione pacifica: “parlando a una colonna di uomini armati, che desideravano correre alla battaglia”. (pag.219)

Assediati nel Palazzo di Tauride, i capi del Soviet erano nel panico. Dopo una rapida consultazione, mandarono il dirigente socialista rivoluzionario Černov in qualità di emissario, per calmare quelli che urlavano e intonavano slogan […] Uomo amabile ed eudito, un tempo rispettato da tutti, pensavano che avrebbe potuto calmare i manifestanti con un tipico discorso pieno di citazioni.
Ma quando apparve, qualcuno gridò; “Ecco uno di quelli che sparano contro il popolo!”. I marinai si mossero per afferrarlo. Sorpreso e spaventato, Černov si arrampicò su un barile e iniziò a parlare coraggiosamente. […] Mentre uomini e donne dall’aria sospetta che lo circondavano si facevano largo per avvicinarsi al punto in cui lui stava in equilibrio, un grosso operaio si fece strada fino a lui, salì al suo fianco e gli agitò il pugno chiuso davanti alla faccia.
“Prendi il potere, figlio di puttana”, gli urlò in una delle frasi più famose del 1917, “quando te lo danno!” (pag. 221)

E’ uno dei tanti momenti salienti di un annus mirabilis durante il quale i momenti topici sono attesi, preparati e commentati da masse attive che sembrano dare vita e corpo contemporaneamente ai protagonisti e al coro di una grande tragedia greca.
Fin da quel 23 di Febbraio quando le operaie delle industrie tessili scendono in sciopero senza ascoltare il parere contrario dei sindacati, dei partiti e dai rappresentanti locali dello stesso partito bolscevico.

Alla fine delle assemblee e degli incontri, le donne iniziarono a riversarsi dalle fabbriche nelle strade, urlando a gran voce per chiedere il pane. Sfilarono per i distretti politicizzati della città – Vyborg, Liteinj, Roždestvenskij – gridando alle persone radunate nei cortili dei palazzi, riempiendo le ampie strade con li loro numero sempre maggiore, precipitandosi alle fabbriche e chiamando gli uomini per invitarli ad unirsi a loro.[…] All’improvviso, senza che nessuno lo avesse pianificato quasi novantamila donne e uomini urlavano furiosi per le strade di Pietrogrado. E ora non chiedevano solo il pane, ma anche la fine della guerra, La fine della vituperata monarchia. (pag. 58)

Da lì a una settimana il regno dell’ultimo degli zar avrebbe cessato di esistere e da lì a sette mesi e mezzo anche il governo fantoccio che l’aveva momentaneamente sostituito sarebbe scomparso.

Grazie anche ad un’altra iniziativa dal basso, quell’Ordine numero 1 che un folto gruppi di soldati e marinai aveva imposto ai rappresentanti del Soviet di redigere la sera del primo marzo. Tale ordine aboliva in un colpo i soprusi su cui si basava soprattutto lo strapotere degli ufficiali sui soldati e quindi del Governo sull’esercito e, allo stesso tempo, poneva le armi e l’autorizzazione al loro uso non più sotto l’autorità dei comandi militari ma dello stesso Soviet e degli organismi creati dai soldati e dai marinai. In conseguenza del quale, il 2 marzo, lo zar si dimise, mentre il 3 anche il fratello dello stesso avrebbe rifiutato di accollarsi ancora la responsabilità di un trono che era scomparso, come per magia, nel giro di poche ore.

Nelle pagine di Mièville e nel loro scorrere, però, si impongono anche i luoghi della Rivoluzione: da quel quartiere di Vyborg che raccoglieva l’ala più radicale del movimento operaio pietroburghese, e in cui Lenin con tanto di parrucca bionda poté nascondersi nei giorni successivi alla mancata presa del potere di luglio ad un Palazzo d’Inverno, abbandonato e praticamente indifeso, in cui regna solo il caos durante le ultime ore dell’Ottobre.

E poi i personaggi, tanti, vari, tutti descritti nelle loro insicurezze e certezze; nella loro arroganza oppure nella loro umiltà: nel loro coraggio e nella loro viltà. Uno tra tutti vorrei ricordare qui, nella descrizione dell’autore: Maria Spiridonova.3

Spiridonova, dopo undici anni passati in prigione in condizioni brutali, era stat liberata a febbraio,era arrivata da poco a Pietrogrado in stile teatrale e trionfale. Immediatamente eletta sindaco di Čita, in Siberia, vicino a dove era stata al fresco, al suo rilascio ordinò immediatamente che si facessero saltare in aria le prigioni. Ora lei e gli altri socialisti rivoluzionari di sinistra accusarono Černov di aver “mutilato” il programma del partito. Avanzarono le loro proposte per la confisca della terra, per la pace immediata e per il governo socialista. (pag. 172)

Maria Spiridonova, la quasi leggendaria socialista rivoluzionaria, che aveva ucciso per il popolo e ne aveva pagato il prezzo, le cui torture e la cui carcerazione nel 1906 avevano scosso persino le coscienze liberali. Il suo coraggio, la sua sincerità e il suo spirito di sacrificio – e indubbiamente la sua sconvolgente bellezza – avevano fatto di lei qualcosa di simile a una santa famosa. E Lei, ancora implacabilmente salda alla sinistra dura e irrequieta del suo partito, era una fiera oppositrice di Kerenskij e del suo governo. (pag. 218)

Miéville trasforma i protagonisti dell’immenso rivolgimento in figure o in gruppi che difficilmente il lettore potrà dimenticare; contribuendo così a ridefinire un’epica rivoluzionaria che, sfuggendo alle maglie delle ideologie novecentesche, fonderà probabilmente l’immaginario delle lotte a venire, fuori da ogni accademismo e da ogni inutile settarismo. Soprattutto per le nuove generazioni tale operazione di svecchiamento e rinvigorimento della memoria potrebbe ritenersi altamente utile e salutare e anche per questo si rende necessario ringraziare Nutrimenti per aver avuto il coraggio di pubblicare una delle opere più originali e, allo stesso tempo, più coinvolgenti sull’argomento.


  1. Tutti e tre pubblicati in Italia da Fanucci  

  2. Battilocchio, termine dialettale napoletano spesso usato da Amadeo Bordiga nei suoi scritti. Deriva dal vocabolo francese battant l’oeil usato per indicare una cuffietta femminile che ricadeva sugli occhi. Metaforicamente lo stesso termine è stato poi usato a Napoli per indicare una persona che sembra essere sempre frastornata e stordita. Così come chi indossa la cuffietta non vede bene per l’indumento che annebbia la vista, così chi è definito “battilocchio” sembra essere confuso come se non vedesse, è considerato di scarsa intelligenza ed è spesso additato come “scemo del villaggio”. Fonte: http://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/145024-battilocchio-parola-tanti-significati-si-dice/  

  3. Di cui si è già parlato qui su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/  

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Caporetto tra rimozione, falsificazione storiografica e rivoluzione. https://www.carmillaonline.com/2017/11/29/caporetto-rimozione-falsificazione-storiografica-rivoluzione/ Wed, 29 Nov 2017 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41766 di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola [...]]]> di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola quasi sempre ad una mera disfatta militare. Operando una scelta uguale e specularmente rovesciata rispetto a quella fatta per ricordare gli eventi russi dello stesso anno.
Nel caso della Rivoluzione tutti i commentatori hanno ormai data per scontata la tragedia pagata dal popolo russo a causa dell’azione bolscevica, mentre per Caporetto si è fatto finta di ristabilire democraticamente una verità rimossa, quella delle colpe delle gerarchie e delle insufficienti contromisure prese da queste nei confronti della controffensiva austriaca di quei giorni.Talvolta ricollegandola, nella peggior tradizione delle narrazioni tossiche, ad un armistizio di Brest Litovsk non ancora avvenuto all’epoca.

In entrambe, però, la vera menzogna è stata quella di rimuovere coscientemente l‘azione delle masse diseredate dalla scena della Storia. Soprattutto quando questa azione indica un colossale rifiuto delle condizioni stabilite dalle classi dominanti e dalle loro, apparentemente, immutabili leggi e regole di comportamento. E sostituendo, sul piano della ricerca e della ricostruzione, l’attenzione per il clima sociale e politico che si respira, spesso a livello sovranazionale, in un dato momento storico con ricerche specialistiche che, riducendo il campo di indagine, permettono agli storici, apparentemente così seri ed oggettivi, di selezionare le informazioni, i documenti e le testimonianze utilizzate al fine di falsificare completamente gli avvenimenti e le loro spiegazioni. Alla faccia della sempre presunta e mai raggiunta obiettività.

Affermando, come si è fatto in alcuni testi, che non si svolse alcuno sciopero dei soldati nei giorni di Caporetto si finge di ribaltare il discorso principalmente portato avanti da Cadorna, comandante delle forze armate italiane fino a quella data, e dal suo Stato Maggiore ristabilendo la verità storica e riscattare la memoria dei soldati caduti eroicamente per difendere la patria.

Ora, pur tralasciando il fatto che già all’epoca tale ribaltamento delle giustificazioni cadorniane servì per sostituire il passato comando con quello di un nuovo macellaio, Armando Diaz (il cui nome metaforicamente adornava la scuola di Genova che nel 2001 fu testimone di un altro macello operato dalle forze del disordine), che poco si distinse dal precedente in termini di umanità e di abilità tattica e che, anzi, si distinse per la mancata promessa fatta ai soldati contadini di ripagare la loro fedeltà alla Patria con la ridistribuzione delle terre demaniali ed ex-irredente, occorre considerare che nel corso del primo macello imperialista pochissimi furono i generali di qualsiasi schieramento a tenere in considerazione parametri tattici e strategici che non fossero quelli del massimo volume di fuoco ottenibile dal proprio retroterra economico e industriale e l’utilizzo delle fanterie e, in genere di tutte le truppe impegnate al fronte, come autentica carne da cannone. In una guerra imperialista che risolse il problema della disoccupazione maschile più che con l’aumento della produzione, che ricadde in gran parte sulle spalle di coloro che già erano impegnati nelle officine e a cui si affiancarono in maniera significativa le donne, ancor più con la macellazione diretta nelle trincee e nelle terre di nessuno di milioni di giovani impegnati nel conflitto.

Quel primo e immondo conflitto imperialista causò sui vari fronti tra i dieci e i quindici milioni di morti e dispersi e rispedì verso casa almeno venti milioni di feriti e mutilati.
Basterebbero questi semplici e drammatici numeri a far comprendere che non era forse necessario alcuno sciopero organizzato dei soldati a far sì che le truppe fossero stanche di combattere e che a casa le famiglie dei soldati non volessero altro che la fine della guerra e il loro ritorno a casa. Famiglie proletarie e ancor più spesso contadine che con i giovani figli e mariti avevano spesso perso non solo degli affetti, ma anche un contributo importante all’interno dell’economia, spesso di sopravvivenza, famigliare.

Donne e famiglie che già agli albori del conflitto si erano impegnate nella lotta contro la mobilitazione generale e la guerra e classi sociali che, soprattutto in Italia, avevano seguito una via ben diversa, e maggioritaria, rispetto a quella intrapresa dai nazionalisti e dagli interventisti di ogni colore.1 Una mobilitazione così vasta che aveva costretto il Partito Socialista Italiano, unico tra quelli aderenti alla Seconda Internazionale e grazie anche alle ambiguità e contraddizioni delle classi dirigenti italiane indecise tra Triplice Intesa e Triplice Alleanza di cui pure l’Italia faceva parte, ad accontentarsi di una parola d’ordine apparentemente poco militarista, ma sicuramente rappresentativa dei timori socialisti, come Né aderire, né sabotare. Parola d’ordine che sarà duramente pagata dai proletari, dai contadini e dalle donne italiane proprio quando, come a Caporetto, raggiungeranno il culmine della disperazione e dell’odio per le classi dirigenti.

Se è vero che nel solo 1916 più di un milione e mezzo di soldati russi avevano abbandonato le trincee occidentali e l’esercito zarista, iniziando quella rivoluzione fatta con i piedi ovvero con l’allontanamento dai luoghi degli scontri per fare ritorno a casa, è anche vero che proprio in quell’anno, sul fronte italiano e a poco più di due anni dall’inizio dell’intervento a fianco dell’Intesa, il testo di una canzone come Gorizia tu sei maledetta,2 poi ripresa anche in tedesco e in slavo, segnalava dal basso una stanchezza e una voglia di rivincita inedita nei confronti delle classi dominanti e dei vertici dell’esercito. Nel giro di pochi giorni, per la conquista della città, nel mese di agosto 1916 erano caduti almeno 21.000 soldati italiani e almeno 10.000 austriaci.

La canzone era figlia di quei giorni, prodotta dal momento come lo è tutta la musica autenticamente popolare o folk. Ma come tale non sembra ancora accettata come documento dell’immaginario collettivo prodotto dal basso. Tanto è vero che costituì a lungo motivo di scandalo e non solo negli anni più vicini al conflitto mondiale, ma anche più tardi come quando fu eseguita nel 1964 dal Nuovo Canzoniere Italiano in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto all’interno dello spettacolo “Bella ciao”:

suscitando l’ira dei benpensanti. Quando Michele L. Straniero e Fausto Amodei iniziarono a cantare “Gorizia” avvennero incidenti in sala; la destra cercò di impedire le rappresentazioni; Straniero, Leydi, Crivelli e Bosio furono denunciati per vilipendio delle forze armate.3

I versi della canzone sembrerebbero in sé già piuttosto espliciti:

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana,
questa guerra ci insegna a punir.
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando: assassini!
Maledetti sarete un dì.

Ma basterebbe dare un’occhiata più attenta a un altro tipo di documenti, le lettere inviate dai soldati a casa e censurate dagli organismi militari preposti, per comprendere ancora di più lo stato d’animo che serpeggiva nelle trincee dal 1916.
Ne propongo qui di seguito alcune scelte a caso tra le tante.

Porco Dio, fanno bene a dare il pane ammuffito così finirà presto la guerra! Ed io ho piacere, popolo cornuto e bastonato, vuoi continuare a fare la guerra? Ma ribellatevi, uccidete tutti gli ufficiali e che sia finita!

Oppure:

Io sono un ufficiale per forza, e non ho voluto la guerra e ho quasi fatto a cazzotti prima della guerra con gli studenti che facevano le manifestazioni interventiste. La guerra è stata voluta da due o tre gruppi di mascalzoni.4

Due tra le tante si diceva. Ma se ancora non bastassero le lettere proviamo a rivolgerci ad altre fonti, anche di testimoni non di parte come soldati o anarchici e socialisti contrari alla guerra.

Il fenomeno di Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale.
E’ una rivoluzione.
E’ la rivolta di una classe, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe. Un’altra meentalità, un altro stato d’animo.
E’ una forma di lotta di classe. I sintomi che l’hanno preceduto e accompagnato sono quelli di un perturbamento sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e accompagnato tutti i perturbamenti sociali.

La fanteria, nell’annata 1917, era grandemente «demoralizzata». Non credeva più a nulla, non aveva più fiducia in nessuno. Voleva la pace, a qualunque costo.
Le Brigate che si rifiutavano di combattere, i soldati che prolungavano, motu proprio, le licenze, gli ufficiali che si lagnavano pubblicamente, tutto ciò era monito e minaccia. […]
L’offensiva di Maggio aveva fiaccato la resistenza dei fanti, quella di Agosto. Condotta brutalmente e a forza dai carabinieri, aveva messo a nudo le piaghe di cui soffriva il popolo delle trincee.
Gli atti di insubordinazione divenivano ogni giorno più gravi. La caccia ai carabinieri diventava sempre più feroce. L’odio dei soldati si manifestava in atti di natura prettamente sociale. […]
I casi di rivolta contro gli ufficiali erano rarissimi: i fanti apprezzavano e rispettavano i superiori diretti, quelli che dividevano con loro la paglia, il pane e la buca merdosa. E’ vero che, talvolta, li uccidevano a fucilate nella schiena: ma non per malvagità o per spirito d delinquenza. Per vendetta. La vendetta presuppone un torto. In ogni ufficiale ucciso dai propri soldati vi era un colpevole. […] Il fante non uccideva i carabinieri, non sparava contro le automobili dei generali, contro le colonne di camions, contro le baracche dei campi di aviazione, contro le finestre illuminate degli Alti Comandi, il fante non commetteva questi atti di indisciplina per «insofferenza della disciplina», o per istinti criminali, bensì per ragioni profondamente umane e sociali. […] In tutti coloro che soffiavano sul fuoco, predicavano la necessità del sacrificio, declamavano concioni patriottiche, sventolavano bandiere nelle comode vie delle comodissime città dell’interno, in tutti coloro che spingevano alla guerra senza farla e senza capirla, il fante vedeva un nemico.5

Un altro testimone di Caporetto fu l’americano Ernest Hemingway che proprio nel suo romanzo Addio alle armi, pubblicato nel1929, parzialmente basato su esperienze personali dello scrittore che negli ultimi mesi della grande guerra aveva prestato servizio come conducente di ambulanza, racconta una storia che si svolge in Italia prima, durante e dopo la battaglia di Caporetto.
Nel narrare le vicende l’autore ricorderà gli ufficiali fucilati dai soldati mentre cercavano di fermare la loro ritirata dal fronte e giungerà alla conclusione che i disertori non sono altro che soldati che hanno avuto il coraggio di firmare una pace separata con il nemico.

Poiché il clima sociale e politico non si era creato soltanto nelle trincee e soltanto in Italia occorre ricordare ancora alcuni altri fatti.
Nella primavera del 1917, tra aprile e giugno, migliaia di soldati francesi avevano abbandonato le trincee. La parola d’ordine era Facciamo come in Russia!, ma nessun partito la raccolse e la fece propria e così anche l’ammutinamento francese finì con fucilazioni esemplari e condanne dei militari ribelli.6

A Torino, nell’agosto dello stesso anno gli operai e le operaie dello stesso anno erano scesi in sciopero e avevano preso le armi, occupato i quartieri proletari e le fabbriche, costruito barricate e coinvolto e disarmato alcuni reparti inviati per sconfigger e la rivolta. Mentre gli anarchici si diedero da fare per organizzare le sparse, e alla fine sconfitte forze proletarie, i pochi militanti del Partito Socialista presenti in città (una trentina), dopo aver invitato le maestranze a tornare al lavoro, decisero di appoggiare la protesta ma senza dare, se non generiche, indicazioni politiche.7 Non fecero miglior figura i futuri fondatori del PCd’I, nemmeno i più intransigenti tra di loro, che nello stesso periodo non pubblicarono un rigo sull’argomento Torino o Caporetto.8

La rivoluzione però sembrava bussare alle porte e non solo in Russia dove il 7 novembre si sarebbe risolta con l’avvio del governo dei Soviet che avrebbero sostituito il governo provvisorio in carica ormai dai primi di marzo quando, grazie soprattutto all’Ordine numero 1 dettato direttamente dai rappresentanti dei soldati al Soviet di Pietrogrado, il vecchio regime zarista si era ritrovato con un esercito su cui non poteva più fare affidamento come in passato e lo zar Nicola aveva abdicato a favore del fratello che a sua volta non accettò l’incarico di reggere un paese in rivolta. Lo strumento classico della controrivoluzione nazionale e internazionale si era infatti trasformato nello strumento della rivoluzione.

Così, nonostante l’insipienza delle forze politiche italiane, soprattutto di quelle socialiste nelle loro diverse declinazioni, ma grazie alle ripetute iniziative dal basso, nelle trincee, nelle città e nelle campagne, il Governo decise di affidare al Direttore generale di pubblica sicurezza il compito di riferire con relazioni periodiche riassuntive le Condizioni dello spirito pubblico nel Regno.
La prima fu redatta in data in data 8 febbraio 1918 e portava come titolo il seguente: MOVIMENTO SOVVERSIVO ED ANTIBELLICO NEL REGNO DURANTE I MESI DI DICEMBRE 1917 E GENNAIO 1918.
Alla prima seguirono altre venti, attente relazioni, l’ultima in data 19 novembre 1918 a guerra sostanzialmente finita.9

L’iniziativa si deve collocare all’interno di quella ripresa di efficienza del potere centrale nel periodo successivo a Caporetto, che ebbe il suo fulcro nella riorganizzazione del ministero degli Interni e dei suoi organi periferici, e nel più stretto controllo del centro sulla periferia; ma essa riflette anche l’accresciuta preoccupazione delle sfere politiche nei confronti dei pericoli di moti insurrezionali, che dopo Caporetto si temeva potessero coinvolgere il paese.10

Il timore era forte e perfettamente giustificato, poiché la guerra imperialista aveva suscitato un’ira implacabile nei confronti delle classi dirigenti, dei governi, delle monarchie, della borghesia e del capitalismo tout court. Non solo il dopoguerra europeo, soprattutto nei paesi “sconfitti” sarebbe stato segnato dall’azione armata di operai e soldati che erano sopravvissuti alle trincee e che intendevano far pagare ai veri responsabili le proprie inumane sofferenze,11 la follia che ne era derivata per un numero di combattenti che non sarebbero mai più tornati alla normalità,12 e le leggi draconiane applicate per la diserzione e l’autolesionismo tra i soldati che avevano cercato di sfuggire all’infernale tritacarne del conflitto o che anche soltanto avevano criticato la guerra o gli alti comandi.13

Su quest’ultimo punto basti citare un singolo episodio. Durante una cena tra quattro giovani aspiranti ufficiali degli alpini, subito dopo Caporetto, uno dei quattro forse più loquace o più spregiudicato, afferma che la guerra è ingiusta, aggiungendo:

«Ho piacere che abbiano sfondato le linee (gli austriaci – NdR). Magari arrivassero a Milano, così sarebbe finita per tutti». I colleghi ammutoliscono. Si alzano e appena fuori vanno a denunciare il collega ai carabinieri. Cinque giorni dopo il Tribunale militare di guerra del XX corpo d’armata condanna per tradimento l’aspirante ufficiale alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. La sentenza viene eseguita nella stessa giornata.14

L’Italia avrà il triste primato delle condanne a morte comminate dai tribunali militari in tempo di guerra:

Nel corso della Grande Guerra, davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa, 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Le condanne interessarono il 60 per cento dei processi. 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Le sentenze di morte eseguite furono 750.15

Cui forse dovrebbero essere aggiunti tutti quei soldati che furono abbattuti sul posto dagli ufficiali o dai carabinieri per impedirne l’ammutinamento o anche soltanto la fuga dalla trincea.

Soltanto tra il 1917 e il 1920 furono più di venti i rivolgimenti armati o i rovesciamenti violenti del potere costituito nell’area dell’Europa orientale e della Mitteleuropa,16 ma ciò che occorre qui sottolineare è che il grande macello ebbe fine proprio grazie alle rivolte dei soldati, dei marinai e degli operai delle industrie belliche tedesche che con la loro mobilitazione nel novembre del 1918 costrinsero il Kaiser ad abdicare, imposero la fine della guerra e la nascita della Repubblica.

Sarebbe qui troppo lungo narrare la storia di quei giorni, le contraddizioni, lo scontro tra Socialdemocrazia tedesca e forze rivoluzionarie, ma certo è che l’esempio russo di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e rivoluzionaria aveva dato i suoi frutti in gran parte del continente coinvolto nella guerra.

Non solo. Anche la guerra civile russa, animata dalle potenze imperialiste contro la novella repubblica dei soviet e a fianco dei generali “bianchi”, fu in gran parte debellata grazie proprio all’ammutinamento delle truppe straniere inviate sul territorio sovietico per sconfiggere la rivoluzione. I soldati inglesi e di altre nazionalità si ammutinarono a Murmansk e ad Arkhangelsk, mentre i marinai francesi inviati con la flotta nel Mar Nero si ammutinarono ad Odessa. Così, mentre i venti di rivolta spiravano anche tra le truppe americane dislocate nell’oriente siberiano, alla fine del 1919 tutte le truppe straniere dislocate sul suolo sovietico erano state ritirate dal fronte, condannando di fatto alla definitiva disfatta le raffazzonate armate bianche, in cui la diserzione già dilagava, di Kolchak, Denikin e Wrangel.

Ancora una volta per una sintetica ricostruzione dello sciopero, indetto a partire dall’autunno del ’19, dai portuali americani di Seattle per impedire l’invio di armi al fronte controrivoluzionario e del vero e proprio rifiuto dei soldati di continuare a combattere per la causa dei Bianchi, ci assiste un romanzo, scritto non a caso negli anni dell’intervento americano in Vietnam.

Gli scaricatori di Seattle ficcarono le mani nelle tasche dei loro giacconi bagnati e abbandonarono il lavoro. I marinai francesi di Odessa, atterriti dalla loro stessa audacia, si ammutinarono piuttosto che continuare a combattere i Rossi. Le forze inglesi e gli americani che prestavano sotto gli ufficiali britannici a Arcangelo e Murmansk, avevano già avuto la prova delle renitenza dei soldati quando avevano ricevuto l’ordine di avanzare contro le forze dell’Armata Rossa.
Nell’aria c’era un terribile senso di resistenza.
I consulenti in materia di investimenti rabbrividirono e cominciarono a consigliare ai propri clienti di scaricare o vendere subito certe azioni che neanche tre mesi prima erano in rialzo […] Generali e statisti erano allibiti, perché il loro vocabolario tradizionale, i loro appelli al patriottismo, agli ideali, all’abnegazione e alla gloria si dimostravano inefficaci contro l’infezione della renitenza. Le truppe fresche che giungevano in linea erano non meno riluttanti di quelle che al fronte c’erano da mesi. Anzi lo erano di più.[…] Indifferenza, inerzia e riluttanza piovevano su tutti i fronti. Gli eserciti si muovevano qua e là con passo pesante e affaticato aspettando il caos che li liberasse.17

Molti di quei soldati, giovani, arrabbiati, delusi e disoccupati al loro ritorno in patria, furono anche quelli che diedero vita alle prime formazioni armate di autodifesa e offensiva proletaria. Come accadde in Italia dove furono proprio le formazioni volontarie di ex-combattenti, quelle che poi diventarono gli Arditi del popolo, a fronteggiare più volte vittoriosamente i fascisti.18 Con buona pace di chi, soprattutto nel PCd’I, metteva avanti l’idea di mantenere una netta separazione tra le squadre armate del Partito e, ancora una volta, le iniziative dal basso.

La guerra imperialista trasformata in guerra civile rivoluzionaria, questo è ciò che separò allora e separerà ancora e sempre l’antimilitarismo anti-imperialista dal pacifismo generico, sempre pronto ad ammettere la necessità di una guerra nazionale difensiva. Il rovesciamento dell’esercito da strumento di repressione ad arma della Rivoluzione, è ciò che caratterizzerà sempre l’antimilitarismo rivoluzionario da quello falsamente pacifista e democratico. La ricerca della verità nei fatti e nelle testimonianze dei ceti meno abbienti e nelle loro espressioni culturali e politiche, nell’immaginario che le ha accompagnate o che ne è conseguito è ciò che differenzia una storiografia realmente antagonista da quella perbenista e giustificazionista degli studiosi che, anche indirettamente, difendono l’attuale ordine di cose presente attraverso l’obiettività, sempre presunta e mai raggiunta, dell’utilizzo delle fonti ufficiali e delle testimonianze raccolta dalle commissioni di inchiesta governative. Dando così vita ad una ricostruzione dei fatti volta soltanto a giustificare l’ingiustificabile: la guerra imperialista, i partiti borghesi ed opportunisti, gli interessi economici e “nazionali”, la vigliaccheria dei rivoluzionari da operetta.

Dove, infine, tale scelta dei soldati e dei giovani richiamati diventò importante anche senza giungere ad una vera e propria rivoluzione, come nei casi degli Stati Uniti impegnati in Vietnam e del Portogallo degli anni settanta, la scelta di disertare, ammutinarsi o uccidere i propri ufficiali sul campo si dimostrò essere sempre, oltre che inevitabile, quella migliore per il destino e la coscienza della comunità umana nel suo complesso.
Così, anche là dove l’iniziativa resta individuale o casualmente collettiva come nel caso della diserzione, occorre aver ben chiaro che di fronte all’inciviltà dei macelli imperialisti la fuga, il rifiuto di combattere e la spontanea ritirata, come avvenne a Caporetto, rappresentano ancora una scelta migliore e più civile della cieca obbedienza agli ordini superiori.


  1. Si confronti : https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/  

  2. cfr. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  3. Cfr: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=47&lang=it  

  4. Tratte da Quinto Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Donzelli 2014, pag.251  

  5. Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Vallecchi 1995 (secondo il testo della prima edizione 1921), pp.119-121  

  6. Pietro Caporilli, Francia 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, Genova 1989 (prima edizione italiana 1934)  

  7. cfr. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi 1958, pp.416-430  

  8. cfr: Amadeo Bordiga, Scritti 191-1926. La guerra, la rivoluzione russa e la nuova Internazionale 1914-1918, Graphos 1998  

  9. Giovanni Procacci, “Condizioni dello spirito pubblico nel Regno”: i rapporti del Direttore generale di Pubblica sicurezza nel 1918, in Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, DI FRONTE ALLA GRANDE GUERRA. Militari e civili tra coercizione e rivolta, il lavoro editoriale, Ancona 1997, pp.177-247  

  10. Procacci, op.cit. pag.177  

  11. Si consulti per il livello di sofferenza raggiunto nelle trincee europee del conflitto 1914-18: John Keegan, Il volto della battaglia, Mondadori 1978.  

  12. cfr: Antonio Gibelli, L’OFFICINA DELLA GUERRA. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringieri 1991 e, ancora, Antonio Gibelli, La guerra laboratorio: eserciti e igiene sociale verso la guerra totale in LA GUERRA VISSUTA. Fronte, fronte interno e società, MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA (nuova serie), anno 3 n° 5, 1982, pp.335-349  

  13. Cfr: Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza 1968  

  14. Forcella – Monticone, op.cit. pag. VII  

  15. Dino Martirano, L’onore (perduto ma restituito) dei soldati italiani fucilati nella Grande Guerra, Corriere della sera, 21 maggio 2015  

  16. Cfr: Robert Gerwarth, La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923, Laterza 2017  

  17. Ric Hardman, Fifteen Flags, 1968 – traduzione italiana Quindici bandiere, Arnoldo Mondadori 1971, pp.456-458  

  18. Cfr: Valerio Gentili, Roma combattente. Dal Biennio Rosso agli arditi del popolo, la storia mai raccontata degli uomini e delle organizzazioni che inventarono la lotta armata in Italia, Castelvecchi 2010  

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Rivoluzione e disillusione https://www.carmillaonline.com/2017/11/15/rivoluzione-e-disillusione/ Wed, 15 Nov 2017 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41462 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900. Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900.
Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero trasformato definitivamente le concezioni ottocentesche del socialismo e, allo stesso tempo, la concezione borghese della funzione dei partiti.

Franco Bertolucci, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, storico militante e ricercatore attento a tutte le manifestazioni del pensiero espresso tra Otto e Novecento dal movimento operaio e anarchico italiano ed internazionale, ha condensato in un agile e documentato volumetto, edito dalle edizioni BFS, le contraddittorie posizioni manifestate dal movimento anarchico italiano nei confronti di quella rivoluzione.

Posizioni la cui contraddittorietà non derivava dalla più generale concezione anarchica della trasformazione sociale, quanto piuttosto da quella che fondava la rivoluzione stessa.
Un moto enorme di soldati, operai, donne e contadini che nel giro di pochi giorni, nel febbraio del 1917, aveva di fatto cancellato dalla Storia un’autocrazia che da cinque secoli governava il territorio più grande al mondo: quei 24 milioni di km quadrati che costituivano l’impero zarista.

Un moto rivoluzionario, che avrebbe costituito, ad un primo giudizio storico e politico, l’evento più importante della guerra (la prima mondiale) come ebbe a dire Rosa Luxemburg nel suo scritto dedicato all’evento e scritto a caldo nel 1918 mentre si trovava in carcere.1
Il fatto più importante di un evento che a sua volta avrebbe contribuito in maniera decisiva a fondare le premesse e i percorsi politici e sociali del XX secolo.

Un moto che sembrava smentire le concezioni gradualistiche della socialdemocrazia, sia europea che russa, che fondava le proprie idee di trasformazione sociale su una concezione distorta del pensiero di Marx.2 Un processo rivoluzionario che partiva dalle masse esaurite da anni di guerra, morte, fame e miseria, in un contesto socio-economico e politico che poteva ben considerarsi come il più arretrato d’Europa, ma che si esprimeva in un contesto rappresentativo, i soviet, in cui era ancora forte la funzione dei partiti. Non sempre all’altezza del compito e non sempre, anzi quasi mai, in sintonia con le richieste provenienti dal basso.

Basti qui citare un estratto da una lettera al soviet di Pietrogrado proveniente da un gruppo di soldati al fronte alla fine di luglio del 1917 (quando il governo provvisorio era in carica già da cinque mesi):

Al congresso3
E’ l’ultima volta che vi chiamiamo compagni.
Noi credevamo che il congresso avrebbe portato, o se non altro avvicinato la pace, invece i discorsi vertono su tutt’altro: sugli arresti degli anarchici, sulla disputa con i bolscevichi a proposito dell’allontanamento degli anarchici dalla dacia di Durnovo, sull’esistenza della Duma di Stato, sugli ossequi a Rodzjanko e così via. Ricordate signori ministri e principali dirigenti: noi i partiti li capiamo poco, sappiamo solo che non è lontano nè il futuro nè il passato, lo zar vi ha confinati in Siberia e imprigionati, ma noi vi trafiggeremo con le baionette.
Perché voi menate la lingua come le vacche menano la coda.
A noi non servono le belle parole, a noi serve la pace.4

Testimonianza esplicita di una rivendicazione all’azione diretta ed efficace contro la guerra e le inutili cianfrusaglie ideologiche ed opportunistiche espresse dall’assemblea che avrebbe dovuto innanzitutto dare voce e corpo alle istanze di chi le aveva permesso di esistere e sopravvivere.
Voci e moti che fin da febbraio avevano costituito per il movimento anarchico, italiano e internazionale, un più che valido motivo di speranza nell’avvicinarsi di un più vasto sommovimento di classe internazionale.

Voci e moti che trovavano corrispondenza anche in Italia e sul fronte italiano. Bertolucci non dimentica infatti di ricordare che le speranze degli anarchici italiani si fondavano non soltanto sulla resistenza alla guerra manifestatasi nelle campagne e città italiane già nel 1914, ma anche nei moti insurrezionali di Torino nel corso del mese di agosto del 1917 e, soprattutto, nell’elevato numero di diserzioni e procedimenti contro i renitenti alla leva (circa 470.000). In una situazione in cui in una regione come la Sicilia il numero dei renitenti corrispose al 50% dei chiamati o richiamati al fronte.

«Fare come in Russia» diventa in breve il leitmotiv dei giornali sovversivi e libertari. Gli anarchici e i propri organi tra i quali «L’Avvenire anarchico» e «Guerra di classe», periodico dell’Unione Sindacale Italiana, seguono con trepidazione e crescente simpatia l’evolversi della situazione.
Ragioni politiche e storiche – considerando l’influenza esercitata dal movimento rivoluzionario russo in Italia – determinano questa spontanea ed entusiasta attenzione verso la Rivoluzione russa da parte degli anarchici italiani, che con una visione messianica attendono la rivoluzione sociale come risposta alla guerra imperialista. Le prime notizie dalla Russia confermano le loro attese e le loro previsioni. Gli anarchici, nel marzo-aprile 1917, sperano che l’affermazione di quella rivoluzione sia il prodromo dell’espandersi del moto agli altri paesi coinvolti nel conflitto mondiale.5

Tali speranze e previsioni erano poi ulteriormente alimentate dalla stampa borghese che, come nel caso del quotidiano «La Stampa» di Torino in un articolo del 21 aprile di quello stesso anno, definiva Lenin come un «anarchico russo». Ignorando completamente le differenze che correvano tra le concezioni politiche del leader bolscevico e quelle libertarie. E che di lì a poco si sarebbero pesantemente manifestate in entrambe le direzioni di marcia.

Paradossalmente l’ultima manifestazione pubblica degli anarchici in Russia corrispose ai funerali, nei primi giorni di febbraio del 1921, del vecchio nobile e anarchico Kropotkin che, sebbene criticato dal movimento libertario, sia in Russia che in Italia, per aver scritto e firmato, il 21 febbraio 1916 ma pubblicato sul quotidiano «La Bataille» soltanto il 14 aprile di quello stesso anno, il Manifesto dei sedici in cui si inneggiava alla guerra a fianco dell’Intesa contro l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui centinaia di migliaia di soldati russi avevano cominciato a disertare,6 costituiva pur sempre un simbolo di continuità tra le vecchie e nuove generazioni del movimento libertario.

Di lì a poco, nel marzo del 1921, la distruzione e la dispersione, ad opera dell’Armata rossa diretta da Trockij e dal generale Michail Nikolaevič Tuchačevskij, della comune dei marinai, dei soldati e degli operai di Kronštadt, che aveva costituito una delle anime più generose e determinate della rivoluzione del ’17, avrebbe determinato la definitiva cesura tra movimento libertario e bolscevismo. Come ebbe ad osservare l’anarchica americana Emma Goldman all’epoca ancora presente sul territorio russo.

Cesura, tra movimento rivoluzionario autentico e politiche bolsceviche, che gli anarchici avevano già iniziato a denunciare precedentemente e che la convocazione del I Congresso della Terza Internazionale nel marzo del 1919, dopo un primo momento di partecipazione ideale e di positivo accoglimento dell’iniziativa, aveva portato, per esempio, ad affermare sulle pagine del giornale «Il Risveglio» di Ginevra:

Lenin ci ha fatto intendere chiaramente che non vuole di noi nella Terza Internazionale, a meno che fossimo disposti ad ammettere la conquista dei poteri pubblici e la dittatura cosiddetta del proletariato, ossia cessare d’essere anarchici.7

Dittatura del proletariato in cui gli anarchici non intravedevano altro che una sorta di dittatura di una minoranza di operai specializzati dell’industria, insieme agli intellettuali rivoluzionari e socialisti e ai nuovi proprietari terrieri, come scrivevano sulle pagine di «Umanità nova» nel novembre del 1920.

Delle tragiche conseguenze di quella rottura legata alla progressiva presa del potere da parte del partito bolscevico scrive ancora Bertolucci nel suo testo, così come altri hanno già fatto.
Ciò che occorre, però, qui individuare non sono soltanto le illusioni e le disillusioni che accompagnarono i movimenti reali e quelli sovversivi di quegli anni, ma anche il fatto che le difficili informazioni provenienti dalla Russia e le distorte interpretazioni ideologiche di quegli avvenimenti nascosero, allora come troppo spesso ancora oggi, il fatto che nel 1917 giunsero ad un fatale incrocio quattro treni lanciati in corsa: 1) quello del movimento reale dei soldati, degli operai, delle donne e dei contadini; 2) quello delle aspirazioni anarchiche e populiste attive in Russia fin dalla seconda metà dell’Ottocento; 3) quello dei partiti socialdemocratici, liberali e borghesi che intendevano approfittare di un rinnovamento in chiave capitalistica dell’assetto economico e sociale della Russia zarista e 4) quello della minoranza socialista bolscevica, sospesa tra marxismo ortodosso e rivoluzione. Il tutto in un contesto in cui l’imperialismo internazionale da subito fece di tutto per impedire e distruggere l’esperimento «sovietico» fin dai suoi primi e incerti passi.

Da quel cozzo di forze gigantesche emersero vincitori, ma soltanto per un breve periodo, i bolscevichi. Illusi essi stessi di poter guidare quel magma dopo averlo correttamente interpretato nei giorni di Ottobre. Illusi di essere in grado di rappresentare sempre e comunque le reali esigenze del proletariato, fino ad arrivare a distruggerne le avanguardie insieme agli avversari politici, anarchici e socialisti rivoluzionari. Prima di essere essi stessi divorati dallo stesso infernale e cieco meccanismo partitico e dittatoriale. Come dalle belle e pacate pagine scritte da Bertolucci è possibile correttamente intravedere.


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), BFS Edizioni 2017  

  2. Si confrontino Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e la sua recensione su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

  3. dei Soviet  

  4. cit. in Alessandra Santin, Lettere di soldati russi al Soviet di Pietrogrado (marzo-novembre 1917) raccolte in Paolo Giovannini (a cura di ), Di fronte alla grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp.168-169  

  5. Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE, pag. 38  

  6. Si calcola che nel solo 1916 siano state un milione e mezzo le diserzioni nell’esercito zarista  

  7. Bertolucci, pag. 77  

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