rifiuti tossici – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 25 Apr 2025 13:14:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un trattato di ecologia politica ad uso delle giovani generazioni https://www.carmillaonline.com/2019/09/18/trattato-di-ecologia-politica-ad-uso-delle-generazioni-future/ Wed, 18 Sep 2019 21:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54627 di Sandro Moiso

Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro

L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)

Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale [...]]]> di Sandro Moiso

Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro

L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)

Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale della società in cui viviamo. Non solo in Occidente, ma su scala planetaria.

L’autore, nato nel 1975, è attualmente professore presso il Centro Émile Durkheim dell’Università di Bordeaux e fa parte del comitato di redazione della rivista “Actuel Marx”. Oltre a ciò è riconosciuto come uno dei più esperti conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci e ha aderito al  Nouveau Parti anticapitaliste oltre che aver firmato, nel 2014, l’appello del Movimento per la VI Répubblica avviato da Jean-Luc Mélenchon e dal Parti de gauche.

Una militanza politica e culturale “di sinistra” e “gramsciana” che traspare da ogni pagina di un testo che, proprio per questi motivi, è allo stesso tempo stimolante e discutibile (a causa di una manifesta e forse eccessiva speranza riformistica ) per tutti coloro che si occupano attualmente dei problemi legati alla crisi ambientale, a quella economica e a quella climatica e dei risvolti che queste possono avere sui conflitti sociali sia già in corso che futuri.

Uscito per la prima volta in Francia nel 2014, il testo si articola sostanzialmente intorno a tre temi ritenuti fondamentale dall’autore e che costituiscono le tre parti che lo compongono: il razzismo ambientale, la finanziarizzazione della natura attraverso le pratiche assicurative nei confronti dei rischi climatici e la militarizzazione dell’ecologia. Tutte strettamente collegate tra di loro.

Tre argomenti attraverso i quali l’autore delinea e delimita un discorso al centro del quale è posto continuamente in risalto il tema delle diseguaglianze sociali, economiche e “razziali” che costituiscono il problema centrale e, certamente, maggiormente conflittuale dell’attuale emergenza climatica. Un’emergenza che, al di là dei suoi connotati ambientali e fisici, si rivela essere innanzitutto ancora una questione di classe.

Tale impostazione permette all’autore sia di superare le posizioni ecologiste tipiche di un movimento come Fridays For Future che, in linea con le correnti ecologiste tradizionali, sembra voler accomunare tutta l’umanità, senza distinzioni di classe o di appartenenza alle aree più povere del pianeta, in una comune battaglia per la salvezza di una casa ritenuta “comune”, sia le posizioni di quelle sinistre che, in nome di un progresso sempre meno credibile e di uno sviluppo sempre più devastante, respingono le lotte ambientali ritenendole un mero prodotto dell’ideologia borghese.

Se è infatti vero che, all’interno dell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico, il green capitalism può porsi come strumento di rilancio di dinamiche innovative e produttive utili alla ripresa di processi di accumulazione sempre più asfittici, è altresì vero che proprio queste politiche, che pretendono di proporre un modello di sviluppo maggiormente sostenibile, tenderanno ad accentuare le differenziazioni di classe e a separare sempre più la grande maggioranza della società che, di fatto, le subirà da una minoranza che ne trarrà profitto.

A dimostrazione di ciò basti riflettere sul fatto che lo stesso movimento francese dei gilets jaunes è sorto proprio a partire da un aumento del costo del carburante giustificato dalla comune necessità di finanziare iniziative in difesa dell’ambiente o di rinnovamento degli apparati produttivi in chiave green. Uno degli slogan del movimento affermava infatti che a pagare la crisi ambientale dovessero essere prima di tutto coloro, governanti e imprenditori, che di tale crisi erano la causa.

Inquadrare quindi l’attuale emergenza planetaria da un punto di vista di classe (cui poi andrebbero aggiunti, come fa l’autore, quello razziale e di genere, essendo spesso le donne a costituire l’anello più debole e vulnerabile della catena di coloro che ne subiscono maggiormente le conseguenze) diventa quindi importantissimo per il rilancio di una comune richiesta di giustizia ambientale che non si basi ancora una volta su principi universali, troppo spesso generici ed inafferrabili, ma sul superamento di un disagio estremamente concreto e sulle risposte da dare a necessità e bisogni che non apprtengono in maniera uguale a tutti i settori dlla popolazione, ma che, troppo spesso, si concentrano soprattutto nelle aree abitate dalle fasce più povere e disagiate.

Sia che si tratti di discariche di rifiuti tossici prossimi ad aree urbanizzate degradate, sia che si tratti delle diverse conseguenze che catastrofi presunte “naturali” (ad esempio l’uragano Katrina del 2005) possono avere su settori differenti di cittadini: perdita della casa e di ogni avere per una (ad esempio la componente afro-americana di New Orleans) e guadagni enormi sulla speculazione edilizia legata alla ricostruzione per l’altra (bianca e ricca).

Ma, come dimostra bene il testo anche le guerre portano (oserei dire da sempre) il loro contributo alla devastazione ambientale, dando vita a movimenti migratori, di differente intensità a seconda del conflitto e delle aree interessate, di cui oggi vediamo le conseguenze nell’immensa mole di profughi che cercano fuggire da tutto ciò. E per i quali la “casa comune” di cui parla Greta Thunberg davvero non esiste ancora.

Guerre che, inoltre, depositano sui territori e sui corpi il loro ricordo a lungo indimenticabile: dall’agente arancio in Vietnam, che ha devastato quel paese per anni ancora dopo la fine della guerra e i corpi di molti di coloro che l’hanno combattuta su un fronte o sull’altro, all’uranio arricchito che ha a sua volta impestato gli ambienti, e ancora una volta i corpi, in tutte le aree in cui la Nato è intervenuta per le sue missioni di pace.

La natura, come recita il titolo del testo, è quindi davvero un campo di battaglia, anzi è teatro di un’autentica guerra di classe, non dichiarata e di fatto negata proprio da coloro che l’hanno iniziata e la stanno portando avanti in nome del profitto e dell’interesse privato, e il libro di Keucheyan ci aiuta a comprenderlo ancora meglio.
Per far sì che, alla fine, a morire sia proprio il capitalismo.

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Toxic Tour nel deserto messicano /1: Guadalcázar https://www.carmillaonline.com/2017/08/08/toxic-tour-nel-deserto-messicano-1-guadalcazar/ Tue, 08 Aug 2017 00:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39753 di Marco Dalla Stella

Narcos e guantoni

Una frenata brusca. Occhi incollati alle palpebre. Guadalcazar, finalmente. La cittadina messicana risplende dei colori saturi del deserto. Era piena notte quando mi sono lasciato alle spalle la estacion central di San Luis Potosì, 120km a sud-ovest da dove mi trovo ora. In mezzo, una distesa di arbusti, gobernadoras e cactus yucca che prepara il terreno per quelli che più a nord diverranno i 520mila chilometri quadrati dello sconfinato deserto chihuahuense. Polveroso insediamento fondato da spagnoli affamati di [...]]]> di Marco Dalla Stella

Narcos e guantoni

Una frenata brusca. Occhi incollati alle palpebre. Guadalcazar, finalmente.
La cittadina messicana risplende dei colori saturi del deserto. Era piena notte quando mi sono lasciato alle spalle la estacion central di San Luis Potosì, 120km a sud-ovest da dove mi trovo ora. In mezzo, una distesa di arbusti, gobernadoras e cactus yucca che prepara il terreno per quelli che più a nord diverranno i 520mila chilometri quadrati dello sconfinato deserto chihuahuense.
Polveroso insediamento fondato da spagnoli affamati di minerali, Guadalcazar è oggi una sonnolenta cittadina di 25mila abitanti in cui non arriva il segnale telefonico. Meglio così. Ci fosse, da queste parti sarebbe pieno di narcos.
Devo incontrarmi con Leonel, primo cittadino durante gli anni della mobilitazione contro la grande discarica di rifiuti tossici. Abita nel vicino villaggio di Abrego, dove proprio in questo periodo si stanno tenendo le tradizionali fiestas patronales.
Mentre faccio colazione, chilaquiles en salsa roja e una bella tazza di caffè americano, la proprietaria del modesto ristorantino che dà sulla piazzetta mi consiglia su dove appostarmi per l’autostop. Le feste di Abrego sono tra le più attese della regione e sarà facile trovare un passaggio sul retro di qualche vecchio pick-up marca Nissan. Cosa che effettivamente avviene poco dopo.
La famiglia che mi carica è composta da madre e tre figli. Il padre, penso, sarà chissà dove al nord. Risalgono ad Abrego dopo aver comprato rifornimenti per il loro stand di tacos, e lungo il viaggio mi spiegano che le feste patronali sono uno degli eventi più importanti dell’anno da queste parti. Persone da Cerritos, da El Oro, da Realejo e da tutti gli altri minuscoli ranchos dei dintorni si riversano in questa piccola località per rendere omaggio all’apostolo Santiago, rivedere amici di vecchia data e festeggiare come si deve con carne e cerveza in abbondanza.
Ma è soprattutto l’occasione per le persone emigrate al Norte di ricongiungersi con rami della famiglia che non vedono da tempo. Sono loro, specie quelli hanno oltrepassato la frontera, a far girare l’economia durante le feste.
Se c’è qualcosa su cui puoi scommettere a occhi chiusi è nell’irrefrenabile desiderio di sperperare denaro da parte del migrante messicano di ritorno al suo paese. Se non fai attenzione ti trascinerà in un vortice di tequila, ma de la más cara, solo per poter ostentare con i propri amici, e in faccia al gringo di turno, la propria fortuna, vera o presunta. Famiglie come quella che mi ha caricato fanno affidamento in tale dispendiosa euforia per concludere ottimi affari, di cui beneficeranno durante tutto l’anno.
Quasi tutti quelli che hanno abbandonato il deserto lo hanno fatto per andare a nord. Monterrey, ma soprattutto Stati Uniti. Gringolandia, com’è anche chiamato l’ingombrante vicino. Esiste perfino una località gemellata con Abrego, a uno sputo ben assestato dagli States. Si chiama Ciudad Mier.

Ciudad Mier, nel Tamaulipas, è un pugno di case che per poco non finiva dalla parte giusta del continente. Quella in cui le banconote hanno il volto rassicurante di lord inglesi del settecento invece che quelli minacciosi di rivoluzionari armati fino ai denti.
Il Rio Grande, però, ha le idee abbastanza chiare nel dividere fra gringos e bean-eaters. Le vicine città di frontiera Reyonsa e Nuevo Laredo da tempo non sono più al centro delle rotte dei migranti, che preferiscono tentare la traversata con interminabili camminate nel deserto di Sonora piuttosto che rischiare di incappare nei narcos che imperversano da queste parti. Gli Zetas.
Autentici animali rivoltatisi contro il proprio padrone, i primi Z erano le punte di diamante delle squadre d’élite dell’esercito messicano, addestrati a dovere dal 7° Gruppo di Forze Speciali statunitense nella base di Fort Bragg, North Carolina. Non una base qualsiasi, ma la principale fabbrica di soldati anticomunisti da schierare sul campo di battaglia latinoamericano. Militari pronti a tutto, capaci di muoversi alla perfezione dentro alle maglie delle guerriglie per sabotarne i piani sovversivi.
La Rivoluzione di Fidel e Guevara bussava alle porte dell’American backyard, e Nixon era pronto a tutto pur di non ritrovarsi accerchiato da staterelli bananieri e filosovietici. Perfino investire centinaia di migliaia di dollari dei contribuenti per fare di soldati latinos, meglio se con una propensione al sadismo, delle perfette macchine da tortura interrogatorio. By any means necessary.
Un soldato con quel tipo di addestramento vale una fortuna, tanto che a richiederne i servigi arrivò presto il più ricco gruppo criminale al mondo. Nessuna istituzione, pubblica o privata, legale o no, poteva competere con il trattamento economico che il Cartello del Golfo riservava ai suoi dipendenti. Fu El Patrón in persona, Osiel Cárdenas Guillén, ad avviare il reclutamento dei disertori delle forze speciali per dar vita a quello che sarebbe stato il braccio armato del cartello sul finire degli anni Novanta.
Ma la luna di miele con gli ex GEFE (Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales) non era destinata a durare. Dopo la caduta del Patrón, catturato nel 2003 in un’operazione a Matamoros, i rapporti col cartello s’incrinarono.
Forse spaventati dal crescente potere degli Z all’interno dell’organizzazione, alcuni tirapiedi del cartello rapirono e assassinarono “El Concorde 3”, luogotenente colpevole di essersi rifiutato di uscire dall’organizzazione. Fu l’inizio della guerra.
Fra il 2010 e il 2013 sotto il comando di Z-40, alias Miguel Treviño Morales, gli Zetas misero a ferro e fuoco il nord-est messicano. Fu una lotta senza quartiere fra cartelli rivali, forze dei federales e dell’esercito a cui presto presero parte anche gli altri principali cartelli della droga messicani. I Beltrán Leyva al fianco degli Zetas, il Cartello di Sinaloa con quello del Golfo.
Gli scontri in pieno giorno si moltiplicavano, agli angoli delle strade comparivano cadaveri orribilmente mutilati. I sequestri di civili a scopo di estorsione smisero di essere contati. Settantadue migranti centroamericani furono massacrati a San Fernando, nel Tamaulipas, dopo essersi rifiutati di arruolarsi come carne da macello da mandare al fronte nella guerra fra cartelli.
Il nome stesso di Tamaulipas divenne sinonimo di sangue, e Ciudad Mier con i suoi abitanti si trovava giusto in mezzo a quell’inferno. In molti si trasferirono nella relativamente sicura Miguel Alemán, e chi non lo fece si chiuse in casa. Il lato messicano della frontiera divenne un lungo susseguirsi di villaggi fantasma.
Il risultato, per la gente di Abrego, fu che per diversi anni la tradizionale partita di baseball contro Ciudad Mier che accompagna le celebrazioni di luglio fu annullata. Mettersi in viaggio, in pullman e su strade controllate da narcos e militari, equivaleva a un suicidio.
Eppure da qualche anno a questa parte la situazione è tornata relativamente tranquilla. L’intensità dello scontro ha portato i cartelli rivali a indebolirsi a vicenda e a frammentarsi in gruppi più piccoli. La guerra al narcotraffico, con cui l’ex presidente Felipe Calderón era andato a bastonare alveari abitati da operosissime api armate fino ai denti con granate e AK47, si è conclusa con un poco invidiabile saldo di 150.000 morti e 28.000 desaparecidos. Il ritorno al potere del PRI, il partito che ha governato ininterrottamente il Messico dal 1929 al 2000, ha di fatto restaurato una pax mafiosa che quantomeno ha avuto l’effetto di abbassare i livelli di violenza.
Finalmente si possono tornare a giocare gli stramaledetti match di baseball che Ciudad Mier, regolarmente, riesce a vincere.

Il gioco della capra

Quando smonto dal pick-up il paese sembra disabitato. La piazza, sebbene adornata con i tipici e coloratissimi festoni di papel picado, è deserta. Alcuni venditori annoiati aspettano che qualcuno noti le loro cianfrusaglie.
Mi aggiro per le strade un po’ perplesso. Che abbia sbagliato giorno? Impossibile, le bancarelle sono lì a testimonianza del fatto che qualcuno arriverà. E il quarto di bue comprato dalla famiglia che mi ha dato lo strappo di certo non era per consumo personale.
Finalmente trovo l’intero paese riunito sotto a un grande tendone. Stanno celebrando messa, anche se il gruppo un po’ stonato di mariachi che accompagna il rito della comunione sarebbe più a suo agio ad una quinceañera che ad una funzione religiosa.
¡Ya viene el juego! ¡Ya viene el juego! – mi annuncia una bambina, eccitata di rivolgere la parola a… beh, a un gringo. Il padre mi spiega che il gioco di cui parla è quello della capra, di cui gli abitanti di Abrego vanno particolarmente orgogliosi.
Si tratta di una tradizione antica, da sempre parte centrale delle feste patronali di questo sperduto villaggio. Le sue origini risalgono al buzkashi, uno sport equestre tradizionale dell’Asia centrale nonché disciplina nazionale di Kazakistan e Afghanistan. Con buona pace dei talebani che tentarono, invano, di proibirlo. Nel buzkashi tradizionale due squadre di giocatori a cavallo devono impadronirsi della carcassa di una capra in ogni modo possibile. Sostanzialmente non ci sono regole e gli incidenti sono frequenti. Pare fosse una delle attività di svago preferite dai Mongoli di Gengis Khan, che lo usavano per contendersi le merci sottratte ai villaggi conquistati e perfino gli schiavi.
Come il buzkashi sia giunto nel rancho di Abrego, nel municipio di Guadalcazar, nello stato di San Luis Potosì in Messico, rimane però per me un mistero.
La folla che riempie la piazza è quella tipica delle grandi occasioni. I più fortunati hanno già preso posto sulle tribune d’onore, che altro non sono che il retro di alcuni pick-up posizionati in modo strategico. La birra scorre a fiumi, e bambini con cappelli da cow-boy si arrampicano sulle spalle dei genitori per riuscire a scorgere gli eroi della competizione.
Dal fondo della strada sterrata che circonda la piazzetta fanno la loro comparsa i contendenti: una decina di vaqueros, che emerge da una nube di polvere che si è sollevata sotto gli zoccoli dei loro destrieri. Sembra un manipolo di improbabili eroi usciti da un vecchio spaghetti-western. Uno di loro tiene per le zampe la parte inferiore di una capra. Sono euforici.
– Non è più come una volta – mi dice un signore con i baffi ancora pregni di birra, scuotendo la testa. – Oggi la gente non vive più in campagna, non è abituata ad andare a cavallo. Vivono in città, al norte, e tornano solo per le fiestas. Bevono, si mettono a cavallo e si buttano nel juego. Ma è pericoloso”.
Mi spiega che qualche anno prima un ragazzo neanche ventenne c’è morto, nel juego. Uno scontro tra cavalli, una caduta, zoccoli che svaniscono nella polvere. Estaba borracho. Era ubriaco.
Da quel tragico evento molte cose sono migliorate, mi dice. Oggi si cerca di non far salire a cavallo persone prive di esperienza e gonfie di alcol. O uno, o l’altro.
Grida sguaiate si alzano dalla piazza. Sono partiti.
La scena ricorda un palio di Siena in salsa ranchera. Il cavallerizzo con la capra in mano “fa la mossa”, colpisce con forza il fianco del destriero e si lancia alla fuga. Subito dietro l’affollato gruppo di contendenti scalcia, sbraita, spintona per accaparrarsi il posto migliore. Agitano i cappelli in aria, dandosi lo slancio per portare ritmicamente in avanti il bacino, in un movimento che fa capire al cavallo che è il caso di muoversi.
Non ci sono grandi cavalli di razza, anzi sono perlopiù cavalli da lavoro, tozzi, non bellissimi a vedersi e di certo abituati più a lunghe zoccolate solitarie per campi che a corse adrenaliniche tra la folla.
In poche centinaia di metri i più lesti riescono ad affiancare il fantino con la capra. I cavalli si scontrano, tre o quattro mani afferrano la carcassa per la corda che ne cinge le zampe posteriori. Strattonano, urlano, si scuotono. Ognuno cerca di mandare fuori tempo gli altri con cambi repentini di direzione, brusche frenate, accelerazioni improvvise. Alcuni fantini, rimasti più indietro, esitano a gettarsi nella mischia. Attendono il momento giusto, quando un contendente avrà la meglio sugli altri e loro proveranno a beffarlo.
Cerco di scattare una foto un po’ più da vicino, quando una mano mi prende per la spalla e mi tira indietro “¡Métete para atrás güero que te van a atropellar!” Indietreggia, biondo, sennò ti tirano sotto.
I cavalli, ora liberatisi dal groviglio, mi passano davanti a tutta velocità con appresso un manipolo di ragazzini festanti. Non ci sono protezioni e le persone rischiano seriamente di essere travolte dagli scontri tra fantini. I più temerari stanno praticamente in mezzo al tragitto dei cavallerizzi, per poi arrampicarsi sulle inferriate delle case quando la situazione si fa troppo calda anche per loro.
Poi i cavalli scompaiono dietro una curva. Anche gli schiamazzi si attenuano e la piazza cala in un silenzio surreale. Gli sguardi vagano incuriositi, i bambini si arrampicano sugli alberi, sui muri, sui tetti, in una competizione tutta loro per essere i primi ad avvistare il vincitore.
“¡Ahí vienen! ¡Ahí vienen!
E rieccoli, lì da dov’erano partiti, i chapandoz del deserto messicano. Ora sono al trotto e la capra ha cambiato proprietario.
Abbiamo un vincitore, si può festeggiare.

La discarica

I festeggiamenti andranno avanti tutto il pomeriggio e tutta la notte. Fuochi d’artificio, musica de banda e mariachi.
Tequila, ovviamente.
Riesco ad allontanarmi dalla festa non senza qualche difficoltà. Di güeros, biondi, da queste parti non se ne vedono molti e il rischio di diventare mio malgrado la celebrità della serata è concreto. Finalmente, riesco a incontrare Leonel nella tranquillità della sua dimora.
Sindaco di Guadalcazar tra il 1995 ed il 1997 e degno esponente della celebre ospitalità della gente del deserto, Leonel è stato tra coloro che con forza si opposero alla grande discarica di rifiuti tossici che stravolse la vita di questa pacifica località a metà degli anni Novanta. I baffi imbiancati e le rughe che attraversano un volto arso dal sole gli conferiscono un aspetto solenne, mentre gli occhi tradiscono un’eccezionale dolcezza d’animo. La fierezza, per nulla intaccata dalla gamba malconcia che ne limita i movimenti, è la stessa di quella della foto, appesa in un posto d’onore nel suo salotto, che lo ritrae in testa a una marcia di protesta.
Tutto iniziò all’inizio degli anni Novanta quando un’impresa messicana, la Coterin (Confinamiento Técnico de Residuos Industriales) dei fratelli Aldrett acquistò un terreno all’interno dei 814 ettari del territorio di La Pedrera, una cabecera municipal con 1.500 abitanti che vive quasi unicamente di allevamento.
Alla gente del posto fu detto che su quel terreno sarebbe sorta un’azienda agricola. Solo che al posto di mais e patate sarebbero stati coltivati solfato di calcio e resine polimerizzate.
L’impresa proveniva dallo smacco di Mexquitic de Carmona, poco fuori San Luis Potosì, quando nel 1989 la SEDUE (Secretaría de Desarrollo Urbano y Ecología) impose la chiusura di una precedente discarica. I rifiuti tossici che vi venivano accumulati mettevano seriamente in pericolo ambiente e abitanti della zona, e la campagna d’informazione promossa dalla giovane associazione di ambientalisti Pro-San Luis Ecologico e dagli attivisti di Greenpeace sortì gli effetti sperati.
A quel punto l’urgenza di Coterin era di trovare una nuova area in cui spostare il proprio tesoro altamente inquinante, in parte sigillato in fusti d’acciaio da 55 galloni l’uno. Non ci mise molto. Tra novembre 1990 e maggio 1991, 20.000 tonnellate di rifiuti classificati come altamente pericolosi erano già stati illegalmente depositati in un’area nei dintorni de La Pedrera. Chi ha detto che i messicani non sono efficienti?
Residui di industria metalmeccanica, chimica, farmaceutica, agrochimica ed automotrica furono accumulati in quel pezzo di deserto. Soltanto una minima parte era sigillata in barili, comunque lasciati alle intemperie, mentre la maggior parte giaceva accatastata. Acido acetico, solventi, polioli e chimici di vario tipo penetravano nella terra, si mescolavano alle piogge, si libravano nell’aria.
La cosa non passò inosservata agli occhi della gente del deserto. Il 24 settembre 1991 circa duecento abitanti di La Pedrera e dintorni si presentarono all’ingresso della discarica per bloccare l’ingresso di nuovi rifiuti. Ci riuscirono, dato che il giorno seguente la SEDUE sospese formalmente le attività del deposito. Per anni i rifiuti smisero di entrare. Ma tantomeno uscivano.
La situazione rimase in stallo fino al 1993 quando l’Istituto Nazionale di Ecologia (INE), forte di uno studio di impatto ambientale che sarà poi definito “indecente e privo di ogni fondamento idrogeologico” dagli esperti dell’Università Autonoma di San Luis Potosì, autorizzò la riapertura della discarica. Con una piccola differenza. Questa volta la discarica acquisì lo status di “stazione di trasferimento di rifiuti industriali”. Una condizione singolare visto che gli scarti industriali che vi erano stati ammucchiati provenivano da industrie distanti anche migliaia di chilometri, e che nessuno sembrava avere idea di dove né quando sarebbero dovuti essere “trasferiti”.
Casualmente, questo avveniva giusto un mese prima che Metalclad, un’impresa di Newport Beach in California, acquisisse il 94% delle azioni di Coterin. Quando si dice il tempismo.
Metalclad prometteva l’ampliamento del deposito, subordinato alla messa in sicurezza dei materiali tossici e ad una non irrilevante percentuale degli utili all’amministrazione locale. Acquisendo discariche problematiche nei dintorni di comunità povere e prevalentemente rurali, Metalclad intendeva riprodurre in Messico lo stesso modus operandi che aveva reso la Chemical Waste Inc. la più grande impresa di gestione di rifiuti pericolosi degli Stati Uniti.
I permessi da parte governo federale furono di fatto un regalo di benvenuto per il colosso yankee nel business dei rifiuti messicano, che viveva assieme al resto dell’economia nazionale l’eccitazione di nuova rivoluzione neoliberista. Erano infatti appena stati firmati gli accordi del NAFTA, il trattato di libero commercio con cui si apriva definitivamente al commercio tra i paesi del Nord America e che sanciva una volta per tutte il ruolo per il Messico di fornitore di manodopera e materie prime a basso costo per le industrie statunitensi.
Industrie che avrebbero prodotto rifiuti.
Rifiuti che avrebbero dovuto tornarsene quanto prima a sud, assieme agli operai non più graditi.
Ma la popolazione di Guadalcazar, o almeno la maggior parte di essa, sugli americani, i rifiuti e tutto il resto la pensava diversamente. Nel 1995 votò per sindaco un giovane e agguerrito Leonel, vincente dopo uno scontro con Maria Concepción Pineda, la candidata del Partito Autentico della Rivoluzione Messicana (PARM) la cui campagna elettorale poteva contare sul forte sostegno di Metalclad. La discarica, dicevano, avrebbe portato lavoro e servizi in quest’angolo di deserto dimenticato da Dio.
Dopo alcuni falliti tentativi di mediazione, Leonel assieme ai legali di Greenpeace e ProSan Luis Ecologico avviò un contenzioso da cui scaturì una battaglia sporca, e non solo per l’oggetto della contesa. Sondaggi manipolati, firme false, corruzione sono solo alcune delle accuse che vennero avanzate. Gli americani sembravano decisi a voler comprare la verità, e il prezzo non era un problema.
Alcuni contadini accettarono il denaro dell’impresa in cambio del proprio silenzio. Nel rancho di Huizache il padre di un bambino nato con il cranio deforme, poi morto a seguito delle malformazioni, smise improvvisamente di incolpare la discarica. Da quel momento lui e la sua famiglia divennero inavvicinabili, e nessuno sa di preciso quanto abbia ricevuto da Metalclad. Da queste parti c’è però chi giura si trattasse di una gran bella somma.
L’impresa americana aveva però sottovalutato l’ostinazione e l’attaccamento alla terra gente di Guadalcazar. La discarica non era stata messa in sicurezza, e quando le coltivazioni iniziarono a rovinarsi e il bestiame a morire a causa delle infiltrazioni nelle falde acquifere il deserto insorse.
Per la prima volta da tempo immemore i pacifici e abitudinari allevatori del deserto scesero in massa in città. Per 57 lunghe ore una delle principali arterie di San Luis Potosì fu bloccata al traffico, isolando di fatto la capitale dell’omonimo stato. Le marce divennero sempre più partecipate, il NO al basurero tóxico arrivò chiaro e forte fino alle sale del potere, che dovette prendere atto del fatto che la popolazione non era stata consultata a suo tempo.
Le concessioni a Metalclad furono infine sospese, e l’area comprendente La Pedrera dichiarata riserva ecologica. A nulla servì l’intervento dell’ambasciatore statunitense in Messico, Paul Simon, che andò a bussare prima alla porta del Ministro dell’ambiente Julia Carabias, poi a quella del Presidente messicano in persona, Ernesto Zedillo, per chiedere la riapertura della discarica.
Fu allora che Grant Kessler, il presidente di Metalclad, decise di portare la questione fino agli uffici della World Bank. Per la prima volta dall’entrata in vigore del trattato veniva fatto ricorso al Capitolo 11 degli accordi NAFTA, e la richiesta di risarcimento a carico del Governo messicano venne stimata dalla multinazionale in 90 milioni di dollari.
Il processo fu lungo e complesso. Lo stesso Leonel fu chiamato a testimoniare, in un’udienza che non ricorda troppo volentieri. Alla fine il terreno della discarica tornò in mani messicane e gli americani ebbero, in parte, ciò che volevano.
Il 30 agosto 2000 il tribunale per il caso Metalclad approvò un risarcimento a favore dell’impresa di 16.7 milioni di dollari. Dopo un ricorso alla Corte Suprema della British Columbia, il 26 ottobre 2001 Governo Federale e Metalcald convennero a dare per conclusa la disputa, previo il pagamento di sedici milioni di dollari all’impresa e il passaggio al governo federale della proprietà dell’immobile.
A più di 15 anni da quella sentenza, l’area della discarica è recintata e nessuno può entrarvi, anche se c’è chi giura di aver visto gente entrare e uscire. I rifiuti tossici sono ancora lì, dov’erano stati depositati nel 1991. Dicono che un po’ alla volta verranno trasferiti.
Dove, però, ancora non lo sa nessuno.

]]> Morire a Dacca/4 https://www.carmillaonline.com/2016/09/01/morire-a-dacca4/ Thu, 01 Sep 2016 20:10:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32858 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

FilantoErano parecchio incazzati gli operai della Filanto in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento di Casarano (LE). Da mesi stringevano la cinghia in cassa integrazione a zero ore, esasperati per i ritardi nell’erogazione della c.i.g., per i salari non corrisposti e per la mancanza di prospettive. Li avevano buttati via come scarpe vecchie, dopo che per tanti anni avevano ingoiato di tutto pur di mantenere quel posto di lavoro al calzaturificio, e quel salario a fine mese che li sottraeva ad un destino di emigrazione. E invece, un bel giorno, era [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

FilantoErano parecchio incazzati gli operai della Filanto in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento di Casarano (LE). Da mesi stringevano la cinghia in cassa integrazione a zero ore, esasperati per i ritardi nell’erogazione della c.i.g., per i salari non corrisposti e per la mancanza di prospettive.
Li avevano buttati via come scarpe vecchie, dopo che per tanti anni avevano ingoiato di tutto pur di mantenere quel posto di lavoro al calzaturificio, e quel salario a fine mese che li sottraeva ad un destino di emigrazione.
E invece, un bel giorno, era emigrata la produzione, prima in Albania e poi in Bangladesh.
Eppure il Cavaliere del Lavoro Antonio Filograna aveva sempre fatto del suo meglio per garantirgli condizioni di lavoro degne del terzo mondo.
Ma c’è sempre un sud più a sud.

Il Bangladesh a sud di Lecce/2

“Non dimenticherò mai quella volta in cui andai a trovare il mio compagno di classe delle medie e trovai lui e tutta la sua famiglia che cucivano tomaie sul tavolo della cucina, le sue mani da bambino che si muovevano velocissime su quei pezzi da consegnare all’assemblaggio”.1

La descrizione del giornalista Danilo Lupo, originario di Casarano, riguarda uno dei tanti laboratori di subfornitura della Filanto nella seconda metà degli anni ’80. Negli stessi anni, seguendo i ricordi di un’ex operaia del calzaturificio, nei reparti si lavorava in questo modo:

“Alla Filanto dovevi essere davanti alla macchina alle 7.00, e finivi alle 19,00, con due pause che duravano in tutto un’ora e un quarto.
Se sbagliavi anche solo un punto, il caporeparto ti disfaceva tutta la cucitura, anche quella fatta bene. Così perdevi più tempo a rifare il lavoro, e dovevi recuperare nella pausa pranzo, a spese tue. Anche se non sbagliavi, ma andavi troppo lenta e rimanevi indietro con la produzione assegnata, dovevi recuperare durante le pause.
A chi usava i collanti gli davano del latte. Lucia, una ragazza di Corsano, sveniva sempre
”.2

Non che la salvaguardia della salute in fabbrica fosse particolarmente migliorata nel nuovo millennio, a giudicare da queste testimonianze del 2000:

Calzaturificio Filanto“Non ci sono protezioni. Se uno si sente male non ha speranza. Uno che stava a un raschiatore con l’aspiratore rotto che gli provocava nausea per quello che doveva respirare, e protestò col capo, chiedendo che lo riparassero o lo cambiassero, ma il capo gli diceva ‘tu là devi morire’’”.3

“I dispositivi di protezione individuale venivano consegnati in occasione di ispezioni preannunciate o di visite da parte di politici e successivamente ritirati …  Alcune lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità sono state obbligate a rientrare al lavoro dopo aver ricevuto minacce di licenziamento in caso di rifiuto”.4

C’è da dire che tanta arroganza non avrebbe trovato terreno fertile se non grazie alla passività di gran parte degli operai, dovuta ad una diffusa sudditanza psicologica nei confronti del padre/padrone della Filanto. Passività che si trasformava in aperta complicità con la direzione, quando si trattava di emarginare quei pochi che cercavano di reagire.

“Il 5 aprile 1982 la Panfil [lo stabilimento Filanto di Patù] trasferiva in una linea di lavorazione di nuova istituzione, completamente isolata dal resto della fabbrica, tutti gli iscritti alla Filtea-Cgil. Nello stesso giorno il direttore del personale convocava tutte le maestranze e faceva sottoscrivere un manifesto di protesta contro l’iniziativa sindacale dal titolo: Lasciateci lavorare tranquilli”.5 E il 99% firmò.
Era il preludio ai licenziamenti per rappresaglia delle operaie sindacalizzate, che vennero estesi anche ai loro parenti in una sorta di vendetta trasversale.
Così venne distrutto, nel 1982, il sindacato che nasceva dal basso. Una ventina di anni dopo i sindacati confederali entrarono alla Filanto calati dall’alto … chiamati dal padrone.

Delocalizzazioni all’italiana/2

Casarano, gennaio 2014. Operai Filanto in presidio.

Gennaio 2014: operai Filanto in presidio davanti allo stabilimento di  Casarano.

> L’azienda Filanto ha lottato per 50 anni per non fare mai entrare il sindacato. Al 51esimo anno pagava pure lei per iscriverci al sindacato.
> In che senso pagava lei?
> Perché le interessava il sindacato per cacciarci fuori con la cassa integrazione.
> Ah, per fare l’accordo aveva bisogno della controfirma del sindacato.
> Pagava pure lei, metteva la quota per far entrare il sindacato
.6

Nel gennaio 2014 fra i cassaintegrati del presidio non giravano opinioni particolarmente lusinghiere su CGIL, CISL e UIL. In particolare, gli operai li accusavano di aver agevolato, tramite la firma degli accordi, la loro estromissione dalla fabbrica, un processo di espulsione graduale e sistematico iniziato da quando  il patron della Filanto  aveva deciso di adottare la strategia del ‘cluster’.7

Ripercorrendo esattamente tutti i passaggi già sperimentati dal Gruppo Adelchi (descritti nel capitolo precedente), Filograna aveva girato a parenti e fiduciari i capitali per l’apertura di una costellazione di piccole ditte, tutte formalmente indipendenti dalla Filanto, ma tutte però riconducibili ad uno stesso interesse: il suo8.
Le piccole ditte assumevano gli operai messi in mobilità dall’azienda madre, ufficialmente ‘in crisi’, beneficiando di grossi sgravi contributivi. Visto che creavano ‘nuova occupazione’, usufruivano anche dei finanziamenti della legge 488/92 per comprare i macchinari ‘nuovi’ … che altro non erano che le vecchie macchine della Filanto sottoposte ad un sommario restyling, che consisteva nell’apposizione di una mano di vernice e di un’etichetta finta.
In totale, le aziende di Filograna si erano portate a casa in questo modo sei milioni di euro di contributi risparmiati e quattro milioni e mezzo di finanziamenti pubblici9.

> Ci hanno diviso in settori, in piccole aziende.
> E vi hanno portato all’esterno …
> Si, sempre qua dentro però 
[indicando lo stabilimento della Filanto].
> Sempre con l’aiuto del sindacato, promettendoci sempre il lavoro…
> Quando lo Stato ha smesso di erogare soldi e incentivi statali, abbiamo finito di lavorare.10

Operaia della Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur.

Operaia della Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur.

Ma a quel punto la delocalizzazione all’estero era già compiuta.
Tutti quei passaggi di operai da un’ azienda all’altra (ed ogni volta un po’ ne venivano mandati a casa), servivano a prendere tempo, a diluire 3000 licenziamenti in uno stillicidio di cassa integrazione, scaricandone i costi sulle casse dell’INPS e della Regione.
Servivano ad evitare il conflitto provocato da una chiusura netta, e a rendere graduale il processo di delocalizzazione, mantenendo comunque un piede in Italia mentre veniva sperimentato il trasferimento della produzione altrove.
L’ ‘altrove’ aveva cominciato a prendere forma da tempo, con l’apertura nel 1992 dei primi stabilimenti albanesi a Tirana e Shijak, seguiti dalla Filanto Ukraina a Zhitomir e dall’ufficio commerciale di Madras, in India, per coordinare le subforniture asiatiche11. Fino alla Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur, con migliaia di operai addestrati gratuitamente nel 2010 dall’USAID (l’agenzia di cooperazione del governo degli Stati Uniti) nell’ambito di un programma di contrasto alla povertà.12

 > In Bangladeh dice che c’ha tremila operai.
> Quanti ce ne aveva qua. Sempre nel made in Italy.
> Si, poi le fanno made in Italy quando arrivano qua. Penso
.13

I notai della crisi

L’aspetto forse più bizzarro di questa faccenda è che tutte le sue fasi erano avvenute alla luce del sole. Lo sapevano tutti, a Casarano, che le fabbriche satelliti erano intestate a prestanome, e che la crisi per mancanza di ordini era fittizia, perché l’azienda, mentre metteva la gente in cassa integrazione, obbligava allo straordinario gratuito quelli che restavano in reparto.14.
Difficile pensare che le parti sociali, gli enti locali, i ministeri seduti ai tavoli di concertazione della vertenza Filanto ne fossero all’oscuro. O che Confindustria Puglia nulla sapesse della delocalizzazione in Bangladesh, visto che era lei stessa a promuovere gli investimenti delle ditte pugliesi nelle Export Processing  Zones di quel paese15.
Tutti facevano finta di accorarsi per il futuro occupazionale degli operai salentini, di volta in volta riparcheggiati nelle aziende del cluster in attesa che andassero in crisi anche loro.
Tutti, compresi i sindacati confederali, che ratificavano con timbro e firma ogni travaso di operai da una ditta all’altra, fingendo di credere ad improbabili piani industriali.
Fino a promuovere, nel settembre 2013, uno degli ultimi atti di questa farsa: l’accordo transattivo dei ‘pochi, maledetti e neanche subito’, quando i dipendenti di tutto il cluster vennero rimandati definitivamente a casa accettando di ricevere, a rate, solo la metà degli stipendi arretrati16. I profitti della Filanto Bangladesh Footwear, che nel frattempo esportava scarpe in tutto il mondo, rimanevano ovviamente al di fuori della loro portata, e nessuno, ai tavoli delle trattative, ne chiedeva conto.

Aprile 2010: presidio degli operai Adelchi.

Aprile 2010: presidio degli operai Adelchi.

Il compianto Michele Frascaro17, nel suo dossier sul Gruppo Adelchi, definiva i sindacati confederali ‘i notai della crisi’ . Anche nella vertenza Adelchi, come per la Filanto, CGIL, CISL e UIL si erano limitate a traghettare i lavoratori verso la cassa integrazione senza mai opporsi veramente allo smantellamento delle linee.
Nessuno li aveva visti quando gli operai estromessi dal Gruppo Adelchi si incatenavano ai cancelli,  salivano sui tetti del Comune di Tricase, si cospargevano di benzina, bloccavano le strade. E nemmeno quando i lavoratori fermarono un camion di scarpe ‘made in Bangladesh’ pronte a trasformarsi in ‘made in Italy’18. In quell’occasione, vennero occupati per due giorni gli uffici della Nuova Adelchi:
Siamo qui da due giorni, ormai è intervenuta in forza la Guardia di Finanza che sta svolgendo indagini approfondite, ma non abbiamo visto uno, uno solo dei segretari provinciali della nostra categoria”.19

Settembre 2009: operai Adelchi occupano il tetto del Comune di Tricase.

Settembre 2009: operai Adelchi occupano il tetto del Comune di Tricase.

I sindacati perbene non frequentavano i picchetti, il presidio permanente dei cassaintegrati, le occupazioni degli stabilimenti o del Consiglio Comunale.
In compenso c’erano sempre, seduti ai tavoli, quando si trattava di firmare accordi che servivano solo ad allentare la tensione sociale, a depotenziare la lotta. Accordi come quello fischiato in assemblea durante l’occupazione operaia della Sergio’s (una fabbrica del cluster Adelchi), che scopriva il fianco agli occupanti, esponendoli al rischio di sgombero.20
Accordi che non sarebbero mai stati rispettati dall’azienda, e di cui le OOSS firmatarie non avrebbero mai controllato né preteso l’osservanza.

Epilogo

Tutto si è compiuto.
Seimila posti di lavoro del distretto calzaturiero salentino sono andati a ‘morire a Dacca’.
Sconfitte le lotte, ognuno si è rinchiuso nella sua dimensione individuale. I T.F.R. della Filanto hanno generato, a Casarano, l’apertura di una moltitudine di bar, la maggior parte dei quali falliti in poco tempo.
Ai territori sono rimaste solo la disoccupazione e le scorie tossiche, come le tonnellate di scarti di pellame, ritagli di tomaie e residui di collanti seppelliti abusivamente a Pozzo Volito, vicino alla Filanto di Patù21.
Nel frattempo, i sindacati confederali continuano a promuovere campagne per sensibilizzare i consumatori sulla trasparenza nella filiera della moda.
Lanciano appelli.
Propongono petizioni.
Inoltrano garbate richieste alle aziende del fashion per la tracciabilità delle subforniture.
Aderiscono alle meritorie iniziative della Clean Clothes Campaign.
Il fatto è che per loro la mobilitazione dei consumatori non è un’attività collaterale, ma sostitutiva della lotta di classe (un concetto ormai desueto e retrò).
E si chiedono, nelle loro campagne: “Ogni giorno  indossiamo abiti, scarpe, borse, portafogli, senza sapere molto di loro. Dove sono stati fabbricati? Da quali mani e soprattutto in quali condizioni?”.
Veramente queste cose dovrebbero dircele loro, ma visto che hanno delle difficoltà provo a dargli comunque un aiutino. Le Adidas22, oggi, le lavorano a Ruffano (LE), e le condizioni sono queste:

“Al calzaturificio siamo più di cento. La prima domanda che ti fanno, prima di assumerti, e se hai mai avuto a che fare con un sindacato. Se vuoi lavorare devi rispondere di no. Poi ti danno il contratto ed un regolamento da firmare, e dopo la firma se li riprendono senza dartene una copia. Sul regolamento c’è scritto che durante l’orario di lavoro è vietato andare in bagno ed è vietato parlare con le colleghe.
Ed è veramente così. La caporeparto può negarti il permesso di andare in bagno, e non puoi parlare alle altre operaie, neanche per chiedere un filo, perché sono tutte terrorizzate. Eppure non sono ragazzine, sono signore sui 40-45 anni.
È impossibile terminare in tempo il lavoro assegnato per la giornata, anche per un’operaia esperta. Se non ci riesci devi rimanere in fabbrica fino a che non lo finisci, a gratis. Oppure venire al lavoro l’indomani un’ora prima, alle 6,00. Sempre a gratis.
Durante il giorno il proprietario passa fra le macchine e ci offende. Gli piace particolarmente chiamarci ‘suine’.
Le operaie cambiano spesso, o perché si licenziano da sole, o perché vengono mandate via. Vengono confermate solo quelle più remissive, che non alzano mai la testa dal lavoro”.23

Nascosto fra le sagre gastronomiche e le pizziche tarantate, così care ai turisti alternativi, il ‘Bangladesh’ non si è mai spostato dal Capo di Leuca. (Continua)

[Nella foto in alto: striscione dei cassaintegrati Filanto, 2013.]


  1. Danilo Lupo, A Casarano è morto il ‘900, 10 agosto 2011. 

  2. Testimonianza di V., ex operaia Filanto, raccolta da Alexik. 

  3. Relazione su due incontri con i lavoratori della Filanto, dicembre 2000. 

  4. Interrogazione a risposta scritta presentata da Nardini Maria Celeste in data 30/03/2000. 

  5. Luigi Renna, L’imprenditore padrone: rapporto sulla repressione antisindacale nel Basso Salento, Milella, 1987, p. 153. 

  6. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Parte 1 , Telerama, gennaio 2014. 

  7. Letteralmente significa raggruppamento a grappolo. In economia indica un insieme di aziende interconnesse. 

  8. Erano spuntate così l’Italiana Pellami, la Carla, la Tecnosuole, la Leather Calzature, la Metal Target, la M.G.A., il Tomaificio Zodiaco, la Labor, e infine la Leo Shoes. 

  9. Inchiesta per truffa, sequestro da oltre 10 milioni di euro. Trema l’impero della Filanto, Lecce Prima, 26 marzo 2013. 

  10. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Parte 1 , Telerama, gennaio 2014. 

  11. Calzaturifici Filanto. Il periodo d’oro del gruppo Filanto, 1998. 

  12. USAID, PRICE. Poverty Reduction by Increasing the Competitiveness of Enterprises Bangladesh, quarterly report, april-june 2012, p. 44. 

  13. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Telerama, gennaio 2014. 

  14. Relazione su due incontri con i lavoratori della Filanto, dicembre 2000. 

  15. Imprese italiane nel mondo – Bangladesh – Confindustria Puglia – opportunità e investimenti: clima favorevole alle imprese italiane, Italian Network, 09/06/2009. 

  16. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Parte 2 , Telerama, gennaio 2014. 

  17. Michele Frascaro, compagno salentino e giornalista di inchiesta, noto per la sensibilità e la vicinanza con cui seguiva la vertenza Adelchi, è stato il direttore responsabile della rivista ‘L’impaziente’. Nel 2010 è stato stroncato da un infarto a 37 anni. Gli operai dell’Adelchi gli hanno dedicato il loro Comitato. 

  18. Operai Adelchi: continua l’occupazione, Il Gallo, 8 ottobre 2009. 

  19. Testimonianza di Luca Simone, riportata in: in Mario Fracasso, Adelchi. La storia operaia in lotta nel Sud Salento raccontata dai protagonisti, Alessano, 2010, p. 124. 

  20. Ibidem, pp. 73/76. 

  21. Rifiuti interrati, “nastri e testimoni portano alla Filanto”, Nuovo Quotidiano, 24/05/14. 

  22. In merito al rispetto dei diritti dei lavoratori, il marchio Adidas viene definito ‘sulla buona strada‘ dal rapporto della campagna Fair Trade ‘Change Your Shoes‘. 

  23. Testimonianza di un’operaia calzaturiera salentina, ascoltata da Alexik nell’agosto 2016. 

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Eredità imperiale https://www.carmillaonline.com/2008/01/24/eredit-imperiale/ Thu, 24 Jan 2008 03:22:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2519 di Alessandra Daniele

StarcrashImperatoreUniverso.jpgIl presidente Raff era certo che la scoperta d’una rete di wormhole che pareva collegare tutta la galassia sarebbe stata rivoluzionaria. Per questo era deciso a mantenerla segreta. L’anomalia spazio-temporale incontrata dalla sonda Gloryfinder a metà strada fra Marte e la terra s’era rivelata una sorta di condotto subspaziale collegato a molti altri, capaci di mettere in contatto istantaneo alcuni tra più lontani angoli del cosmo. Agli occhi di Hilaryus Raff, presidente ereditario degli Stati Uniti d’Occidente, si spalancava una nuova era di possibili conquiste che non intendeva certo spartire. Appena entrato nella sala operativa sotterranea, notò passare [...]]]> di Alessandra Daniele

StarcrashImperatoreUniverso.jpgIl presidente Raff era certo che la scoperta d’una rete di wormhole che pareva collegare tutta la galassia sarebbe stata rivoluzionaria. Per questo era deciso a mantenerla segreta.
L’anomalia spazio-temporale incontrata dalla sonda Gloryfinder a metà strada fra Marte e la terra s’era rivelata una sorta di condotto subspaziale collegato a molti altri, capaci di mettere in contatto istantaneo alcuni tra più lontani angoli del cosmo. Agli occhi di Hilaryus Raff, presidente ereditario degli Stati Uniti d’Occidente, si spalancava una nuova era di possibili conquiste che non intendeva certo spartire.
Appena entrato nella sala operativa sotterranea, notò passare sul megaschermo centrale un rapido mix delle immagini riprese dalle sonde spedite in esplorazione. Visioni confuse ma suggestive, che Hilaryus trovò colme d’una loro fosca bellezza.

– Sono molto scure, i toni dominanti sono seppia e ruggine… professor Grogan, si riesce ugualmente a decifrare quei simboli? — Chiese indicando un angolo del megaschermo. Grogan annuì soddisfatto.
– Sì, e grazie al mio programma di decodifica presto saremo in grado di metterli nella giusta sequenza e tradurli — Mostrò al presidente una serie di immagini ingrandite sullo schermo del suo laptop — Le sonde ne hanno trovato una serie su ogni pianeta che hanno ripreso sbucando dai vari wormhole connessi al nostro.
– Stupendo! — Commentò Raff — Questa rete di condotti subspaziali è di certo opera d’una grande civiltà galattica del passato… un Impero Stellare, e noi stiamo per raccoglierne l’eredità — disse, pensando “da un Impero all’altro”.

Grogan e gli altri lo fissavano, pallidi.
– Allora? — Sbottò Raff — Vi siete precipitati a svegliarmi nel cuore della notte per comunicarmi i risultati della traduzione, che cazzo aspettate a farlo?
Grogan deglutì, e si fece avanti col suo fido portatile.
– Ecco, signor presidente, come può vedere in questa sequenza, i vari simboli formano una sorta di fraseggio algoritmico spiraliforme…
– Venga al dunque, cosa ci dicono della rete subspaziale che abbiamo scoperto?
– Che è una rete… fognaria.
Cosa?
– La civiltà galattica che l’ha costruita la usava per scaricare le scorie su pianeti lontani dal centro dell’impero. I rilevamenti compiuti sui vari corpi celesti raggiunti dalle sonde lo confermano: sono tutti immense discariche di liquami e rifiuti.
Il presidente crollò a sedere sulla poltrona preferita di sua nonna.
– Ma perché lo facevano? – Obbiettò avvilito — Perché non scaricare la spazzatura nel vuoto interstellare?
– Perché ci vivevano — rispose Grogan — La loro forma di vita cresceva e prosperava nello spazio esterno, quindi era logico per loro considerare invece i pianeti come… pattumiere gravitazionali dove scaraventare le scorie, che venivano appunto lì trattenute dalla forza centripeta.
– Ed è questa dunque la loro eredità imperiale?
– Beh, in fondo qualcosa del genere è già successo, abbiamo ereditato le fognature dall’Impero Romano.
Raff sradicò un bracciolo della poltrona della nonna, e lo tirò su Grogan, che si riparò col portatile.
– Signor presidente, aspetti, non è tutto! Pare che la civiltà artefice dei condotti non sia del tutto estinta, e occasionalmente li adoperi ancora.
– Anche questo l’avete dedotto dai simboli?
– No, abbiamo intercettato e tradotto un loro messaggio.
– E cosa diceva?
Un bizzarro frastuono cominciò a scuotere la Casa Bianca. Sembrava provenire dal cielo.
Grogan deglutì ancora.
– Parlava della terra – Alzò la voce cercando di superare il rumore crescente — La definiva “Scarico inutilizzato nel quale si sono sviluppati parassiti nocivi” e concludeva con l’ordine di… “Spurgare, e riutilizzare”.
Il frastuono fece esplodere i vetri. Poi cominciò la pioggia acida.

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