Riccardo Canaletti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dittature democratiche e democrazie dittatoriali https://www.carmillaonline.com/2021/10/01/dittature-democratiche-e-democrazie-dittatoriali/ Fri, 01 Oct 2021 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68348 di Riccardo Canaletti

Emiliano Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, Carocci, Roma, 2021, pp. 244, € 28.00

L’ambiguità interna all’attuale assetto democratico in Occidente, è l’obiettivo polemico dell’ultimo saggio di Emiliano Alessandroni, docente all’Università di Urbino “Carlo Bo” in Critica letteraria e Letterature comparate (oltre all’insegnamento presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica), dal titolo eloquente Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici. Nel Novecento il problema della democrazia si legava inscindibilmente alla questione della giustizia sociale, come ci ricorda Harold J. Laski [...]]]> di Riccardo Canaletti

Emiliano Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, Carocci, Roma, 2021, pp. 244, € 28.00

L’ambiguità interna all’attuale assetto democratico in Occidente, è l’obiettivo polemico dell’ultimo saggio di Emiliano Alessandroni, docente all’Università di Urbino “Carlo Bo” in Critica letteraria e Letterature comparate (oltre all’insegnamento presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica), dal titolo eloquente Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici. Nel Novecento il problema della democrazia si legava inscindibilmente alla questione della giustizia sociale, come ci ricorda Harold J. Laski (1931) nel suo Introduzione alla politica (La Rosa Editrice, 2002):

La conclusione di tutto ciò è che la natura delle leggi, in un determinato Stato, corrisponde alle effettive domande alle quali lo Stato va incontro; e che queste, a loro volte, dipendono, in generale, dal modo in cui il potere economico è distribuito nella società amministrata da quello Stato. Ne consegue che a una più equa distribuzione del potere economico, corrisponderà una più profonda relazione tra l’interesse generale della comunità e gli imperativi legali imposti dallo Stato. […] Se, quindi, lo Stato è, come in effetti è, una organizzazione capace di dare una risposta alle domande poste dai desideri dei suoi membri, più equa sarà la distribuzione del potere, più integrale sarà la risposta alle varie domande. (p. 12)

A differenza di quanto sostenuto da Norberto Bobbio in Liberalismo e democrazia (Simonelli editore, 2006), il rapporto tra democrazia e principi egualitari sembrava confermato dalla lotta su due binari che veniva portata avanti, da un lato per i diritti e dall’altro per il miglioramento delle condizioni materiali per la democrazia. Tuttavia, l’idea che la democrazia sia una struttura giuridico-politica slegata dal contesto sociale abbastanza da astrarsi dai vincoli materiali dei cittadini ha preso piede a sufficienza da essere alla base dell’interpretazione più in voga nei Paesi come il nostro della democrazia occidentale. Una democrazia che, rinunciando alla lotta sociale, si limita a concedere diritti di facciata, che hanno funzione giuridica ma non reale (poiché non vanno alla radice del problema, e per cui giova ricordare l’intuizione marxista-leninista, ripresa poi da Žižek nel pamphlet pubblicato da Il Saggiatore nel 2005, Contro i diritti umani, secondo cui la pretesa universalità dei diritti umani difesi strenuamente dalle democrazie liberali, in realtà maschera un complesso di “pseudo-scelte” che nella vita di tutti i giorni si riversano nella società a beneficio di una particolare categoria di gente, che quasi sempre può essere identificata con l’uomo bianco ed etero).

È importante notare come la lettura di Alessandroni di queste considerazioni comporta una ripresa, sulla scia del filosofo Domenico Losurdo, dell’approccio sistematico del marxismo che sfidò nel secolo scorso l’irrazionalismo (grazie ad autori come Lenin o Lukács) e oggi, grazie ad Alessandroni, si pone come alternativa al marxismo liquido della filosofia postmodernista. Questo permette ad Alessandroni di costruire l’intero saggio a partire dall’esperienza storica del nostro tempo, in nome di un oggettivismo che ha saputo eliminare l’idealismo (in partire italiano) dall’equazione dell’analisi politica dell’attuale, dove per ‘attuale’ si intende un processo in evoluzione di natura aporetica, ovvero che procede espandendo le possibilità all’interno di una forbice dialettica in cui i concetti non si esauriscono in una delle tue alternative, come avverrebbe nella dialettica diairetica di stampo platonico (che sembra essere tornata in auge proprio con il liberalismo, che opera per tagli netti e arbitrari a favore di un’oggettività artificiosa, scomponente, che non sa leggere la storia). Questo è il nucleo centrale del saggio filosofico di Alessandroni, suggerito dal titolo stesso, che acquista un carattere dialettico.

La tesi è chiara: “Si tratta allora, per chi abbia a cuore le sorti della democrazia, di riuscire a individuare di volta in volta, nel coacervo delle contraddizioni reali, quali siano le forze oggettive attraverso cui passa la concretizzazione dell’Universale.” (Democrazie dittatoriali e dittature democratica, cit., p. 14). E per farlo si tratta la dinamica tra individuo e universalità in tre autori classici, Hegel, Marx, Lenin, per arrivare ad applicare i principi dialettici all’attualità. Da Hegel si riprende necessariamente l’idea che l’universalità si esplichi al di là delle differenze, in un tutti che riguarda l’uomo, non l’ebreo, il cattolico, il protestante, ecc. In quest’ottica la libertà diventa una libertà sotto il segno dell’Universale, che si esplica, per Hegel, nello Stato (e nella concezione hegeliana di popolo). Ma non lo Stato liberale, che nulla ha a che vedere con la trattazione materialista dell’idea di Stato (idea che si è evoluta per toccare vari modelli alternativi di Stato, compreso il modello della Comune di Parigi, escludendo però sempre e in modo risoluto la proposta liberale di Stato esclusivamente giuridico).

Dopo Hegel, arriva il turno di Marx, che viene preso in considerazione, oltre che come stella polare dell’intero saggio, per la sua critica al colonialismo e alla ragione razzista. Così si torna a quanto si diceva nel primo paragrafo e si comprende uno dei punti di contatto tra Alessandroni e il pamphlet di Žižek. La democrazia occidentale è intrinsecamente razzista, un sistema di esclusione che ragiona in termini tribali, a dispetto dell’individualismo di cui si vanta. O meglio: proprio quell’individualismo che non si risolve nell’Universale, cerca un’universalità di riserva da difendere. Così la classe operaia irlandese emigrata in Inghilterra viene discriminata dalla classe operaia inglese, e a sua volta la classe operaia irlandese in America discrimina gli afroamericani, e tutti insieme i cinesi che vennero costretti a emigrare per la costruzione delle ferrovie.

Marx denuncia tale principio di disgregazione in atto nella società liberale che genera la proverbiale “guerra tra poveri”, danneggiando la coscienza di classe e quindi l’orientamento verso l’Universale. E nel frattempo a trarne beneficio è la classe al livello superiore dell’asimmetria di potere nella società capitalistica. Appunto, il proprietario dei mezzi di produzione, l’uomo bianco etero (che, si noti, non deve essere necessariamente l’uomo biologicamente bianco ed etero, ma può diventare un tipo, un atteggiamento verso l’esistenza e verso i rapporti con le classi subalterne).

A dimostrazione di quanto sia attuale la tesi marxista nella riproposizione di Alessandroni, basti pensare a ciò che è avvenuto negli Stati Uniti con i Black Lives Matter. Nel libro In Defence of Looting di Vicky Osterweil (Bold Type Books, 2020), l’autrice utilizza l’analisi di stampo marxista per interpretare i casi di saccheggio a opera dei BLM. La conclusione è che il saccheggio colpisca la storia “dei bianchi” e della proprietà privata, fondata sulla supremazia razzista nel periodo dello schiavismo. E questo legittima un’azione di delegittimazione di quella storia di violenza e sopraffazione. Una conferma arriva anche da uno studio uscito per l’«American Pshycologist» sul razzismo endemico negli Stati Uniti, e su come la società della competitività abbia bisogno di un canale di sfogo che quasi sempre coincide con le minoranze stigmatizzate, o le classi più povere (o, per via dell’intersezionalità dei problemi di ordine sociale, le classi povere costituite dalle minoranze).

La domanda che ci si pone in uno dei capitoli più interessanti del libro (cap. 4, Said: La democrazia dell’Occidente), riguarda la possibilità che il razzismo endemico abbia una forma e un nome anche nella politica estera delle democrazie occidentali. Purtroppo esiste un termine e un fenomeno chiaramente ancora in atto, come testimoniato dalla situazione palestinese: il colonialismo. Un’altra volta la democrazia liberale viene smascherata grazie al modo in cui si pone nella realtà, a dispetto della teoria giuridica, delle norme, della libertà di autodeterminazione (questa sconosciuta). Proprio di recente, per quel che riguarda l’Afghanistan, è stato Žižek a sottolineare questa contraddizione, mostrando come il liberalismo tenda a praticare non solo il colonialismo (che può non essere visto più come il principale nemico da parte dei talebani) ma soprattutto l’immoralismo, ovvero l’esplicita contraddizione rispetto a ciò che il liberalismo apparentemente sostiene, e secoli fa enunciò come teoria dei diritti.

Si arriva così, dopo aver destituito nella pratica storica la democrazia occidentale dall’altare del modello perfetto (o semplicemente migliore), al secondo concetto presente nel titolo, ovvero riguardo alla natura dei giudizi di stampo liberale verso ciò che non può essere compreso in un’ottica non dialettica, che può essere soggettivista e dogmatica di volta in volta. Così come giudicare l’esperienza cinese? O le condizioni di vita della Germania dell’Ovest? Il discorso di Alessandroni mira a sconvolgere l’abituale separazione dicotomica tra democrazia e dittatura, per lasciare che i concetti si compenetrino (e in effetti si compenetrano storicamente) per non risolversi in un giudizio assoluto con cui interpretare il mondo alla luce di una falsa opposizione (o meglio, un’opposizione monca, che manca del proprio momento di sintesi). Tuttavia non è solo la mancanza di un approccio dialettico a bloccare in superficie i giudizi sulle realtà non liberali presenti nel mondo, ma anche l’enorme capacità dei media occidentali di sconvolgere l’informazione, fino a deformarla e a orientare il giudizio dei lettori tanto da rendere l’esperienza comunicativa dei social un’arma per le elezioni. E di questo aveva già parlato nell’ormai classico La fabbrica del consenso Noam Chomsky, insieme a Edward S. Hermann (1998), con ingente quantità di dati alla mano.

Democrazie dittatoriali e dittature democratiche propone una ricognizione dei nostri tempi alla luce della teoria marxista-leninista autenticamente interessata alla storia e, più che ai diritti, alla giustizia sociale (che va ben oltre la semplicistica concezione giuridica che i liberali vorrebbero difendere, e rivanga le zolle della democrazia occidentale per sradicarne i semi velenosi). E lo fa proponendo un’alternativa all’americanismo politico, a favore di un europeismo autenticamente democratico all’interno del quale sia possibile che si compi il cammino verso l’Universale.

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Non morire delusi. Discussione a margine sui Pasti Marginali https://www.carmillaonline.com/2019/02/08/non-morire-delusi-discussione-a-margine-sui-pasti-marginali/ Thu, 07 Feb 2019 23:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51021 di Riccardo Canaletti

Presentiamo di seguito l’intervista ad Angelo Canaletti, autore di due romanzi noir (Storie di Pasti marginali e Antipasti marginali, usciti entrambi per le Edizioni Creativa) che perfettamente si inseriscono nel filone percorso anche da altri componenti del collettivo “sedicente intellettuale” di cui Canaletti fa parte: la “Carboneria letteraria”. Una realtà alla quale l’autore deve molto, penso ad altri romanzi come La notte apparente di Alberto Cola (altro carbonaro); ma una realtà che sa prendere molto anche dall’autore, dotato di sottile ironia e di grande conoscenza storica del periodo che va [...]]]> di Riccardo Canaletti

Presentiamo di seguito l’intervista ad Angelo Canaletti, autore di due romanzi noir (Storie di Pasti marginali e Antipasti marginali, usciti entrambi per le Edizioni Creativa) che perfettamente si inseriscono nel filone percorso anche da altri componenti del collettivo “sedicente intellettuale” di cui Canaletti fa parte: la “Carboneria letteraria”. Una realtà alla quale l’autore deve molto, penso ad altri romanzi come La notte apparente di Alberto Cola (altro carbonaro); ma una realtà che sa prendere molto anche dall’autore, dotato di sottile ironia e di grande conoscenza storica del periodo che va dagli anni ’68/’69 fino ai nostri giorni. In questa compagine di eventi due elementi saltano all’occhio: una grande capacità di creare intrecci che sappiamo mettere in dialogo passato e vicende presenti (in particolare il periodo che gravita intorno al ’77 e il presente inteso come categoria, ovvero un presente che non si riduce mai ai fatti di un protagonista, e di pochi personaggi connessi, ma che si apre alla complessità che, per le stesse parole dell’autore, fa un po’ da sostrato alla trama dei suoi romanzi); e una grande capacità di fare critica di quei tempi, di quei movimenti, ma senza mai arrendersi a inutili disfattismi. Abbiamo ironia, autocritica, analisi e narrazione che, in una più che armonica (e leggera) costruzione letteraria come quella del romanzo/racconto resa in brevi capitoli, agili, ognuno dei quali resta come un’immagine quasi fosse un track di un album musicale, fanno luce su varie vicende, vari concetti mai chiariti, o i cui chiarimenti non sono mai stati accettati dai più.

Altra questione importante è quella che vede scansare qualunque forma di ortodossia (gramsciana, leninista, etc.) per concedersi, proprio tramite l’autocritica e l’ironia, a una visione delle cose meno “dogmatica” e/o “universale”, potremmo dire “antireligiosa”. La violenza, elemento su cui si basa la storia, non è mai uno strumento assoluto, un qualcosa da difendere o celebrare. La violenza non è mai un fine, uno scopo. La violenza è solo la risposta, la “reazione” ad una vita che è, per il novantanove percento del tempo, non violenta, assuefatta alle logiche dell’economia, della politica e del lavoro. Guardare al mondo del vissuto, invece che al mondo delle scienze (se volessimo mantenere una distinzione che già Edmund Husserl, padre della fenomenologia, aveva fatto), significa lasciare aperto il campo dell’incertezza, del probabile (e dell’improbabile). Significa non assicurarsi nessun risultato, ma mirare all’azione, un’azione che, lontanissima dall’idea “corporativista” di alcune realtà armate del secolo scorso, si snoda nella giornata dei due protagonisti, Umberto e Gino, uomini normali ma stanchi di abbassare sempre la testa.

In questo dialogo parleremo del primo libro, Storie di Pasti marginali

Come è venuta l’idea del libro? I personaggi, ad esempio, non sembrano prendersi sul serio, eppure sono dotati di una certa coscienza politica e anche di una determinata cultura. Umberto e Gino, due figure in qualche modo autobiografiche?

Smontiamo gli equivoci: cinque o sei anni separano la mia biografia da quella dei personaggi. Loro erano a Roma nel ’77, io alle medie, a Civitanova Marche. È evidente che condividiamo una biografia culturale e lo spirito politico è affine. Eppure le motivazioni sono altre, a cominciare da una certa insofferenza per romanzi e cinematografia dedicata a poliziotti bravi e buoni, magistrati raffinati e risolutivi, giudici simpatici e benevoli. Qui si vuole narrare delle storie di due antagonisti; gli eroi, i buoni, sono fuori dalla legge, esercitano il loro intelletto per sfuggire alla legge. Riprendono cioè il meglio, a mio parere, dell’esperienza delle lotte autonome degli anni Settanta e delle fughe conseguenti. Senza cedere troppo alla seriosità. Anzi, direi, cedendo assai poco. Per questo li ho descritti spesso nella loro imbranataggine.

Nel romanzo narrazione e riflessione politica si alternano in equilibrio, ma in dei punti della storia quest’ultima sembra prevalere sul racconto. C’è un tentativo di difesa, di ripresa, o si vuol semplicemente sottolineare come azioni del genere non siano prive di senso?

Bene, è pur sempre un romanzo, e quindi la vicenda è una storia di fantasia, non si pretende di descrivere un atto nel senso di auspicarlo. Il fatto in sé è funzionale al racconto e allo sviluppo della trama e dei personaggi. Resta il fatto che ciò che è auspicabile è la rivolta, ovvero il desiderio di rivolta. Non so quali azioni siano sensate, ma ritengo assai sensato ragionare sul tempo presente per mettere a fuoco quanto sia insensato e spesso meno favorevole di quello che negli anni Settanta ha scatenato rivolte sociali nel cosiddetto Occidente industrializzato. La politica è vista come critica della politica e fa da controcanto all’attuale rimozione della politica.

La “risposta al Capitale” dei protagonisti è fortemente ironica, seppur mai ridicola. È una forma di violenza, in qualche misura? O dobbiamo guardare ad Umberto e Gino solamente come due uomini delusi? Sono, cioè, dei perdenti da compatire (io non credo) o personaggi con una loro forza che sta negli ideali, più che nella realizzazione?

Ecco, questo non è facile a dirsi. Sono dell’idea che i due atteggiamenti convivano. Perché è umano avere ideali anche quando si sente il peso della sconfitta o dell’emarginazione. Eppure io credo che prevalga in Umberto e Gino un percorso ancora diverso: la loro strada è lunga, a partire da quegli anni ribelli fino a Pasti Marginali. Tra delusioni, discussioni e ripresa dell’azione, riescono comunque a mantenere una loro lucidità e capacità di analisi. Sicuramente qualcuno li compatisce, altri ancora riconoscono le loro idealità, e molti li ignorano. Loro scelgono un percorso “violento” nel senso che si muovono al di fuori del consentito e infrangono la tranquillità delle vittime, in un caso si scontrano con la morte. Ma non è una scelta basata sulla violenza come meccanismo perfetto e ineludibile, riconduce di più a una necessità, ad un mezzo opportuno e mai osannato in quanto tale. Per intendersi, non mimano la lotta armata brigatista, ma si rifanno agli espropri proletari. Due pratiche che nell’essere diverse operativamente connotavano due idee diverse di rivolta e di coinvolgimento sociale.

Sempre parlando dei protagonisti, non si può certo definirli eroi. Eppure si parteggia per loro, per via della loro simpatia e della loro umanità. È stata una formula calcolata o i personaggi sono cresciuti con la storia e con l’autore?

Difficile rispondere. Prima di tutto perché non sono un professionista della scrittura e non so muovermi tra gli argomenti propri della letteratura e dei suoi meccanismi codificati. Dico che sono eroi in quanto protagonisti e che la loro forma si è data nel corso della stesura e nel fluire delle idee narrative. L’intenzione di guardare tutto con occhio ironico è sicuramente voluta, come pure il mio parteggiare per le loro scelte in contrasto con quelle di buon senso di molti altri personaggi. Come pure è esplicito il desiderio di mettere in cattiva luce l’ex poliziotto e il magistrato. Poi, nello scrivere, la storia si sviluppa in modo a volte imprevedibile per chi la scrive.

Passando agli altri personaggi, che non potrebbero in qualche modo non definirsi anche loro protagonisti, la domanda più spontanea è: perché questo interesse nel tratteggiare con tanta perizia anche psicologica delle figure, potremmo dire, alla periferia della vita? degli esclusi (penso alla prostituta)

Penso che la prostituta, Svetlana, sia il personaggio puro per eccellenza. Nella sua vita carica di esperienza negative, lei svetta come elemento di candore, anche quando esercita la sua professione o pensa al suo futuro da modella. È una ragazzina che vorrebbe essere tale ma si ritrova a vivere in quel modo a causa di una vita in cui lei non ha potuto mai dare precedenza alle sue scelte. Su di lei si concentra tutto il mio affetto. Per gli altri protagonisti, come dici giustamente, il mio obiettivo era quello di renderli attori essenziali allo sviluppo delle vicende. Non credo che ci possano essere figure umane di secondo piano, anche quando sono tra quelli che io disdegno e tratteggio in modo non positivo. L’attenzione per ognuno è un modo per rendere efficace la vicenda di ognuno nell’economia di questa storia.

Il paesaggio assume un ruolo non solo di cornice ma ha, anzi, impresse tutte le caratteristiche “sociali” del contesto in cui esso sussiste (Nord Europa, Marche, etc.). Cosa significa paesaggio? E qual è il luogo a lei più vicino nella storia, non necessariamente geograficamente?

Amo il freddo, quindi la finale Norvegia assomiglia al mio paesaggio ideale. Che poi è il senso del racconto, l’adozione dell’idea di fuga come ribellione e non come ritirata. L’esodo come rivolta, secondo i ragionamenti di molti autori a me cari rintracciabili in una pubblicazione periodica di qualche anno fa, titolata Luogo Comune. Ma ogni luogo ha un senso, un suo senso. Dalla metropoli alla provincia, alle regioni in ebollizione sparse per il pianeta. Ogni luogo è un’esperienza ò la conoscenza di altre esperienze. Certamente un luogo non è solo geografia. E i luoghi a cui mi riferisco sono sempre antropizzati, non ho un’idea positiva della natura in sé. Non mi interessa proprio sapere che ci sono delle belle cascate, mi interessa vederle o studiarle o capire come farne buon uso. Che non vuol dire sfruttare la natura, ma semplicemente interagire con la natura. Senza umanità non trovo i valori naturali di particolare interesse. Dove si sviluppa la storia si sviluppa una parte di umanità irrequieta. Inoltre, ogni luogo è simbolo di una contraddizione.

La tematica politica, ritorniamoci, si presta bene a certe riflessioni. Non c’è apologetica, ma non c’è nemmeno delusione. Come guardare agli eventi del ’77 e del ’68?

Ogni processo storico è bene che si connetta sempre al suo tempo. Le riproposizioni fanno diventare tutto tragedia o farsa. Io ritengo estremamente utile capire quei processi e quei periodi, coglierne la portata e valutarne le assurdità che pure erano presenti. Il fatto più interessante è che nei movimenti dal ’68 al ’77 si è dato vita a una capacità elaborativa di quel presente in grado di prefigurare lo sviluppo futuro della società dell’Occidente industrializzato. La riduzione del tempo di lavoro, la comunicazione come fattore produttivo, l’automazione e le migrazioni dal sud del mondo, per dirne alcune. E la necessità di scardinare il patto tra capitale e movimento operaio ufficiale, con annessi sindacati, per dare corso allo sviluppo di desideri e bisogni immediati. Quello che è importante e non è morto era e resta la voglia di lottare contro il presente, di non accettarlo preconfezionato e definito per legge.

Nella misura in cui ci si appresta a leggere questo noir con gli occhi critici di un lettore attento, non può che nascere alla fine un sentimento di rivolta, una voglia vicina a quella di Umberto e Gino. Qualche formula per quest’epoca? Qualche consiglio per i giovani che vorrebbero non cedere alle lusinghe e alle violenze della coercizione e del Capitalismo?

Non si danno consigli a chi è giovane, si vorrebbe essere giovani e basta! Sono io che li attendo da voi, buoni consigli per non morire delusi.

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