rivoluzione permanente – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:09:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

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La fucilazione dell’eco https://www.carmillaonline.com/2022/08/19/la-fucilazione-delleco/ Fri, 19 Aug 2022 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73578 di Giorgio Bona

 

Io ruberò, se il furto allieterà la tua anima.

Perché, invano ho speso tante forze?

Acconsenti, almeno al paradiso in una capanna,

se qualcuno ha occupato il palazzo e la torre.

 

Sono splendidi versi di una canzone di Vladimir Vysockij che si intitola Lirica.

Mi viene in mente quando la mia cara amica Olga annuncia che mi farà un grande omaggio, donandomi la copia (di cui in foto) della Izvestija del mese di agosto 1938. Ventidue pagine tutte dedicate al processo di Lev Davidovič Bronštein [...]]]> di Giorgio Bona

 

Io ruberò, se il furto allieterà la tua anima.

Perché, invano ho speso tante forze?

Acconsenti, almeno al paradiso in una capanna,

se qualcuno ha occupato il palazzo e la torre.

 

Sono splendidi versi di una canzone di Vladimir Vysockij che si intitola Lirica.

Mi viene in mente quando la mia cara amica Olga annuncia che mi farà un grande omaggio, donandomi la copia (di cui in foto) della Izvestija del mese di agosto 1938. Ventidue pagine tutte dedicate al processo di Lev Davidovič Bronštein detto Trockij. Un regalo inaspettato, un pezzo raro, un cimelio. Ho paura ad aprirlo perché il tempo con la carta è impietoso e finisce di divorare pagine e parole senza pietà.

Durante quel periodo, mentre la Pravda fungeva da portavoce ufficiale del partito, la Izvestija fu, dal 1917 al 1991, la voce ufficiale del governo ed espressione del Soviet Supremo.

E allora ancora Vysockij: “lunga vita a quelli che cantano nel sogno. Il mondo può stare sommerso. I continenti possono ardere tra le fiamme. Ma tutto questo non mi appartiene”.

C’è un filo conduttore sottilissimo che lega il pensiero di Lev Trockij al lirismo dell’anima sempre in fermento di Vladimir Semënovič Vysockij (1938-1980) proprio in quella visione del paradiso dentro uno spazio piccolissimo, quello di una capanna, perché qualcuno il castello lo ha già occupato, abusivamente.

Non c’è felicità in tutto questo, se non nel conseguimento di quel microcosmo che ha la speranza di diventare universale. Non abbattendo il castello, perché la distruzione lascia strascichi terribili, ma spingendone allora fuori il male, facendone una capanna, il grande cuore dei sogni.

Trockij: pseudonimo preso dal nome di un suo compagno di cella nella prigione di Odessa, nome che servì come espediente per fuggire dalla Siberia, dove si trovava in esilio, per raggiungere Londra.

Beatificato dai comunisti occidentali anche se in occidente molti sostenevano che condividesse le idee e i metodi del capo supremo e suo eterno rivale, per cui il corso del bolscevismo non sarebbe stato più morbido sotto la sua figura.

Parole. Fiato sprecato.

Chissà se qualcuno può intravedere in questo lirismo profondo, che genera un pianto arcaico nella canzone di Vysockij, quei passi della Rivoluzione Permanente di Trockij, rivoluzione prima dell’anima e della mente perché non transige con alcuna forma di dominazione di classe, e che ha una spinta che procede oltre, senza arrestarsi alla fase democratica, ma passa alle misure socialiste. Una rivoluzione che si arresta solo quando è avvenuta la totale liquidazione della società divisa in classi.

Certo che se l’intento fu quello di fermarne il pensiero, la sua morte ebbe un grande effetto di risonanza soprattutto nelle figure della sinistra che rappresentavano il dissenso.

Così Vysockij in una sua celebre canzone: La fucilazione dell’eco.

 

Non dovevano essere uomini, gonfi di veleni e di oppio,

quelli che giunsero per uccidere e ammutolire la gola viva,

se nessuno ne sentì il calpestio e il grugnito,

legarono l’eco e sulla sua bocca misero un bavaglio.

 

La fucilazione dell’eco coincide con il concetto principale della teoria trockijsta basata sulla grande idea di espansione della rivoluzione socialista in tutto il mondo sull’esempio di quella sovietica. Un’eco che fu subito soffocata in contrapposizione allo stalinismo, in quanto sosteneva che l’obiettivo del socialismo in un solo paese fosse una rottura con l’internazionalismo proletario. L’occupazione del palazzo bruciava la capanna dei sogni e spegneva l’eco di risonanza.

Il processo a Trockij parte dalla seconda regola precisa per l’occupazione del potere da parte di Stalin: uomini, se inutili vanno messi da parte.

Certo che la politica giusta di uno stato operaio non è riducibile soltanto all’edificazione economica nazionale, e se la rivoluzione non si estende nell’arena internazionale seguendo una spirale proletaria incomincerà a contrarsi seguendo una spirale democratica entro un quadro nazionale.

Spirale proletaria? Si parte dall’anima, dal comune sentire. Un credo. Un fiume sottopelle che scorre impetuoso e libero, una volontà della mente. Tutto confluisce in un comune pensiero. La felicità.

La teoria classista e l’esperienza storica testimoniano l’impossibilità di vincere del proletariato con metodi pacifici quando mancano questi sentimenti dentro la carne viva. E il potere sovietico di Stalin era basato sullo strangolamento delle organizzazioni proletarie e sull’onnipotenza della burocrazia.

Mi piace pensare a Venedikt Erofeev (1938-1990) seduto sui gradini della Lubjanka a farsi una vodka, mentre nel 1957 riusciva addirittura a convincere i colleghi a comporre poesie ispirate ai grandi classici della letteratura mondiale e a creare un’antologia del movimento operaio.

E cosa può essere la vita che opera il cambiamento se vengono soppresse le riunioni nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università, nei teatri, nelle strade e nelle piazze?

Ma il palazzo era abusivamente occupato. E Stalin ammise che mandare Trockij in esilio invece di sottoporlo alla fucilazione fu un errore. Il processo ne sentenziò la condanna a morte.

Leonardo Padura Fuentes nel suo romanzo L’uomo che amava i cani (2009: Tropea, 2010) racconta l’esilio dell’acerrimo nemico di Stalin in Turchia, Francia, Norvegia e Messico e anche il sofferto passato del suo omicida, Ramon Mercader, la sua militanza nella guerra civile in Spagna e la fedeltà assoluta alla causa sovietica. Emessa la condanna a morte, nel 1940 Mercader la eseguì.

Poco prima del suo assassinio Trockij scrisse sul suo diario:

 

morirò da proletario rivoluzionario, da marxista, il che vuol dire da devoto ateo. La mia fede nel futuro comunista è ora altrettanto fervente e pesino più forte rispetto ai tempi della mia giovinezza. Questa fede nell’umanità e nel suo futuro mi dà un potere di resistere più forte di qualsiasi religione.

 

Nel 2017 in Russia verrà prodotta la serie tv Trockij distribuita da Netflix che, partendo da alcuni fatti realmente accaduti,  costruisce una sostanziale storia di finzione intorno alla sua figura. Questa serie riceverà diverse accuse per inesattezze, soprattutto dai suoi discendenti che protesteranno con una lettera contro lo spettacolo, firmata da diversi intellettuali e storici di sinistra.

Quando Vladimir Vysockij con la voce arrochita dall’alcol e dal fumo cantava a squarciagola nel microfono Non è ancora finita:

 

Chi vuole vivere, chi gioire, chi non è pidocchio,

– preparate le vostre mani per il corpo a corpo!

E che i ratti lascino la nave!

Intralciano la mischia scompigliata!

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L’armata a cavallo (che non cambiò i destini del mondo) https://www.carmillaonline.com/2020/09/23/larmata-a-cavallo-che-non-cambio-i-destini-del-mondo/ Wed, 23 Sep 2020 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62642 di Sandro Moiso

Mikhail Nikolayevich Tukhachevsky, MILLENOVECENTOVENTI. La “marcia sulla Vistola” e la rivoluzione alle porte d’Europa, traduzione a cura di Fabio Pellicanò, Circolo Internazionalista Francesco Misiano, supplemento a Pagine Marxiste n° 48, gennaio 2020, pp. 160, 10 euro

Isaak Babel’, giornalista e scrittore sovietico, nel 1940, quando fu fucilato nella prigione di Butyrka a seguito di un ennesimo processo farsa, pagò duramente l’onesta descrizione della campagna militare in Polonia durante la guerra civile russa fatta nei racconti contenuti nella sua opera più famosa: L’armata a cavallo (titolo originale “La cavalleria rossa”). [...]]]> di Sandro Moiso

Mikhail Nikolayevich Tukhachevsky, MILLENOVECENTOVENTI. La “marcia sulla Vistola” e la rivoluzione alle porte d’Europa, traduzione a cura di Fabio Pellicanò, Circolo Internazionalista Francesco Misiano, supplemento a Pagine Marxiste n° 48, gennaio 2020, pp. 160, 10 euro

Isaak Babel’, giornalista e scrittore sovietico, nel 1940, quando fu fucilato nella prigione di Butyrka a seguito di un ennesimo processo farsa, pagò duramente l’onesta descrizione della campagna militare in Polonia durante la guerra civile russa fatta nei racconti contenuti nella sua opera più famosa: L’armata a cavallo (titolo originale “La cavalleria rossa”). Testo, pubblicato in prima istanza nella rivista LEF di Vladimir Majakovskij nel 1924, che era il risultato delle osservazioni fatte sul campo dallo scrittore che era stato assegnato, come giornalista, alla prima armata a cavallo del Feldmaresciallo Semën Michajlovič Budënnyj, diventando così testimone diretto della campagna di Polonia che cercava di portare la rivoluzione comunista fuori dalla Russia. In quell’occasione l’Armata Rossa penetrò fin quasi a Varsavia, ma fu infine respinta nella battaglia del 1920 svoltasi in prossimità della capitale polacca.

Anche l’autore del testo qui recensito, Mikhail Nikolayevich Tukhachevsky, finì col pagare con la vita nel 1937, tra le altre cose, le posizioni sostenute nel corso di quella campagna militare e la critica alle scelte militari dell’incipiente stalinismo. Ma con una non piccola differenza, rispetto al primo: egli aveva diretto, in qualità di generale dell’Armata Rossa, le operazioni sul fronte polacco ed era stato testimone degli errori politico-militari che avevano minato la riuscita di una campagna militare che avrebbe potuto cambiare le sorti della storia d’Europa e del mondo, se le armate sovietiche fossero riuscite a congiungersi con la classe operaia tedesca ed occidentale nei turbolenti anni del primo dopoguerra.

A Tukhachevsky, già sottotenente dell’esercito zarista, dopo la Rivoluzione era stato affidato il comando della I Armata che combatté sui principali fronti della guerra civile. La sua carriera militare fu notevole: capo di stato maggiore dell’Armata Rossa nel 1924, fino al più alto grado, quello di maresciallo dell’Unione Sovietica. Nonostante le divergenze d’opinione su questioni di carattere militare e politico mantenne sempre ottimi rapporti – ufficiali e personali- con Trotsky, nei confronti del quale mai espresse giudizi sfavorevoli o critiche, ignorando così le pressioni del partito. Arrestato nel maggio 1937 nel corso delle grandi purghe staliniane, Tukhachevsky venne condannato per spionaggio con false prove ed eliminato.

La pubblicazione italiana del testo, curata dal Circolo Internazionalista Francesco Misiano, in occasione del centenario di quella guerra, riproduce sia le conferenze tenute dal generale sovietico per il Corso di Complemento dell’Accademia militare di Mosca dal 7 al 23 febbraio del 1923 che una lettera dello stesso Tukhachevsky a Zinov’ev del 18 luglio 1920, in cui veniva tracciata una prima e importante valutazione politica delle ragioni del fallimento dell’offensiva sul fronte occidentale.

Il lettore, infatti, troverà tra le sue pagine, oltre ad un’ attenta disamina sulla questione Crisi, guerra e rivoluzione in Marx, Engels e Lenin e sullo specifico della guerra russo-polacca contenuta nella Postfazione curata dai militanti del Circolo Misiano, la possibilità di riflettere su alcune problematiche di carattere sia storico che politico che a cent’anni di distanza non hanno ancora perso significatività.

Quelle di carattere storico riguardano la superficialità con cui negli ultimi decenni, ma forse anche già da prima, si è guardato a quella guerra, interpretandola soltanto come un primo passo dell”imperialismo’ sovietico nei confronti della Polonia, prima, e del resto dell’Europa centrale poi.
In questa dominante vulgata la Polonia del Maresciallo Józef Klemens Pilsudski, che dopo l’entrata in vigore della Costituzione parlamentare nel 1921 e la vittoria elettorale dei democratico-nazionali nel 1922 avrebbe, nel 1926, preso il potere con un proprio partito di ispirazione fascista (Sanacja – Risanamento), abolito il Parlamento e assunto poteri pienamente dittatoriali che avrebbe poi mantenuto fino alla sua morte nel 1935, di solito interpreta il ruolo della giovane e orgogliosa nazione, tutta unita al suo interno, che lotta contro l’aggressione del gigante vicino.

In realtà, prima e durante la guerra con le armate rosse, il paese fu sconvolto da lotte operaie che furono duramente represse e da una ribellione serpeggiante fin nelle file dell’esercito. Motivo per cui, durante lo stesso conflitto, almeno un reggimento tentò di passare, al completo di armi e bagagli, sotto il comando dell’Armata Rossa.

Smontata questa impostazione patriottarda della resistenza polacca al “dilagare” delle armate sovietiche, il passo successivo sarà dunque costituito dall’esame degli errori militari e politici che contribuirono al rallentamento prima e alla sconfitta poi dell’offensiva rivoluzionaria verso il cuore dell’Europa occidentale e della sua ribollente, all’epoca, classe operaia.

E qui militare e politico si intrecciano inequivocabilmente, come d’altronde avviene quasi sempre in ogni guerra, poiché molto spesso gli errori compiuti sul campo derivano da scelte operate lontano dal fronte e intorno ai tavoli della politica.
Nelle settimane dirimenti per l’offensiva, inutili furono i richiami e gli ordini di Tukhachevsky affinché tutti gli sforzi e tutte le forze disponibili sul fronte della Vistola fossero concentrate nel tentativo di prendere Varsavia. Una parte dello Stato Maggiore sovietico, tra cui lo stesso Budënnyj, preferì non dare ascolto alle richieste del comandante delle operazioni, per puntare invece tutte le altre risorse disponibili nel tentativo di conquistare la città di L’vov (Leopoli), obiettivo assolutamente secondario, se non inessenziale, rispetto alle ragioni della campagna rivoluzionaria voluta dagli stessi Lenin e Trotsky.

Qualunque fossero le scelte di carattere personale operate dagli altri generali (tattiche oppure semplicemente legate a motivi di invidia e rancore personale nei confronti del nascente astro di Tukhachevsky), si manifestò proprio in quel momento l’inizio del contrasto tra due differenti concezioni delle finalità della stessa rivoluzione russa.
La prima, fatta propria da Lenin, Trotsky e dallo stesso Tukhachevsky, intendeva la rivoluzione dei Soviet come un primo passaggio verso una rivoluzione internazionale permanente, destinata ad essere esportata anche con le armi o, come si diceva allora, “sulla punta delle baionette”, al fine del rovesciamento su scala mondiale, o almeno europea, del capitalismo.
La seconda, che si rivelò poi vincente con l’ascesa di Stalin ai vertici del potere, intendeva invece ciò che era successo dal febbraio del ’17 in poi come un movimento indirizzato alla creazione del “socialismo in un solo paese”. Sostanzialmente una rivoluzione nazionale il cui compito sarebbe stato quello di rendere indipendente e potente la nascente Unione Sovietica.

E’ facile capire come, su un fronte in movimento, qualsiasi ritardo possa trasformarsi in disfatta per gli eserciti che avanzano e in motivo di rafforzamento per quelli schierati a difesa dell’obiettivo principale che i primi intendevano raggiungere, così, nel giro di poche settimane, l’offensiva fallì, trasformandosi in disfatta.
E qui occorre aggiungere un paio di altre considerazioni.

La prima è che quella offensiva nulla ebbe a che spartire con l’espansionismo sovietico nei confronti dell’Europa centrale e germanica alla fine del secondo conflitto mondiale, compresa la scelta di lasciare massacrare gli insorti polacchi dalle truppe naziste, dopo che i primi avevano già liberato Varsavia dalle truppe tedesche, molto meglio armate, nell’estate-autunno del 1944.
Tanto meno con gli interventi militari a favore dei paesi e dei partiti fratelli (Berlino Est 1953 – Ungheria 1956 – Praga 1968 – Polonia 1981). Operazioni militari e interventi repressivi che invece servirono a manifestare in pieno il volto imperialista del “socialismo in un solo paese” .

La seconda è data dal fatto che, pur tenendo conto delle scelte autoritarie del governo rivoluzionario e del ruolo di comandante svolto da Tukhachevsky nelle operazioni nei confronti dei rivoltosi di Kronstadt e di Tambov, il tentativo di sfondare in Occidente era dettato dal sincero convincimento che soltanto con la partecipazione degli operai e dei comunisti occidentali ad un allargamento internazionale della Rivoluzione questa avrebbe potuto affermarsi in maniera stabile e, forse, definitiva. In un momento in cui in Europa, dalla Germania all’Italia del Biennio Rosso, le insurrezioni e le acque della rivolta sociale erano tutt’altro che placate.

Ed è proprio nella lettera a Zinov’ev che possiamo ritrovare alcune considerazioni, svolte dal generale sovietico, utili ancora oggi, esattamente ad un secolo di distanza, ed estremamente significative per cogliere appieno il significato delle scelte politiche e militari di Tukhachevsky:

La guerra civile, che non fu una piccola guerra né una guerra partigiana, ma una guerra civile vasta, materialmente logorante, durata due anni e mezzo, ci colse di sorpresa per ciò che riguardava le sue proporzioni.
Per ciò che riguarda un esercito proletario regolare, in generale il complesso dei membri del nostro partito non era preparato.
Questa nostra mancanza di preparazione alla guerra fa sentire ancor oggi le sue conseguenze. Il principale motivo di questi errori sta nel fatto che non sono stati studiati né la forma teoretica né i mezzi per resistere alla borghesia nel periodo della rivoluzione socialista. La strategia e la tattica delle guerre civili da una parte e di quelle imperialiste e nazionali dall’altra non sono eguali (per ciò che concerne le forme e i mezzi) neppure in una stessa epoca. E’ necessaria un’indagine sulla teoria della guerra civile: questo tipo di guerra interessa più di ogni altro la classe operaia e quindi il Partito comunista, come elemento attaccante; e quindi essi devono studiarla […]1

I principii fondamentali della strategia della guerra di classe cioè della guerra civile su cui si dovranno basare tutti i calcoli e che sono nettamente diversi dai principi fondamentali della strategia della guerra imperialistica sono i seguenti:

1) La guerra si potrà concludere solo con l’instaurazione dell’universale dittatura del proletariato, perché la borghesia mondiale non permetterà all’isola socialista di vivere in pace.
2) Da questo primo principio segue che lo Stato, una volta soggetto al potere della classe operaia, non dovrà proporsi in guerra uno scopo politico conforme alle sue forze armate e mezzi militari, bensì creare forze bastevoli alla conquista degli stati borghesi in tutto il mondo.
3) La fonte da cui l’esercito trarrà i suoi uomini sarà il proletariato di tutto il mondo, senza riguardo per le nazionalità.
4) Non vi sarà mai pace sulle frontiere tra l’isola socialista e lo Stato borghese. Esse saranno sempre un fronte, sia pure in forma latente.

[…] La guerra civile mondiale non deve coglierci completamente di sorpresa. La classe operaia deve essere addestrata a combatterla […] Mi sembra che la situazione non permetta indugi2.


  1. Lettera a Zinov’ev, compresa in M.N.Tukhachevsky, Millenovecentoventi, pag. 95  

  2. Lettera, op. cit., pp. 96-97  

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