Rivoluzione Messicana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tina Modotti, la mostra https://www.carmillaonline.com/2024/10/28/tina-modotti-la-mostra/ Mon, 28 Oct 2024 21:15:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85024 di Mauro Baldrati

Entrare nella grande mostra di Tina Modotti è come iniziare un viaggio nel tempo. Le stampe, circa 120, coprono il periodo di un decennio, dai primi anni ’20 ai ’30, il segmento temporale in cui Tina si occupò a tempo pieno di fotografia.

La tecnologia dell’epoca – gli albori della fotografia moderna – produceva stampe dai toni morbidi, con ridotta profondità di campo per cui se erano a fuoco il naso e gli occhi le orecchie iniziavano a sfumare nei contorni. Per dire, in era analogica questo effetto fu ripreso e perfezionato dalle stampe Polaroid, che assumevano suggestioni [...]]]> di Mauro Baldrati

Entrare nella grande mostra di Tina Modotti è come iniziare un viaggio nel tempo. Le stampe, circa 120, coprono il periodo di un decennio, dai primi anni ’20 ai ’30, il segmento temporale in cui Tina si occupò a tempo pieno di fotografia.

La tecnologia dell’epoca – gli albori della fotografia moderna – produceva stampe dai toni morbidi, con ridotta profondità di campo per cui se erano a fuoco il naso e gli occhi le orecchie iniziavano a sfumare nei contorni. Per dire, in era analogica questo effetto fu ripreso e perfezionato dalle stampe Polaroid, che assumevano suggestioni antiche, diciamo pure vintage.

Questa caratteristica, soprattutto nelle prime stampe di piccolo formato, potenzia la percezione onirica, per cui sembra – forse sogniamo? – di udire i suoni, le grida, le musiche del Messico rivoluzionario, dove Tina ha vissuto parte della sua vita convulsa e veloce, proprio come la candela di Blade Runner.

Tina Modotti appartiene a quella fratellanza artistica in cui la vita e l’opera si fondono in una osmosi perfetta, spesso dominata da tensioni e contraddizioni, proprio come l’arte rappresenta la vita, con tutte le sue gioie e i suoi conflitti.

Per conoscere o approfondire la sua biografia è fondamentale il libro di Pino Cacucci, Tina, un testo bellissimo e terribile, una biografia romanzata ma precisa che ci introduce in quei tempi eroici e violentissimi in cui Tina è passata come una meteora. Un corpo celeste che, mentre sfrecciava rapido, iniziava perdere velocità e luminosità, fino a spegnersi nella morte precoce, nel 1942 a 46 anni.

Ha vissuto gli entusiasmi e la creatività selvaggia della rivoluzione, ha conosciuto e frequentato quella specie di orco buono di Diego Rivera, che l’ha sempre amata e sostenuta, difendendola dalle calunnie degli agenti stalinisti, che in Messico, come in Spagna durante la guerra civile (qui le pagine di Cacucci sono atroci), avevano come unico scopo far fallire le rivoluzioni che non sottostavano al controllo del Comintern, e di assassinare i leader e gli attivisti.

La sua casa di Città del Messico era un ritrovo di rivoluzionari, di anarchici, di trockisti, poeti come Machado e Octavio Paz, artisti come Frida Kahlo, dove si festeggiava, si ballava e si discuteva senza fine.

Durante questa golden age Tina ha affinato la sua tecnica fotografica, sotto la guida dell’americano Edward Weston, forse l’amore più grande della sua vita, iniziando quel lavoro di fotografa militante alla quale si può attribuire la nascita del reportage sociale e politico. Fotografi come Robert Capa, Gerda Taro e David Seymour le devono molto. Ha viaggiato in Messico in tutte le latitudini e ha fotografato una moltitudine di personaggi del popolo, documentando le dure condizioni di vita proletaria e contadina. Del suo lavoro scrisse il critico Egon Erwin Kisch:

Il suo segreto è riuscire a rendere una visione della realtà attraverso l’immagine che lei ha del mondo. Ciò significa che gli occhi tristi di un bambino riesce a renderli più belli dello sguardo di una reginetti. E i paesaggi industriali, i mezzi di produzione, le mani, le chitarre… appaiono più affascinanti delle verdi strade svizzere (il riferimento di Kisch si riferisce a una fotografia che Tina probabilmente scattò durante un viaggio clandestino in Svizzera per conto di Soccorso Rosso Internazionale ndr). Ma gli uomini del suo mondo non sono felici. Perché? E’ questa la domanda che sorge dalle sue fotografie.

La mostra espone le famose foto delle donne indio coi cesti sulla testa, i contadini, i bambini del Messico profondo e rurale, immagini in still life dell’estetica rivoluzionaria, la falce e il martello sopra una chitarra, o sulle pannocchie di mais. Non mancano i ritratti e i nudi realizzati da Weston, i volti e il corpo della “bellissima rivoluzionaria italiana” come la definivano le informative dell’OVRA, la polizia segreta fascista che la spiava, la schedava e la inseguiva.

Nessuno, forse, neanche un attento e sensibile biografo come Cacucci, può penetrare in profondità nella decisione di Tina di abbandonare la fotografia, che pure viveva come una militanza non solo artistica, per tuffarsi nell’attività rivoluzionaria vera e propria. Diventa un’organizzatrice instancabile di Soccorso Rosso Internazionale, l’ente che si occupa dell’assistenza ai rivoluzionari in difficoltà, poi, in Unione Sovietica, funzionaria del Comintern.

Sottoposta, nonostante l’impegno sincero e la serietà che la distingue, alla politica del sospetto paranoide del terrore staliniano, braccata dall’OVRA, viaggia per il mondo a fianco di uno dei più pericolosi agenti del regime stalinista, col quale ha una storia sofferta e per certi aspetti incomprensibile, il demoniaco “italiano”, Vittorio Vidali.

Non riprenderà mai più in mano la macchina fotografica, bloccata da un senso di rifiuto che nessuno potrà scalfire, neanche Robert Capa e Gerda Taro, che in Spagna tentano di convincerla sull’utilità della fotografia militante.

Resterà sempre una rivoluzionaria totale, nonostante i ripetuti tradimenti, le involuzioni, i crimini, chiusa in se stessa “silenziosa, malinconica nella sua cupa impenetrabilità”, fino alla fine, quando, a Città del Messico, sola, in un taxi, un infarto la stroncherà.

Ma le circostanze sono e restano esposte a molti dubbi e forse non saranno mai liberate dal pesante sospetto di “classica eliminazione stalinista”, come scrisse un giornale dell’epoca.

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Un autentico capolavoro del ‘900 https://www.carmillaonline.com/2020/01/15/un-autentico-capolavoro-del-900/ Wed, 15 Jan 2020 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57294 di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue [...]]]> di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue opere maggiori: Manhattan Transfer (1925) e la trilogia americana, ora riproposta integralmente da Mondadori in un unico volume, formata dai tre romanzi Il 42° parallelo (1930), Millenovecentodiciannove (1932) e Un mucchio di quattrini (1936).

Nato casualmente in un albergo di Chicago, come figlio illegittimo, dal rapporto tra John Randolph, avvocato di successo di origine portoghese, e Lucy Madison, figlia di una ricca famiglia del Maryland; segnato dalla partecipazione, come volontario, al primo conflitto mondiale, da cui trasse l’ispirazione per il suo primo romanzo Iniziazione di un uomo (1917), scritto a caldo immediatamente dopo il rientro in patria, e il successivo Tre Soldati (1921) che rimane, insieme ad Addio alle armi (1929) di Hemingway e Fuoco! (1933) di William March, una delle testimonianze più importanti della letteratura nordamericana sui traumi e le sofferenze causate dal primo macello interimperialista, Dos Passos si andò radicalizzando sempre più avvicinandosi al Partito Comunista statunitense.

Sono di questo periodo più radicale, sia dal punto di vista politico e che letterario, le sue opere maggiori e il suo appassionato libello dedicato alle vicende destinate a portare nel 1927 alla sedia elettrica i militanti anarchici di origine italiana Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: Davanti alla sedia elettrica (Facing The Chair. Story of the Americanization of Two Foreign Workers, 1927).
Ed è proprio delle diverse forme dell’americanizzazione ovvero della formazione della società americana a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, e dei destini singoli e collettivi che ne conseguono che si occupa la trama, strutturalmente complessa, della Trilogia USA.

Storie di donne e di uomini, di illusioni e delusioni, di vittorie parziali e sconfitte totali, che vedono coinvolti personaggi tratti sia dalla fantasia che dalla realtà storica contemporanea dell’autore, da John Reed a Henry Ford. Storie che si incrociano in tempi diversi nei tre romanzi oppure che corrono su binari lontani senza mai incontrarsi, ma tutte destinate a dare un ritratto veritiero e profondo, soprattutto sul piano psicologico e dell’immaginario, di quel melting pot culturale e di classe da cui sarebbe nata l’immagine moderna degli Stati Uniti e dell’American Way of Life.

Un ritratto spietato, a tratti disperato, che non lascia spazio a molte speranze, anche se soprattutto nel terzo ed ultimo romanzo della trilogia si affaccia qualche bagliore di luce alla fine del tunnel.
Ma è la scelta stilistica a colpire, ancor prima della trama, o delle trame: un montaggio narrativo ispirato sia alle avanguardie europee dei primi anni venti, che Dos Passos aveva frequentato più o meno direttamente, attraverso la frequentazione dell’abitazione di Gertrude Stein, durante il suo soggiorno parigino di quegli anni, e al montaggio cinematografico ideato dal regista sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che l’autore avrebbe conosciuto frequentando la libreria “Shakespeare & Company” di Sylvia Beach situata sulla Rive gauche parigina.
Proprio nella stessa libreria l’autore americano aveva acquistato l’Ulysses di James Joyce che lo avrebbe ispirato per la struttura espositiva sia di Manhattan Transfer che dei tre successivi romanzi.

Tra i fondatori della rivista culturale di estrema sinistra “The New Masses”, Dos Passos entrò presto in conflitto con la progressiva stalinizzazione della sinistra americana e proprio a partire dalla guerra civile spagnola1, durante la quale lo stalinismo fece eliminare il suo traduttore e amico spagnolo José Robles Pazos2 , inizio ad allontanarsi dalla Sinistra tout court e avvicinandosi, nel corso dei decenni successivi a posizioni sempre più conservatrici.

Cessava in questo modo la fase più importante e creativa dello scrittore statunitense che, proprio per i motivi appena addotti, iniziò a subire quasi da subito gli attacchi di Ernest Hemingway e di certa critica leftist con l’intento, poi riuscito, di cancellarlo o quasi dalla storia della letteratura americana.
Atteggiamento certamente stupido e ideologicamente sovradeterminato che riuscì per parecchi anni a rimuovere l’importanza dello scrittore dal panorama letterario. Simile a quello usato, ma per motivi formalmente più fondati, nel secondo dopoguerra nei confronti di un altro gigante della letteratura mondiale: Louis-Ferdinand Céline.

I romanzi della trilogia furono publicati per la prima volta in Italia nella collana “I grandi narratori di ogni paese” della mondadoriana Medusa nel 1936 (The Forthy Second Parallel, nella traduzione di Cesare Pavese), nel 1938 (The Big Money sempre nella traduzione di Pavese) e nel 1951 ( Nineteen-Nineteen nella traduzione di Glauco Cambon), mentre per molti anni è rimasto disponibile nelle librerie, prima di scomparire per un lungo periodo di tempo, soltanto Il 42° parallelo.

Sinceramente, dopo aver conservato per anni i tre testi nelle edizioni original, non avrei mai creduto di vederli ricomparire tutti insieme in una così bella e curata edizione, in cui l’Introduzione di Cinzia Scarpino e la Nota alla traduzione di Sara Sullam rendono giustizia sia alla grandezza della scrittura di Dos Passos che all’importanza dell’opera di Cesare Pavese in quanto traduttore e rinnovatore della soffocante cultura letteraria italiana della sua epoca. Per tutti questi motivi c’è da essere veramente grati alla collana “Oscar moderni – Baobab” di Mondadori per la riscoperta e riproposizione di un autentico classico della letteratura moderna.

Proprio Cesare Pavese ebbe a dire:

La poesia di Dos Passos sta in questo modo asciutto di percepire e rendere le cose. «Joe non riuscì a guardare il film»; e questo è il punto più introspettivo di una narrazione tutta fatti esterni, inesauribilmente e nitidamente esposti, con un distacco che è giudizio morale. Attraverso questo suo orrore di tracciar svolazzi psicologici in una vita dove basta guardare e accumulare le mille parvenze per giudicare, Dos Passos si è fatto uno stile, nella sua umile oggettività ricchissimo di sfumature: sono mezzi gesti, mezze parole, oppure colori odori suoni, pieni di significato, gioiosi nella loro energia espressiva; una novità nella poesia americana, se non si risalga fino a certe pagine d’impressioni, ai jottings (appunti) disseminati nelle prose e versi di quell’altro enfant terrible di questa cultura, che è Walt Whitman.3

Una scrittura cinematografica come poche altre, dove lo scavo psicologico non si trasforma in dozzinale psicologismo, ma in cui sono gli atti, ancor prima delle parole o dei pensieri, a rendere visibile il carattere e l’etica dei personaggi. Una scrittura cinematografica che proprio nei sintetici Cine-giornali, distribuiti lungo tutto l’arco dei romanzi e realizzati con un autentica ed efficacissima tecnica di cut up di notizie e titoli di giornali, riesce a dare al lettore l’idea e la ricostruzione di un’intera epoca.

Un capolavoro del ‘900, non solo americano, che tutti gli amanti della grande letteratura dovrebbero leggere oppure riscoprire.


  1. Dos Passos dedicò alla stessa, alla rivoluzione messicana e a quella bolscevica una serie di scritti contenuti poi in J.Dos Passos, Introduzione alla guerra civile (Journeys Between Wars), pubblicato in Italia nel 1947 nella collana “Arianna” ancora una volta dalla casa editrice Mondadori  

  2. Si veda in proposito Ignacio Martínez De Pisón, Morte di un traduttore, Ugo Guanda Editore, Parma 2006  

  3. C. Pavese, John Dos Passos e il romanzo americano, saggio pubblicato su “La Cultura”, gennaio-marzo 1933, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, quinta edizione 1962, pag. 120  

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L’estate del 1964 ( o giù di lì e oltre) – 2 https://www.carmillaonline.com/2016/01/21/lestate-del-1964-o-giu-di-li-e-oltre-seconda-parte/ Thu, 21 Jan 2016 22:07:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27926 di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per [...]]]> di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per il cinema. Ma quei due, per i quali il West era solo un pretesto per parlare di anarchia e di rivoluzione e di uso delle armi per riparare ai torti dei potenti, furono un’altra cosa. Dei maestri. Che aprirono la strada ad un breve periodo in cui i pistoleri dell’Ovest sembravano avere le fattezze dei rivoluzionari cubani e latinoamericani. Soprattutto quando ad interpretarli erano chiamati Gian Maria Volonté o Warren Oates.

Nell’autunno del 1964 entrai nella scuola media unica, che era stata avviata con la riforma scolastica entrata in vigore il 31 dicembre 1962 con effetto dall’anno scolastico successivo. Grazie a ciò, nel giro di pochi anni raddoppiò il numero degli allievi frequentanti le scuole medie superiori. I numeri valgono più delle ideologie per spiegare i fenomeni sociali. Anche per il’68.
Che ci trovò, per così dire, pronti.

Pochi venivano da un inquadramento partitico o da un indottrinamento politico.
Sicuramente leader e leaderini avevano seguito quel percorso, ma furono pochi e grande era il disordine che regnava sotto il cielo di quei giorni.
Tutti si buttarono a pesce per abbrancarci e molti di noi sfuggirono a stento alle sirene che volevano richiamarci verso il PCI o verso i marxisti-leninisti dalle varie linee nere e rosse.

Ma quando ci avvicinarono noi avevamo già assaggiato le carezze dei calci dei moschetti, dei manganelli o delle catenelle delle manette. Sparate dritte sulla faccia o sulla testa. Oppure, se ci era andata bene, soltanto sulla schiena.
Ma eravamo incoscienti e piuttosto ostili a quella disciplina che volevano inculcarci, a tutti i costi, a calci in culo. L’unica cosa che ci interessava davvero era render pan per focaccia. A fascisti e polizia.

La teoria arrivò più tardi, mica subito.
L’azione precede la parola e poi ne richiede l’uso per spiegarla.
E le parole precedono le idee. Le parole spiegano l’azione e, in seguito, le idee che ne derivano creano il mondo. Anzi, creano la visione del mondo.
Ma nella materialità del mondo è l’azione che fa la differenza. Tutto il resto arriva dopo.

Marx affermò chiaramente che la classe operaia o lotta o non è.
Insomma la classe si fa tale in quanto agisce. Soltanto dopo pensa e riordina le sue azioni e le sue strategie. Quei teorici del partito che volevano portarci la coscienza da fuori, non si rendevano nemmeno lontanamente conto che il fenomeno era in realtà completamente rovesciato. Infatti potevano intravedere la coscienza grazie all’azione esercitata dalla classe e soltanto così innamorarsene.

Allo stesso tempo cercare di definire la classe o l’appartenenza ad essa in termini politici a partire da elementi non biografici, ma esclusivamente economici e sociali rischia di far cadere in un realismo sociologico che può forse funzionare per i grandi numeri, ma non per i percorsi individuali o generazionali.

In realtà per capire a ritroso la storia di una scelta complessa come quella di diventare militanti rivoluzionari occorre, un po’ come fece Walter Benjamin con la sua ricostruzione dei passages parigini, ricercare corrispondenze, collezionare ritagli casuali e tracce; giungendo cioè a creare quella che il filosofo tedesco chiamò una “fantasmagoria dialettica”, in cui quelle scarse e sparse testimonianze e ricordi, opportunamente assemblati e giustapposti possono, soli, rendere l’immagine della tempesta personale che fu scatenata da eventi tra i più disparati e che avrebbe accompagnato e prodotto avvenimenti meglio indirizzati una volta raggiunto un diverso ordine interiore.

giù la testa Gli avvenimenti, i più diversi tra di loro, ci possono avviare verso un percorso rivoluzionario prima di averne piena coscienza. Soltanto dopo questo primo passo sarà possibile razionalizzare le scelte e indirizzare gli sforzi verso un comune obiettivo. Vale per l’individuo e vale per l’azione di classe o di un partito rivoluzionario o preteso tale. Che non può esistere se non è preceduto dall’azione spontanea dei movimenti sociali. Dopo li potrà comprendere, anticiparne alcune scelte e, magari, guidare momentaneamente, ma non li potrà mai e poi mai creare.

Quei movimenti non si possono inventare. Sono la manifestazione fenomenica di un inconscio collettivo profondo. Nutrito di sogni, bisogni, parole, suoni, desideri, istinti, inconsapevole a se stesso fino a quando non si presenta un elemento scatenante: una crisi, un licenziamento, una promessa non mantenuta, una speranza infranta, un maltrattamento inaspettato o di troppo. E ciò avviene in un momento preciso, lungo come il decennio dal’68 al ’77 oppure brevissimo, come il tempo di uno sparo.

Ma in quel momento tutto si illumina, tutto diventa chiaro, tutto risplende di luce propria anche se chi cercherà di prenderne la testa vorrà appropriarsi di quella stessa luce, finendo col risplendere di una luce riflessa. Come un satellite che gira intorno ad un astro vero. Paradossalmente attratto dal moto di rotazione del corpo celeste di superiori dimensioni e allo stesso tempo, presuntuosamente, convinto di determinarlo. Mentre la fine del movimento e della rotazione costante di quel corpo ne segnerà l’inevitabile caduta o dispersione nell’immensità del cosmo.

Ed è per questo che ciò che fa scoppiare una rivolta o una rivoluzione una prima volta può non funzionare una seconda. Ed è ancora per questo che i partiti che sopravvivono all’esperienza che li ha generati sbagliano sempre nel comprendere i fenomeni successivi.
Si aspettano ciò che è già stato e non capiscono che, molto probabilmente, non si ripeterà più. Almeno con la stessa intensità, violenza e determinazione.

Ed è infine per questo che i partiti rivoluzionari di un tempo sono destinati a diventare i partiti della conservazione, se non addirittura della controrivoluzione nelle successive stagioni della storia.
Così, spesso, hanno finito col barattare i principi generali a cui si ispiravano pensando che fossero quelli ad essere sbagliati; senza rendersi conto, invece, che era la loro attesa che aveva tempi diversi da quelli del treno della storia. Che pur sarebbe prima o poi passato, ma non per quella stazione e con quegli orari.

Ho scritto da altre parti che eravamo come giovani treni lanciati in corsa.
Noi eravamo saliti su quel treno, lo avevamo acchiappato al volo; eravamo diventati quel treno.
Ne eravamo contemporaneamente i passeggeri e la locomotiva e continuammo a correre.
Fino a quando deragliò o fu fatto deragliare.
Dal treno potevamo vedere o intuire la destinazione, ma non potevamo controllare i binari.

mexican train Mi vengono in mente le immagini dei treni durante la rivoluzione messicana. Stracarichi di armati, donne, bambini, cavalli.
Come al solito quelle immagini ci erano giunte mediate dal cinema di Leone e di Peckinpah. Su quei treni là gente ci viveva, non viaggiava soltanto.
Intorno a quei treni si combatteva, si moriva, si vinceva e si perdeva.
Forse da lì mi è venuta l’idea di quella nostra definizione. Che mi piace ancora.

Mi piace soprattutto l’immagine di quei treni fermi, ma con le locomotive sbuffanti.
Esprimono ciò che è ancora solo in potenza e non ancora in essere; anche se lo fanno già prevedere.
Oggi mi sento ancora sullo stesso treno, ma forse ha imboccato un binario morto.
Oppure i passeggeri sono scesi tutti o quasi e hanno deciso di prenderne un altro. Forse a quella stazione di cambio ero addormentato oppure guardavo distrattamente da un’altra parte.

Eppure, eppure…
Ricordo che, quando quel treno era in corsa, nelle ultime fermate ci eravamo scontrati fermamente con il PCI. Il vero garante dell’ordine. Democratico si diceva allora.
Ed oggi vedo giovani dei centri sociali e precari e lavoratori scontrarsi con gli eredi di quel partito e con il loro governo. Anche oggi si chiamano “democratici” o, tra poco, Partito della nazione.

Superata questa immagine del treno?
Dovrei parlare di rete o di reti? In fondo in rete scrivo ed invio i miei messaggi in bottiglie di byte.
Ma ho i capelli bianchi e nel mio immaginario quei binari che si perdono verso l’orizzonte, sui quali si corre trascinati da una macchina pulsante, mi affascinano di più.
Anche se, quando parlo con i miei allievi, mi accorgo che non possono più vivere le stesse mie emozioni. Ed io le loro.

Ma il problema posto dal superamento di questo modo di produzione orrendo permane.
E una parte della teoria già prodotta potrebbe ancora servire.
A patto di sapere dove si cela la classe oggi, quali sono i suoi comportamenti, quali le sue azioni.
Autentiche e non scimmiottate.
Dove trovare l’equivalente della classe operaia quando questa, qui in Occidente, è stata ridotta ai minimi termini, dispersa, convogliata verso rivendicazioni miserabili ed egoiste?

Gli operai che trovavo alle porte della FIAT negli anni settanta avevano, quasi sempre, la stessa mia età. Avevamo molti gusti in comune e lo stile di vita non era così distante. Come sarebbe stato possibile non intenderci, al di là del volantino o del giornale distribuito davanti ai cancelli?
Anche loro erano già stati dipinti come teppisti. Prima in piazza Statuto poi in corso Traiano.

Il giovane rivoluzionario è sempre dipinto come un teppista o un delinquente.
Oppure come un terrorista, anche se ha contribuito soltanto al sabotaggio di una betoniera.
E’ facile perdere la fiducia dopo una certa età.
E’ facile scoraggiarsi e rinunciare.
Non è vero che si continui a credere per auto-consolazione, sarebbe più facile lasciar perdere.
Guardare scorrere le immagini del film del mondo staccando l’audio.
Oppure non guardarle proprio, rivolgendo lo sguardo ad uno schermo grigio di cui abbiano preventivamente sabotato ogni funzione.

Ma c’è un demone, un virus che ci ha infettato il sangue. Tanto tempo fa.
Che non ci permette di guardare da un’altra parte.
Che ci obbliga a cercare di capire, ancora. E ancora. E ancora.
Chissà se si sentivano così quei vecchi compagni della sinistra dissidente che, in pochi, cercarono di trasmetterci l’odio per lo stalinismo e la grande truffa dei socialismi nazionali?

wild bunch 3 Chissà se sentivano così quei vecchi partigiani che prendevano la parola alle manifestazioni anti-fasciste dei primi anni settanta?
Erano mica più vecchi di noi adesso, eppure sembravano così anziani e, talvolta, lontani.
Si sentiva così mio padre quando, dopo anni di diverbi con me per le mie scelte politiche, prese una sera il telefono per minacciare il vice-questore di Torino che, a sua volta mi aveva minacciato insieme a mia madre?

Come si sentiva mia nonna quando si ricordò, durante la ristrutturazione della casa di campagna, di fare sparire da un camino in disuso le armi che mio padre si era portato a casa dopo la Resistenza?
Quelle stesse con cui lei, donna di campagna ma dallo sguardo fermo e deciso, aveva minacciato il negoziante borsanerista che cercava di arricchirsi sulle spalle dei compaesani subito dopo la fine del conflitto, mostrandogli gentilmente la bomba a mano che portava nelle tasche del grembiule?
Cosa di cui, quest’ultima, mia madre, donna di tutt’altra pasta, si vergognò sempre tantissimo.

Abbiamo provato tutti le stesse cose, in tempi e forme diverse?
Siamo tutti anelli di una stessa catena?
Di cui, secondo i periodi, cambia soltanto la forma e la forgiatura?
Abbiamo sempre gli stessi nemici, dal volto cangiante ma dagli stessi modi e comportamenti?
Come diceva il titolo di un film di vampiri capitalisti dei tardi anni settanta: Hanno (solo) cambiato faccia?

hannocambiatofaccia A volte si rischia veramente di sentirsi come criceti destinati a far girare all’infinito la stessa ruota.
Forse, una volta spogliati degli orpelli ideologici, intellettuali e politici , lo siamo davvero. Tutti.
Vittime di una invisibile e superiore “livella” che ci condanna, ancor prima di morire, ad un personale inferno di ripetizioni di atti, gesti, parole e pensieri. Tutti apparentemente così importanti, tutti quasi sicuramente futili. Come maschere di un teatro e di un copione che neppure Pirandello avrebbe osato o saputo immaginare.

Comunque il passato era poco più che un sogno e il suo influsso sul mondo era ampiamente esagerato. Perché il mondo veniva rinnovato ogni giorno ed era solo l’attaccamento degli uomini alla sua svanita esteriorità che poteva fare del mondo un’ulteriore esteriorità […] Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” (Cormac McCarthy)

(Fine seconda parte – continua)

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