repressione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 09:20:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – pt.3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/24/mutualismo-autodifesa-lavoro-sociale-il-caso-delle-pantere-nere-pt-3/ Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85575 di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente. Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale. L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni [...]]]> di Jack Orlando

Sotto torchio.

C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente.
Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale.
L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni pantera.1
Ma era anche un aspetto facilmente demonizzabile dai media e respingente per la parte più moderata degli afroamericani. I programmi sociali erano fondamentali nell’immediato soprattutto per colmare questa lacuna.
Se nella strategia tali programmi dovevano rappresentare delle infrastrutture di resistenza per affrontare la guerra, nonché dei germi di organizzazione collettivista della società; nella tattica essi erano fondamentali al consenso.
Attraverso le mense e gli ambulatori le pantere non erano solo dei militanti armati che proteggevano dalla polizia e dai razzisti, ma coloro che si caricavano sulle spalle i bisogni concreti della società nera. Che nutrivano i bambini e curavano i malati. Lancia e scudo.
Ogni madre o padre del ghetto poteva riconoscere in loro quelli che al mattino davano la colazione ai figli prima della scuola, che nel pomeriggio gli permettevano di avere davvero un’educazione completa tenendoli fuori dalla strada e alla sera li tenevano al sicuro.
Questa ricerca del consenso, di per sé necessaria ad ogni partito, diventava via via più necessaria man mano che la repressione si stringeva attorno al BPP.

Tanto il partito cresceva, tanto la pressione degli apparati si faceva feroce, più acuta di giorno in giorno.
Da minacce, molestie e arresti arbitrari si passò rapidamente ad una vera e propria offensiva militare coordinata dal FBI: vengono infiltrati decine di provocatori e informatori, i militanti di spicco sono incarcerati in massa, vengono uccisi in scontri a fuoco o in veri e propri omicidi mirati, le sedi sono attaccate, date alle fiamme o distrutte con esplosivi.
Anche i programmi sociali vengono sabotati: poliziotti disturbano le colazioni per bambini, commercianti che forniscono risorse vengono minacciati, le tipografie sequestrate, addirittura si progetta di avvelenare il cibo che le pantere distribuiscono nei quartieri.
È una guerra totale e sporca, condotta fuori da qualsiasi parametro e controllo legale: il famigerato programma controinsurrezionale COINTELPRO di cui nell’immediato non si sa nulla ma che emergerà nel medesimo 1971, quando verranno alla luce una serie di documenti sequestrati in un blitz di cittadini in una base federale della Pennsylvania.

Quando si parla della brevissima stagione delle Pantere e della loro metodologia politica bisogna tenere sempre a mente che tutta la vita del BPP è stata condizionata pesantemente dal dover fare i conti con questa repressione barbara.
Nel sabotarne il cammino, il COINTELPRO ha viziato pesantemente la dialettica interna, spingendo una parte delle Pantere a radicalizzarsi ulteriormente spingendo per una prassi più insurrezionale (coloro che, dopo la scissione, daranno vita al Black Liberation Army), e portando un’altra parte più “moderata” ad arroccarsi sulla via elettoralista e l’incremento dei programmi sociali (questa sarà la parte che avrà la guida del partito, con scarsi risultati fino al suo scioglimento).
Nessuno dei due elementi poteva bastare a sé stesso senza il suo contraltare: venuta meno la loro compresenza, tutta la strategia ha finito per crollare su sé stessa.

È probabile che in ogni caso, anche senza il peso della repressione, le Pantere non sarebbero riuscite a fare il definitivo salto di qualità; ma c’è un episodio significativo, che illumina il senso della vicenda: nel 1969 Fred Hampton, giovanissimo dirigente del BPP di Chicago e plausibile successore di Newton, appena 21 anni, viene ucciso nel sonno durante un raid della polizia nel suo appartamento.

Tralasciando gli inquietanti dettagli sul suo omicidio, non possiamo fare a meno di notare come gli apparati non persero un momento a spezzare la prima vera possibilità di balzo in avanti che si era presentata.
Hampton infatti era il leader di una delle sezioni più forti del partito e soprattutto architetto di una strategia innovativa; non solo era riuscito a tenere in equilibrio il lavoro sociale e le armi, ma aveva superato la tradizionale base di riferimento.
Alleandosi con la League of Black Revolutionary Workers, sindacato degli operai neri, era riuscito a garantirsi una testa di ponte all’interno del settore delle fabbriche, fondamentale nella città, era la prima pantera ad affrontare in modo esplicito, seppure abbozzata, la contraddizione capitale-lavoro ed il ruolo dei sindacati.
Non solo, facendo leva sulla composizione delle bande giovanili, era riuscito a politicizzarne diverse e a portare attraverso queste l’esempio del BPP nelle altre comunità svantaggiate: portoricani, bianchi poveri del sud, messicani. L’agglomerarsi di partiti simili (Young Lords, Young Patriots, Brown Berets ecc.) in una alleanza (la Raimbow Coalition, poi ripresa anni dopo in chiave elettorale dal reverendo Jesse Jackson) faceva di Hampton la possibile guida definitiva del BPP e il detonatore di un’offensiva congiunta dei segmenti di classe finora tenuti separati dalla linea del colore.
Venne ammazzato per prevenire lo stabilirsi di una strategia unica per un fronte allargato con reali possibilità di vittoria.

Per concludere, l’analisi delle pratiche politiche del BPP2 non può esimersi dal partire dagli elementi fondamentali che l’hanno generato e che ne hanno determinato lo sviluppo. Abbiamo qui portato brevemente alla luce i tre nodi determinanti: la strategia (e l’immaginario) politica, la comunità storica d’appartenenza e la contingenza politica.
Più esplicitamente, le forme di lotta ed organizzazione delle pantere possono essere lette solo considerando A) il loro inserirsi in una strategia di lotta anticoloniale novecentesca, la guerra popolare, che prevedeva istituti di sussistenza dell’avanguardia rivoluzionaria e dei suoi territori; B) l’innestarsi all’interno della tradizione nera che, dalla schiavitù in poi, ha sviluppato forme di cooperazione mutualistica per sopperire agli scompensi della segregazione; C) la loro valenza di strumento di propaganda e consenso, tanto più necessario quanto più era forte l’attacco repressivo cui erano sottoposte.

Nota a margine.

Spesso e volentieri nei movimenti occidentali degli ultimi vent’anni3 , una certa dose di entusiasmo si accompagna all’adozione di pratiche politiche, sopperendo spesso a una lacuna di visione strategica, ossia la capacità di vedere lontano e inserire le singole pratiche all’interno di un percorso articolato, mutevole e non lineare.
È così che ciò nasce come tattica finisce per essere strategia, da mezzo a fine; ciò che era secondario assume l’importanza della parola d’ordine.
Allo stesso tempo questo si accompagna ad un innegabile senso orientalista: lotte distanti geograficamente e culturalmente da noi vengono assunte come modello senza considerarle nella loro specificità.

È stato così per le comunità zapatiste, per il Rojava dei kurdi. Lo è anche per le pantere nere ed il BLM.
Spesso non si considera la cultura indigena e la dimensione coloniale del sud del Messico, oppure la turbolenza geopolitica che ha investito il popolo kurdo nel terzo millennio; dei loro contesti dove la civiltà tardocapitalista non ha imposto il controllo né la sussunzione pervasivi assunti in Europa, né la centralità assunta dallo stato sociale qui (anche nel suo smanetellamento); solo in minima parte si guarda a come si siano dati in condizioni di frattura o insufficienza dell’ordine statale sui propri territori.4
Soprattutto non si considera il loro essere dotarsi di strutture organizzative pensate per agire e guardare sul lungo periodo; laddove in Europa si è assistito piuttosto all’esplodere ciclico di mobilitazioni popolari anche importanti, al fiorire di piccoli gruppi ed esperienze, ma solo in minima parte alla costruzione di strutture politiche durevoli e articolate.

In questa adozione quasi spasmodica di linee frammentate il mutualismo è tornato alla ribalta come uno degli ultimi ritrovati, trasmutato da mezzo a fine.
Questo in parte è spiegabile con la lunga presenza di pratiche sociali simili, specialmente nei movimenti di derivazione libertaria e orizzontalista; in parte con la necessità, dopo la fine del movimento operaio storico, di riadattare strumenti per una soggettività orfana.

Ecco che si sono assunte le categorie dei movimenti extraeuropei per colmare un’insufficienza tutta occidentale, con la tendenza molto occidentale di poterle utilizzare a prescindere dalla loro genesi.
E questo è tanto più evidente se si pensa che allo stesso tempo si è andata dimenticando la dimensione europea del mutualismo, altrettanto lunga e profonda.
Se il socialismo è un prodotto della cultura europea dell’800, questo non è nato semplicemente dentro la mente geniale di Marx e Engels.
Quello che è emerso nella prima internazionale e nel Manifesto è il picco di un percorso di lungo periodo che lì trovava compimento e si evolveva in qualcosa di altro.
Un percorso disordinato e contraddittorio dove filantropia, aspirazioni nazionali, rivolte locali e tutti i processi materiali e simbolici innescati dalla resistenza all’estendersi della rivoluzione industriale finivano per agglomerarsi in un’opera di categorizzazione teorico-politica.

Furono non pochi i tentativi di dotare la nascente classe operaia di istituti di sopravvivenza e opere mutualistiche. A volte da parte degli appartenenti alla classe dirigente, animati da spirito filantropico e sentimento cristiano; altre volte da aggregati popolari in autonomia (senza dimenticare che tra Rivoluzione Francese e Manifesto del Partito Comunista corrono appena cinquant’anni).

Questa eredità verrà raccolta dai partiti socialisti e poi da quelli comunisti. Si articolerà in una fioritura di progetti diversissimi tra loro che copriranno praticamente tutto lo spettro delle attività umane. Scuole per i figli degli operai, orti per i loro quartieri, casse di assistenza reciproca, cooperative di lavoro, centri ricreativi.
I partiti presero in carico tutte le esigenze della classe, spesso attraverso articolazioni associative piuttosto che direttamente, ma nel cammino verso “il sol dell’avvenire”, utilizzarono il lavoro sociale per popolare e dare profondità al mondo che incarnavano.
Far parte di un partito socialista significava, per un operaio, essere partecipe di un vero e proprio universo materiale e simbolico.

Il tempo lungo della storia ha disegnato un percorso estremamente ricco e sfaccettato, lo ha portato al suo apice e poi al suo declino.
Durante il suo corso, ha condizionato lo sviluppo delle nazioni innervandole di uno Stato Sociale che altrove è impensabile, nonostante i pesanti attacchi del neoliberismo.
Intanto, svanito il sogno rivoluzionario, quelle classi dirigenti che avrebbero dovuto gestire il mondo socialista, si sono convertite in ceto amministratore della miseria presente.

Tutto ciò non vuole essere in alcun modo una riproposizione nostalgica di una tradizione ormai bell’e morta; né tantomeno si cerca di svilire le esperienze rivoluzionarie extraoccidentali, che anzi hanno rappresentato il maggior terreno di innovazione e sperimentazione degli ultimi sessant’anni.
Piuttosto vogliamo qui spingere verso un metodo di analisi, di interpretazione della realtà che, con qualche approssimazione, possiamo definire come “storicizzare i processi politici” per orientarne la prassi.
Se non consideriamo l’onda lunga da cui proveniamo non possiamo interpretare la realtà, ogni innesto che verrà tentato si svilupperà su un terreno arido e sarà quindi sterile, incapace di mettere radici.

Parte 1 qui
Parte 2 qui


  1. Ribadiamo la specificità dell’uso delle armi nel programma del BPP, mai utilizzate in una pratica offensiva ma come elemento anzitutto simbolico di propaganda e in secondo luogo come strumento di difesa in caso di attacchi di polizia e suprematisti. 

  2. Ma analogamente vale per l’analisi di qualsiasi fenomeno politico. 

  3. nello specifico possiamo parlare di quelli italiani ma crediamo che qualcosa di simile sia vero per la restante parte del mondo in cui siamo inseriti 

  4. guerra civile siriana, narcoguerre e debolezza endogena dello Stato messicano alla sua periferia. 

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Lavorare crepando https://www.carmillaonline.com/2023/04/10/lavorare-crepando/ Mon, 10 Apr 2023 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76644 di Giovanni Iozzoli

È uscito da poco l’e-book “Lavora e crepa”, a cura dell’Osservatorio Repressione. Si tratta di un corposo quaderno di riflessione politica e teorica che raccoglie contributi diversi sul tema lavoro/repressione. L’obiettivo, con le parole dei curatori è: “porre l’attenzione sui meccanismi e i dispositivi che reprimono le resistenze nei luoghi di lavoro e creano quell’umanità a perdere necessaria ad alimentare questo sistema. Una produzione continua di vite di scarto o scarti di vite, con impatti individuali e sociali disastrosi”.

Il nesso sfruttamento-repressione è ben sintetizzato dal frammento in esergo: “siamo [...]]]> di Giovanni Iozzoli

È uscito da poco l’e-book “Lavora e crepa”, a cura dell’Osservatorio Repressione. Si tratta di un corposo quaderno di riflessione politica e teorica che raccoglie contributi diversi sul tema lavoro/repressione. L’obiettivo, con le parole dei curatori è: “porre l’attenzione sui meccanismi e i dispositivi che reprimono le resistenze nei luoghi di lavoro e creano quell’umanità a perdere necessaria ad alimentare questo sistema. Una produzione continua di vite di scarto o scarti di vite, con impatti individuali e sociali disastrosi”.

Il nesso sfruttamento-repressione è ben sintetizzato dal frammento in esergo: “siamo in un inferno neo-liberista che ha reso ben visibili i tratti di un domani già scritto dentro processi autoritari e securitari. Alla paura e all’incertezza di futuro la risposta è più sicurezza, più controllo, più repressione.” Il libro inquadra le tematiche securitarie – gli investimenti crescenti sull’ordine pubblico, l’espandersi della sfera penale, il moltiplicarsi di istituzioni repressive di ogni genere -, mettendole in relazione con la fase di crisi che il capitalismo occidentale sta attraversando. Le promesse di benessere e opportunità per tutti si rivelano sempre più vuote; il malessere sociale cresce, insieme a nuove forme di ri-polarizzazione; e in questo contesto il principale investimento sistemico, in mancanza di altre strategie, è quello in “sicurezza”: cioè, organizzazione “scientifica” dei dispositivi di mantenimento dell’ordine sociale capitalista.

È questa una dinamica che riguarda le nostre società sviluppate, ma è chiaramente visibile nei paesi che un tempo si definivano “terzo mondo”: in occasione delle rivolte di piazza per la giustizia sociale, i governi di quei paesi, solitamente privi delle risorse minime necessarie a creare sistemi sanitari e scolastici decenti, esibiscono forze di polizia super attrezzate di armi e mezzi costosi e modernissimi, totalmente incongrui rispetto al panorama sociale circostante. Quegli strumenti rappresentano la prima fornitura che viene elargita ai governi che si sottomettono alle politiche del FMI. Come a dire: accettando le nostre ricette economiche le rivolte ci saranno, ma tranquilli – vi mettiamo in condizione di reprimerle.

In questo primo quaderno si discute del “caso Piacenza”, epicentro del tentativo di criminalizzazione del sindacalismo di classe; di forme di controllo e coazione insite dentro il rapporto capitalistico, nelle moderne fabbriche automatizzate; del modello educativo di formazione e addomesticamento della forza lavoro, tra alternanza e stage gratuiti; della dialettica tra lavoro “garantito” e nuovo precariato di massa; delle bugie dell’ “economia green” nel suo rapporto con il lavoro reale; della drammatica emergenza degli infortuni, delle morti e delle malattie professionali.

In questo ricco quadro di analisi i curatori manifestano un obiettivo: “senza la presunzione di trovare risposte confortanti, questo è un tentativo di innescare reti di relazione, spunti di riflessione condivisi, per non lasciare nell’isolamento tutte quelle voci che quotidianamente ricercano e desiderano una vita più che degna. Per far ciò, occorre calarsi nei luoghi e negli scarti di vite, o per dirla con Foucault: forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire cosa siamo, ma piuttosto rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare.”

L’Osservatorio Repressione è un’associazione di promozione sociale nata nel 2007. Si prefigge di promuovere e coordinare studi, ricerche, dibattiti e seminari, sui temi della repressione, della legislazione speciale, della situazione carceraria, nonchè la raccolta di documenti inerenti la propria attività. L’Osservatorio cura la pubblicazione di materiali ed esiti delle proprie ricerche, promuove progetti indipendenti o coordinati con altre associazioni e movimenti che operano nello stesso ambito. Produci e crepa è il primo dei Quaderni 2023, altri seguiranno su carcere, migrazioni, militarizzazione dei saperi.

L’e-book è scaricabile dal sito osservatoriorepressione.info, insieme alle altre pubblicazioni già prodotte dall’associazione.

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Uno scrittore è uno scrittore, alla faccia di ogni repressione https://www.carmillaonline.com/2023/04/06/uno-scrittore-e-uno-scrittore-alla-faccia-di-ogni-repressione/ Thu, 06 Apr 2023 21:55:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76806 di Nico Maccentelli

Cesare Battisti, sepolto all’ergastolo, continua la sua opera di scrittore e di editor nonostante tutte le difficoltà che incontra quotidianamente. Ultimamente ha denunciato con due reclami al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia un episodio descritto qui, qui e qui, giusto per farsi un’opinione. 

Che chi è preposto a farlo accerti i fatti, senza che come molto spesso finisca tutto in cavalleria, è auspicabile. Ma al di là di una singola vicenda da accertare, che un governo e [...]]]> di Nico Maccentelli

Cesare Battisti, sepolto all’ergastolo, continua la sua opera di scrittore e di editor nonostante tutte le difficoltà che incontra quotidianamente. Ultimamente ha denunciato con due reclami al tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia un episodio descritto qui, qui e qui, giusto per farsi un’opinione. 

Che chi è preposto a farlo accerti i fatti, senza che come molto spesso finisca tutto in cavalleria, è auspicabile. Ma al di là di una singola vicenda da accertare, che un governo e parti politiche di destra ignorino da sempre i più elementari diritti della persona in un luogo di restrizione della libertà come il carcere non mi stupisce. Ma parimenti non mi stupisce neanche la posizione della cosiddetta sinistra, sempre pronta a blaterare di diritti umani quando conviene, ma latitante se non connivente con la repressione e il clima di emergenza nei confronti dei protagonisti della sinistra antagonista degli anni ’70. 

Destra e “sinistra” così come sono sulla stessa lunghezza d’onda riguardo la guerra e l’invio di armi ai nazisti di Kiev, anche sulla repressione non si distinguono l’una dall’altra. E se non ho mai creduto al carcere come strumento di riabilitazione, ritenendolo solo un dispositivo di punizione fino all’annientamento della personalità attraverso la compressione dei diritti, fino ai più elementari, credo ancor meno in specifico a questo sistema discriminatorio e repressivo come quello carcerario italiano. 

Ci credo meno che meno quando un ministro esibisce il prigioniero come una belva in gabbia e quando da sempre alla restrizione tra quattro mura si aggiunge il libero arbitrio dell’intimidazione e della violenza sui detenuti. Soprattutto quando esiste il 41bis, prosecuzione della legislazione emergenziale (do you remember l’art.90?), già giudicato tortura dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (vedi qui) e ancora più spudoratamente dispositivo politico di annientamento su detenuti antagonisti che nulla ha a che vedere con lo scopo (o pretesto?) che politici e legislatori si erano dati per istituirlo: troncare i legami dei capi mafia detenuti con l’esterno. Vedi la lotta dell’anarchico Cospito, in sciopero della fame a oltranza.

La storia del nostro paese e delle sue lotte popolari è fatta anche delle condizioni di vita dei prigionieri, di quella molteplicità di soggetti, politici o meno, la cui presenza  e modalità di trattamento nelle carceri servono in fin dei conti, al di là dei reati veri o presunti, a legittimare un regime borghese e classista, un insieme di valori e narrazioni dominanti, che sono quelle dei gruppi più forti ed egemoni in questa società.

In questo contesto, dunque, ritengo importante proseguire l’impegno del nostro Valerio Evangelisti, dando spazio alla scrittura di Battisti, che carcere o meno è e resta uno scrittore e oggi anche un editor che dà spazio e stimolo ai tanti detenuti che scrivono. Battisti è uno scrittore alla faccia delle riscritture utili al regime (vedi il recente programma sulla RAI) perché un’opera d’arte, così come il suo autore, sono tali in quanto considerati così dai fruitori dell’opera stessa e dall’opinione che questi hanno degli artisti. La censura può solo colpire chi produce cultura e informazione critica, gli scrittori, i giornalisti che non si sono venduti, ma non può alterare ciò che sono, o che sono stati, il loro percorso culturale e artistico durante e dopo la loro opera. 

Alla presentazione dell’ultimo romanzo di Battisti, “l’Ultima duna”, che ho recensito su Carmilla tre mesi fa, c’era un folto pubblico presso la libreria Ubik di Bologna. È ho già detto tutto.

Per il resto, ecco un altro racconto di Cesare. E ne seguiranno ancora.

———

L’albero delle storie

di Cesare Battisti

 Le apparenze ingannano, ma sono ancora ciò che abbiamo di più solido. Lo sa anche Vlady che ha solo dieci anni. Un’età in cui è ancora possibile cogliere gli istanti che passano nell’aria che respira e percepire che il presente gli è interdetto. Lui sa che la guerra non è fatta solo di bombe che cadono dal cielo, di fughe, di pianti, i corpi dilaniati. Sta negli sguardi vuoti dei sopravvissuti, nel silenzio afflitto del rifugio sotterraneo. La guerra sta nei gesti gravi dei grandi, nel loro inconfessabile terrore.

Ogni volta che sguscia allo scoperto, Vlady guarda le macerie tutt’intorno e sente quanto poco vale realmente la su vita. Sa che non dovrebbe esporsi tanto, farà stare in pensiero i suoi. Al rifugio tutti credono che fuori non sia rimasto niente, non sanno però dell’Albero e delle fughe che lui fa per andarlo ad ascoltare. Vlady è guardingo, ma non sa chi siano i nemici, di essi conosce solo il fagore degli spari. E una paura senza volto è troppo vaga per disanimare.

La guerra lui la sente sotto i piedi quanfo stringe i denti e corre incontro all’Albero delle storie. L’insidia è il palpito del sangue assorbito dalla terra, sta nell’alito pesante della quiete. Vlady corre a perdifiato al calar del sole, pregustando il suono di magiche parole. Il suo non è un albero speciale, offre ombra a tutti quelli che lo vogliono ascoltare. Racconta storie di mondi vecchi e nuovi, di (…) che rincorrono la pace. La sua è una lingua universale, dice di giochi, di sogni e di prestigiatori, di angeli erranti senza ali. 

Sotto le sue fronde la guerra regredisce, dalle rovine rinascono le case, la mamma stende ancora i panni sul balcone, mentre nel cortile della scuola è un gran vociare. l’Albero racconta che così è sempre stato, che volerlo differente è solo un’illusione, un abbaglio di inventori che non sanno amare.

La storia l’ha sentita tante volte, Vlady la ripete tutto il giorno sotto terra, eppure ogni volta sembra nuova. l’Albero sa quel che dice, ha radici più grandi della guerra e la sua voce è solo melodia; combina le parole con la musica dei fiori e ogni adagio ha un profumo differente.

Resta poco del giorno, ma Vlady non è sazio di ascoltare, vuole il cuore debordante di vita per inondare di speranza il rifugio sotto terra. Vuole portare con sé il canto degli uccelli, la filastrocca degli insetti a primavera, la vita che fisorge dalla cenere. E la sorpresa dei signori della guerra, il tornare docilmente al posto loro, come bravi nani da giardino.

Si fa notte, sul rifugio è spuntata una stella. l’Albero delle storie lo saluta con una lieve inclinazione della chioma, come per sigillare un accordo su qualcosa che Vlady ancora ignora.

 

Illustrazione di Nico Maccentelli

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La contro-idea abolizionista https://www.carmillaonline.com/2023/01/01/la-contro-idea-abolizionista/ Sun, 01 Jan 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75292 di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, [...]]]> di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, perennemente in preda a beceri istinti forcaioli, nonostante la cortina di silenzio  eretta attorno a tale incredibile vicenda abbia di fatto negato ai più anche semplicemente di conoscere sufficientemente gli eventi, nonostnte tutto le espressioni di solidarietà nei confonti del detenuto non mancano.

Soffermarsi sulla palese sproporzione tra i reati di cui si parla e la pena a cui è sottoposto Cospito può e deve essere un punto di partenza non solo per denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti e quanto siano disumane le modalità di dentezione e la condanna senza fine pena che toccano lui come altri reclusi, ma anche per aprire una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei.

A tal proposito può essere di qualche utilità riportare una recensione pubblicata su “Carmilla” ormai una decina di anni fa (06/01/2012) relativa al volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011).

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Il testo passa in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni. L’autore non si limita a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma affronta la questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo.

Il pensiero abolizionista emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena. Una coraggiosa, radicale e controcorrente riflessione su tali questioni può essere salutata come una boccata di ossigeno per un cervello che, ultimamente, pare davvero, in questo paese, essersi accontentato di un’ora d’aria al giorno.

Il saggio inizia con l’analizzare il pensiero abolizionista a partire dal rigetto della netta distinzione tra bene e male. L’abolizionismo non resta, però, insensibile a tale distinzione ma evita di ordinare gerarchicamente i valori in quanto ciò richiederebbe una parità di vantaggi da parte di chi li adotta; gli atti illegittimi non risultano per forza di cose ingiusti se non sono derivati da una libera scelta. Sviluppando la riflessione amorale di Spinoza, in cui bene e male sono da intendersi come concetti relativi, l’abolizionismo sostiene che la probabilità che le azioni compiute vengano classificate o meno come criminali dipende dalle opportunità sociali.

Il sistema della giustizia criminale tende a sottrarre i conflitti alle parti direttamente coinvolte e a separare l’individuo dal contesto ove il fatto si è dato. L’intervento istituzionale nelle situazioni problematiche tende a cancellare un’etica di responsabilità condivisa in favore di una responsabilità individuale, determinando così una sorta di monopolio istituzionale circa il potere di punire o meno.

La legislazione criminale si presenta come espressione di un conflitto e, in un contesto in cui vige una sostanziale ineguaglianza, sono le componenti dotate di maggior potere a criminalizzare le condotte di chi ne detiene meno. I detentori del potere delegano l’applicazione della legge criminale a organizzazioni professionali che finiscono con l’incidere profondamente sulla percezione del crimine e sulle forme da attuare per combatterlo. La legislazione criminale determina una costruzione di realtà: il soggetto in causa viene separato dal contesto in cui ha agito e viene a forza inserito all’interno di una gamma di eventi e condotte limitata.

A proposito della questione carceraria vengono passati in rassegna dall’autore le riflessioni di diversi studiosi. In Kant la punizione è un imperativo categorico; i crimini rendono gli autori proprietà dello Stato e la detenzione non è intesa come strumento riabilitativo. Se in Kant il sovrano ha il diritto di punire, in Hegel è invece il reo ad avere il diritto di essere punito e la punizione non deve per forza avere utilità ma deve essere intesa come affermazione della giustizia, come annullamento del male. La punizione rende onore ai rei considerandoli esseri razionali.

Marx, diversamente, intende la pena come uno strumento a cui ricorre la società per difendersi da chi mette a repentaglio le condizioni stesse che ne tramandano l’esistenza.

Durkheim ritiene che un atto umano non provoca sgomento nella società perché è criminale, ma viene inteso criminale proprio perché provoca sgomento. Visto che in Durkheim la pena vale come messaggio rivolto all’intera società, Ruggiero sottolinea come in tale approccio essa finisca per rafforzare il senso di superiorità etica di chi la infligge, rispondendo ad un bisogno di vendetta retributiva. Il progressivo declino del principio di responsabilità collettiva, base delle società antiche, ha determinato la centralità del carcere nel sistema penale contemporaneo.

La logica conseguenzialista si presenta in forme diverse difficilmente distinguibili: misura comunicativa simbolica (espressione di disapprovazione), misura deterrente, misura di incapacitazione (rendere innocui i rei), misura riabilitativa (mira al miglioramento morale e materiale delle vite dei rei).

Con riferimento alla funzione del carcere è possibile confrontare gli approcci istituzionali e quelli materiali. I primi enfatizzano la funzione regolatrice del carcere in rapporto al mercato del lavoro e del processo produttivo. La punizione si rifà ad un’idea di vendetta o retribuzione. I corpi devono essere distrutti. Negli approcci materiali, invece, si enfatizzano la pura funzione simbolica e retributiva. La punizione è intesa come strumento regolativo: i corpi devono produrre.

Secondo le analisi di Rusche e Kirchheimer i sistemi penali tendono ad adeguarsi ai rapporti produttivi del momento: durante i periodi di crisi economica si abbassano i salari e peggiorano le condizioni della popolazione carceraria in quanto parte della forza lavoro eccedente, mentre nei periodi di espansione economica, ove vi è carenza di forza lavoro, le condizioni della popolazione carceraria migliorano.

In Foucault il carcere è l’emblema della società disciplinare moderna, egli vede nella pena un dispositivo disciplinare che tocca ogni aspetto dell’individualità ma nei periodi emergenza il regime carcerario si fa distruttivo per annientare i sui nemici. Occorre però considerare i rapporti tra punizione e sfera economica tenendo conto del controllo penale e sociale fuori dal carcere. Tenendo presente che la forma più incisiva di controllo sociale si esprime attraverso il rapporto salariale, Ruggiero indica nelle “zone carcerarie sociali” quelle aree ove le attività illegali si intrecciano con quelle marginali e con il lavoro precario. Tali zone subiscono una gradualità di forme di controllo e di punizione,

le funzioni di deterrenza individuale e generale della pena non sono dirette esclusivamente verso i recidivi o i criminali irriformabili, ma in generale contro la popolazione esclusa (…) occorre enfatizzare che la funzione materiale o educativa della pena, in queste aree, non smette di operare. I marginali, i lavoratori occasionali, i piccoli extra-legali e gli sconfitti in genere, che si muovono tra legalità ed illegalità, vengono “educati” a rimanere e sopravvivere nelle loro aree di esclusione, come nei secoli scorsi i loro omologhi venivano educati alla disciplina industriale. La disciplina imposta attraverso la pena mira ad abbassare le loro aspettative sociali (…) ai reclusi verrà riconosciuta completa riabilitazione quando accetteranno di rimanere nel loro specifico settore della forza lavoro e quando, implicitamente, rifiuteranno di evadere dalle zone carcerarie sociali loro assegnate. La forza lavoro “criminale” e la adiacente forza lavoro precaria costituiscono il deposito della popolazione carceraria, la riserva umana dalla quale attingere (pp. 98-99).

Diversi studiosi smontano l’idea del carcere riabilitativo visto che gli effetti carcerari in termini di prevenzione della recidiva risultano davvero trascurabili. La detenzione pare, piuttosto, peggiorare la condotta visto che i detenuti hanno la tendenza ad interiorizzare quei valori e quelle regole che regolano la vita di un ambiente violento come il carcere; da qua discende l’idea del carcere come scuola del crimine. La stessa convinzione che il valore deterrente della detenzione sia rivolto alla popolazione nel suo complesso appare davvero traballante, visto che il valore deterrente pare agire soltanto su chi non ne ha bisogno. Inoltre, in tale logica, l’obiettivo dissuasivo nei confronti dell’intera popolazione verrebbe paradossalmente raggiunto anche nel caso di condanna di innocenti; anche punendo individui a caso, prescindendo dalle loro responsabilità penali, l’intera comunità potrebbe venire dissuasa dal commettere reati.

La presunzione contemporanea che ci si sia indirizzati verso un pena umanizzata, più mite, dovrebbe fondarsi sulla misurazione della differenza tra la condizione di “normalità” dell’esistenza e quella indotta dal sistema coercitivo. Da questo punto di vista il sistema carcerario tendenzialmente interviene sugli strati più svantaggiati della popolazione ed ammesso vi sia stato un miglioramento delle condizioni di vita anche dei livelli più bassi di esistenza a livello europeo, le condizioni carcerarie non sembrerebbero essere affatto progredite di pari passo.

I criminologi critici tendono poi a svalutare la teoria retributiva:

in una società che incoraggia all’individualismo, all’egoismo e all’ingordigia, la teoria retributiva invoca la punizione di chi appare autonomo anche se, in realtà, è perdente, in quanto, vista la sua condizione sociale, è spesso vittima dell’ingordigia degli altri (…) Chi viola le norme si presenta come un concorrente sleale, che si avvantaggia degli svantaggi degli altri, e questo rende la punizione moralmente accettabile (…) Ma come può una società radicalmente ineguale affermare che lo status quo crea benefici per tutti? (pp. 110-111).

Appare evidente come abitualmente si sia dato un fenomeno di pendolarismo tra “zona carceraria sociale” e carcere. A tale proposito sarebbe auspicabile un drastico cambiamento in cui allo svilupparsi di forme di “economia associativa” alternative al mercato del lavoro ufficiale possano funzionare forme di giustizia partecipativa.

Nella trattazione di Ruggiero vengono approfonditi gli approcci di Louk Hulsman, Thomas Mathiesen e Nils Christie, che rappresentano alcune tra le figure più importanti del pensiero abolizionista. L’olandese Hulsman, a partire dalle esperienze personali, deriva dalla dottrina cristiana alcuni dei tratti fondamentali che, intrecciati soprattutto con aspetti della teologia della liberazione, formano il suo pensiero anti-criminologico. In particolare lo studioso rifiuta il sistema della giustizia criminale che riduce i problemi sociali in colpevolezza individuale. Il giudizio individuale nega gli aspetti comunitari del crimine così come, nell’ambito religioso, la confessione privata nega gli aspetti comunitari del peccato.

Il norvegese Mathiesen fonda buona parte della sua analisi sullo studio dei rapporti di forza in continua evoluzione all’interno della società e sulle forme di contropotere dal basso che si scontrano incessantemente con il potere. Nonostante l’eterogeneità delle fonti da cui trae spunto, l’intera analisi dello studioso si fonda su una nozione di conflitto che conduce all’azione, conflitto inteso però «non come espressione di rapporti sociali inalterabili, ma come manifestazione di energie per il mutamento» (p. 179). Una convinzione importante sviluppata da Mathiesen riguarda la critica alle metodologie di ricerca sociologica definite “neutrali” od “oggettive”. Nel rifiuto di una netta distinzione tra ricercatori e soggetti esaminati «L’azione è implicita nel metodo adottato, e gli “oggetti” della ricerca sono i soggetti principali non solo della ricerca medesima che li riguarda, ma anche dell’azione. La critica radicale di Mathiesen (…) traduce costantemente conoscenza sul conflitto in prassi collettiva per coloro che lo producono» (pp. 179-180).

Lo studioso norvegese Christie ha evidenti punti di contatto in particolare con le argomentazioni del libertario russo di Pietr Kropotkin; in entrambi i casi si ritiene che la proliferazione delle leggi finisca per ridurre la possibilità di controllo collettivo producendo una sorta di circolo vizioso in cui le leggi finiscono col creare ansia ed insicurezza a cui poi si finisce col risponde con nuove leggi. Inoltre, la proliferazione delle leggi avrebbe nell’ignoranza diffusa un fattore di moltiplicazione. Nel pensiero anarchico la legge viene percepita come una vera e propria forma di rapina perpetuante la dominazione dei potenti sul resto della comunità e la punizione finisce col creare la propria immagine nelle persone alle quali viene inflitta creando così essa stessa la criminalità.

Una parte del saggio di Ruggiero viene dedicata al dibattito sulla giustizia ripartiva. Nell’approccio abolizionista si rifiuta l’idea che sia un’organizzazione statale ad avere il monopolio della definizione delle condotte criminali. Per gli abolizionisti il crimine dovrebbe essere intesto come una “disputa partecipativa” ove tutti gli attori implicate negli eventi, rei compresi, dovrebbero farsi carico direttamente della discussione finalizzata a risolvere in qualche modo il contenzioso che ha sue specificità e non può essere analizzato applicandovi meccanicamente formule preconfezionate dettate da qualche, supposta, analogia.

Il metodo partecipativo permette di produrre conoscenza relativa alle situazioni problematiche che si intendono affrontare. È sull’onda di tali ragionamenti che lo studioso Herman Bianchi ha sviluppato il concetto di “giurisdizione partecipativa” ove il reo viene inteso come debitore tenuto ad assumersi la responsabilità umana dei propri atti partecipando attivamente alla ricerca di una riparazione; debito e responsabilità sostituirebbero così i concetti di colpa e colpevolezza. Nell’idea di Bianchi, però, le pratiche di restituzione e riparazione non mirano, come in Durkheim, a ristabilire le condizioni precedenti l’atto ma, piuttosto, hanno come finalità quella di promuovere rapporti solidali tra gli individui, dunque, a modificare le condizioni ante-crimine. Il contenzioso, in altre parole, diventerebbe un’occasione per costruire dialogo e rapporti più profondi tra i membri di una comunità.

Concludendo, in un periodo in cui si invoca il carcere per i potenti ma le celle scoppiano di poveri cristi, il tintinnare delle manette pare essere un suono gradito a tanti ed il buttar via la chiave della cella torna, ancora una volta, a essere uno slogan con cui conquistare consenso, il pensiero abolizionista getta una nuova luce sul delitto, sulla legge e sulla pena, questioni su cui da troppo si evita di riflettere.

Recensione pubblicata originariamente su“Carmilla” il 6 gennaio 2012


Libri di Vincenzo Ruggiero di cui ci si è occupati su “Carmilla”:

Scritti di Vincenzo Ruggiero su “Carmilla”:

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No all’emergenza perenne contro le lotte e i movimenti https://www.carmillaonline.com/2022/10/08/la-memoria-del-presente/ Sat, 08 Oct 2022 21:56:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74338 [Riceviamo e pubblichiamo questo testo di denuncia degli attacchi forcaioli ai quali viene sottoposto Cesare Battisti da parte di esponenti del mondo politico per puri fini propagandistici e per mantenere un clima di emergenza soprattutto riguardo le lotte e i movimenti sociali. A piè di articolo il link per tutti coloro che volessero aderire.]

La memoria del presente

In queste settimane, la notizia del declassamento del regime di carcerazione a cui è sottoposto Cesare Battisti, da “alta sicurezza” a “media”, ha scatenato la solita canea reazionaria e forcaiola, [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo questo testo di denuncia degli attacchi forcaioli ai quali viene sottoposto Cesare Battisti da parte di esponenti del mondo politico per puri fini propagandistici e per mantenere un clima di emergenza soprattutto riguardo le lotte e i movimenti sociali. A piè di articolo il link per tutti coloro che volessero aderire.]

La memoria del presente

In queste settimane, la notizia del declassamento del regime di carcerazione a cui è sottoposto Cesare Battisti, da “alta sicurezza” a “media”, ha scatenato la solita canea reazionaria e forcaiola, che da sempre si accompagna alle vicende di Battisti. Inutile dire che tale provvedimento non costituisce un elemento di clemenza: il Dap ha precisato che si tratta di un atto dovuto, tutto interno alle procedure vigenti, che non “normalizza” la condizione del detenuto Battisti né influisce sull’esecuzione della pena

L’accanimento con cui si pretenderebbe la sepoltura civile di Battisti, va al di là della sua biografia o della sua fedina penale – considerando che l’ultimo reato di cui è accusato risale a 43 anni fa e l’organizzazione in cui militò si sciolse nel 1980!  Aver trasformato in questi anni Battisti in un simbolo di criminalità politica, averlo braccato ed esibito come una preda, pretendere un aggravio punitivo del suo ergastolo, rivela due elementi ormai cronici del nostro presente:

1) la memoria irrisolta del conflitto sociale degli anni 70 – soprattutto nella sua componente armata – è ancora una ferita aperta con cui l’Italia non ha saputo fare i conti;

2) la sanzione penale, soprattutto davanti alla violazione dell’ordine costituito, continua ad essere la risposta prevalente, dentro un paese livido, invecchiato, che vede un imbarbarimento del diritto, del sistema giudiziario, del carcere (fresco di stragi), e soprattutto dei rapporti sociali e degli spazi di democrazia e conflitto.

Tali elementi sono propri di un regime che, al di là di ogni ritegno, ci costringe ad uno stato permanente di emergenza, di legislazione eccezionale, di repressione politico-sindacale, colpendo i lavoratori che lottano (emblematico il caso di Modena o e Piacenza, dove si cerca nei tribunali di derubricare a reato il diritto di sciopero), imponendoci la guerra e l’economia di guerra, aprendo la strada all’impoverimento di massa.

Il fatto che gli attacchi alla memoria degli anni ’70 giungano dagli eredi della fiamma missina rende più paradossale e triste la parabola di questo paese. Siamo sicuri che piddini, forcaioli vari e garantisti a corrente alternata, condividano l’indignazione missina.

Per tutte queste ragioni, contrastare la campagna di accanimento contro Cesare Battisti, significa battersi contro la deriva antioperaia, guerrafondaia e autoritaria in cui ci stanno conducendo: appoggiare la resistenza sociale di oggi contro il riarmo, il carovita, la devastazione dei territori, dal No Muos alla Val di Susa, per un nuovo sindacalismo conflittuale.

Allo stesso modo dobbiamo riprendere la battaglia politica e culturale sulla memoria antagonista – che è il nostro retaggio, la nostra eredità; un patrimonio da rivendicare per intero, sul quale troppo spesso la sinistra di classe ha mostrato reticenze o oblii. Se non ricordiamo e raccontiamo noi, la nostra storia, saranno altri a farlo al posto nostro: contro le nostre ragioni e contro ogni opzione di trasformazione dell’esistente.

Tiziano Loreti – Nico Maccentelli – Giovanni Iozzoli

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]]> Fronte dell’Interporto https://www.carmillaonline.com/2022/07/22/fronte-dellinterporto/ Fri, 22 Jul 2022 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73064 di Giovanni Iozzoli

Sarà curioso leggere un po’ più approfonditamente le carte della Procura piacentina e del Gip Caravelli, relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di sei sindacalisti, oltre che ad allungare a dismisura il già ricco carnet di perquisizioni, provvedimenti amministrativi e denunce che la magistratura di quel territorio ha collezionato negli anni, ai danni del movimento operaio della logistica. Perché se è vero che di solito durante le conferenze stampa si danno in pasto al pubblico le anticipazioni più succose, quello che è venuto fuori dalle dichiarazioni dei magistrati è davvero [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sarà curioso leggere un po’ più approfonditamente le carte della Procura piacentina e del Gip Caravelli, relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di sei sindacalisti, oltre che ad allungare a dismisura il già ricco carnet di perquisizioni, provvedimenti amministrativi e denunce che la magistratura di quel territorio ha collezionato negli anni, ai danni del movimento operaio della logistica. Perché se è vero che di solito durante le conferenze stampa si danno in pasto al pubblico le anticipazioni più succose, quello che è venuto fuori dalle dichiarazioni dei magistrati è davvero disarmante. Viene da chiedersi se certe figure siano davvero consapevoli della gravità del loro agire – una retata di sindacalisti nel 2022! -, se siano in grado di valutare la sproporzione tra i loro provvedimenti e gli “episodi contestati”; se si rendano conto che una iniziativa come quella del 19 luglio va ad interferire pesantemente con l’interpretazione e l’applicazione di alcuni fondamentali diritti costituzionali.

La lettura politica di queste inchiesta, apre il giudizio a diverse opzioni: la piccola Procura di Piacenza si è ritrovata dentro una specie di delirio di onnipotenza, convincendosi di essere un organo di garanzia del buon ordine sociale; e quindi, come candidamente ammesso in alcuni stralci dell’ordinanza, ritiene suo preciso dovere “tutelare aziende e multinazionali (sic) che sono una ricchezza del territorio”? In questo caso la Procura, nel vuoto della politica, assumerebbe un ruolo di riequilibrio del rapporto di forze, in un comparto che nell’ultimo decennio ha visto l’insediamento di un sindacalismo, forse a volte caotico e litigioso, ma comunque conflittuale e classista. Oppure stanno arrivando ai magistrati input e segnali dall’alto, circa la necessità di irrigidire le maglie del controllo e della sanzione, in vista di un autunno che si presenta come uno dei più drammatici della storia italiana?

Difficile sbrigliare il nodo dei moventi che possono reggere un’inchiesta così strampalata, indubitabilmente destinata a morire prematura. Come si fa a contestare un’associazione a delinquere sulla base di episodi come la tinteggiatura dell’appartamento di un dirigente del Si Cobas da parte di un iscritto (traffico di influenze)? O il “differenziale” di buonuscita per un delegato licenziato (sì, lo confermiamo ai magistrati: liberarsi di un delegato rompicoglioni costa di più alle aziende, per una elementare legge di mercato). Oppure l’uso dei soldi delle tessere e delle percentuali sulle conciliazioni per gestire i quadri e le strutture sindacali (i Pm di cosa pensano campino gli altri sindacati? Magari hanno i bilanci certificati, ma la sostanza è quella).

La Gip nella sua ordinanza pare ossessionata dall’idea della lobby tentacolare costituita da questi sindacalisti rampanti ai danni delle aziende; ed è surreale pensare che nel paese delle lobbies – spesso occulte e criminali –, i magistrati vadano a caccia di “lobby operaie” dentro i magazzini della logistica. Del resto, la vittimizzazione dell’impresa è uno degli elementi che ricorre più spesso nell’impianto accusatorio: nel mondo alla rovescia dei magistrati, non è il sistema dei sub appalti ad avvelenare le relazioni industriali e la concorrenza; sono piuttosto i lavoratori a vessare i grandi gruppi della logistica con richieste incongrue. Ed è anche comprensibile, tale visione, perché i magistrati sono sottoposti come tutti noi alle medesime narrazioni tossiche: l’imprenditore “chiagn’ e fotte” è ormai una figura onnipervadente del nostro immaginario.

Pm e Gip hanno più volte negato, con scrupolo peloso, che la loro possa essere interpretata come un’inchiesta contro il sindacalismo di base (no: e quando mai?). Si tratterebbe piuttosto di un’azione contro “due specifiche associazioni a delinquere costituitesi all’interno delle sigle sindacali in questione”. Tra l’altro il Gip si occupa, incredibilmente, anche di valutare e censurare le politiche sindacali delle due organizzazioni – Si Cobas e USB – che competerebbero sfacciatamente tra loro per mere ragioni di potere, invece di pensare all’interesse generale dei lavoratori. Magistrati decisamente a tutto campo.

Insomma, se quello che si è letto in questi giorni, è il “meglio” che il menu della casa può servire, l’inchiesta è destinata agli archivi meno nobili della triste storia giudiziaria italiana. Per quanto giuridicamente effimera, l’azione della magistratura piacentina produce però altra repressione, altra sofferenza, mandando segnali intimidatori a tutto un mondo conflittuale e ribadendo esplicitamente che le eccessive richieste economiche contro “le multinazionali” sono un’estorsione e che la contrattazione può diventare un reato.

Bisogna schierarsi esplicitamente dalla parte del sindacalismo di base (come correttamente hanno fatto anche le minoranze in CGIL e tutta la sinistra di classe) e alzare la soglia della mobilitazione tutte le volte che la violenza di Stato si scaglia sulle organizzazioni popolari. Inutili i distinguo e gli attendismi: queste iniziative repressive meritano una lettura e una risposta politica complessiva. E la società e l’opinione pubblica, vanno assolutamente coinvolte: non si può assistere all’indignazione a reti unificate dei nostri TG mentre arrestano gli oppositori a Mosca, e permettere loro di girare la testa dall’altra parte a Piacenza.

Quanto alle Procure, anche senza grandi dibattiti sulla divisione delle carriere, se si stabilisse una norma per cui i Pm sono economicamente responsabili delle spese di certe inchieste farlocche – ingentissime, immaginiamo: 5 anni di indagini, centinaia di ore di intercettazioni, schedature di massa, forze di polizia, interpreti e consulenti all’opera – , certi magistrati, dicevo, smetterebbero di occuparsi della tinteggiatura di interni e comincerebbero a pensare di più alle infiltrazioni mafiose – quelle reali – dentro al “tessuto economico” che vorrebbero preservare dalle orde sindacalizzate.

Il vecchio vizio di certi segmenti di magistratura è sempre lo stesso: pesca a strascico dentro un ambiente o un contesto, protratta per anni, con ogni mezzo di indagine possibile; e poi, su questa mole caotica di carte, l’edificazione di un teorema, solitamente debole o fantasioso. Perché il paradosso italiano, negli inferni della logistica, è sempre lo stesso: sono i rivoluzionari “associati a delinquere”, quelli che, in ultima analisi, difendono la legalità e aiutano lo Stato a recuperare enormi introiti facendo emergere il nero e il grigio delle elusioni fiscali e contributive; mentre la buona borghesia della provincia padana ha assistito in compiaciuto silenzio per un quarto di secolo al proliferare di ogni abuso, truffa e illegalità.

L’inchiesta indugia morbosamente sulle faccende di soldi e contabilità, insinuando il sospetto che tutte le lotte non siano altro che il paravento dei modestissimi introiti di cui vivono i sindacalisti (attività defatigante, in certi ambienti anche pericolosa). Nell’ottica del perbenismo piccolo borghese parlare di soldi è peccaminoso o improprio e suscita immediata diffidenza. In tal modo i magistrati, lisciano il pelo al comune sentire “anti-politico”, al qualunquismo passivizzante: sembrano dire all’opinione pubblica: non vi fidate, sono tutti ladri, non seguite certe bandiere, state a casa che è meglio. Quello che vi serve vi arriverà dall’alto, senza bisogno di agitarvi troppo. I lavoratori – quelli che in questi giorni stanno scioperando e manifestando contro gli arresti – sono raffigurati come bambini ingenui, raggirati da dirigenti marpioni che hanno usurpato la loro fiducia.

Ovviamente non è la vil moneta, al centro dell’attenzione dei magistrati: lo scandalo vero sono i picchetti, le agitazioni senza preavviso, il blocco delle merci, le vertenze aziendali per rinforzare una contrattazione nazionale esangue. La Procura ventila il reato di “sabotaggio” (tipico di un contesto di guerra), e in effetti queste migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno rappresentato in questi anni un’efficace avanguardia di sabotatori: hanno sabotato il modello emiliano fondato sulle finte cooperative e il semischiavismo, hanno sabotato le complicità sindacali e il comparaggio politico, hanno sabotato il conformismo omertoso che aveva regnato in certi territori della ricca Padania peggio che in Aspromonte. Altro che i quattro soldi delle conciliazioni: al centro dell’azione della Procura c’è lo scandalo di proletari che si organizzano, che rovesciano le filiere etniche dello sfruttamento in forza operaia, che mettono i piedi nel piatto dell’organizzazione del lavoro, della prestazione, degli orari, della dignità. I “delinquenti associati” di Piacenza sono quelli che in questi anni, dentro ai cancelli degli stabilimenti, hanno paradossalmente soltanto difeso la Costituzione repubblicana – uno dei lavori che gli italiani non vogliono fare più.

Aldo Milani e Arafat sono già al secondo arresto. Abdel Salam Al Nanf, ammazzato a Piacenza nel 2016 nel corso di un picchetto “criminale”, aspetta ancora giustizia. La modifica dell’art. 1677 del codice civile per eliminare la responsabilità in solido del committente negli appalti, è l’ultimo regalo di Draghi ad Assologistica e Confindustria, un attimo prima di cadere. Il Pm Pradella ha subito dichiarato che le manifestazioni non autorizzate di questi giorni saranno oggetto di provvedimenti specifici. Cartoline italiane da Piacenza.

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Che le parole diventino pietre https://www.carmillaonline.com/2022/06/30/che-le-parole-diventino-pietre/ Wed, 29 Jun 2022 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72623 di Luca Cangianti

Nicoletta Dosio, Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav, Red Star Press, 2022, pp. 137.

Le flessioni da fare nude sul pavimento a specchio, le perquisizioni umilianti, il disprezzo delle secondine, i cubicoli umidi e affollati, lo sferragliare delle chiavi nei corridoi, il cemento del cortile da misurare passo dopo passo, le parole d’amore di mogli e fidanzate gridate verso le sezioni maschili, la sala dei colloqui, «piena di parole e di sofferenza». Questo troviamo in Fogli dal carcere, un volume snello in [...]]]> di Luca Cangianti

Nicoletta Dosio, Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav, Red Star Press, 2022, pp. 137.

Le flessioni da fare nude sul pavimento a specchio, le perquisizioni umilianti, il disprezzo delle secondine, i cubicoli umidi e affollati, lo sferragliare delle chiavi nei corridoi, il cemento del cortile da misurare passo dopo passo, le parole d’amore di mogli e fidanzate gridate verso le sezioni maschili, la sala dei colloqui, «piena di parole e di sofferenza». Questo troviamo in Fogli dal carcere, un volume snello in cui ogni pagina investe fisicamente il lettore e la lettrice: a volte come una lancia trafigge lo stomaco, altre, come un balsamo, provoca sollievo.

Si tratta del diario di Nicoletta Dosio, insegnante pensionata di greco e latino, militante No Tav, condannata per una manifestazione pacifica al casello autostradale di Avigliana nel 2012 e finita in prigione alla fine del 2019 per aver rifiutato di «fare atto di sudditanza con la firma quotidiana» ritenendo di non aver nulla di cui rispondere.
È un libro dal quale non si esce indenni. È costruito con frasi brevi, semplici, prive di enfasi, anche a fronte degli episodi più mortificanti. La prosa è una diga di dignità che trattiene una rabbia temibile, un sentimento cresciuto in trent’anni di lotte nella Val di Susa, non solo contro opere dannose e inutili, ma contro un intero sistema sociale basato sull’ingiustizia e sullo sfruttamento. Non è casuale che leggendo queste pagine mi siano tornate in mente quelle famose e asciuttissime di Banditi (Einaudi, 1975) di Pietro Chiodi: anche lui in un’epoca diversa, durante la Resistenza, insegnò e combatté in Piemonte.

Insieme alla rabbia troviamo la nostalgia per le vecchie vigne ormai sradicate, i boschi della Clarea, gli affetti, la casa e le sue creature domestiche. Poi c’è la speranza: «che le parole diventino pietre, materia vivente per la barricata della primavera che dovrà venire.» Sono le pagine più poetiche. Parlano della luna oltre le sbarre, di un ciliegio fiorito, del volo di una coccinella, di uno scarafaggio salvato dallo scarpone di una secondina, di un concerto No Tav vicino al carcere che rafforza il morale delle detenute, del grido di un gabbiano: «sa di avventura e di malinconia» e ricorda il mare, da qualche parte, al di là delle mura.

«Da quest’esperienza una cosa l’ho imparata» conclude Dosio: «che il fine esplicito e istituzionale del carcere è quello di ridurre all’obbedienza cieca». Si tratta di «un’istituzione totale fondata su principi non certo di giustizia, ma di repressione e di vendetta, controproducente per qualsiasi volontà di riscatto.» E infatti vi troviamo rinchiusi immigrati, rom, sinti, italiani di origini umilissime e si fa di tutto per spedirci quanti più No Tav possibili, tra le migliaia di indagati. Di certo non vi soggiornano i potenti, nonostante le frequenti infrazioni delle norme da loro stessi concepite.

Infine, in un giorno di primavera, nel periodo più drammatico della pandemia, l’autrice esce: «Mentre percorro il corridoio, parte la battitura di saluto. Le trovo tutte, queste mie sorelle, affacciate ai blindi. Battono le sbarre, mi gridano saluti, mi chiedono di non dimenticarle, di raccontare di loro quando sarò fuori». Potrebbe accadere anche a voi, che, terminato il libro, vi sorprendiate a picchiare il pugno sul tavolo.

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Storia dei gas lacrimogeni e delle repressioni delle lotte nel mondo https://www.carmillaonline.com/2022/03/10/storia-dei-gas-lacrimogeni-e-delle-repressioni-delle-lotte-nel-mondo/ Thu, 10 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70735 di Salvatore Palidda

Anna Feigenbaum, Breve storia dei gas lacrimogeni, Edizioni Malamente, Urbino, 2022, pp. 252, € 14,00.

Generazioni e generazioni di manifestanti e militanti hanno visto e inalato i gas lacrimogeni, e spray al peperoncino. Eppure, quasi nessuno conosce non solo la storia terribile di quest’arma ma i suoi effetti a breve e anche a lunga distanza. Io stesso che per circa 60 anni ho partecipato a tantissime manifestazioni in Italia e in Francia e ho visto centinaia di documentari su cariche delle polizie, non sapevo nulla della storia scioccante dei lacrimogeni [...]]]> di Salvatore Palidda

Anna Feigenbaum, Breve storia dei gas lacrimogeni, Edizioni Malamente, Urbino, 2022, pp. 252, € 14,00.

Generazioni e generazioni di manifestanti e militanti hanno visto e inalato i gas lacrimogeni, e spray al peperoncino. Eppure, quasi nessuno conosce non solo la storia terribile di quest’arma ma i suoi effetti a breve e anche a lunga distanza. Io stesso che per circa 60 anni ho partecipato a tantissime manifestazioni in Italia e in Francia e ho visto centinaia di documentari su cariche delle polizie, non sapevo nulla della storia scioccante dei lacrimogeni e dello spray al peperoncino sugli effetti che provocano. Mi pare quindi più che doveroso ringraziare le edizioni Malamente di aver tradotto e pubblicato in italiano questo importantissimo libro perché, non solo fa conoscere la storia e gli effetti di queste maledette armi, ma è anche uno strumento prezioso per la storia delle pratiche repressive delle polizie. La diacronia che illustra l’autrice, docente di Digital Storytelling presso il Department of Communication and Journalism della Bournemouth University (UK) è infatti un eccellente excursus che parte dalla prima creazione del gas lacrimogeno (alla fine del XIX) per mostrare poi come diventa di fatto sino a oggi l’arma da guerra prediletta per colpire i manifestanti. Ma questo libro è anche la storia dei molteplici movimenti che dalla fine del XIX sino a oggi si sono confrontati con le brutalità poliziesche e militari sin dalle resistenze alla colonizzazione nei diversi paesi del mondo.

 

Ecco un sommario excursus del libro

I gas lacrimogeni trovano subito largo e diffuso impiego sia nei confronti delle popolazioni colonizzate in Asia, in Africa e in America Latina, sia nei confronti dei lavoratori e della popolazione quando protestano contro super sfruttamento, ingiustizie e soprusi: è l’“uso in tempo di pace delle tecnologie di guerra”. La militarizzazione delle polizie così come la pratica poliziesca delle forze militari sono sempre state operanti e sono diventati ancora più importanti.

Lo sviluppo industriale e in particolare quello della chimica fece diventare la ricerca e la produzione degli armamenti un settore particolarmente lucrativo. Da allora intere schiere di ricercatori, imprenditori, gruppi finanziari e banche, commercianti, personaggi tuttofare, spie, politicanti e giornalisti embedded si sono impegnati strenuamente per il successo di questo settore e in particolare dei gas lacrimogeni.

I primi sforzi per vietare l’uso di armi chimiche in guerra furono portati sul tavolo alle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907” (p. 35).

Fedele allo stile americano, il generale Amos Fries fu perfino più brusco: “Perché gli Stati Uniti o qualsiasi altro paese altamente civilizzato dovrebbero rinunciare alla guerra chimica? Dire che il suo uso contro i selvaggi non sarebbe una tecnica di combattimento giusta perché i selvaggi non ne sono dotati è un’assurdità (p. 41).
“I lacrimogeni possono essere sparati senza remore nel momento stesso in cui la folla appare e comincia a formarsi” (p. 43).

Da notare che in questa ricostruzione storica che propone l’autrice si constata appunto come la “teoria dei gas lacrimogeni” diventa valida dall’inizio del XX° secolo sino ai nostri giorni! Infatti sin da allora si afferma che “le armi chimiche sono il segno di una società civilizzata”. Per il generale Fries i gas bellici erano il definitivo ritrovato tecnologico americano; rappresentando il collegamento tra scienza e guerra, erano l’emblema della modernità industriale” (p. 49).

[Fries] studia con attenzione le questioni riguardanti l’uso di gas e fumi nel trattare tanto le folle interne quanto i selvaggi, … “non appena le forze dell’ordine e gli amministratori coloniali avranno familiarizzato con i gas come un mezzo per mantenere ordine e potere, ci sarà una tale diminuzione di disordini sociali e sollevazioni di selvaggi da equivalere alla loro scomparsa” (p. 51).

C’è qui lo stesso paradigma che induceva i discepoli di Lombroso a suggerire che gli scioperanti rivoltosi (diventati classi pericolose), così come i meridionali, i sardi e i siciliani (perché refrattari alla “civilizzazione” piemontese dello stato unitario) dovevano essere “trattati col ferro e col fuoco al pari dei rivoltosi della Numibia” che osavano ribellarsi contro la colonizzazione italiana1.

Il veterano dell’esercito statunitense A. Reid Moir sosteneva che i gas non solo erano disumani, ma addirittura «infernali»: «è forse umano giacere a terra colto da dolori strazianti, con lo stomaco gonfiato dai gas in espansione e i polmoni divorati da vapori mortali, mentre si tossisce la propria vita tra agonizzanti convulsioni?». La risposta dei militari a simili obiezioni sostiene falsamente che avrebbero causato solo un dodicesimo delle morti rispetto ai proiettili (p. 52). E il generale Fries respinse le testimonianze dei veterani denigrandoli come: «simulatori che affermano di essere stati gasati solo per richiedere al governo i sussidi per invalidità di guerra» (come si diceva che i feriti al fronte si fossero auto-mutilati per farsi mandare a casa). Fries è palesemente un estremista militare, razzista e anticomunista che nel secondo dopoguerra troverà una sorta di suo omologo in MacCarty e le sue persecuzioni2. Ma la vittoria di Fies e dei suoi successori fu indiscutibile: “il gas lacrimogeno si andò fissando nella retorica dell’immaginario pubblico come alternativa umanitaria all’uso delle armi da fuoco” (p. 53).

“Lo slogan della Lake Erie – «Un uomo solo armato di gas bellici può metterne in fuga mille» – si trovava in calce a ogni suo materiale pubblicitario (degli armamenti e lacrimogeni) e prometteva «una irresistibile esplosione di soffocante dolore» che non avrebbe lasciato lesioni permanenti” (p.62). Negli Stati Uniti l’uso massiccio di lacrimogeni divenne frequente sin dall’inizio del XX° secolo e poi soprattutto durante la terribile crisi economica del 1929 e negli anni successivi.

Ricordiamo che ci sono territori che da un secolo sono gasati: “Ulteriori appoggi all’adozione dei lacrimogeni vennero dalla situazione politica in Palestina dopo le rivolte del 1929 (p. 84; allora colonia del Regno Unito … oggi peggio visto che ai lacrimogeni si affianca ogni sorta di dispositivo e armamento feroce per massacrare). La decisione di gasare i palestinesi presto si diffuse in tutto l’impero britannico (p. 87).

Nel frattempo gli impieghi di successo includevano la Germania (usato contro gli operai di Amburgo in sciopero nel 1933), l’Austria (per disperdere rivoltosi comunisti nel 1929), l’Italia (la polizia fascista aveva come equipaggiamento standard granate di gas lacrimogeno) e la Francia (dove il suo uso era già stato consentito) (p. 88).

“La testarda cecità di fronte ai danni che causavano i lacrimogeni venne a galla a metà degli anni Quaranta. In India la polizia usava granate di produzione statunitense; furono immagazzinate nella prigione centrale di Peshawar, nell’attuale Pakistan. Nel maggio del 1947, in una giornata afosa e senza vento, furono sparate nell’affollato cortile della prigione. Il 20 maggio del 1947, 1.100 detenuti stavano nel cortile della prigione. Il primo lancio riempì di gas lo spazio angusto. Seguirono altre granate, che spinsero i prigionieri a fuggire verso le loro celle. Furono lanciate altre trentotto granate. Senza vento e in spazi ristretti, i fumi tossici ristagnarono dalle quattro alle cinque ore, con effetti persistenti per oltre sedici ore dopo gli attacchi (p. 92). I detenuti furono vittime di vapori tossici (lacrimazione, congiuntivite, tosse, vertigini, nausea, vomito e stati di incoscienza). Ci furono poi ventotto casi di «piccole ferite multiple o incisioni nette e poco profonde, causate da schegge, frammenti metallici infilati nella carne, ferite di lesioni cutanee con ustioni di primo e secondo grado. Il resoconto riportava poi solo la morte di un uomo con vomito di sangue (ematemesi) e feci nere e catramose (melena).

Durante le diverse guerre di colonizzazione dei vari paesi dominanti i gas -fra cui la famigerata iprite- furono usati abbondantemente; fra queste guerre l’Italia fascista si distinse per la sua ferocia (si veda il documentario Fascist legacy3.

Nei primi anni Cinquanta nasce il moderno gas CS. Sebbene la vendita e produzione britannica di gas lacrimogeni non superasse quella statunitense, il Regno Unito finì per imporsi come luogo di ricerca e sviluppo per le tecnologie anti-sommossa. Il gas CS, perfezionato dai britannici, resta ancora oggi il composto di gas lacrimogeno più diffuso al mondo (p. 95).

«Il CS produce effetti immediati anche a basse concentrazioni. Gli effetti irritanti durano anche da cinque a dieci minuti quanto basta per permettere alla polizia la dispersione di un raduno e distruggere lo spirito collettivo di una dimostrazione: «durante questo lasso di tempo le persone sono incapaci di un’azione concertata». C’è infatti anche disorientamento e incapacitazione persino totale. Con la sua capacitaà di disorientare, debilitare e causare panico, il gas lacrimogeno indebolisce: ciò fa crescere o moltiplica l’efficacia delle altre pratiche repressive, come il pestaggio con i manganelli, i colpi a pallini e le cariche della polizia e oggi anche i flashball tanto usati dalla polizia francese contro i gilets gialli (p. 101).

Durante le lotte degli anni ’60 per i diritti civili negli Stati Uniti i neri erano aggrediti anche da segregazionisti bianchi. “I gas accompagnavano pestaggi e sberleffi che subivano nella loro sfida alla imperante segregazione razziale. Il gas lacrimogeno veniva lanciato nei loro bus e penetrava nei loro luoghi di riunione e persino nelle abitazioni dove cerano bambini.

L’utilizzo dei lacrimogeni in spazi ristretti è estremamente pericoloso: aumenta il livello di panico e intensifica la tossicità̀, che può̀ portare a seri danni ai polmoni e anche alla morte per soffocamento (p. 109).

Nell’agosto del 1968 a Chicago la “settimana di disobbedienza civile” diventò lo storico caso di brutalità poliziesche con un impiego gigantesco di lacrimogeni. “Le granate di gas lacrimogeno cascavano ovunque, dietro la barricata e attraverso gli alberi. Si sparse una enorme nube di gas e i poliziotti con le maschere antigas a ondate, usarono i fucili d’assalto come mazze e colpendo con il calcio del fucile chiunque fosse a tiro, anche i residenti non manifestanti (p.112). “Il gas si infiltrò nelle case, nelle automobili, nei ristoranti e coprì interi condomiìni”. “I lacrimogeni venivano spruzzati direttamente in faccia alla gente, schiacciata contro il muro dalla polizia”.

Mesi dopo, “l’immagine più rappresentativa di un uso di massa dei lacrimogeni negli anni Sessanta resta quella dell’elicottero che sparge gas sulla folla disarmata mentre sorvola Sproul Plaza, al centro dell’Università di Berkley. La polizia irrorava di gas CS gli studenti alla stessa maniera in cui l’esercito spargeva napalm sulla popolazione vietnamita” (p. 116). Nel 1969 sempre a Berkley, la Berkley Daily Gazette descrisse gli incroci come «camere a gas a cielo aperto». Anche elicotteri militari sparavano lacrimogeni. A volte il gas fu diffuso persino da camion cisterne che lo contenevano.

Dal 1971 si sviluppò negli Stati Uniti ancora di più l’interazione fra militari e polizie: la strategia del Pentagono, col nome Garden Plot, stabiliva le relazioni fra esercito, Guardia nazionale e polizia cittadina per contrastare il dissenso in oltre centoventi città (p. 125). In questo periodo di modernizzazione del controllo antisommossa ci furono esperti dell’esercito che divennero celebrità nel settore dell’ordine pubblico. Il libro, Riot Control, scritto da un veterano militare accusa “marxisti ed estrema sinistra di mirare a prendere il potere e a destabilizzare la società”. Quest’autore diventa uno degli «architetti dei moderni SAS» (forze speciali dell’esercito britannico); il libro gli fu commissionato dalla Schermuly Ltd, l’azienda fornitrice di attrezzature antisommossa, fra cui gas CS, manganelli e pallottole di gomma (p. 128).

Oltre al Mace, il Pepper Fog, spray al peperoncino della GOEC con marchio registrato nel 1968, prometteva di «isolare o liberare strade, piazze, edifici o panchine in pochi attimi, senza contaminazione!». Applegate esaltava le capacità di questo spray per «far sgomberare in sicurezza e senza violenza» raduni pacifici (p.132).

Contro l’evidenza che i gas e anche lo spray al peperoncino sono dannosi e in certi casi letali, la “scienza” (embedded) ha sempre preteso affermare che i gas sono “sicuri”.

Dopo decenni di prove sui danni provocati dai gas è stata sempre confermata la scelta di mantenere l’ordine pubblico con l’uso del veleno contro manifestanti e popolazione (p. 170).

Il dottor Steve Wright, esperto di storia dell’ordine pubblico e della sicurezza, scrisse che i cambiamenti in questo campo si connettono alla crescente impostazione neoliberale del governo di Margaret Thatcher: “Un assunto fondamentale per motivare l’uso di tecniche avanzate di controllo delle masse è che aumentano la potenza dello Stato e le sue capacità repressive, secondo un criterio di convenienza economica. L’idea è che maggiore è l’uso della forza concesso all’agente di polizia, maggiore sarà la sua produttività repressiva di fronte a una folla”. Dagli anni ’70, il dominio capitalista-liberista fa spesso ricorso alla gestione brutale dei presunti “disordini” come modalità di supporto al supersfruttamento e al massacro delle possibilità e capacità di agire sociale e politico dei dominati (da i casi più noti di Seattle e Genova 2001 sino alle cariche dei picchetti nel 2021 e a quelle degli studenti nel 2022).

Nel 1996 “gli anatomopatologi della polizia affermano che “il CS non ha causato seri danni a coloro che ne sono stati irrorati o indirettamente esposti” (p.174).

Un “banale” fatto recentissimo che mostra l’effetto dello spray peperoncino: A Verona sedici studentesse sono rimaste intossicate dopo che una 14enne ha spruzzato in classe spray al peperoncino – tre sono state portate in ospedale in codice giallo, le altre in codice verde4. Da notare che anche in Italia il commercio dello spray al peperoncino è ormai del tutto libero e il pericolo del suo uso e abuso è diventato sempre più pericoloso.

 

Il business della repressione

Intanto, non mancano i “giri di denaro attorno allo spray al peperoncino. Nel 1996 fu rivelato che alcuni importanti studi a supporto della sicurezza dello spray al peperoncino erano sostenuti da un agente dell’FBI pagato dai principali produttori di questi spray” (p. 184).

E si arriva così ai lacrimogeni contro il movimento “no-global” a cominciare dal gigantesco uso di gas da parte della polizia canadese. E al G8 di Genova 2001, la polizia non risparmiò i gas: “Poliziotti ovunque, armi ovunque, carri armati! L’intera città era piena di gas lacrimogeno. Veniva lanciato dagli elicotteri e dagli appartamenti dei piani alti. Solo la fortuna ti poteva salvare da pestaggi violenti e cariche. Nemmeno i pacifisti e le persone dall’aspetto tranquillo, tipo gli avvocati, erano al sicuro” (p. 188). Si veda il dossier citato in nota5.

La perpetua pratica delle brutalità e in particolare dell’uso dei gas (CS e peperoncino) da parte delle polizie del mondo intero è ovviamente la scelta che i dominanti ritengono assolutamente indispensabile per massacrare i dominati che osano ribellarsi. Non va però dimenticato che tale scelta è supportata anche dalla “rendibilità” economica che è insita nell’impiego della forza poliziesca e quindi dei dispositivi, armamenti, gadget e strumenti di ogni sorta fra i quali granate lacrimogene per la dispersione della folla, flashball, droni e videosorveglianza a tappeto -sebbene palesemente inutile (p. 200).

Dal 1984 ogni anno si tiene a Parigi Milipol, la più grande esposizione europea sulla sicurezza interna (ne abbiamo raccontato l’edizione del 2019 e quella del 2021 negli articoli indicati in nota6.

L’odierno complesso industriale internazionale degli equipaggiamenti antisommossa è capeggiato da una manciata di pezzi grossi: l’Ispra israeliano (Israel Product Research Co.), la Rheinmetall Denel Munitions tedesco-sudafricana, Condor Non-Lethal Technologies in Brasile, le francesi Sae Alsetex, Verney- Carron e Nobel Sport, oltre alla triade statunitense di produttori di lacrimogeni: Combined Systems Inc., Non-Lethal Technologies e Safariland, a cui si deve aggiungere anche il produttore di spray al peperoncino Sabre. I lacrimogeni sono prodotti anche in molti paesi europei, in Canada, Turchia, India, Pakistan e, in via crescente, nel sudest asiatico, dove Cina e Corea del Sud rivendicano pacchetti azionari nel mercato. Il tasso di crescita annuale è stato del 5,4% tra il 2016 ed il 2021. In Italia è la Simad spa, la fabbrica di Carsoli7 che produce i gas lacrimogeni al CS e al CN che furono usati al G8 di Genova (vedi nota 5 interrogazione sen. Martone).

Il libro si conclude con il capitolo intitolato “Dalla resilienza alla resistenza” (p. 228). In tutti i paesi si è sviluppata una certa solidarietà transnazionale in materia di resilienza ai gas lacrimogeni, agevolata dai social media e dalle tecnologie mobili che consentono ai dimostranti di far circolare consigli sulle prime cure, modelli di maschere antigas e tecniche per rilanciare indietro le granate (evitando di ferirsi). Non mancano i tentativi legali per contrastare l’uso dei gas e il suo aumento auspicando di far riconoscere che “il gas lacrimogeno opera in una forma di «controllo atmosferico»; avvelenando l’aria, rende infatti impossibile l’espressione delle proprie idee in pubblico, quindi il diritto a manifestare.

L’autrice illustra infine il progetto #RiotID a cui partecipa e la guida tascabile per documentare e identificare le armi che si pretendono “non letali”, tradotta in otto lingue8.

Questo libro è frutto di oltre cinque anni di ricerca rigorosa sulla storia dei movimenti e sulla loro repressione in tantissimi paesi del mondo; è di grande ricchezza e utilità non solo per i militanti, ma per avvocati, magistrati, operatori sociali, giornalisti, storici e ricercatori sui movimenti.

Aggiungiamo che appare più che mai essenziale la necessità indicata dal movimento Black Live Matter di lottare per l’abolizione delle polizie perché -come le carceri- sono istituzioni forgiate per la repressione di ogni istanza anche solo pacifica rispetto ai dominanti. L’attuale eterogenesi delle pseudo-democrazie mostra che è una pia illusione credere in una possibile democratizzazione delle polizie e delle carceri.


  1. Vedi Vito Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 2011. 

  2. Vedi qua; si veda anche il film J. Edgar di Clint Eastwood; J. Edgar Hoover, fu ininterrottamente capo del Federal Bureau of Investigations (FBI) per circa mezzo secolo, dal 1923; vedi qua

  3. Vedi qua 

  4. Vedi qua

  5. Come dice l’avvocato Nicola Canestrini, Genova Legal Forum, “la legge del 18 aprile 1975, numero110 per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, permette di dire che i candelotti al CS vanno classificati come armi da guerra”. Il CS rientra appunto tra gli “aggressivi chimici” inclusi nell’elenco. “Lo ha confermato la Cassazione”, aggiunge Canestrini, “con una sentenza del 1982”, prima che il CS fosse dato agli agenti. Il CS è entrato nella dotazione delle forze dell’ordine italiane nel 1991, con il Decreto del presidente della Repubblica n.359. Dopo l’Italia ha ratificato nel 1995 la Chemical Weapons Convention, l’ultimo trattato internazionale sulla messa al bando delle armi chimiche, entrato in vigore nel 1997 (vedi qua e anche Martone qua). Nella sentenza della Cassazione penale Sez. 6 Num. 30140 Anno 2021 (qua) la bomboletta spray è considerata arma comune da sparo, ponendo l’accento sia sulla natura del gas in essa contenuto, qualificato come un “aggressivo chimico”, per le sue potenzialità nocive. La Corte (Sez. 2, n. 946 del 09/07/1981, dep. 1982, Boscarolo, Rv. 151891) ha anche considerato quali armi da guerra i candelotti lacrimogeni poiché compresi tra gli “aggressivi chimici”. Tuttavia questa stessa sentenza ricorda: “L’impiego del gas CS è, inoltre, consentito alle sole forze di polizia (si veda, al riguardo, l’articolo 12, comma 2, del d.P.R. 5 ottobre 1991, n. 359, che, con riferimento agli artifici sfollagente per lancio, sia a mano che con idoneo dispositivo o con arma lunga, precisa che «entrambi sono costituiti da un involucro contenente una miscela di CS o agenti similari, ad effetto neutralizzante reversibile»). In realtà questa sentenza si rivela contraddittoria e sempre riverente rispetto ai poteri conferiti alle polizie. Di fatto le autorità italiane non hanno mai accettato una valutazione scientifica indipendente della dannosità dei CS e CN. 

  6. Vedi qui per il 2019 e qui per l’edizione 2021. 

  7. Vedi qua 

  8. Vedi qua 

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La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane https://www.carmillaonline.com/2022/01/19/la-settimana-santa-potere-e-violenza-nelle-carceri-italiane/ Wed, 19 Jan 2022 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70131 di Giovanni Iozzoli

Luigi Romano, La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane, Monitor Edizioni, Napoli 2021, pp. 77, € 8,00

“Entro le 15,30 in tuta operativa tutti in Istituto. Si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, ù tiemp re buon azioni e’ fernut. W la Polizia Penitenziaria”. “Ok. Domate il bestiame”. “La mattanza della Settimana Santa”.

Se le immagini del massacro di Santa Maria Capua Vetere hanno giustamente provocato un impatto forte sull’opinione pubblica – anche perchè inedite, nella loro sconvolgente evidenza –, la messaggistica interna tra le guardie risulta altrettanto potente ed esplicita. Pochi bit che raccontano [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Luigi Romano, La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane, Monitor Edizioni, Napoli 2021, pp. 77, € 8,00

“Entro le 15,30 in tuta operativa tutti in Istituto. Si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, ù tiemp re buon azioni e’ fernut. W la Polizia Penitenziaria”.
“Ok. Domate il bestiame”.
“La mattanza della Settimana Santa”.

Se le immagini del massacro di Santa Maria Capua Vetere hanno giustamente provocato un impatto forte sull’opinione pubblica – anche perchè inedite, nella loro sconvolgente evidenza –, la messaggistica interna tra le guardie risulta altrettanto potente ed esplicita. Pochi bit che raccontano un mondo nascosto, normalmente sottratto allo sguardo della “pubblica opinione” e improvvisamente rivelato nella sua vergognosa nudità. A parlare, in quei messaggi, non sono aguzzini professionali: solo i normali “padri di famiglia” in divisa, che sentono come legittimo e connaturato al loro ruolo, l’esercizio della violenza organizzata e impunita.

La mattina del 6 aprile 2020, con il paese in lockdown e 13 morti freschi per le rivolte di marzo in diversi istituti italiani, un commando di centinaia di agenti irrompe nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, con il pretesto ufficiale di una operazione di perquisizione generale delle celle, mettendo in atto una mattanza che passerà alla storia, contro decine di detenuti inermi. L’autore, con pochi tocchi, senza retorica, lasciando parlare i resoconti giudiziari e le testimonianze raccolte nel corso del suo lavoro di avvocato, rovescia sul lettore tutta la forza del racconto di questa rappresaglia: denti, costole e teste rotte, una umiliazione reiterata sui corpi per spezzare gli spiriti. E’ un’operazione a freddo, costruita a “bocce ferme”, ragionata e pianificata: all’Istituto Francesco Uccella nei giorni precedenti non c’era stata alcuna “rivolta”, solo qualche elemento di insubordinazione, assolutamente pacifico e rientrato in 24 ore, da parte di detenuti terrorizzati dalle notizie dei primi contagi in carcere; una protesta civile che rivendicava un diritto, evidentemente ritenuto un lusso inadeguato per dei detenuti: tamponi e mascherine per tutti, ricoveri in ospedale per i malati.

E’ qui che nasce la decisione di reagire con spropositata fermezza: non il tentativo di prevenire il fantasma della rivolta, ma la volontà di piegare i detenuti, mortificarne la volontà, ricondurli al loro ruolo di sotto-uomini, indegni di occuparsi persino della propria vita, della propria salute, indegni del diritto alla presa di parola collettiva – colpa, quest’ultima, ritenuta addirittura più pericolosa delle vere e proprie rivolte. Il massacro è “ferino” – come giustamente lo descrive l’autore. Ad una macchina collettiva evidentemente ben oliata – personale ordinario e squadre speciali costituite ad hoc dal Provveditore regionale -, si unisce la frustrazione e il sadismo di singole guardie che, nelle immagini trasmesse a reti unificate, eccedono persino al loro mandato: segno che la divisa, il filo spinato e il potere di vita e di morte su un detenuto, possono trascinare chiunque nella logica del lager, qualora le circostanze lo richiedano.

“Lo spettacolo della punizione, il dispositivo pornografico intorno al supplizio, si attivarono più di un anno dopo, con la pubblicazione delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza dell’Istituto. Quei video ribaltavano l’ordine della percezione: dalla totale indifferenza a una curiosità quasi morbosa. Quando gli urti dei manganelli cominciarono a rimbalzare da un canale all’altro, da un sito all’altro, il paese sembrò accorgersi per la prima volta dei problemi del mondo penitenziario e del livello di violenza che aveva investito gli istituti di pena durante la prima fase dell’emergenza sanitaria.” (pag.8)

La visita di Draghi e della ministra Cartabia, il 14 luglio, presso l’Istituto Francesco Uccella, evocò l’idea di un tardivo e pomposo esorcismo. Si volle dare all’opinione pubblica l’idea di trovarsi davanti ad una tale eccezionalità, da giustificare la mobilitazione straordinaria dell’esecutivo. Si volle comunicare sgomento, presa di distanza, rammarico e il solenne impegno all’umanizzazione del pianeta carcere. Il messaggio per le platee televisive era chiaro: negli istituti di pena italiani non erano mai accadute cose del genere e mai più sarebbero accadute. Naturalmente, la storia dei circuiti carcerari italiani racconta la versione esattamente opposta: il sistema si fonda sulla violenza quotidiana, continua, sistemica, mirante alla sottomissione del detenuto; o sulla rappresaglia – militare o burocratica – come naturale esercizio di potere. Santa Maria Capua Vetere non è una sfortunata eccezione – un corto circuito di “abusi e soprusi”, come ipocritamente lascia intendere Draghi (ben sapendo che la violenza è arrivata da una parte sola): Santa Maria Capua Vetere è eccezione solo nel senso che alcuni meccanismi di autotutela e copertura dell’istituzione, in quel contesto, non hanno funzionato.

Come è stato possibile, che il carcere, luogo chiuso e separato per eccellenza, si mostrasse esposto in tutta la sua scandalosa essenza? Alcune anomalie lo hanno permesso. Forte della sua internità all’inchiesta, l’autore le enumera tutte: un magistrato di sorveglianza che fa il suo lavoro, mettendosi contro l’amministrazione, le divise e le consolidate omertà interistituzionali; il coraggio di detenuti minacciati di morte eppure indisponibili al silenzio; la mancanza di discrezione e metodo nella gestione del massacro – evidente segno di impunità –; fino alla fatale dimenticanza che lascia attivate le telecamere interne. Insomma, l’anomalia del massacro della Settimana Santa va ricercata nel normale funzionamento dei meccanismi di tutela dei detenuti – magistrati e videosorveglianza – che, ordinariamente, non tutelano un bel niente. Quindi è la “normalità”, ad essere anomala, straordinaria, in grado di produrre il terremotogiudiziario e mass mediatico che ha sconvolto il Francesco Uccella. Bastonare i detenuti come deterrenza, creare situazioni di finta tensione per esercitare rappresaglia e vittimismo di corpo; spostare la gestione di un carcere sul piano militare, sussumendo in questa dinamica il personale direttivo civile – anche quello amministrativo e medico, purtroppo sempre complice: questa è la normalità italiana.

L’autore rimarca un altro elemento di riflessione importante: è vero, in un certo senso, che tra le mura di un carcere, tutti – anche il personale di custodia – sono in galera, con la pesantezza e i condizionamenti propri dell’istituzione totale per eccellenza; però non bisogna mai dimenticare che detenuti e secondini vivono questa condizione di sofferenza in modalità molto differente. Il carcere si rivela irrimediabilmente come luogo “conteso”, in cui ora dopo ora, metro dopo metro, si misura un rapporto di forza tra due parti. Ad esempio: le celle aperte in sezione sono provvidenziali per non impazzire, ma rappresentano un carico di stress e lavoro in più per le guardie (con qualche paradossale elemento di rivendicazionismo sindacale da parte di queste ultime, che vedono in ogni elemento di umanizzazione della struttura, un surplus di “prestazione lavorativa”). Quindi, l’ideologia un po’ melensa del “siamo tutti sulla stessa barca” viene mostrata in tutta la sua contraddittorietà: un istituto di pena non è mai una comunità di eguali e la rivolta è spesso stata, nella storia italiana, l’unico linguaggio consentito ai prigionieri.

Quello che viene dalle carceri italiane, almeno per chi ha voglia di recepirla, è una lezione che parla all’intera società: il dentro e fuori sono solo illusioni ottiche prodotte da muraglioni e filo spinato. L’Italia ha un problema storico con i suoi corpi armati: non solo con quelli preposti alla custodia in carcere, ma anche con le altre “forze di polizia”. Le sirene golpiste del passato, gli abusi in divisa del presente, sono un gigantesco promemoria per un paese che finge normalità civile e costituzionale, salvo scoprire, periodicamente, che alcune decine di migliaia di uomini armati, appartenenti a corpi diversi, possono in qualsiasi momento sospendere le garanzie costituzionali, in questo o quel contesto sociale, il più delle volte senza subirne le conseguenze. Quando si legge del tentativo orchestrato goffamente a Santa Maria Capua Vetere di inventare a tavolino un piano di rivolta “sventato dal provvidenziale intervento del personale operativo”, non possono non tornare in mente le molotov confezionate alla Diaz e tutto il campionario gaglioffo di alibi e bugie (vedi i referti medici falsi) che spesso le forze di polizie sanno mettere in campo. Il carcere è solo lo specchio deformato del normale ordine sociale.

Un libro prezioso, che si legge in un fiato, scritto da un avvocato e dirigente di Antigone – quindi con il massimo di competenza e internità possibile -, che contribuirà a tenere aperta una ferita che troppi, a quasi due anni dalle rivolte e dalle stragi, vorrebbero frettolosamente chiudere. Non può esserci oblio, su quello che è accaduto nelle galere italiane in quei due drammatici mesi di primavera; non deve esserci normalizzazione, in assenza di Verità e Giustizia. Né è possibile dimenticare la quantità di morte, alienazione, disagio psichico e malattia, che il sistema dell’esecuzione penale in Italia continua a riprodurre, qui e ora, quotidianamente, con costi umani e sociali altissimi. Ecco: i libri come questo, ci ricordano che i morti non sono statistiche e i detenuti non sono numeri di matricola.

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Ridare la voce alle comunità a cui è stata tagliata la lingua https://www.carmillaonline.com/2021/10/13/ridare-la-voce-alle-comunita-a-cui-e-stata-tagliata-la-lingua/ Wed, 13 Oct 2021 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68456 di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di [...]]]> di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come anche noi, occidentali ed europei, siamo stati costretti a diventare “bianchi” ovvero portatori di idee e comportamenti culturali, religiosi, politici ed economici che sono stati instillati con la forza e la violenza nei nostri antenati, distruggendone le comunità e le culture cui appartenevano.

Michela Zucca (1964), storica e antropologa, è specializzata in cultura popolare, storia delle donne, analisi dell’immaginario. Ha svolto lavoro sul campo tra gli sciamani della foresta amazzonica, in Perù e Colombia, e fra i Lapponi in Finlandia e ha insegnato Storia del territorio in varie università italiane e svizzere. Ha, inoltre, fondato la «Rete delle donne della montagna» e collaborato con il «Centro di ecologia alpina», mentre attualmente organizza e coordina le attività di Arkeotrekking con l’Associazione Sherwood1. In tale contesto di studi ha prodotto numerosi testi e curato l’opera, in 5 volumi, Matriarcato e montagna (1995-2005).

Come afferma l’autrice nel primo capitolo del testo, destinato ad illustrarne l’impostazione metodologica:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia. Sulle montagne però, le condizioni di vita premoderne continuano a esistere per lunghi, lunghissimi, secoli: quasi fino a ieri2.

Questa trasformazione sociale viene comunemente associata al progresso e come tale rivendicata dai cantori della modernità, tra cui non bisogna esitare ad inserire gran parte del pensiero di sinistra e marxista3, che dimenticano, sottovalutano oppure nascondono ciò che la nostra autrice non manca invece di sottolineare con forza, ovvero che «il “progresso” è fondato sullo sterminio»4.
Stermino di popoli, culture e comunità, di qua e di là degli oceani.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.
Il Concilio di Trento è il momento di rottura violento che sancisce il cambiamento culturale, tanto è vero che viene ricordato nella memoria orale in maniera vivissima ancora oggi5.

Il Concilio trentino (1545-1563) può infatti essere considerato non soltanto come un momento di “rinnovamento” della chiesa cattolica in reazione allo sviluppo e alla diffusione del protestantesimo, ma anche come un momento centrale della fondazione legislativa dello Stato moderno, che proprio tra il XV e il XVI secolo vedrà crescere i propri attributi, compiti, forza militare e repressiva e potere, proprietrio e amministrativo, sui territori definiti sia scala imperiale che nazionale6.

D’altra parte proprio il cristianesimo, nel corso della sua storia, all’epoca già più che millenaria, aveva fortemente contribuito a quella risistemazione socio-culturale su cui avrebbe potuto svilupparsi la società mercantile-capitalistica. Autentica operazione biopolitica che in, qualche modo, già il Romanticismo europeo non aveva mancato di sottolineare e, talvolta, deridere agli albori della Rivoluzione industriale. Come le parole del poeta, e ribelle, tedesco Heinrich Heine possono qui ancora, ironicamente, dimostrare.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cppuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labba non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se le privazioni e la rinuncia siano davvero da preferire a tutti i godimenti di questa terra, e se coloro che quaggiù si sono accontentati di cardi, verranno nutriti tanto più abbondantemente di ananassi. No, chi mangiava cardi era un asino: e chi ha ricevuto botte se le tiene.
[…] Forse mi è concesso di riportare qui alcuni fatti banali, per inserire tra le favole che vengo compilando alcune cose ragionevoli o almeno l’apparenza di esse. Quei fatti si riferiscono alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Io non sono affatto dell’opinione del mio amico Kitzler, che cioè l’iconoclastia dei primi cristiani sia da biasimare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi templi e statue, poiché in essi viveva ancora quell’antica serenità greca, quella gioia vitale che al cristiano appariva diabolica. […] Tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità […] La leggenda più originale, romanticamente meravigliosa, narrata dal popolo tedesco è quella della dea Venere che, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua […] Già da lontano, quando ti avvicini al monte, senti risate gioconde e dolci suoni di cetra, che ti avvincono il cuore come una catena invisibile e ti attirano nel monte7.

Certo il riferimento formale è ancora a Venere, così come la stessa Michela Zucca denuncia a proposito delle donne perseguitate come streghe, le cui divinità di riferimento erano travisate oppure misconosciute, ma il significato della forzata rimozione delle divinità e delle credenze locali con quella unica indicata da Santa Romana Chiesa, destinata ad accentrare e regolamentare i comportamenti e l’immaginario, non cambia.

Donne che credono e sostengono di andare di notte al seguito di una signora che cambia il suo nome, spesso identificata da giudici e frati zelanti, infarciti di cultura classica, con Diana, dea latina degli animali e delle foreste, in groppa o insieme a bestie, percorrendo grandi distanze volando, obbedendo ai suoi ordini come a una padrona, servendola in notti determinate, con feste fatte di canti, balli e grandi mangiate, in cui si fa all’amore senza curarsi delle convezioni. Questo – elemento più, elemento meno – il minimo comune denominatore delle confessioni delle streghe. Come i combattimenti fra le nubi, per la fertilità dei campi, contro gli spiriti del male; il cannibalismo rituale; le cavalcate con l’esercito furioso dei morti implacati.
Per un periodo di tempo inimmaginabilmente lungo, secoli, forse anche millenni, matrone, fate e altre divinità femminili, benefiche o mortifere e vendicative, hanno abitato invisibilmente nell’Europa celtizzata. Cacciate via presto, a suon di roghi e benedizioni, dalle città, in cui dominava il clero, hanno continuato a praticare indisturbate sulle montagne, dove sono leaders delle comunità8.

Al di là del fatto che, fino al Concilio di Trento e ancora dopo, gran parte del basso clero era certamente né istruito, tanto meno di cultura classica spesso rimossa dalla Chiesa stessa, né alfabetizzato9, le finalità dell’opera dello Stato e della Chiesa rimanevano inalterate e incontrovertibilmente rivolte alla distruzione delle culture e delle comunità altre, alla drastica riduzione del ruolo che le donne esercitavano al loro interno e alla violenta repressione delle loro, inevitabili, ribellioni.

A tutti i differenti aspetti della vita e della lotta di quelle comunità Michela Zucca dedica i quattro quinti dei capitoli che la compongono e i tre quarti delle pagine dell’opera, suddivisa in quattro parti, intitolate rispettivamente Metodologia di ricerca; La vita quotidiana; Il corpo, la trasgressione, la festa; Il filo rosso della rivolta e La fine dei giochi: repressione e resistenza.
Se i capitoli che costituiscono le ultime quattro parti sono talmente densi, ricchi di informazioni e sollecitazioni che diventa difficile per il recensore riassumerli sinteticamente, ciò che vale la pena di fare in chiusura di questa riflessione su Donne delinquenti, è sottolineare l’importanza delle note metodologiche di ricerca che vengono dettagliatamente e brillantemente esposte nella prima parte.

Il passato esiste solo attraverso la ricostruzione storiografica, e questa, per essere considerata valida, deve rispettare regole precise, che comunque cambiano a seconda del periodo storico e dell’ideologia di riferimento del ricercatore. La storia, quindi, non è verità ricostruita, ma è culturalmente determinata: è una creazione antropologica. Ciò è tanto più vero quanto lo studio di questa disciplina sta lentamente cambiando, trasformandosi da evenemenziale (basato cioè su degli avvenimenti estemporanei, compiuti da “grandi uomini” che “danno una svolta alla storia”) in sociale. In quest’ottica, i dati etnografici e i comportamenti dei popoli diventano fondamentali, così come la mentalità della gente comune, perché sono i veri fattori di evoluzione. E le masse si muovono da protagoniste, anche se tempi e ragioni di cambiamento talvolta si allungano e sfumano, si sovrappongono e si rincorrono in maniera inconcepibile per il nostro sistema di pensiero, che assegna ogni effetto a una causa precisa e circoscritta.
La nuova storia, come d’altra parte l’antropologia e la psicanalisi, indaga su un campo d’azione ben diverso da quello delle attività coscienti e volontarie dell’uomo, orientate verso decisioni politiche chiaramente identificabili. Il suo scopo è scoprire gli elementi non dichiarati che permangono nella cultura di un popolo, il non detto: l’inconscio collettivo, la struttura mentale, che formano la sua totalità psichica, che si impone ai contemporanei senza che questi riescano nemmeno a percepirla. La storiografia antropologica cerca di descrivere la cultura di una comunità, le sue motivazioni di rinnovamento, stasi o, addirittura, regresso, in un’ottica di adattamento alle condizioni ambientali, economiche, politiche, religiose, sociali, che non procedono secondo percorsi lineari e prevedibili. Si delinea così una storia collettiva, che ha per protagoniste le moltitudini, i gruppi, le comunità, che cerca di spiegare il come e il perché della vita stessa degli sconosciuti, e che si traduce in una struttura economico-sociale-culturale che caratterizza gli individui prima ancora che se ne rendano conto.
Le piste spesso sono impercettibili: si parte alla ricerca di impronte quasi evanescenti. Come nell’antropologia classica, è più importante ciò che viene taciuto di quanto viene raccontato. Soprattutto quando si cerca di ricostruire le vicende di individualità più e più volte discriminate: come donne, appartenenti a un “sesso inferiore” di cui però i maschi hanno paura (specie della loro lingua lunga); parte di caste, ceti, classi subalterne, illetterate, che non hanno potuto scrivere e tramandare la propria versione dei fatti nell’unica forma legittimata dalla cultura dominante; oppositrici del potere, di cui a maggior ragione bisogna tacitare la voce; extralegali, delinquenti, che di fatto si mettono contro, e con il loro comportamento e con il proprio corpo si fanno beffe della società costituita dimostrando che un altro mondo è possibile.
In questo lungo lavoro di ricomposizione di una trama di cui sono rimasti solo alcuni frammenti sparsi, bisogna impegnarsi a smascherare – negli atti dei processi, nelle cronache, nei discorsi fatti o scritti dai personaggi illustri, ma anche nei racconti e nelle leggende che si sono salvate dalla distruzione, così come nelle memorie dei “testimoni chiave” delle “storie di vita” – oltre al significato evidente, il senso nascosto, il non detto, ciò di cui nessuno ha parlato, volontariamente o meno, ciò che, coscientemente o no, è stato nascosto, e che invece è necessario decifrare fra le pieghe del poco che ha conquistato il privilegio di essere tramandato.

[…] È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Una razza che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinta, distrutta con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti («Ciò che è già stato può sempre ritornare: sette volte prato e sette volte bosco», recita la Canzone di Santa Margriata, il racconto, in forma mitica, del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale) era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Questa, in altre parole, le origini della civiltà “bianca” qui in Occidente, tanto violente, repressive ed oppressive quanto le successive conquiste operate dalla Chiesa, dagli stati e dal capitale nei confronti degli altri continenti e dei popoli che li abitavano. Un’operazione di sterminio, rimozione e imposizione ancora mai finita, fino a quando persisteranno religioni rivelate, patriarcato, capitale e stati centralizzati. Con buona pace di tutti quei perbenisti moderati che credono nella possibilità di riformare il mondo a suon di belle parole e frasi fatte, basate soltanto sulle “evidenze” prodotte dal modo di produzione dominante.


  1. L’Associazione Sherwood nasce nel 2016 e le sue linee di ricerca e di azione riguardano le società egualitarie, le modalità di produzione e riproduzione dei saperi, con un’attenzione particolare ai meccanismi sociali che hanno permesso ad alcune civiltà di sopravvivere e superare le crisi ambientali, rinunciando al “progresso tecnologico”, rispetto ad altre che non sono state capaci di cambiare e sono scomparse. Non ha alcuna fiducia nello “sviluppo sostenibile” (che spesso serve soltanto a sdoganare tipologie di produzione spesso ancor più dannose di quelle che dovrebbe sostituire), ma piuttosto nel fatto che una nuova tecnologia sia possibile: come dimostra il grande salto in avanti realizzato in Europa dall’alto Medio Evo da parte delle comunità che hanno condiviso e messo a frutto conoscenze quali mulini, segherie, frantoi, impianti ad acqua… L’intento è infatti quello di recuperare quel tipo di conoscenze, sul territorio, attraverso il lavoro condiviso, per costruire nuovi modelli di insediamento in grado di sopravvivere, in forme egualitarie, al cambiamento climatico in montagna. Dal 2016 ha dato avvio ad un’attività di Archeotrekking che si occupa di valorizzare i territori montani e la loro storia, troppo spesso ignorata.  

  2. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29  

  3. Basti qui ricordare l’analisi condotta da Roman Rosdolsky nel suo Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova 2005  

  4. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 11  

  5. Ivi, p. 12  

  6. Si veda: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019  

  7. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46  

  8. M. Zucca, op. cit., pp. 11-12  

  9. Gli errori e le differenze riscontrabili all’interno dei medesimi testi ricopiati dagli amanuensi di conventi diversi è, per molti studiosi, la testimonianza diretta di un esercito di monaci illetterati che ricopiavano i testi senza comprenderli. Proprio il Concilio di Trento invece, non solo attraverso il rafforzamento della Compagnia di Gesù, avrebbe costretto i chierici, del clero alto e basso, ad una maggiore formazione culturale, teologica e spirituale. Proprio per contrastare una diffusione del Protestantesimo che della diffusione della Bibbia a stampa e dell’allargamento della lettura e della scrittura aveva fatto una delle sue armi più insidiose per la critica della Chiesa romana, dei suoi esponenti e della loro ignoranza.  

  10. M. Zucca, op. cit., pp.17-19  

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