Revisionismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Althusser, quel filoso… vietico https://www.carmillaonline.com/2022/01/13/althusser-quel-filoso-vietico/ Thu, 13 Jan 2022 22:55:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70027 di Nico Maccentelli

Per Marx edito da Editori Riuniti (1973), è una raccolta di saggi di Luis Althusser che in questo caso non tratterò come filosofo, bensì nella sua dimensione politica dell’epoca, quando l’URSS, nel bene e nel male, rappresentava un’alternativa di carattere socialista al sistema capitalista per una bella fetta di umanità. Ho sempre pensato che questa questione non vada trattata con le sole lenti dell’ideologia, né per essere esegeti di quell’esperienza, né per demonizzarla a priori. Sulle lenti di una analisi politica c’è ancora molto da fare. Quello [...]]]> di Nico Maccentelli

Per Marx edito da Editori Riuniti (1973), è una raccolta di saggi di Luis Althusser che in questo caso non tratterò come filosofo, bensì nella sua dimensione politica dell’epoca, quando l’URSS, nel bene e nel male, rappresentava un’alternativa di carattere socialista al sistema capitalista per una bella fetta di umanità. Ho sempre pensato che questa questione non vada trattata con le sole lenti dell’ideologia, né per essere esegeti di quell’esperienza, né per demonizzarla a priori. Sulle lenti di una analisi politica c’è ancora molto da fare. Quello che però qui mi interessa è vedere l’impostazione althusseriana di quegli anni (stiamo parlando degli anni ’60, fino alla metà) in merito a questa questione. Per questo, dei saggi contenuti in questo pregevole libro da bancarella (trovato fortuitamente), mi interessa affrontare solo il capitolo relativo all’URSS, ossia al socialismo reale e all’analisi di classe che Althusser ne trae, per formulare il concetto di “umanesimo socialista”. 

Luis Althusser è stato un grande intellettuale e filosofo marxista, che tuttavia risentì sul piano dell’analisi concreta del socialismo dei limiti che l’intellettualità come la militanza comuniste dell’epoca avevano.

Riporto due sue frasi che riguardano la sua adesione al passaggio kruscheviano allo “Stato di tutto il popolo”, che si sarebbe poi cristallizzato nella Costituzione Sovietica del 1977:

«L’Unione Sovietica, impegnata oggi sulla via che dal socialismo (a ciascuno secondo il suo lavoro) la porterà al comunismo (a ciascuno secondo i suoi bisogni), lancia la parola d’ordine: tutto per l’Uomo, e affronta temi nuovi: libertà dell’individuo, rispetto della legalità, dignità della persona.1

(…)

Per più di quaranta anni, in URSS, attraverso lotte gigantesche, l’«umanismo socialista», prima di esprimersi in termini di libertà della persona, si è espresso in termini di dittatura di classe. La fine della dittatura del proletariato apre nell’URSS una seconda fase storica. I sovietici dicono: qui da noi le classi antagoniste sono scomparse, la dittatura del proletariato ha assolto il suo compito, lo Stato non è più uno Stato di classe, ma lo Stato di tutto il popolo (ossia di ognuno). In effetti nell’URSS gli uomini sono trattati senza distinzione di classe, vale a dire come persone. Ai temi dell’umanismo di classe, vediamo allora subentrare, nell’ideologia, i temi d’un umanismo socialista della persona.»2

I

Ovviamente non mi interessa e non mi riguarda come comunista una critica liberal-democratica a questa configurazione ontologica del socialismo sovietico data da Althusser, la solita vulgata sulle “libertà civili” tanto cara agli epigoni della democrazia borghese e delle sue apparenti libertà nel contesto dela manipolazione di massa e della società dei consumi.

Mi interessa invece, e molto, la sua visione generale di socialismo con la situazione concreta dell’URSS fin quando è esistita. E la prima considerazione è: la fine della della dittatura del proletariato in URSS è vera (resta da comprendere la collocazione cronologica di tale fine), mentre la scomparsa delle classi antagoniste vantata dai sovietici è un falso.

Da questo enunciato, che influenzò persino un pensatore acuto come Althusser, discende tutta la questione del socialismo, la sua ontologia nel “dopo”, ossia nella transizione socialista al Comunismo. Tanto è vero che Althusser vede nell’URSS indubitabilmente la tappa socialista (a ognuno secondo il suo lavoro) verso la società comunista (a ognuno secondo i suoi bisogni). E parte da un fatto che ritiene scontato e preso per buono dai sovietici: in URSS è finita la dittatura del proletariato, non ci sono più le classi sociali in antagonismo, dunque non c’è più la lotta di classe, dunque non esistono più quelle contraddizioni sociali che determinano la lotta di classe stessa. Non è dato sapere quali contraddizioni vi siano prima del Comunismo ossia in una società composta genericamente da persone considerate prive di una collocazione sociale d classe. Eppure una collocazione nella produzione sociale c’è ancora. E non è forse questa che definisce come tale una classe sociale? Gli stessi Marx, Engels e Lenin non hanno mai affermato che nel socialismo vi fosse la fine delle classi sociali, proprio perché è una società di transizione al Comunismo, ossia a quella che tutti e tre nelle loro principali opere definiscono “società senza classi” (non potevano allora dirlo del socialismo?).

Che questa posizione dei sovietici e di conseguenza quella di Althusser che la prende per buona sia totalmente fuori dal marxismo anche da un punto di vista puramente dogmatico, è una  questione evidente. Questo dei sovietici è un altro tipo di dogmatismo, stretto discendente della prima volgarizzazione del marxismo, ossia il diamat.

II

Ma fin’ora abbiamo analizzato l’imprinting teorico di questa distorsione del materialismo storico e dialettico. Si tratta ora di comprendere le ragioni storiche e politiche di tale distorsione. Pensare che questo sia un abbaglio teorico e che non abbia basi ideologiche funzionali a un soggetto sociale e quindi politico, sarebbe un approccio astratto che ci porterebbe fuori strada.

Cosa nasconde dunque lo “Stato di tutto il popolo”? Non evidenzia certo l’uomo nuovo, libero dalle pastoie della sua appartenenza a una classe sociale. Nasconde ciò che ha caratterizzato la vita sociale e politica dell’URSS dalla presa del Palazzo d’Inverno fino alla sua fine, ossia: una tremenda e spietata lotta di classe che di fase in fase cambiava le soggettività in antagonismo tra loro, sconfitti i capitalisti, gli agrari, i kulaki, con lo sviluppo dell’industrializzazione, con la collettivizzazione forzata, con la nascita di una neo borghesia, di carattere burocratico, che deteneva non la proprietà giuridica ma la direzione del modo di produzione collettivizzato, riportando la classe operaia, i contadini, a forza-lavoro priva di una gestione o autogestione della produzione e della cosa pubblica del paese. La fine della democrazia dei soviet con l’avvento di Stalin, la burocratizzazione è l’artifizio durato 70 anni, di unpassaggio di potere legittimato proprio attraverso l’ideologia del proletariato, il marxismo-leninismo, ridotto a suo vuoto simulacro, appunto il diamat.

Per cui, svelato l’arcano, delle due l’una: o diamo del socialismo una definizione meccaniscistica: giuridicamente, costituzionalmente c’è la socializzazione dei mezzi di produzione? Sì, allora è socialismo. Oppure riportiamo al centro la questione della dittatura el proletariato, ossia della lotta di classe che vede l’esercizio del potere consiliare da parte delle masse operaie e il partito, ossia l’avanguardia del proletariato a elemento propulsore della direzione proletaria della società. Quando qualcuno dice che il partito è di tutto il popolo, significa che quel partito è di qualcuno che intende andare oltre il processo storico e politico di egemonia della classe salariata verso il Comunismo. E lo fa servendosi di altre ideologie, che siano il diamat o antiche tradizioni filosofiche e culturali come il confucianesimo nella Cina contemporanea, che come avrete capito segue la stessa dinamica ideologica dei sovietici, in presenza di una borghesia burocratica di tipo nuovo, rispetto alla borghesia e alla classe dominante feudale pre-rivoluzionaria.

Il socialismo dunque non è solo processo di socializzazione dei mezzi di produzione e della riproduzione sociale, ma è questo perché esiste l’esercizio della democrazia del proletariato, della sua dittatura di classe su ciò che resta della borghesia e dei capitalisti. L’uno è la condizione dell’altra: insieme agiscono come processo storico., materiale, sociale e politico.

Si tratta allora di comprendere che la linea di demarcazione fondamentale del pensiero marxista e leninista con il revisionismo non è solo la concezione dello Stato come apparato di dominio della borghesia sul proletariato, ma anche la lotta di classe come motore della storia, al di là di ogni soggettività falsa spacciata per universale, di ogni falsa coscienza che mantiene in piedi un sepolcro ideologico… arrossato.

Mao Tsetung affrontò la questione centrando i punti essenziali, partendo dalla cotraddizione che oppone il proletariato alla borghesia. Anche se poi perse la battaglia con la borghesia dentro il partito comunista cinese con la fine della Rivoluzione Culturale e l’avvento del denghismo dopo il 1976.

III

E siamo arrivati così al revisionismo e alle sue ricadute storiche: il riformismo togliattiano della via pacifica al socialismo e della democrazia progressiva per esempio, che oggi viene di fatto sdoganato anche da parti della sinistra di classe nostrana. E per restare su Althusser è interessante vedere le conclusioni politiche a cui giunge:

«È un avvenimento storico (il socialismo sovietico oltre le classi sociali, il suo umanesimo, nota mia). C’è anzi da chiedersi se l’umanismo socialista non sia un tema abbastanza rassicurante e avvincente da rendere possibile un dialogo tra comunisti e socialdemocratici, se non addirittura uno scambio ancora più ampio con tutti gli uomini «di buona volontà» (sic!) che rifiutano la guerra e la miseria. Oggi la grande strada dell’umanismo sembra condurre anch’essa al socialismo.”3

Non sto a prendere nemmeno in esame l’insensatezza politica di una tale proposta per il contesto storico e politico dell’epoca, in un mondo bipolare, dove le lotte di liberazione antimperialiste infiammavano i paesi del terzo mondo nella strategia rivoluzionaria della guerra centripeta e le massicce lotte operaie anche nei paesi a capitalismo avanzato, a preludio del ’68, in una visione eterogenea ma piuttosto chiara di rottura con l’ordine esistente del capitalismo.

Mi preme invece evidenziare la conclusione politica, il punto di approdo di una tale impostazione teorico-politica, che prefigura un’unione tra socialismo, ossia comunisti e socialdemocrazia nell’ipotesi di costruire una società umanista senza… fare i conti con l’oste.

L’approccio “pacifista”, ossia conciliatore riguardo le contraddizioni materiali insite nel modo di produzione capitalistico, quindi delle contraddizioni sociali che ne derivano nelle fasi di crisi generale in particolare, sono la dominante di ogni politica revisionista basata sulla necessità di mantenere lo status quo, la stabilità dentro la propria società, alla quale si attribuisce la caratterizzazione di socialismo. Dunque lo abbiamo visto con l’URSS e il blocco dei paesi socialisti e lo vediamo oggi con la Cina. Facendo una distinzione tra un grande fronte di paesi alleati come il Patto di Varsavia, ossia una superpotenza e un singolo paese circondato dai paesi imperialisti e sottoposto a un blocco criminale come Cuba. Parlare di pace in un caso o nell’altra fa una bella differenza. Nel primo caso la questione è preservare un ordine e una stabilità interna quale fonte di sviluppo economico-sociale che non affronta con una visione strategica internazionalista le contraddizioni tra proletariato internazionale, classi oppresse da una parte e imperialismo dall’altra. Nel secondo caso la presa di posizione è tattica, lasciando il beneficio di interpretarla come tale al nostro paese caraibico autenticamente socialista: non possiamo sapere in uno sviluppo politico favorevole ai processi rivoluzionari, quale sarebbe la presa di posizione cubana. Ma mi piace immaginarla come proseguimento del guevarismo, pensando al Che e a Fidel, e ai loro continuatori.

È importante però capire di quale strategia si serva il revisionismo. In Althusser prevale dunque questo spirito umanista che farebbe da collante tra due tradizioni politiche differenti: i partiti comunisti e i comunisti in generale da una parte e il socialismo democratico che vede come via di emancipazione del proletariato (se va bene, del popolo generico oggidì) il patto sociale con la borghesia, le riforme come conseguenza di una vittoria elettorale, la via parlamentare e la democrazia rappresentativa borghese eretta a valore assoluto della democrazia in ogni società.

Forse Althusser non si rende neppure conto dell’assist che avrebbe visto crollare ciò che restava di socialismo in un’intero emisfero, se avesse per assurdo prevalso la sua elucubrazione. Ma ciò ci fa anche capire a cosa avrebbe portato quasi 25 anni dopo il disegno politico gorbacioviano.

Althusser faceva leva probabilmente sulla forza e l’influenza internazionale del socialismo sovietico, considerandolo così influente da poter mettere in atto una strategia conciliatoria nel mondo capitalista occidentale, attraverso il cavallo di Troia delle socialdemocrazie in una riedizione dei fronti popolari tra i partiti comunisti di osservanza sovietica e partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Con un bel po’ di eurocentrismo.

Un “bel modo” di affrontare il nodo irrisolto da 50 anni delle rivoluzioni in Occidente.

Del senno di poi sono piene le fosse. La fine dell’impero sovietico ha segnato da una parte l’avvento pervasivo del capitalismo e la sua globalizzazione, le “socialdemocrazie” e i partiti comunisti trasformati e ridenominati sono diventati gli agenti di questo capitale neoliberale, del primato dei mercati, ossia tutto l’opposto della visione althusseriana dell’epoca.

Ma ha segnato anche una sconfitta del socialismo per come si è manifestato nel Novecento, proprio a causa delle sue contraddizioni interne, economiche, di classe, di stasi nella speranza di trovare una “coesistenza pacifica” con le forze del capitale.

La Cina di oggi ne è la conseguenza e ha fatto prima: ha aperto le porte al capitalismo rinunciando nel contempo a sostenere le lotte sociali e di classe che i sovietici talvolta appoggiavano conciliando ideologia a convenienza geopolitica.

Se non erano le basi allora per sostenere un “umanesimo socialista” come modello e presupposto di transizione mondiale al socialismo, via e più non lo sono neppure oggi con la Cina, come modello di “società armoniosa”.

 

  1. Per Marx, Louis Althusser, Editori Riuniti, 1972, opera del 1965, Marxismo e umanesimo, pag. 197
  2. Ibidem, pag. 197 e 198
  3. Ibidem, pag. 197
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Mi è semblato di vedele un gatto! https://www.carmillaonline.com/2021/01/16/mi-e-semblato-di-vedele-un-gatto/ Fri, 15 Jan 2021 23:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64421 di Nico Maccentelli

Il balzo del gatto “rosso”

In questo periodo la Cina è balzata alla ribalta nel mondo per la sua poderosa crescita economica, con le sue svolte pianificate sia a livello interno che nei rapporti internazionali, e non ultima per la capacità di affrontare velocemente crisi d’ogni tipo, compreso quella pandemica del covid. Ovviamente il mainstream prosegue la sua demonizzazione con la stantia vulgata anticomunista, con le solite modalità di amplificare e distorcere ogni episodio repressivo, quando poi tace sui crimini in Colombia, Cile, Palestina, Ucraina, Siria, nei feudi dell’impero USA-UE-NATO. Ma [...]]]> di Nico Maccentelli

Il balzo del gatto “rosso”

In questo periodo la Cina è balzata alla ribalta nel mondo per la sua poderosa crescita economica, con le sue svolte pianificate sia a livello interno che nei rapporti internazionali, e non ultima per la capacità di affrontare velocemente crisi d’ogni tipo, compreso quella pandemica del covid. Ovviamente il mainstream prosegue la sua demonizzazione con la stantia vulgata anticomunista, con le solite modalità di amplificare e distorcere ogni episodio repressivo, quando poi tace sui crimini in Colombia, Cile, Palestina, Ucraina, Siria, nei feudi dell’impero USA-UE-NATO. Ma in realtà si tratta di comprendere una realtà sociale e culturale nettamente diversa dalla nostra, al di là delle veline di regime. Anche nell’ambito della sinistra anticapitalista le posizioni sono variegate e spesso in polemica tra loro. Ma l’esigenza di approfondire il tema della Cina da più approcci, economico, sociale, politico e culturale è un’esigenza sempre più sentita tra i compagni: proprio oggi alle ore 15,00 è possibile assistere al forum dal titolo: La Cina nel mondo multipolare, organizzato dalla Rete dei Comunisti, su fb con interventi di spessore (1). Inoltre segnalo due contributi: l’opera di  Pasquale Cicalese: Piano contro mercato (2) e per quanto riguarda la storia della Cina nel periodo della Rivoluzione Socialista (fino alla Rivoluzione Culturale inclusa), suggerisco il seminario tenuto da Roberto Sassi nel 2017 a Pisa, dal titolo: Ribellarsi è giusto! visionabile su youtube (3)

Il mio scopo in questo intervento è però quello di partire da un approccio politico, che investe la visione stessa di socialismo sulla scorta di un’esperienza in buona parte già esaurita, e che riguarda principalmente quella porzione di mondo che la vulgata borghese occidentale definisce tutt’oggi come “comunismo” e che costituiva la quasi metà del pianeta. Una porzione di mondo che comprendeva con la Cina il socialismo reale sovietico.

Del resto l’attenzione verso questo paese non poteva non venire anche da una sinistra di segno comunista, che ha iniziato interrogarsi con più scrupolo su cosa sia la Cina. Per questo, il mio intervento vuole essere un contributo non esaustivo, ma comunque di orientamento politico su un’esperienza iniziata con una rivoluzione socialista, ma che poi ha intrapreso una strada pur originale ma contraddittoria, difficilmente collocabile dentro il solco di un socialismo, eppure con un approccio politico ed economico ben diverso dalle ricette di macelleria sociali pura a cui ci ha abituato dagli anni ’80 in poi il neoliberismo a Occidente.

A parte l’attenzione molto più datata del blog Marx21, che di fatto è diventato l’araldo di ogni fatto, documento e presa di posizione proveniente dal Partito Comunista Cinese, anche altri settori comunisti nostrani hanno iniziato a interessarsi della Cina, proprio sulla scorta dei processi politici internazionali che stanno cambiando gli equilibri tra potenze e delle differenti strade economiche adottate, metodologie di governance e, soprattutto, differenti finalità.

 

Contro un approccio tecnocratico, di fatto revisionista

Shanghai

Ma il rischio per coloro che vedono la Cina come paese socialista è quello di cadere di nuovo in un approccio tecnocratico, che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, surrogando i limiti e le battute d’arresto di un reale potere popolare e proletario con le capacità espansive, le industrializzazioni e così via. In definitiva trascurando la questione vera, che riguarda la lotta di classe, come se nei paesi dove erano avvenute rivoluzioni socialiste le contraddizioni sociali, la lotta di classe fossero secondarie. E oggi, di nuovo, come se fossero secondarie o non analizzate per niente, di fronte al nuovo tecnicismo cinese. 
Intendiamoci: la pianificazione della propria economia che la Cina porta tutt’oggi avanti è unaspetto gestionale positivo per ogni tipo di società. Quella keynesiana lo fu persino nel capitalismo. C’è stato un intero periodo del Novecento che tra socialismo reale e welfare keynesiano in Occidente, le classi dominanti potevano contrastare la forza crescente di quelle subalterne, vittoriose contro il fascismo e il nazismo, dei movimenti operai consci della loro forza materiale e sociale, solo con politiche di piano basate sullo sviluppo della domanda interna.

S’è visto poi cos’è accaduto con l’era della reaganomic e l’inizio del neoliberismo su scala planetaria. E questa è storia di oggi. È ovvio che di fronte alla macelleria sociale del neoliberismo con le sue guerre, devastazioni di territori, dell’ecosistema, di distruzione di patti sociali, proletarizzazioni, depauperamento di interi paesi, la Cina con la sua pianificazione, ossia con la capacità di passare da “fabbrica del mondo” a realtà economica di punta dotata di infrastrutture, tecnologie, vie commerciali, di crescere come potenza finanziaria, con capacità di penetrazione in interi continenti come l’Africa, rappresenta una forte suggestione per chi è rimasto orfano di piccoli o grandi padri, o pensa di trovare una scorciatoia alla crisi del comunismo novecentesco e alla grande sconfitta del socialismo soprattutto in occidente. E c’è chi pur ammettendo che insieme alla creazione di una vasta media borghesia e all’uscita dalla povertà di larghe masse perdura una diseguaglianza sociale stridente, inizia a vedere la Cina come modello alternativo al neoliberismo, o addirittura come punto di riferimento per il proletariato internazionale. Eppure ci si è domenticati di…

«Non importa se un gatto è nero o bianco; finché catturerà i topi, sarà un buon gatto»
(Deng Xiaoping)

È vero questo assioma? Nel decantare le “magnifiche sorti” del “socialismo cinese” ci si è dimenticati di questo “trascurabile” dettaglio. In un approccio tecnocratico tutto fila liscio. In realtà c’è pianificazione e pianificazione. La capacità tecnica di realizzare piani pluriennali, non è l’elemento fondante del socialismo: ancora una volta si scade nel tecnicismo degli esperti, nel gatto che al di là del colore è molto efficiente nel prendere topi per parafrasare il capostipite della tecnocrazia cinese. In questo inizio d’anno c’è un florilegio di seminari, libri, interventi in rete sulla Cina. Certo, la “pratica Cina” è importante, data l’influenza sempre maggiore sulla scena mondiale di questo paese a economia ibrida, nei mercati, nei rapporti geopolitici con le potenze imperialiste, nelle contraddizioni intercapitalistiche, nella competizione globale. Tuttavia fermarsi a queste analisi tecniche spacciandole per riconversione cinese alla transizione socialista è un’operazione fuorviante, che non coglie il cuore della questione: la lotta di classe, chi esercita il potere in una data società. Sul piano del “socialismo scientifico”, del materialismo storico e dialettico con la svolta denghista cos’è cambiato in Cina? Eppure deve essere manifesto anche a un’analisi di superficie come il revisionismo si sia affermato con una sorta di nazionalismo confuciano. Marx nelle università cinesi viene studiato come mero filosofo, mentre lo studio dell’economia segue strade molto più pragmatiche, appunto tecniciste.

 

Chi comanda in Cina?

Ciclo produttivo dell’i-Phone

Sulla banale domanda: chi comanda, cade come un domino visionario tutta l’impalcatura che certi compagni stanno costruendo, andando ben al di là delle domande, delle inchieste e dello studio pur importanti che occorre farsi sulla Cina. Ma del resto, dall’altra parte, nella sinistra post-comunista ed europeista è in voga solo la vulgata liberale e anticomunista sul “totalitarismo cinese”. Per non parlare delle analisi libertarie di vario tipo, che fanno del capitalismo neoliberale e dell’economia mista cinese un unico e generico mostro di sfruttamento. Certamente la Cina fa da contrappeso ai tentativi spregiudicati e aggressivi degli USA e dell’Occidente di voler mantenere una supremazia di sistema globale neoliberale. La sua politica economica non è deflattiva, ma espansiva. Ma lo è non certo per filantropia del partito comunista cinese. Le ragioni sono del tutto interne al sistema economico-sociale di quel paese, che ha il grande vantaggio di non essere un batustan dell’Occidente imperialista, con uno Stato e un partito che orientano la pianificazione centralizzata a vantaggio della nazione nel suo complesso e non dei profitti di una ristretta oligarchia. Ma questo aspetto non è tanto diverso dalle caratteristiche con le quali il socialismo sovietico staliniano e post staliniano gestiva la socializzazione dei mezzi di produzione, la collettivizzazione. E non ci si salva nemmeno accostando il modello cinese a quello keynesiano, perché come giustamente osserva Vincenzo Morvillo:

“Keynesismo, dunque, cui si affianca, però, pur sempre, una spietata logica produttivistica, efficentista e concorrenziale, che porta la Cina ancora ad adottare orari di lavoro e dispositivi di controllo che non dovrebbero appartenere, almeno in teoria, ad una Democrazia Popolare o ad un sistema che voglia considerarsi, non dico comunista, ma appena socialista. Un sistema che dovrebbe condurre l’uomo alla liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato e non al suo vassallaggio dentro la gabbia delle ragioni del profitto.” (4)

Dunque, invece di dar la stura a fanfare trionfalistiche come fa Marx21, si tratta di capire il carattere borghese di una cricca d’apparato dentro un sistema socialista o presunto tale, o a economia mista. Perché l’errore su cui non ci si è mai soffermati abbastanza è proprio questo: non vedere la formazione attraverso gli apparati di partito di una borghesia che è tale anche senza la prerogativa classica della detenzione della proprietà dei mezzi di produzione e riproduzione sociale. Questo penso proprio che sia il denominatore comune tra alcune delle più significative esperienze socialiste nel Novecento e la Cina di oggi. E per sostenere questo paradigma ideologico e politico che del marxismo è una caricatura, si è espunta dalla narrazione storico-politica la lotta di classe nella fase del socialismo. La risposta alla domanda su chi comanda in Cina è: la borghesia burocratica di Stato e di partito. E nel socialismo perché sia realmente socialismo, chi comanda? Altra bella domanda. Che sia il proletariato e non “lo Stato di tutto il popolo”?

 

Giochi di prestigio

Se vogliamo andare più indietro nel tempo per affrontare la questione della neo-borghesia burocratica di partito e di Stato, persino Trotskij, così interessato a parlare della degenerazione dell’URSS e della fine della rivoluzione sovietica con l’avvento di Stalin, definiva il sistema politico sovietico come uno Stato che aveva smesso essere operaio. Ma senza considerare la burocrazia staliniana come una classe neo-borghese al potere, definendola: una “casta privilegiata e parassitaria”. Mentre dall’altra parte lo stalinismo, con il diamat, la volgarizzazione del leninismo(6), allontanava l’idea stessa di una lotta di classe interna, ridotta a complotti di spie e terroristi al soldo delle potenze straniere, trozkisti inclusi. Se per Trotskij nell’URSS non c’era una classe al potere, per Stalin non c’era neppure una lotta di classe! Per non parlare del nuovo corso krusceviano, che sulla questione della lotta di classe in URSS non modifica un bel nulla rispetto all’impostazione staliniana, anzi sancisce con la nuova costituzione lo Stato di tutto il popolo:

“Avendo assolto i compiti della dittatura del proletariato, lo Stato sovietico è divenuto Stato di tutto il popolo.” (Costituzione dell’URSS, 1977)

Viene da chiedersi allora, cosa sia stato il socialismo reale: al posto di comando nessuna classe? Strano! Con un gioco di prestigio spariscono la classe borghese e con essa la lotta di classe. Ed è singolare oggi vedere anacronistici trozkisti e stalinisti scannarsi su vecchie questioni, sbagliate allora e tanto più sbagliate oggi. In ogni caso l’analogia dell’URSS di ieri con la Cina di oggi, sul piano costituzionale e direttamente politico, balza agli occhi. Dunque cosa fanno gli epigoni dell’attuale Cina? In odore di interclassismo glissano con disarmante nonchalance su chi oggi abbia le redini di questo enorme paese. Glissano sulla lotta di classe, con un approccio economicista, analizzano i progressi cinesi, la posizione geostrategica della Cina, i suoi rapporti con il capitalismo, con le potenze imperialiste, magari dando per scontata la natura comunista del partito. Ma quello che non fanno è un’analisi di classe della società cinese e quindi della natura classista della burocrazia di partito. Andiamo allora a tematizzare cosa può essere la Cina in relazione al capitalismo.

 

La Cina come alternativa al capitalismo o come suo puntello?

David Harvey, che pure dà una valenza positiva al fatto che nel PCC vi sia ancora impronta marxista e che questo partito si consideri comunista a tutti gli effetti, si pone una domanda che dovrebbero porsi tutti i comunisti: “… è questo il futuro, non della Cina, ma è questo il futuro del capitalismo?”(5) Chi l’ha detto infatti che una classe borghese liberal-democratica, in un’epoca di forte crisi epocale del capitalismo, e di forti tensioni sociali, non intraveda pragmaticamente nelle ricette economiche espansive cinesi un’alternativa da percorrere? In questo tipo di gestione dell’economia ci stanno infatti anche lo sfruttamento aggressivo della forza-lavoro, le zone speciali, tutte modalità di gestione antioperaia della produzione che  potrebbero essere prese in considerazione dal capitale nei propri contesti produttivi in Occidente. Sarebbe una tragica sottovalutazione del capitalismo e sopravvalutazione della “svolta progressista” di Xi Jinping illudersi che sul rapporto capitale/lavoro la Cina possa divenire la controtendenza rivoluzionaria al capitale. Xi Jinping non ha fatto altro che perfezionare una revisione ideologica del marxismo a favore di un approccio orientato al “benessere della nazione”: la narrazione suggestiva e la politica che occorre alla classe dirigente burocratica borghese cinese per perpetuare quello che, comunque sia, si configura come un dominio di classe sul proletariato e sulle masse popolari contadine. Dunque, la questione se è corretto “utilizzare il capitalismo per sviluppare le forze produttive” non può dar per scontata la finalità ultima, ossia il socialismo, ma richiede un’ulteriore specificazione: per cosa? Certamente lo può essere… ma per cosa? E come? Se il “come” è lo sfruttamento selvaggio della forza-lavoro…

 

La gatta sul tetto che scotta

La Cina forse non è nemmeno più la seconda potenza mondiale, ma contende già il primato agli USA. Come sarà impegnata questa forza? La classe dirigente cinese è interessata a esportare il “socialismo” nel mondo e quindi a contrastare il capitalismo, oppure punta a sviluppare la nazione cinese utilizzando il capitale privato, la finanza, così come le imprese statali, le cooperative, insomma l’insieme della sua economia mista, che non può dirsi socialista? Se è vera la seconda (e secondo me lo è), per questo scopo tutto interno, la Cina modulerà conflitto e cooperazione con il capitalismo, ma senza concepire questa dialettica come scontro mortale, come negazione del capitalismo. Ciò potrebbe significare che stare sul tetto del mondo, avere tutta la potenza di una grande economia in un mondo globalizzato, con blocchi economici integrati tra loro, servirebbe di fatto a cavare le castagne dal fuoco a un capitalismo in crisi, spostando più in là l’asticella della sua agonia e del declino della “galassia centrale” imperialista. L’interdipendenza economica non depone a favore di un conflitto che, ora come ora, viene giocato dall’Occidente. E il conflitto vero Occidente-Cina, non ha caratteri politici, classisti, ma puramente economici, di competizione sui mercati, per le risorse e via dicendo. Questo scontro sembra più uno scontro tra borghesie, tra capitalisti che una contraddizione tra proletariato internazionale e borghesia imperialista. Per cui, chi vive sperando…

 

La lotta di classe è l’elemento che distingue la politica rivoluzionaria finché esisteranno le classi

In definitiva, chi assume una visione ottimistica, in senso comunista, dello sviluppo economico-sociale cinese non considera “la politica” e pone con un approccio squisitamente economicista. Ciò significa abbandonare il punto di vista di classe nella questione cinese, definendo la Cina socialista tout court,  e perpetrare la visione revisionista della fine della lotta di classe nel socialismo. Non c’è che dire. In realtà mi pare proprio un’ovvietà considerare che anche nel socialismo, anche in una società di transizione, la lotta di classe esiste ed esisterà fino ache esistono le classi sociali e prosegue eccome. In alcuni casi le vecchie classi sociali sconfitte non ci stanno e si riorganizzano, o in altri casi, dai nuovi processi di edificazione del socialismo possono nascere nuove classi che, utilizzando la retorica rivoluzionaria e le leve ideologiche e politiche del comunismo, prendono il potere esautorando la democrazia del proletariato e delle masse rivoluzionarie. Eppure Lenin ebbe uno scampolo di tempo prima della sua prematura scomparsa, a indicare nella burocrazia un pericolo mortale per la rivoluzione proletaria e per il socialismo. In Stato e rivoluzione, la sua opera forse più significativa, indicò quelle misure che Marx ed Engels elaborarono per contrastare il burocratismo, e a fondamento di una democrazia popolare di classe: l’elettività del rappresentante del popolo e la revocabilità in qualsiasi momento, un salario mai superiore a quello di un operaio, l’adozione di criteri di controllo collettivo, da parte di ogni lavoratore della produzione, della riproduzione sociale, a partire dall’operato dei rappresentanti eletti: che tutti divengano “burocrati” perché nessuno lo divenga, impedendo così la formazione di un apparato che finisce col soffocare questi meccanismi che distinguono la democrazia proletaria da quella borghese. Di questi elementi caratterizzanti il socialismo, la comune rivoluzionaria del proletariato versus lo statalismo burocratico che ne abbiamo fatto?

 

“La borghesia è nel partito”. Il contributo fondamentale del maoismo

La risposta alla questione del burocratismo e della borghesia nel partito è venuta da Mao, che rendendosi conto della degenerazione neo-borghese nel partito, teorizzò e mise in pratica ala metà degli anni sessanta del secolo scorso la lotta di classe per il potere del proletariato attraverso la Grande Rivoluzione Culturale. Dunque se vogliamo parlare di Cina, è ancora da lì che provengono gli spunti più fecondi per attrezzarci a una lotta di classe che resti rivoluzionaria anche dopo la presa del “palazzo d’inverno”. Non si può essere contro lo sfruttamento salariato in casa e nicchiare sullo sfruttamento e il dominio classista in casa altrui, accettando falsificazioni grossolane e puramente pro forma come il dire che in quel paese esiste il pluripartitismo (sic!) e glorificare le patetiche visite degli apparatnik nelle aziende agricole collettivizzate. Tutte balle che delle pratiche rivoluzionarie, degli studenti che andavano a lavorare nelle comuni contadine, della dialettica tra lavoro manuale e intellettuale, dell’esercito come “entità unica col popolo”, delle Guardie Rosse che sovvertivano gli apparati di partito, insomma dell’epoca rivoluzionaria e in specifico della Grande Rivoluzione Culturale non ha neppure più l’odore. Qui non si bombarda più il quartiere generale. E se questo è lontano migliaia di chilometri, non si sente neppure l’eco delle purghe antiproletarie come quelle contro le lotte operaie nello Shenzhen nel 2018 (ne ho scritto su Carmilla qui). Si finisce con l’accettare la Cina per quella che è, la si fa andar bene così e non si affrontano i nodi veri del grande fallimento epocale del socialismo. Non può andar bene la logica dell’“esperto che prevale sul rosso”, ma al contrario è il rosso, la politica che deve prevalere sulla tecnica, ossia sull’economia, secondo un punto di vista di classe, riconoscendo come centrale la contraddizione e quindi la lotta di classe che anche in un paese socialista o a maggior ragione a economia mista, ibrida come la Cina, non si è certo esaurita e non può in alcun modo essere messa in secondo piano.

 

Siamo sicuri che il capitalismo neoliberale non pianifichi?

Ma veniamo alla pianificazione centralizzata. La tendenza odierna della critica marxista, dei comunisti, è quella di contrapporre la pianificazione al mercato. Giustamente. Ma permettetemi una piccola provocazione sulla scorta del prima menzionato approccio tecnocratico versus quello marxista della lotta di classe: cos’è stata la costruzione dell’Unione Europea con i suoi trattati se non una grande opera di pianificazione centralizzata a livello di apparati tecnocratici dei vari paesi, in una gerarchizzazione dell’intero sistema UE? La differenza tra pianificazione e pianificazione sta negli scopi e nelle politiche per perseguirli. Anche in questo caso la domanda “per cosa”, la pianificazione per cosa non è questione di lana caprina. Mentre l’UE è stata concepita per avviare una subordinazione feroce del lavoro da parte del capitale, per dare mano libera alla finanza e tenere in posizione dominate le oligarchie capitaliste del Nord Europa sulle classi operaie e le masse popolari, la borghesia burocratica cinese ha altri scopi, ma sempre di egemonia classista. La sua esigenza non era quella di spremere il limone, ma di impiantare nuovi frutteti, tuttavia sempre in una logica di comando su una forza-lavoro subalterna. Uno Stato e un partito che sono espressione di una nuova classe dominante alla ricerca di una stabilità in un contesto esplosivo, conforti contraddizioni sociali. Con l’avvento del denghismo revisionista, la Cina aveva ancora una vasta povertà estrema nella popolazione e attorno ad essa si sviluppavano paesi come il Giappone, la Corea del Sud che miglioravano le condizioni di vita di interi settori sociali. Esempi pericolosi per la stabilità interna. È da questa situazione che inizia il nuovo corso cinese e la nuova ideologia revisionista.

Ma d’altro canto, va fatta anche un altro tipo di considerazione: una rivoluzione socialista qualcosa avrà pur lasciato, anche in base alla tipologia di borghesia dominante non caratterizzata da un’egemonia del capitale privato: un’eredità politica che si manifesta in un approccio più collettivista dei mezzi di produzione e delle forze produttive, in una concezione utilitaristica di bene comune che non si traduce in un terreno di caccia libera per i privati. E non c’è dubbio che la pianificazione centralizzata cinese offra più vantaggi alla popolazione di quanto faccia, o meglio: non faccia il  neoliberismo occidentale, di stampo teutonico (ordoliberale) e anglosassone. Basti solo vedere tutta la gestione della pandemia: mentre noi stiamo ancora arrancando tra vaccini strapagati quanto di dubbia efficacia e lockdown demenziali, con la miseria dilagante, la morte di centinaia di migliaia di attività e aziende in tutto il mondo occidentale, la Cina ha superato la pandemia tornando alla normalità e presidia la società in modo capillare e sistematico, per evitare il ritorno su vasta scala del covid. Non solo: già la produzione, il commercio hanno ripreso all’interno e all’estero. La Cina ha appena concluso un trattato di libero scambio con altri 14 paesi di Asia e Oceania e uno con l’UE, e in entrambi gli USA ne sono fuori.

Questo però non è altro che buon senso pragmatico, il senso di una società che dà valore alla comunità nazionale e non oltre, perché i nuovi mandarini sono più intelligenti dei Think tank occidentali: sanno bene che il profitto finalizzato a ristretti gruppi non val bene lo sfascio sociale. La stabilità nazionale è l’ossessione reale della classe dirigente cinese.
 Ma la capacità degli apparati di gestire la società per mantenere la stabilità in un paese di miliardi di persone non basta a considerare la Cina un paese a guida proletaria verso il comunismo, ossia verso una società senza classi, dove lo sfruttamento dell’essere umano e della natura viene abolito. O davvero abbiamo una visione così “riformistica”, così limitata da accontentarci di una rondine che non fa primavera? Il riformismo e l’esaltazione del buon governo tecnocratico sono l’approdo per questo approccio che non ha nulla di diverso da quel togliattismo che decantava le magnifiche sorti di una “democrazia progressiva” e di una via pacifica, anzi: costituzionale, al socialismo. E dal revisionismo non se ne esce.

 


Il gatto dipinto di rosso

Certo, battiamoci per una società anche ad economia mista che inizi a pianificare per il bene comune, per la collettività e non per l’interesse di pochi: i migliori riformatori del resto sono sempre stati i rivoluzionari. Ma andiamo a vedere cosa non ha funzionato, quali sono le nostre tare di fondo, che sono nostre, non di altri. Progettiamo il socialismo possibile a partire dalla questione fondamentale: chi comanda e per cosa. Se guida veramente la politica il “per chi” è la centralità operaia, il proletariato nel suo processo democratico e il partito non comanda “a prescindere”, in quanto tale, perché “partito”. Anzi: serve la democrazia popolare di base, diretta, e le sue dinamiche, senza ucciderle accampando qualsivoglia emergenza (emergenzialismo… ancora lui). Tra tutte le velleità dottrinarie degli emmellini nostrani, uno slogan sintetizzava pur involontariamente ciò che dovrebbe fare un partito comunista, una forza comunista organizzata: servire il popolo. Il modo migliore di dirigere è servire il proletariato, o meglio servire alla “classe per sé“: preparare quadri e militanti, avanguardie di classe attraverso l’esperienza diretta dentro le masse, attraverso l’inchiesta che individua le contraddizioni sociali, dunque lo studio della situazione concreta, una presenza immanente nel corpo sociale per far crescere forza, coscienza, preparazione al conflitto, conoscenza, organizzazione, antagonismo di classe. E nella transizione socialista il partito non dirige la società in quanto tale. Dirige la classe con i suoi organi costituenti e successivamente costituiti. Il partito serve, è strumento di direzione, non direzione. E anche in questo caso non è questione di lana caprina. È la dialettica del rapporto avanguardia/classe.

Il “per cosa” è la liberazione dall’oppressione del lavoro salariato. E questo lo si capisce nel momento in cui non esiste più un comando sul lavoro: comando che sia da parte di privati in autonomia o sotto il controllo di funzionari aziendali di Stato che guardano più al plusvalore che ai diritti dei lavoratori, negando l’emancipazione dal lavoro e con essa il loro potere democratico sulla produzione e nella società. Le zone speciali cinesi non sono un modello di progresso per il lavoro.
 Facciamo tesoro dei vantaggi di una pianificazione centralizzata, ma ricordiamoci sempre che questi vantaggi (ossia il fine) sono la liberazione dallo sfruttamento, far avanzare i diritti sociali, insieme a una reale democrazia popolare e consiliare a partire dai luoghi di lavoro e nel resto della società. La tecnica, il metodo, devono sempre servire gli scopi di una politica rivoluzionaria e non gli assetti di potere di una classe borghese di burocrati.

Oppure viva la partitocrazia e la tecnocrazia, compagni: che importa il colore del gatto? Diamogli anche una mano di rosso: l’importante è che prenda i topi!

§ § §

 

In appendice

Apro una “paresi” (sì, avete capito bene)… prendendo l’esperienza italiana degli anni ‘70

Lama non l’ama nessuno…

La generazione di comunisti (e non solo) che negli anni Settanta, oltre quarant’anni fa, fu interna a un grande ciclo di lotte anticapitaliste e per il comunismo, si è imbattuta nella tecnocrazia dell’ortodossia “comunista” in salsa italiana. Le appartenenze politiche erano differenti, spesso in conflitto tra loro, ma non è questo ciò che mi interessa trattare. Quello che è importante rilevare è che quel movimento, che esprimeva una composizione di classe in via di trasformazione non si scontrò solo contro il comando statale del sistema capitalistico espresso nei governi democristiani, ma si trovò davanti un partito comunista, togliattiano, berlingueriano, che vedeva nel generico “sviluppo economico del paese” una funzione progressiva e su questo postulato, andava a rappresentare gli interessi di quei ceti medi che avevano la necessità di inserirsi e restare interni alla ristrutturazione capitalistica, alle filiere del grande capitale monopolistico. Nasceva così nel laboratorio di partito che era l’Emilia Romagna il decentramento produttivo e con esso la scomposizione di classe, l’attacco al suo potere conflittuale. Per questo “bene supremo del paese” si inaugurava con Lama e Berlinguer la politica dei “sacrifici”. Il partito si schierava con il capitalismo grande e piccolo e trovava nuove soluzioni, concertative, per garantire l’accumulazione capitalistica, l’efficienza dei cicli produttivi, il consenso della base operaia e per superare quella conflittualità di fabbrica esercitata nel secondo dopoguerra dall’operaio massa. La… berlinguerra di classe a colpi di concertazione riformista e questionari sul terrorismo. Non tanto diversa dalle mazzate e la galera comminata agli operai della Jasic Technology in lotta nello Shenzhen.

O qualcuno forse pensa che il PCI non abbia avuto un ruolo attivo dentro i processi produttivi della catena del valore del capitale? Pensa forse che la questione sia stata semplicemente politica, di schieramento con lo Stato borghese, con la DC? Che la solidarietà nazionale e il compromesso storico non fossero l’espressione politica di interessi di classe e di azione dentro l’economia della società con le politiche locali sulla piccola media impresa, lo stravolgimento del cooperativismo, il manageriato “rosso” nelle associazioni categoria? Oggi questo laboratorio prosegue con il PD, attraverso le privatizzazioni dei servizi, le esternalizzazioni del welfare, fino ad arrivare alla spregiudicata funzionalizzazione del terzo settore che riduce ancora di più alla precarietà il lavoro fino a sostituirlo col volontariato.

Il lascito più importante che ci ha lasciato il Movimento degli anni ‘70 è proprio l’antagonismo di classe a questo disegno del capitalismo che preludeva al passaggio del sistema in generale al neoliberismo, che iniziò una manciata di anni dopo con la reaganomic, il tatcherismo. Quindi in questo lascito fu importante l’aver capito il ruolo tecnocratico del PCI, di cogestore di questo processo di ristrutturazione capitalistica, il suo passaggio armi e bagagli al campo della borghesia, il fatto che questo partito non fosse più neppure il rappresentante riformatore degli interessi di classe di parte proletaria, rientrando a pieno titolo nella tradizione socialdemocratica più deleteria e antioperaia. E i risultati di questa deriva oggi sono sotto gli occhi di tutti con il PD. 
La grande battaglia politica combattuta contro la deriva berlingueriana del togliattismo, deve restare un faro guida per tutti coloro che si pongono su un terreno di prassi comunista, ma deve anche tracciare l’approccio teorico a un’analisi delle esperienze passate per definire il socialismo che oggi è possibile costruire. E non mi pare che un elogio alla Cina che non ne veda i risvolti classisti e le peculiarità di un revisionismo borghese diverso da quello dell’URSS ma pur sempre alieno dalla lotta di classe e dall’internazionalismo, sia un buon prosieguo in questa direzione.

Addio, ma per davvero…

Questa è una “paresi” di ragionamento, un’incoerenza che si manifesta in alcune delle analisi odierne sulla Cina. Doverosa da rilevare, perché mette in evidenza da parte anche di bravi comunisti una cesura incoerente con un’esperienza di conflitto sociale tutto italiano, gli anni ’70, quando in realtà la si prende come punto di riferimento, elemento imprescindibile della memoria storica del movimento comunista e passaggio politico della storia della lotta di classe italiana. Ma su quali basi ideologiche allora si porta come fiore all’occhiello il ‘77, se non si riconosce la politica della borghesia a partire dal rapporto capitale/lavoro e il denominatore comune tra socialdemocrazie e “socialismi” revisionisti e piuttosto pragmatici?

Il fatto poi che il PCI di allora non fosse al governo e il PCC di oggi sia al potere, non toglie nulla al dato di fatto che sempre di una politica borghese e antioperaia si tratta. In un caso fatta dall’opposizione con un’autonomia di agibilità in talune pubbliche amministrazioni. Nell’altro caso, quello cinese, fatta a livello centrale, alla guida del paese. Le finalità sono coincidenti: per quanto riguarda la Cina, è quella di una borghesia burocratica che non agisce necessariamente a puro vantaggio del capitale privato, ma per preservare il proprio potere. Dunque deve avere come scopo la stabilità generale di un sistema paese, avvicinandosi anche in questo caso alla vocazione socialdemocratica di patto tra parti sociali, di concertazione e di “bene generale”, che mistifica di fatto, sempre, con la retorica interclassista, l’egemonia di una classe dominante borghese sul proletariato e le classi subalterne. Nel PCI erano i ceti medi, una parte del capitale ad assumere nell’ideologia dell'”interesse generale” una posizione prevalente nel partito e nella sua politica. Interclassismo nell’uno e nell’altro caso.

Note:

1) Per il link, andare qui

2) L’opera di Cicalese la si può ordinare nelle librerie o scaricare in formato Kindle o epub da alcune piattaforme di e-commerce, tra cui IBS.

3) Mao Tse-tung, ribellarsi è giusto!

4) 
https://contropiano.org/interventi/2019/03/11/pil-e-socialismo-il-nuovo-corso-keynesiano-della-cina-0113242

5) David Harvey, L’importanza della cina nell’economia mondiale

6) Mao Tse-tung, Ribellarsi è giusto! Seminario tenuto da Roberto Sassi (Ibidem a 34.00); Il diamat è una forma dogmatica del revisionismo che Lenin aveva combattuto in Bernstein, Kautsky; dogmatica in quanto “banalizzazione della dialettica, una riduzione molto grossolana…”

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Ponary: soluzione finale https://www.carmillaonline.com/2018/03/10/ponary-soluzione-finale/ Fri, 09 Mar 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44143 di Armando Lancellotti

Kazimierz Sakowicz, Diario di Ponary. Testimonianza diretta dell’eccidio ebraico in Lituania, 1941 – 1943, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 134, € 12,00

In un momento in cui in Europa vengono decretati per legge e per esplicita richiesta di un governo il revisionismo della storia del Novecento, il riduzionismo o addirittura il negazionismo delle molteplici forme di collaborazione e sostengo di cui usufruirono i nazisti nei paesi sotto loro occupazione nell’adempimento della soluzione finale – il recente caso polacco è sotto gli occhi di tutti – leggere le pagine di questo prezioso [...]]]> di Armando Lancellotti

Kazimierz Sakowicz, Diario di Ponary. Testimonianza diretta dell’eccidio ebraico in Lituania, 1941 – 1943, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 134, € 12,00

In un momento in cui in Europa vengono decretati per legge e per esplicita richiesta di un governo il revisionismo della storia del Novecento, il riduzionismo o addirittura il negazionismo delle molteplici forme di collaborazione e sostengo di cui usufruirono i nazisti nei paesi sotto loro occupazione nell’adempimento della soluzione finale – il recente caso polacco è sotto gli occhi di tutti – leggere le pagine di questo prezioso diario, scritto proprio da un polacco – Kazimierz Sakowicz – che tra il 1941 e il 1943 registra e documenta le “eliminazioni caotiche” (L.Poliakov) perpetrate in Lituania dai “reparti mobili di massacro” (R.Hilberg), a Ponary, presso Vilnius, con il fondamentale aiuto dei nazisti lituani e degli antisemiti locali, risulta ancor più significativo ed importante per esorcizzare lo spirito del nostro tempo e per disperdere le cupe nubi dell’ignoranza della storia che si addensano pericolosamente all’orizzonte.

L’editore Mimesis pubblica per i lettori italiani questo interessante libro, il Diario di Ponary. Testimonianza diretta dell’eccidio ebraico in Lituania, 1941 – 1943, uscito nell’edizione originale polacca nel 1999 e in quella inglese, poi tradotta in italiano, solo nel 2005, insomma rispettivamente a più di cinquanta e a più di sessant’anni di distanza dai tragici fatti e dai crimini di massa di cui il diario dà testimonianza.
I motivi di questo ritardo, nonché la storia della composizione, del parziale occultamento e del ritrovamento del diario sono esposti nell’Introduzione da Rachel Margolis, già collaboratrice della prima edizione del 1999 e nella Prefazione da Yitzhack Arad.

Rachel Margolis, nata a Vilnius nel 1921 e recentemente scomparsa (2015), durante l’occupazione nazista fu particolarmente attiva nel movimento clandestino di resistenza interno al ghetto di Vilnius. Al momento dello smantellamento del ghetto riuscì a fuggire nelle foreste vicine alla città e continuò a combattere fino all’arrivo dell’Armata Rossa contro quei tedeschi e quei collaboratori lituani che avevano sterminato la sua famiglia: il padre, la madre e il fratello erano stati eliminati proprio a Ponary il 5 luglio 1944. Dopo la guerra, con grande tenacia e non poche difficoltà nella Lituania stalinista e sovietica, si dedicò alla ricerca storica e al lavoro di conservazione e trasmissione della memoria della “Gerusalemme di Lituania”, come era chiamata, prima della sua distruzione, la foltissima comunità ebraica di Vilnius.
Yitzhack Arad, nato nel 1926 non lontano da Vilnius, appoggiò il movimento clandestino ebraico attivo nel ghetto e di seguito militò in una Brigata partigiana sovietica. Diventato poi militare di carriera in Israele, dove è emigrato subito dopo la guerra, è passato – una volta abbandonato l’esercito – alla ricerca storica, all’attività universitaria e ha presieduto per molti anni lo Yad Vashem.

Significativamente, entrambi una decina di anni fa, nel clima di revisionismo storico che ha interessato tutti i paesi post sovietici e in particolare gli stati baltici, sono stati oggetto di attacchi e accuse, perché ritenuti responsabili, a causa della loro militanza partigiana direttamente con i sovietici o comunque al loro fianco, di vendette nei confronti di cittadini lituani, cioè dei collaborazionisti filo nazisti!

Anche l’autore del Diario, Kazimierz Sakowicz, polacco e cristiano, era nato a Vilnius (Wilno in polacco), nel 1894, quando ancora la città e tutte le regioni più orientali dell’ex Regno di Polonia facevano parte dell’Impero russo, come conseguenza delle spartizioni polacche di fine Settecento. A seguito della Grande Guerra, dopo il trattato di Brest Litovsk, la proclamazione di indipendenza della Repubblica lituana e la fine del primo conflitto mondiale su tutti i fronti, la regione di Vilnius diventò area contesa tra sovietici, lituani e polacchi. Ma soprattutto furono le due nuove repubbliche, polacca e lituana, che si contesero la sovranità sulla città, che infine venne assegnata a Varsavia. Con il patto Molotov-Ribbentrop e l’attacco contemporaneo tedesco-russo alla Polonia del settembre 1939, i sovietici occuparono l’intera regione e trasferirono il distretto di Vilnius, momentaneamente e a seguito di un accordo tra i due paesi, alla Repubblica di Lituania, la quale però, qualche mese più tardi, nel luglio 1940, venne invasa dall’Armata Rossa. Ma un anno dopo, il 22 giugno 1941, con l’Operazione Barbarossa, la situazione cambiò nuovamente e radicalmente, poiché l’intera Lituania fu conquistata dalla Wehrmacht, che entrò a Vilnius il 24 giugno, in tal modo intrappolando i circa 60.000 ebrei della “Gerusalemme di Lituania”.

Racconta Rachel Margolis che Sakowicz, giornalista e tipografo, «lavorò per diversi giornali. Più tardi aprì una tipografia che pubblicava riviste, come la “Przegląd Gospodarczy” (Rivista Economica), in via Mickewicz, dove egli viveva con la moglie, Maria. La coppia non ebbe figli. Nel 1939, quando Vilnius e la regione circostante occupate dalle truppe sovietiche furono consegnate alla Lituania, Sakowicz dovette chiudere la tipografia e trovare un’abitazione più economica. Si trasferì in un cottage a Ponary, un sobborgo di Vilnius. Da lì inforcava la bicicletta alla volta della città accettando lavori occasionali per mantenere la famiglia. Il cottage era situato nel bosco» (pp. 8-9).

Il bosco di Ponary

Per puro caso, quindi, il giornalista Sakowicz, dalla soffitta della propria abitazione, poté osservare quanto accadeva nell’area boschiva di Ponary a partire dall’estate del 1941, quando l’Einsatzgruppe B e le sue sotto unità, gli Einsatzkommandos, diedero il via alle eliminazioni di massa degli ebrei polacco-lituani di Vilnius e dintorni. Si tratta pertanto di una testimonianza diretta, oculare, di chi riuscì a vedere quanto non doveva essere visto, se non dai suoi stessi esecutori.

Il diario di Ponary di Kazimierz Sakowicz» – sostiene Yitzhack Arad – «è un documento unico, senza paralleli negli annali della Shoah. Esso fornisce la visione da parte di un testimone oculare delle attività della macchina da sterminio nazista nell’arena ristretta di Ponary, un’area boschiva nella campagna circa dieci chilometri a sud-ovest di Vilnius sulla strada per Grodno. […] Nel 1941, durante la loro occupazione della regione, i sovietici cominciarono a scavare enormi fosse che dovevano servire da serbatoi di stoccaggio del carburante per aerei ma, prima che il lavoro terminasse, il 22 giugno del 1941 i tedeschi attaccarono l’Unione Sovietica (p.11).

Più precisamente – spiega Rachel Margolis – si trattava di «larghe fosse – del diametro da dodici a trentadue metri e profonde da cinque a otto metri – collegate per mezzo di canali in cui si dovevano gettare le tubature». (p.9)

La successiva occupazione della regione da parte dell’esercito tedesco due giorni più tardi» -continua Arad – «fece rimanere incompiuti gli scavi delle fosse e la costruzione dei serbatoi di stoccaggio. Durante l’occupazione tedesca, queste fosse divennero il luogo di sterminio di circa 50-60.000 uomini, donne e bambini, che venivano fucilati sul bordo della fossa e ivi sepolti. La maggioranza delle vittime descritte da Sakowicz nel suo diario proveniva dal ghetto di Vilnius e dintorni. Alcune migliaia erano membri del movimento clandestino od ostaggi – polacchi, quadri comunisti, prigionieri di guerra sovietici e alcuni lituani anti-tedeschi. Ponary così divenne la tom­ba degli ebrei di Vilnius, che col suo nome ebraico, Vilna, era conosciuta come la “Gerusalemme di Lituania”. Sakowicz […] decise di documentare le atrocità che avvenivano appena fuori della porta di casa sua [ed] era sicuramente consapevole che la scoperta del suo diario sarebbe costata la vita a lui e forse anche alla sua famiglia. Noi possiamo solo immaginare ciò che lo spinge­va a portare avanti il suo pericoloso compito. Era l’urgenza intellettuale di trascrivere un evento le cui finalità e atrocità non avevano precedenti nella storia europea? Pensava di pubblicare il diario dopo la guerra, o di usarlo come base per un libro? Forse il suo scopo era produrre un documento che potesse servire come un’imputazione contro gli assassini. Qualunque fosse la motivazione, Sakowicz non visse per realizzarla. (pp. 11-12)

«Il 5 luglio 1944, Sakowicz fu trovato mortalmente ferito nel bosco, vicino alla sua bicicletta. La sua tomba si trova nel Cimitero Rossa di Vilnius, fra le tombe dei soldati del movimento clandestino polacco (Armia Krajowa)». (p. 9)

Rachel Margolis, dopo la guerra ricercatrice presso il Museo nazionale ebraico di Lituania (prima collaboratrice del Museo Ebraico di Vilnius poi chiuso nel 1949), si imbatté quasi per caso in alcune delle carte del diario di Sakowicz «che era stato scritto su fogli sciolti collocati in bottiglie di limo­nata vuote, chiuse e sepolte nel terreno. Dopo la guerra, i vicini di casa di Sakowicz dissotterrarono alcune di queste bottiglie e le consegnarono al Museo Ebraico». (p. 7)
Ma si trattava solo della prima parte del diario che copriva il periodo dall’11 luglio 1941 all’agosto del 1942. Il recupero dell’intero materiale disponibile – come racconta la Margolis – fu molto difficile, perché si scontrò con l’ostruzionismo tanto delle autorità sovietiche prima dell’indipendenza del paese, quanto delle successive autorità nazionali lituane dopo la separazione dall’Urss: riconoscere ed ammettere le fondamentali corresponsabilità dei collaborazionisti filonazisti lituani negli eccidi di Ponary (Paneriai in lituano e Ponaren in tedesco) era politicamente imbarazzante sia per i comunisti sovietici lituani, prima sia per i nazionalisti anticomunisti, poi. E se durante il periodo sovietico l’accessibilità a qui documenti era impossibile, dopo il 1989, solo a seguito di ripetute richieste, il nuovo Museo di Storia «dove erano state trasferite molte delle collezioni del Museo della Rivoluzione» (p. 8) centellinò i permessi di accesso alle carte del diario di Sakowicz, cosicché fu possibile leggere gli appunti riguardanti il periodo tra il settembre 1942 e il novembre 1943.

Insomma, come è noto, l’addomesticamento di fatti storici compromettenti attraverso l’elaborazione di una verità storica ufficiale, se non addirittura tramite la censura dell’evidenza, è parte essenziale dei processi politico-culturali di costruzione di un’identità nazionale di stato, diffusi e frequenti ovunque: il mito degli “italiani, brava gente” o la lettura “risorgimentale-patriottica” della Resistenza rientrano nella stessa fattispecie.

Come rileva Yitzhack Arad, l’unicità del diario di Sakowicz sta nel suo carattere di registrazione “oggettiva”, quasi completamente priva di commenti, osservazioni o impressioni emotive e nel fatto che esso è il punto di vista non di una vittima, ma di un osservatore esterno; un po’ come se fossero istantanee fotografiche, scattate in fretta e di nascosto o appunti stringati utili per fissare immagini e particolari nella memoria. Di nulla di analogo disponiamo per i numerosissimi altri eccidi perpetrati dalle Einsatzgruppen e dai loro collaborazionisti locali nei territori sovietici occupati dalla Wehrmacht con l’Operazione Barbarossa, come ad esempio a Babi Yar, presso Kiev, dove tra il 29 e il 30 settembre del 1941 furono eliminati, con le stesse modalità utilizzate a Ponary, 33.771 ebrei.

Lo sterminio degli ebrei di Vilnius ebbe inizio il 2 luglio 1941, quindi appena una settimana dopo l’arrivo dei tedeschi in città e agli uomini degli Einsatzkommnados si unirono diverse decine di lituani: si trattava di «un’unità speciale di 150 uomini, l’Ypatingi Buriai. Quest’unità fu affiancata all’Einsatzkommando 9 e lo aiutò ad arrestare gli ebrei e a massacrarli a Ponary». (p. 22)

Memoriale di Ponary – Fossa di esecuzione

Si tratta di quei collaborazionisti lituani che Sakowicz nel suo diario chiama i “Fucilieri di Ponary”, che operavano in un contesto di diffuso antisemitismo, alimentato da movimenti e gruppi nazionalisti lituani, tra i quali – come spiega una delle tante note introduttive alle sezioni del diario di Sakowicz aggiunte nell’edizione curata da Yitzhack Arad – «il Fronte Attivista Lituano (LAF), istituito nel novembre del 1940 da rappresentanti esiliati dei partiti politici lituani che erano fuggiti in Germania quando i sovietici avevano occupato il paese. Il LAF aveva diramazioni clandestine in Lituania, dove diffuse una feroce propaganda antisemita tramite volantini introdotti illegalmente nel paese. I volantini invitavano a una sollevazione popolare se la Germania avesse attaccato l’Unione Sovietica e all’eliminazione, con qualunque mezzo, degli ebrei dal suolo lituano. Uno dei volantini del LAF – intitolato: “Per che cosa stanno combattendo gli attivisti?” – dichiarava: il Fronte Attivista Lituano, ricostituendo la nuova Lituania, è determinato a portare avanti un’ immediata e radicale epurazione della nazione lituana e della sua terra da ebrei, parassiti e mostri… [Questa] sarà una delle precondizioni essenziali per cominciare una nuova vita». (p. 20)

Una sotto-unità portava la gente a Ponary, generalmente con camion dell’Einsatzkommando. Un’altra sorvegliava il luogo della strage, sia fuori – per impedire alla gente, compresi soldati tedeschi, di avvicinarsi alle fosse delle esecuzioni – sia dentro, per impedire alle vittime di fuggire. Al loro arrivo le vittime venivano messe in un’area sorvegliata di attesa; veniva loro detto di spogliarsi e di consegnare ogni oggetto di valore in loro possesso. Si diceva poi loro di bendarsi l’un l’altro o di coprirsi il capo con una camicia e di chiudere gli occhi. Erano infine condotti, nudi, dal luogo di attesa alle fosse di esecuzione in gruppi di dieci o venti camminando in fila indiana, tenendosi per mano. Alla testa della fila stava un lituano che guidava il primo prigioniero alla fossa di esecuzione. Non appena il gruppo lasciava l’area di attesa, i sicari preparavano il gruppo successivo. Membri della terza sub-unità, presso le fosse di esecuzione, allineavano le vittime sul bordo della fossa e le fucilavano. Le vittime cadevano nella fossa, dove chi avesse mostrato segni di vita sarebbe stato colpito di nuovo. La gente che stava nell’area di attesa, solo a poche decine di metri dalle fosse, poteva sentire chiaramente gli spari ma non poteva vedere ciò che avveniva. Alla fine del massacro giornaliero, le fosse venivano coperte con uno strato di sabbia. Qualche volta ciò veniva fatto dall’ultimo gruppo di ebrei, che venivano poi fucilati e coperti di sabbia dai lituani del plotone di esecuzione. (p. 24)

Sakowicz annota con estrema precisione tutto quello che vede dalla soffitta di casa sua: i trasporti delle vittime e il loro numero approssimativo; l’organizzazione all’interno dell’area adibita a luogo di esecuzione; le differenti e successive fasi delle procedure di sterminio. Individua ed indica con sicurezza coloro che sparano – e di frequente sono gli Shaulisti, cioè i membri della Sauliu Sajunga (associazione di fucilieri), ovvero giovani lituani nazionalisti ed anticomunisti che danno pieno sostegno ed aiuto agli occupanti nazisti; registra l’avido interesse dei collaborazionisti per gli indumenti e gli oggetti di valore che vengono sottratti alle vittime, che distingue per sesso, età, condizione sociale, che deduce dagli abiti che indossano al momento del loro arrivo a Ponary; prende nota degli orari di inizio e fine delle esecuzioni e di ogni minimo particolare riesca ad osservare.

Talvolta aggiunge anche qualche commento, che sembra dettato da un moto di indignazione che non riesce a trattenere per l’orrore a cui assiste e per la disumanità e la meschinità dei carnefici e dei numerosi approfittatori:

«Per i tedeschi 300 ebrei sono 300 nemici dell’umanità; per i lituani essi sono 300 paia di scarpe, di pantaloni, e simili» (p. 28); «L’automobile targata NV-370 portava due divertite “signore” (dames) in compagnia di un certo “gentiluomo”: facevano una gita di un giorno per vedere le esecuzioni. Dopo le esecuzioni erano di ritorno; non ho visto tristezza sui loro visi». (p. 29)

Lo stile di scrittura è prevalentemente quello della annotazione succinta, che registra in sequenza impressioni anche molto diverse e che talvolta appaiono incoerentemente giustapposte, ma questo – seppur non fosse di certo l’intento dell’autore che si limitava a raccogliere il maggior numero possibile di dati – contribuisce a comunicare al lettore odierno l’immagine del caos orrorifico, quasi infernale, che regnava nel bosco di Ponary tra l’estate del 1941 e l’autunno del 1943.

«Sparano su gruppi, da dietro, alle spalle, o con granate o mitragliatrici quando piove o è tardi. Uno è scappato in mutande fino a Deginie. È stato inseguito e colpito. Bambini pascolavano le mucche, e lui è corso da loro ma sono scappati. Pochi metri più avanti la segale era già alta. Normalmente ne fucilano dieci alla volta. Bendano soltanto quelli che lo vogliono. Il secondo gruppo vede uccidere il primo, ma non lo sotterra. No! Calpestano (non ancora) cadaveri – i cadaveri». (p. 30)

Talvolta Sakowicz non si limita a registrare quanto lui vede personalmente, ma lo integra con notizie fornitegli dai vicini di casa e dagli abitanti del luogo, mettendo tra parentesi i nomi delle persone con cui ha parlato.

Ottanta Shaulisti hanno fatto fuoco, mentre la recinzione attorno [alla fossa] era sorvegliata da cento Shaulisti. Sparavano ubriachi. Prima di aprire il fuoco, essi hanno orribilmente torturato uomini e donne (Jankowski). Gli uomini sono stati fucilati separatamente. Le donne sono state spogliate fino alla biancheria intima. [Esse avevano] molti oggetti – pellicce, oggetti di valore – perché pensavano di andare al ghetto. Il comandante del plotone lituano, ubriaco, è salito in strada indossando una pelliccia da donna (Kalinowski).
Dal modo in cui sparavano, il gruppo [di fucilieri] stava in piedi sopra i cadaveri. Camminavano sui cadaveri! [I cadaveri venivano] subito coperti il giorno dopo. C’erano molti feriti. Una donna è fuggita a Dolna. Era stata colpita a un braccio. Vicino a sé, nella fossa, ha visto i suoi due figli uccisi, e in un’altra fossa suo marito morto. Quel giorno gli Heneks incontrarono cinque donne sanguinanti, con gli abiti a brandelli.
Sono stati portati qui 2.000 ebrei, uomini, donne e bambini.
Buoni affari con gli abiti da donna, il 3 e 4 settembre! Il giorno dopo è stato trovato nel bosco vicino alla fossa un bambino piccolo: giocava sulla sabbia. È stato buttato nella fossa e fucilato (Jankowski). Addirittura, un neonato è stato fucilato dopo essere stato strappato dal seno che stava succhiando (Krywkowa). (p. 36)

La prima pagina del diario è datata 11 luglio 1941, l’ultima «annotazione nel diario di Sakowicz è datata 6 novembre 1943. Ma i massacri a Ponary si protrassero anche dopo quella data. Secondo la sua famiglia, Sakowicz continuò a tenere questo diario fino al giorno in cui fu colpito e ferito mortalmente, il 5 luglio 1944, a Ponary, mentre andava a casa in bicicletta da Vilnius. Fu sepolto a Vilnius il 16 luglio. Non è chiaro chi lo abbia colpito. L’Armata Rossa si stava avvicinando alla città, che fu attaccata il 7-8 luglio e occupata il 13 luglio. La città e i suoi dintorni erano un campo di battaglia, sicché sembra probabile che Sakowicz sia stato accidentalmente colpito durante lo scontro fra elementi dell’avanguardia sovietica o partigiani e forze tedesche. È meno probabile che sia stato colpito intenzionalmente da collaborazionisti lituani, come sosteneva sua moglie. I lituani stavano fuggendo precipitosamente e non è verosimile che avessero il tempo di pensare di tendere un’imboscata a Sakowicz. Non si conosce il destino delle pagine mancanti del diario. Sakowicz può averle nascoste separatamente dal resto e non sono mai state trovate». (p.113)

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Il cinema che verrà https://www.carmillaonline.com/2014/08/10/cinema-verra/ Sun, 10 Aug 2014 00:13:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16640 di Valerio Evangelisti  (da 8 1/2 n. 12, settembre 2013)

LUomoCheVerraIl cinema italiano ha realizzato uno dei migliori film che io abbia visto nell’ultimo decennio: L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti. Dunque, si direbbe, gode di ottima salute. Non è così, e lo sappiamo tutti. Esistono film “alti” ed esistono porcate. Manca, a mio parere, un buon cinema medio che faccia da raccordo, come esiste quasi ovunque. Perché altrove sì e in Italia no? Mi sbaglierò, ma io attribuisco la colpa al sistema di produzione.

Scarseggiano i produttori, forniti di capitali adeguati, disposti a investirli e a rischiare sull’opera cinematografica [...]]]> di Valerio Evangelisti  (da 8 1/2 n. 12, settembre 2013)

LUomoCheVerraIl cinema italiano ha realizzato uno dei migliori film che io abbia visto nell’ultimo decennio: L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti. Dunque, si direbbe, gode di ottima salute. Non è così, e lo sappiamo tutti. Esistono film “alti” ed esistono porcate. Manca, a mio parere, un buon cinema medio che faccia da raccordo, come esiste quasi ovunque. Perché altrove sì e in Italia no? Mi sbaglierò, ma io attribuisco la colpa al sistema di produzione.

Scarseggiano i produttori, forniti di capitali adeguati, disposti a investirli e a rischiare sull’opera cinematografica come merce (non scandalizzi il termine) innovativa. A parte pochissimi, i più preferiscono battere strade sicure, con un risultato assicurato al botteghino. Di qui il prevalere di un genere soltanto, la commedia – spesso una pura successione di barzellette più o meno triviali – che di tutti è il meno esportabile. Altri non sono nemmeno produttori in senso proprio, visto che di capitali quasi non ne hanno, e contano di riceverli da Rai e Mediaset. Così si finisce nel cuore dell’abisso: lo strapotere della televisione in campo cinematografico.

Ovviamente le tv, pur investendo con larghezza, hanno bisogno di un certo tipo di prodotto: allineato, salvo rare eccezioni, ai “valori” dominanti, o per meglio dire ritenuti tali dalla classe politica; fruibile da ogni tipo di pubblico; con bersagli, se ce ne sono, scontati e condivisi a livello universale (per esempio, la mafia), o assolutamente generici. Se il tema è invece scomodo, protestano i partiti; ai quali partiti sono invece “regalati” film costosi che a loro stanno a cuore, come i film in costume o ispirati al “revisionismo storico” di un regista particolarmente inetto. Flop clamorosi al botteghino, ma d’altra parte votati a un altro tipo di successo: l’utilizzo televisivo a fini propagandistici. Alla fin fine sono quindi i partiti a condizionare indirettamente il cinema attraverso la televisione. A quella pubblica, peraltro, rimangono un po’ di soldi da distribuire tra produzioni meno conformiste, destinate, nel 90% dei casi, a non raggiungere mai le sale.

Sia chiaro: non è in sé un male che la televisione finanzi il cinema. A livello europeo, Canal+ ha svolto a lungo una funzione preziosa. Bisogna però vedere di quale televisione parliamo. Sarebbe mai possibile in Italia una serie televisiva come Breaking Bad, totalmente anticonformista e perturbante? Chiaramente no: da noi è tutta un’inflazione di storie di santi, di preti, di poliziotti coraggiosi e senza macchia. Persino Mad Men sarebbe troppo oltraggioso. Una televisione senza nerbo produrrà un cinema fatto a sua immagine (ripeto, con eccezioni, però rarissime). Peggio: sfornerà nuovi registi, attori, sceneggiatori addestrati al mezzo televisivo e incapaci d’altro linguaggio. Non è un caso se certe star nostrane si ritrovano in produzioni internazionali ridotte al rango di comparse. Paradossalmente, ciò non viene vissuto dagli interessati come una vergogna, ma come un riconoscimento.

Dato che è improbabile che un Carlo Freccero divenga un giorno presidente Rai, e che a un Marco Mûller sia affidato il settore cinema di Mediaset, dobbiamo ipotizzare un futuro con rare case produttrici capaci di resistere come altrettanti Fort Apache in mezzo al dilagare di battutacce da trivio, doppi sensi, peti, più qualche horror o thriller squinternato fatto con due soldi. Nonché a un mancato ricambio tra leve di professionisti, come già è avvenuto tra generazioni di attori.

Può la letteratura venire in soccorso di un cinema italiano agonizzante? Non credo. Intanto il mestiere dello scrittore è completamente diverso da quello dello sceneggiatore, che fa parte di un collettivo e scrive in tutt’altra maniera (anche quando è all’origine scrittore). Ora, se il collettivo è inserito in un sistema che scricchiola dai vertici alla base, poco importa che attinga alla narrativa. Banalizzerà o, fin dall’inizio, attingerà dai testi letterari più consoni alla visione conformista che lo ispira.

Non mi vedo romanzi ricchi di problematica come quelli di Lorenza Ghinelli (Il divoratore, La colpa) diventare film, anche se costerebbero poco: troppo sottili. O le ambigue storie di Vittorio Giacopini (ultimo di una serie stupenda: Nello specchio di Cagliostro). O i gialli polemici dell’italo-francese Serge Quadruppani (per esempio Saturno). O le riflessioni profonde di Michele Mari. Del resto, conviene a questi e ad altri autori tenersi fuori dal cinema italiano mainstream, se possono, e lasciare la scena ad autori più mediatici.

Non vorrei però sembrare troppo pessimista. E’ in corso una rivoluzione clamorosa. Oggi chiunque può filmare con uno smartphone o una telecamera a basso costo. Si trovano su YouTube e Vimeo, sapendo cercare, autentici gioielli, firmati anche da giovani italiani. Il mio consiglio è frugare da quelle parti. Forse è lì che sta fermentando il cinema italiano che verrà.

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Springtime for Hitler https://www.carmillaonline.com/2014/05/04/springtime-for-hitler/ Sun, 04 May 2014 20:37:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14450 Springtimedi Alessandra Daniele

Quanto vale numericamente il voto antisemita in Italia? Parecchio a quel che sembra, perché in molti gli stanno dando la caccia. Scaricare tutta la colpa della bancarotta italiana sui tedeschi non basta più, quindi si ricorre a un classico: gli ebrei. Non direttamente, almeno non all’inizio. Si comincia con una battuta sulla Shoah. In questa campagna elettorale si sono fatte più battute sulla Shoah che sulla Boschi, e in un paese sessista come l’Italia è un record. Poi quando qualcuno legittimamente s’incazza, si dice: “ma questi ebrei, quanto sono permalosi. [...]]]> Springtimedi Alessandra Daniele

Quanto vale numericamente il voto antisemita in Italia? Parecchio a quel che sembra, perché in molti gli stanno dando la caccia. Scaricare tutta la colpa della bancarotta italiana sui tedeschi non basta più, quindi si ricorre a un classico: gli ebrei. Non direttamente, almeno non all’inizio. Si comincia con una battuta sulla Shoah. In questa campagna elettorale si sono fatte più battute sulla Shoah che sulla Boschi, e in un paese sessista come l’Italia è un record.
Poi quando qualcuno legittimamente s’incazza, si dice: “ma questi ebrei, quanto sono permalosi. Ma di cosa si lamentano? Hanno le banche, hanno i giornali. Controllano l’economia”.
Poi naturalmente si smentisce con indignazione, dichiarandosi fraintesi, strumentalizzati. E magari “grandi amici del popolo ebraico”. Ecco un problema che molti hanno in comune col popolo ebraico: avere degli amici di merda.
L’antisemitismo in Italia ha radici antiche, che risalgono a prima del cristianesimo, e millenni di egemonia culturale vaticana non hanno certo migliorato le cose, come non lo hanno fatto decenni di sistematica rimozione della Memoria collettiva, di Revisionismo storico, letterario, linguistico, semantico, giuridico.
Il fatto che Berlusconi ai servizi sociali sia stato assegnato al reparto malati di Alzheimer è profondamente metaforico.
Se c’è un paese negazionista oggi è proprio l’Italia, per ignoranza e ur-fascismo cronico. Il paese dei polpettoni televisivi e cartacei sui ”fascisti buoni”, che ancora si crogiola nell’illusione degli italiani brava gente, perlopiù innocenti e ignari delle persecuzioni.
L’Italia che tracanna avidamente le peggiori stronzate complottiste sugli ebrei mutanti ninja che dominano il mondo dai sotterranei steampunk della piramide di Cheope, ma diventa diffidente di fronte all’evidenza storica documentata, e pensa che leggi razziali, rastrellamenti effettuati dai fascisti, e campi di concentramento e transito verso Auschwitz istituiti dalla Repubblica Sociale siano calunnie inventate dai comunisti.
I “ragazzi di Salò” hanno sistematicamente collaborato alla Shoah, e non sono certo stati gli unici italiani a farlo.
E oggi l’Italia è fra i paesi più destronzi dell Unione Europea, come questa primavera elettorale continua a dimostrare in modo ogni giorno più sguaiato, disgustoso e inquietante.
In testa ai sondaggi, il cazzaro che sta azzerando i residui diritti dei lavoratori col PrecariAct promette di svuotare la Costituzione d’ogni presidio antifascista istituito contro l’endemica deriva autoritaria d’un paese sempre in cerca di Uomini della Provvidenza.
Un paio di vecchi miliardari livorosi e dispotici si contende il secondo posto a colpi di complottismo e battute sulla Shoah.
L’unica formazione apparentemente di sinistra, la fan-lista Tsipras, non ha né origini autoctone credibili, né speranze di raggiungere il quorum, ferma su percentuali inferiori persino a quelle miserrime degli avanzi berlusconiani di Alfano e Meloni, dei rimasugli Montiani, e della Lega millenarista di Salvini, ancora indecisa se a scatenare la zombie apocalypse sarà prima l’Ebola, o l’Euro.
Per quanto grottesco, il fascismo in Italia diventa ogni giorno più virulento.
Ed è questa l’epidemia che dovrebbe preoccuparci.

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Sherlock contro Andreotti https://www.carmillaonline.com/2014/01/19/sherlock-andreotti/ Sun, 19 Jan 2014 21:55:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12096 Sherlockdi Alessandra Daniele

La prima stagione di Sherlock è stata ottima. La seconda mediocre. La terza una presa per il culo. Autocelebrazioni ridicole, idee idiote rubate alle fanfiction o riciclate da altre serie, personaggi così out of character da scambiarsi le personalità, trame inesistenti, incongruenti, assurde, morti che sì ripropongono come i peperoni. Un supervillain abbastanza intelligente da ricordarsi a memoria tutte le informazioni che adopera per ricattare le sue vittime, ma anche abbastanza coglione da rivelare a Sherlock che la sua mente è il suo unico archivio, beccandosi ovviamente una pallottola in fronte per questo. Quanto sarebbe durato Andreotti, [...]]]> Sherlockdi Alessandra Daniele

La prima stagione di Sherlock è stata ottima. La seconda mediocre. La terza una presa per il culo.
Autocelebrazioni ridicole, idee idiote rubate alle fanfiction o riciclate da altre serie, personaggi così out of character da scambiarsi le personalità, trame inesistenti, incongruenti, assurde, morti che sì ripropongono come i peperoni.
Un supervillain abbastanza intelligente da ricordarsi a memoria tutte le informazioni che adopera per ricattare le sue vittime, ma anche abbastanza coglione da rivelare a Sherlock che la sua mente è il suo unico archivio, beccandosi ovviamente una pallottola in fronte per questo.
Quanto sarebbe durato Andreotti, se fosse andato in giro a dire di non avere un backup?
Quant’è durata la British Reinessance televisiva? Anche oltremanica la moneta cattiva ha inesorabilmente cominciato a scacciare quella buona.
Steven Moffat, lo showrunner a cui sono stati affidati sia Sherlock Holmes che Doctor Who, due delle principali icone british simbolo della superiorità dell’intelligenza sulla cazzonaggine, è stato capace soltanto di trasformarle entrambe in brutte copie dell’icona british che rappresenta il contrario: 007. Sia Sherlock che il Dottore adesso sono Bond, James Bond.
Quello di Pierce Brosnan.
Inutile illudersi però, nessuna stroncatura, nessuna protesta organizzata convincerà la BBC a esonerare Moffat fintanto che il mercato gli darà ragione in termini di audience, merchandising, e royalties internazionali.
Così come gli elettori vanno considerati politicamente corresponsabili della cialtroneria dei politici che eleggono, gli spettatori paganti, e gli acquirenti di gadget, volenti o nolenti, sono corresponsabili dello sgangherato declino qualitativo del prodotto mediatico che continuano a foraggiare nonostante tutto.
Una scelta discutibile, che in caso di emittente statale finanziata dal canone diventa però una scelta obbligata.
Se ai cittadini britannici tocca finanziare il cazzarismo moffattiano, va molto peggio agli italiani, complici forzati del grossolano revisionismo Rai de Gli Anni Spezzati.
Un’esperienza straniante in particolare per i cinquanta-sessantenni, costretti ad assistere all’orwelliano retcon di un’epoca storica che hanno vissuto personalmente.
È come se a noi fra qualche anno toccasse vedere e finanziare una fiction sull’era Berlusconi che lo ritrae come uno statista illuminato, onestissimo, e interpretato da Benedict Cumberbatch.
Che sia frutto d’incompetenza, malafede, o d’una miscela tossica d’entrambe le cose, il revisionismo della trilogia Rai è quanto di peggio sia stato prodotto sul tema dei cosiddetti Anni di Piombo, e questo è un record significativo, data la ricorrente ossessione mediatica per l’argomento.
Per quanto le speculazioni di Moffat sul falso suicidio di Sherlock siano state  irritanti, la speculazione della Rai sul falso suicidio di Pinelli è stata avvilente.

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