rivoluzione borghese – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le grandi battaglie di un piccolo uomo* https://www.carmillaonline.com/2020/02/12/le-grandi-battaglie-di-un-piccolo-uomo/ Wed, 12 Feb 2020 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57920 di Sandro Moiso

Marcus Rediker, Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, éleuthera editrice 2019, pp. 264, 18,00 euro

In questi magri tempi di pesci in barile, citofoni e personaggi che fanno bella mostra di sé in Tv senza aver nulla da dire, il libro pubblicato da éleuthera potrebbe rivelarsi come un’autentica benedizione per chiunque, come il sottoscritto, abbia soltanto voglia di riscrivere i primi versi di S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri (qui) attualizzandoli.

Benedizione, non soltanto per la grandezza e l’incorruttibile determinazione del personaggio narrato, ma anche perché il testo smonta la fake news più diffusa dalla storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Marcus Rediker, Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, éleuthera editrice 2019, pp. 264, 18,00 euro

In questi magri tempi di pesci in barile, citofoni e personaggi che fanno bella mostra di sé in Tv senza aver nulla da dire, il libro pubblicato da éleuthera potrebbe rivelarsi come un’autentica benedizione per chiunque, come il sottoscritto, abbia soltanto voglia di riscrivere i primi versi di S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri (qui) attualizzandoli.

Benedizione, non soltanto per la grandezza e l’incorruttibile determinazione del personaggio narrato, ma anche perché il testo smonta la fake news più diffusa dalla storiografia e dall’ideologia dominante ovvero che siano stati il liberalismo democratico borghese e la sua variante illuminista i due principali motori della liberazione della specie a cavallo della modernità industriale e coloniale.

Marcus Rediker, che insegna Storia Atlantica presso la Pittsburgh University ed è Senior Research Fellow al Collège d’études mondiales / Fondation Maison des Sciences de l’homme di Parigi, da anni ha rivolto i suoi studi alla storia della pirateria atlantica e a quella della tratta degli schiavi attraverso lo stesso oceano. In entrambi i casi il punto di vista che egli ha assunto, sia che si tratti di ricostruire l’utopia pirata delle comunità di bucanieri e corsari che si svilupparono tra il XVII e il XVIII secolo nelle isole al largo del continente americano o di quello africano, sia che si tratti di ricostruire le forme e le tecniche di quell’autentica tratta di carne umana su cui si è fondata la nascita del moderno capitalismo, è sempre quello dei ribelli, di ogni colore e genere, che si sono rivoltati contro l’ordine aristocratico, borghese e razzista che ha tenuto a battesimo la società di cui solo adesso iniziamo a comprendere davvero tutte le conseguenze e tutti gli “splendori”1.

Il 19 settembre 1738 Benjamin Lay entrò con passo deciso nell’Assemblea annuale dei quaccheri di Philadelphia. Per arrivarci aveva intrapreso un viaggio a piedi di cinquanta chilometri, nutrendosi soltanto di pesche e ghiande. Quando prese la parola

si rivolse ai «maggiorenti quaccheri» lì presenti, molti dei quali proprietari di schiavi. In Pennsylvania e nel NewJersey i quaccheri si erano arricchiti con il commercio atlantico e molti erano compratori di merce umana. Davanti a un tale consesso Benjamin lanciò la sua agghiacciante profezia, annunciando con voce stentorea che agli occhi di Dio onnipotente ogni essere umano ha pari dignità: i ricchi e i poveri, gli uomini e le donne, i bianchi e i neri. Dichiarò poi che non esiste peccato paragonabile a quello del possesso di schiavi, ponendo a tutti la seguente domanda: come possono persone che professano la Bibbia tenere in catene i propri simili? Infine si levò il cappotto rivelando ai correligionari attoniti la tenuta militare, la spada e il libro. Un mormorio allarmato riempì la sala. In un crescendo di emozione, il profetà proclanò a gran voce la sua sentenza: «Così Dio verserà il sangue di chi riduce in schiavitù suo fratello». Sguainò la spada, sollevò il libro in aria e lo trapassò con la lama. I presenti sussultarono vedendo il fiotto di liquido scarlatto che gli scorreva lungo il braccio; molte donne svennero. Nello shock generale, Benjamin asperse con il «sangue» le teste e i corpi dei proprietari di schiavi, ai quali profetizzò un futuro violento e oscuro: i quaccheri che non avessero prestato ascolto all’avvertimento del profeta sarebbero andati incontro alla morte fisica, morale e spirituale […] Molti quaccheri circondarono il soldato armato di Dio, lo sollevarono2 e lo trascinarono fuori dall’edificio. Benjamin non oppose resistenza. Ciò che doveva dire l’aveva detto. E grazie al suo intervento niente poteva tornare alla «ordinaria amministrazione» fintanto che i quaccheri si fossero ostinati a tenere schiavi. I suoi fratelli e sorelle avevano stretto un patto col demonio, perciò lui aveva usato il proprio corpo per sovvertire le loro routine pie e ipocrite.
Quella spettacolare performance profetica fu solo un esempio tra i tanti del suo «teatro di guerriglia». A più riprese Benjamin mise in scena l’ingiustizia che si era insediata nel mondo3.

La bellezza e l’importanza del testo di Rediker sta tutta nell’aver saputo narrare con passione e attenta ricostruzione storica le vicende e il coraggio di un piccolo “grande” uomo che di fatto fu in assoluto il primo abolizionista a lottare contro la schiavitù. In un paese che avrebbe ancora impiegato quasi centotrent’anni a dichiararla abolita (e soltanto per contingenze di guerra)4.
Un uomo di umilissime origini e di non grande cultura che doveva aver provato sul proprio corpo cosa significava davvero la parola esclusione. Anche in un contesto, oggi spesso citato come esempio di pacifica convivenza, come quello dei quaccheri della Pennsylvania.

Smonta parecchi miti il testo di Rediker e lo fa senza per forza affrontarli direttamente, ma piuttosto attraverso la narrazione, a tratti drammatica e a tratti degna di una commedia o del teatro di guerriglia (di cui Lay è stato sicuramente uno dei primi esponenti), della lunga battaglia condotta dal suo protagonista. Contro una schiavitù che vede nella segregazione razziale, sempre negata negli ultimi decenni a livello ufficiale ma pur sempre attiva nei fatti (e non solo negli Stati Uniti), la continuazione di quelle origini che non hanno mai smesso di minare dall’interno la leggenda aurea della democrazia occidentale. Fin dalla sua rivoluzione fondatrice, quella francese, che non ha mai smesso di portare in sé l’antico gene del razzismo e della superiorità di una razza sulle altre5. Di una classe sociale sulle altre, di un genere sugli altri e di una specie su tutte le altre e sull’ambiente.

E proprio Benjamin Lay si rivelerà essere, per tutti coloro che avranno la fortuna di leggere questo libro, un campione della battaglia contro tutte le discriminazioni, poiché nessuna di esse può eluderne un’altra, come invece vorrebbero gli attuali miserabili rappresentanti della democrazia per fasce culturali, etniche, di classe, di genere o di età. Lontanissimi da quella pratica del dire la verità, anche a costo delle più crudeli conseguenze per chi osa affermarla, che accomuna invece il “piccolo” Lay ai grandi difensori della pratica della parresia, nell’antica Grecia e nel mondo contemporaneo6.

* Dedicato a Nicoletta Dosio e a tutti coloro che per “dire la verità” ancora oggi accettano coraggiosamente di affrontare la repressione e il carcere.


  1. Tra le sue opere principali si vedano: M. Rediker – P.Linebaugh, I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli 2004; M. Rediker, Sulle tracce dei pirati, Piemme 1996; La ribellione dell’Amistad, Feltrinelli 2013 e, ancora, Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria, éleuthera 2005  

  2. Cosa non difficile considerato che Benjamin era affetto da nanismo e alto non più di un metro e venti  

  3. M. Rediker, Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, éleuthera 2019, pp. 8-9  

  4. A differenza di quanto molti ancora credono, la guerra civile americana non scoppiò affatto per liberare gli schiavi del Sud e fu soltanto nel 1863 che Lincoln emanò il decreto per l’abolizione della schiavitù, nella speranza di risollevare le condizioni militari del Nord grazie ad un’eventuale sollevazione degli schiavi neri delle piantagioni. Sollevazione che non ci fu comunque. Anzi, proprio come si narra nel libro The Free State of Jones di Victoria E. Bynum (pubblicato in Italia da Piemme nel 2016) e da cui è stato tratto nel 2016 l’omonimo film di Gary Ross, l’illusione della pacifica convivenza tra ex-schiavi e bianchi poveri durò appena lo spazio di un mattino e si risolse in esperimenti locali tutti destinati a finire con la guerra. Rifiutati sia dai rappresentanti militari e politici del Nord quanto dai rappresentanti del Partito Democratico del Sud, subito dopo la fine, e spesso durante, del conflitto.  

  5. Si veda in proposito la bellissima trilogia di Madison Stuart Bell dedicata alle vicende della rivolta degli schiavi di Haiti durante la rivoluzione francese e alla vita di Toussaint L’Ouverture, che la condusse: Quando le anime si sollevano (All Souls’Rising, 1995 – ed. italiana Instar libri 1999); Il signore dei crocevia (Master of Crossroads, 2000 – Alet 2000) e Il Napoleone nero (The Stone That the Builder Refuse, 2004 -Alet 2008). In assoluto, pur nella sua forma di romanzo, una delle migliori ricostruzioni di quella rivolta e, soprattutto, della falsità del dettato storico sulla rivoluzione borghese e le sue istanze di Liberté, Égalité, Fraternité  

  6. Sul tema della parresia si veda Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma 2019  

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Agonia di una civiltà https://www.carmillaonline.com/2015/02/28/plaidoyer-pour-la-france/ Fri, 27 Feb 2015 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20898 di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista. Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per [...]]]> di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista.
Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per decenni tra le carte depositate presso la Bibliothèque Jacques Doucet, può rivelarsi molto interessante ed utile per rivedere alla luce di un suo importante teorico la teoria della decadenza della civiltà e coglierne tutte le subdole conseguenze ideologiche e politiche. Soprattutto1 in momenti, come l’attuale, in cui i rischi connessi all’esplodere di crisi economiche e militari sempre più virulente e devastanti sembrano aver messo in crisi gli equilibri raggiunti nel secondo dopoguerra e l’opulenza e la sicurezza delle società europee.

Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e volendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante […] Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria… Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino” (pp.79-80)

Mentre scriveva queste righe, Cioran si trovava a Parigi, che aveva raggiunto nel 1937 ufficialmente con una borsa di studio per approfondire gli studi su Bergson, e nella primavera del 1941 aveva fatto parte della Legazione romena di Vichy. Tra il 1940 e il 1941 era anche ritornato tempestivamente in patria per onorare alla radio di Bucarest la memoria del “Capitano” Codreanu, ucciso dal governo di re Carlo II di Romania nel 1938.2

Da un anno le truppe tedesche avevano invaso e sottomesso la Francia, marciando per i viali di Parigi nel giugno del 1940. E’ chiaro il raffronto che passa nella testa del trentenne Cioran: le nazioni giovani e forti sono quelle che invadono e sanno soffrire, che sanno donarsi ad una causa. Come affermerà nella sua “esaltazione di uno scettico” in memoria di Codreanu: “Dinanzi al Capitano nessuno restava indifferente. Il paese era stato attraversato da un nuovo brivido […] La sofferenza diventa il criterio della dignità e la morte quello della chiamata. In pochi anni la Romania ha conosciuto una tragica pulsazione, e la sua intensità ci consola della vigliaccheria per mille anni di non storia”.3

Sacrificio, morte e rigenerazione stanno alla base del pensiero di Cioran e dove questi elementi non convivono allora, sembra dire, non vi è che il non senso e la decadenza. Non ci sono alternative: conquista e morte oppure decadenza e mancanza di vitalità. Ipotesi che avvicina il pensatore rumeno non soltanto ai fanatici del sacrificio e del massacro operanti nell’ISIS, ma un po’ a tutti coloro che nel sacrificio per la nazione, sia essa borghese o socialista o nazionalsocialista, vedono l’unica possibilità di rigenerazione della società.

Ma, anche, a coloro che, come Michel Houellebecq, guardano con timore alla perdita di identità della Francia o dell’Europa a favore dei nuovi venuti, di religioni diverse e culture altre che non tengono conto dei valori affermatisi nel vecchio continente fin dalla Grande Rivoluzione e dalle conquiste (guarda caso) napoleoniche. “Due volte – nella sua storia- la Francia ha raggiunto la grandezza: all’epoca della costruzione delle cattedrali e al tempo di Napoleone” (pag.31)

Le basi della Grandeur per Cioran stanno tutte lì: nel cristianesimo e nelle conquiste territoriali. Religione ed espansione. D’altra parte anche Codreanu, prima di dare vita alla sua Legione, aveva contribuito a fondare, nel 1923, la Lega per la Difesa Nazionale Cristiana. Il sogno nazionalista è già tutto racchiuso in quei due fattori.

La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci indurisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione, ma la volontà di non perire provoca la reazione” (pag.87) Così che gli avversari di oggi o di ieri assomigliano sempre di più ad immagini specularmente rovesciate e riflettentisi l’una nell’altra. Ed è proprio questo che si tarda a capire, da troppo tempo. Anche se un’attenta lettura del breve testo di Cioran ci può aiutare a comprenderlo un po’ di più.

Il compianto del filosofo rumeno, ancora fresco di ferree emozioni, per una Francia che successivamente gli permise di riciclarsi negli ambienti esistenzialisti ed intellettuali, sta quasi tutto all’interno del pensiero borghese, perbenista e nazionalista, che rimpiange le proprie origini “eroiche”. Così, prima di procedere oltre, almeno questo occorre rilevare: Céline fu odioso per il suo antisemitismo, ma mai smise di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre Cioran, nel compiangere il tramonto di una civiltà e di una cultura ne esalta sia le forme accademiche e distaccate che il ben più rozzo sogno militarista di conquista .

Il primo non fu mai perdonato, pur essendo uno dei più grandi scrittori francesi del ‘900, mentre il secondo, insieme ai suoi compari, poté facilmente riciclarsi, nella cultura della Francia dei decenni successivi, in qualità di “filosofo del tragico”. Una questione, insomma, non solo di di forma, ma anche, come spesso accade, di sostanza.4

Si confronti “Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale, stende la vernice elaborata della raffinatezza” (pag.24) con “Napoleone […] ha saputo dare un contenuto imperialista alla loro vanità, chiamata anche gloria” (pag.33). Ecco il rimpianto vero per la Francia: quando sapeva e poteva essere imperialista.

E l’impressione è che, ancora oggi, nelle pagine del libro ultimo di Houellebecq come nelle piazze d’oltralpe del dopo Charlie, la questione vera sia quella, così come per l’identità vera di cui buona parte dei francesi che votano per Marine Le Pen sente l’assenza. “La decadenza non è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cerchia di valori che la definiscono” (pag.33) I valori borghesi su cui la Francia ha costruito la sua identità nazionale e perciò formale non trovano più riscontro nella realtà. Si finge che siano altri a negarli, quando in realtà si sono negati da sé…ammesso che siano mai stati davvero universali.

L’eguaglianza formale sul piano del diritto, la generica libertà individuale…già i cartisti inglesi del primo ottocento, preceduti da Rousseau, avevano capito che tali diritti non sarebbero mai stati di sostanza finché fosse sussistita la diversità sostanziale tra chi ha e chi non ha. Discorso saltato a piè pari oggi sia da chi afferma l’unità della umma5 come da chi dà per scontato che i diritti siano già uguali per tutti (di parola, di stampa, di espressione, di lavoro, di scelta, etc.), là dove manca l’uguaglianza reale: quella economica.

Inoltre “La Francia – come l’antica Grecia – […] sono gli unici due paesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, come caratterizzazione negativa dello straniero – esprimendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltà ben definita di aprirsi al nuovo” (pag.34) Qui Cioran, probabilmente, vuole sentirsi barbaro, così come lo dovevano sentirsi orgogliosamente i conquistatori dell’antica Roma o di Parigi nel giugno del 1940. Ma ciò non toglie che quel sentimento faccia parte, in questo caso per i francesi e dei loro ammiratori e sostenitori, della nostalgia per l’identità perduta. Quella che permetteva di distinguersi dai barbari appunto.

Decadenza significa […] non avere più anima. E’ il caso della Francia” (pag.48) Qui è ancora il barbaro Cioran, fascista tutt’altro che pentito, che guarda alla patria di Cartesio e si compiace della sua decadenza, a favore della novella barbarie nazista. ”Dopo aver verificato l’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, quale nuovo contenuto potrei ancora attribuirle? […] La più grande rivoluzione moderna finisce come una paccottiglia dello spirito […] Potrebbe ancora servire alla patria? ” (pag. 46)

Una rivoluzione che non serva alla patria è inutile. Ecco il punto. Per questo i senza patria non hanno nulla a che spartire con le rivoluzioni che esaltano gli stati, le religioni e i partiti nazionalisti; anche con quelle che volevano costruire il socialismo in un solo paese, trasformando così anche il sogno proletario in una nuova e categorica religione nazionale. Forse è giunta l’ora di abbandonare l’ideale rivoluzionario statalista e giacobino, che ha erroneamente fondato tutte le rivoluzioni socialiste del ‘900, trasformandole, tutte indistintamente, in null’altro che ripetizioni, spesso mal riuscite, della rivoluzione nazionale borghese.

Cosa che ci costringe a riflettere su un’altra questione: se saltano i valori borghesi e della rivoluzione che li ha fondati esiste davvero solo la decadenza? Oppure la specie umana dovrà promuovere valori altri, rispetto a quelli fondati dalle religioni, dai nazionalismo, dagli imperialismi, dal capitale e dalla sua classe dirigente? Non dovrà forse il comunismo o l’organizzazione sociale futura distruggere anche i valori del pensiero e della società borghese, promuoverne e curarne la decadenza, per liberare davvero l’umanità intera?

Per un reazionario nichilista ed ultra-conservatore come Cioran la fine dei valori della società borghese per una nazione come la Francia, una volta finita l’epoca “eroica” delle conquiste, poteva significare soltanto due cose: l’ergersi all’orizzonte di una nuova potenza (la Germania di Hitler) oppure la decadenza e la fine della civiltà, in una visione totalitaria e tutt’altro che dialettica del divenire storico.

Mentre per chi crede nel superamento della società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’accumulazione di profitti, anche il superamento del diritto formale borghese e delle sue illusioni, comprese quelle religiose, è inevitabile e necessario. Cosicché spiarne l’agonia significa anche individuare i fattori del suo tramonto.

Poiché, per la maggior parte dell’umanità e sempre più per i lavoratori, oggi non esiste ancora libertà d’espressione. Non esiste uguaglianza davanti alla legge (basta confrontare i procedimenti giudiziari contro chi lotta con quelli a carico di coloro che hanno contribuito ad uccidere, come nel recentissimo caso della Eternit, migliaia di lavoratori). Non esiste sicurezza del lavoro, della proprietà e del futuro per i propri figli. Non dobbiamo scegliere tra uno e l’altro o l’altro ancora dei contendenti attuali. Dobbiamo scegliere un mondo altro e forme altre di espressione e di lotta, perché, come Rosa Luxemburg ci ha insegnato ormai da più di un secolo, la scelta futura non sarà tra civiltà (borghese) e barbarie, ma tra barbarie e socialismo. Hic Rhodus, hic salta.

C’è però da dire che , almeno, l’ambiguo o sincero Cioran del 1941 sapeva ancora riconoscere due cose: “La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la borghesia pure […] Essa ha solo una riserva sociale: il proletariato. E una sola formula: il comunismo” (pag.54) e “La vita esiste solo in banlieue. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile” (pag.79). Con buona pace di chi oggi volesse ancora soltanto demonizzare tout court i casseur o i loro sottoprodotti politici e militari.

In realtà Cioran non dava troppo credito a tale ipotesi. Anzi, la utilizzava proprio come paradosso per dimostrare l’irreparabile decadenza della società borghese francese, ma almeno aveva ancora la capacità di porla sul piatto, mentre oggi nel dibattito intellettuale e, anche se non lo vorrei dire, soprattutto a sinistra la lotta di classe e le sue conseguenze sono ormai totalmente rimosse a favore di discorsi che tengono conto dell’etica e delle idee, ma non della effettiva realtà sociale e di tutte le sue esplosive e spesso terribili contraddizioni.

In questo senso, leggere e riflettere sul piccolo testo di Cioran può essere utile. Non solo perché contiene al suo interno ancora numerosi altri spunti,6 ma anche perché, a volte, ci “insegna” di più un nemico sicuro che un alleato incerto e, proprio per questo, potenzialmente infido. Cosa che il testo rivela, mostrando la sottile o quasi invisibile linea di demarcazione che separa il pensiero conservatore, se non reazionario, da quello genericamente progressista, là dove l’autonomia politica di classe viene a mancare per appiattirsi invece sulle formule più scontate del pensiero dominante.


  1. Come ha già sottolineato Mario Andrea Rigoni, anche se con finalità diverse da chi scrive, in una recensione comparsa sul Corriere della sera: Cioran anticipò Houellebecq, 16 gennaio 2015  

  2. Sul “passato” fascista di Cioran, Eliade e sul più che contraddittorio Ionesco si consulti Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008  

  3. cit. da Giovanni Rotiroti nella sua introduzione a Cioran, Sulla Francia, pp.9-10  

  4. Anche se l’antisemitismo di Cioran, pur non manifestandosi in maniera violenta negli scritti francesi come in quelli rumeni prima del suo arrivo a Parigi, si manifesta sporadicamente ed incontenibilmente anche nel corso del testo qui trattato. Un esempio per tutti: “Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza” (pag.71) Là dove, per l’appunto, l’essere ebrei coincide con l’essere individui o popoli incompiuti, non completi, mancanti di qualcosa, sostanzialmente inferiori.  

  5. Nell’Islam è la comunità dei fedeli, al di sopra delle barriere sociali e nazionali  

  6. Basti per tutti, in un’epoca di cuochi televisivi e ricette gastronomiche presenti in ogni dove, la seguente riflessione: “Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia [… ]l’atto di mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento”(pag.67)  

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