Recherche – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vademecum per scrittori professionisti https://www.carmillaonline.com/2016/09/30/vademecum-scrittori-professionisti/ Thu, 29 Sep 2016 22:03:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33543 di Jack Baldrus

Un’estate con Proust, di AAVV, Carocci editore, Roma 2015, pp 214 € 15

proust“Più che un esercizio, la lettura di Proust è una vera e propria esperienza, cui – credo – ogni scrittore dovrebbe aprirsi per trovare la propria strada”. Julia Kristeva, L’immaginario

Esperienza. Era Jean Paul Sartre, certamente non uno scrittore baudelairiamo-proustiano (ma rimbaldiano) che si arrabbiava contro l’epica delle esperienze. Nessuna esperienza per scrivere, per pensare, per vivere. La scrittura è il risultato di un flusso, di una casualità. E’ una avventura poco avventurosa del proprio [...]]]> di Jack Baldrus

Un’estate con Proust, di AAVV, Carocci editore, Roma 2015, pp 214 € 15

proust“Più che un esercizio, la lettura di Proust è una vera e propria esperienza, cui – credo – ogni scrittore dovrebbe aprirsi per trovare la propria strada”.
Julia Kristeva, L’immaginario

Esperienza. Era Jean Paul Sartre, certamente non uno scrittore baudelairiamo-proustiano (ma rimbaldiano) che si arrabbiava contro l’epica delle esperienze. Nessuna esperienza per scrivere, per pensare, per vivere. La scrittura è il risultato di un flusso, di una casualità. E’ una avventura poco avventurosa del proprio essere. Non è sperimentare tutte le droghe, accoppiarsi con un alligatore, uccidere, farsi frustare, andare in guerra, vivere nelle fogne o in cima all’Everest, diventare amico di un serial killer, buttarsi da un ponte legati a una corda. L’esperienza è un reportage dal Nulla. Forse potremmo dire addirittura che è una immanenza, come la concepiva Deleuze. Qualcosa che incombe, che ci trascina, che ci travolge. Nel Nulla.

Eppure, l’auspicio della Kristeva – un’autrice di questa raccolta di testi – è verosimile. Questa esperienza della non-esperienza ha bisogno di linguaggi per esprimersi, di meccanismi. Ha bisogno di studio. Ha bisogno di coraggio. Per questo chiunque voglia pubblicare un testo di narrativa dovrebbe leggere Proust. Ma non dare un’occhiata, dovrebbe sostenere un esame. Poi, può pubblicare. Non esistevano le botteghe un tempo? Le congregazioni? Così oggi molti scrittori si arrabbiano perché non riescono a vivere scrivendo. Si arrabbiano perché non possono essere dei professionisti a tempo pieno. Bene, allora per entrare nella congregazione degli scrittori dovrebbero sostenere un esame di ammissione. Su Marcel Proust.

Questo autore francese infatti, vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha utilizzato, e dominato, praticamente tutti gli stili letterari, tanto che la sua opera – un unico immenso romanzo, come lo concepiva anche Tolstoj, e come lo sognava a occhi aperti Jack Kerouac – è stata definita “narrativa-saggistica”, oppure “narrativa.filosofica”, o “narrativa impressionista” o “pittorica” o “psicologica”. E altro ancora. Inoltre Proust, letto fino in fondo, rappresenta una formidabile palestra mentale per chiunque voglia avventurarsi in questo percorso così labirintico, insicuro, che è la scrittura letteraria. E’ in controtendenza, sempre, perché disabitua allo stile povero, piatto, che domina nel totalitarismo dei social, degli sms, del “qui, subito”, di una omologazione che sta diventando la normalità. Lo stesso Proust, ai suoi tempi, aveva individuato l’omologazione di massa come risultato di una pavida sindrome di imitazione: “L’istinto di imitazione e l’assenza di coraggio governano sia le società che le folle” (Sodoma e Gomorra). L’omologazione che, per esempio, fa dire a Word Press (la piattaforma che fa funzionare molti siti web, compreso carmilla), che “un periodo contiene più delle 150 parole raccomandate” e che “il 50% delle frasi contiene più di venti parole. Prova ad accorciare le frasi”. Insomma, se Proust scrivesse un articolo sul web il sistema lo definirebbe “pessimo”. Quei periodi lunghi, più pagine senza un punto, con scatole cinesi che si susseguono, tanto che il lettore è costretto talvolta a tornare indietro, a rileggere, perché non sa dove è arrivato, né come o perché, in una sorta di territorio sconosciuto e si sente spaesato, si sente un viaggiatore senza bussola; quei periodi asmatici – prolungamento di un autore asmatico – obbligano a cercare il respiro, mentre ci si allena a restare in apnea, osservando il fondale marino coi suoi coralli, i suoi pesci, i suoi granchi, le sue alghe. Proust scrive dell’ignoto, lui, che non era rimbaldiano, è un esploratore di mondi sommersi, oscuri, o bruciati da un sole che sbrana. Proust è, forse, il più grande ritrattista di tutti i tempi, perché la sua tecnica di costruzione dei personaggi si basa su un assemblaggio di modelli reali interiorizzati, per cui il Narratore dietro le quinte è il personaggio, o parte di esso, lo fa crescere, sviluppare dentro di sé, arrivando a imitarlo, a parlare come lui/lei (sono molti gli aneddoti di Proust che scimmiottava questo o quel gentiluomo o quella nobildonna, con imitazioni impressionanti). Interiorizza persino gli oggetti e le piante, per restituirli con più realismo nella scrittura. Uno dei passaggi più celebri della Recherche – uno dei tanti – è quando, in una chiesa, osserva incantato i biancospini e li porta dentro di sé, li fa fiorire in se stesso, per sentirli, per viverli (Dalla parte di Swann, edizione Mondadori tradotta da Giovanni Raboni pp. 116-7).

proust-cover-piccolaPer la preparazione dell’esame gli aspiranti scrittori professionisti potrebbero consultare questo utile libretto, divulgativo eppure originale, acuto nella sua ricerca mirata su alcuni aspetti importanti, non sempre affrontati nella pur sterminata saggistica dell’opera proustiana. Si tratta di una raccolta di testi brevi, che si concludono sempre con un passo dell’opera. Inoltre gli autori – otto francesisti studiosi di Proust – sono degli adoratori del maestro, alcuni fino al punto di interiorizzarlo, proprio come faceva lui coi suoi oggetti/soggetti, per carpirne i segreti e sviluppare in se stessi il suo stile, per mettere a contatto diretto le emozioni che descrive con le proprie emozioni. I testi sono di facile lettura, dunque molto indicati per una introduzione critica a Proust, e costituiscono al contempo una preziosa miniantologia, perdipiù commentata. E’ divisa per sezioni, ognuna curata da un autore, Il tempo, I personaggi, Il suo mondo, L’amore, L’immaginario, I luoghi, Proust e i filosofi, Le arti. Ogni sezione è composta da 4-5 saggi, dove un aspetto dell’opera viene analizzato, talvolta con inserti di esperienza personale dell’autore-lettore della Recherche. Si parla di stile, di viaggi nella psiche più proibita, delle fanciulle in fiore, del demone della gelosia (che costituisce uno dei grandi mostri della discesa agli inferi della Recherche); si parla della madeleine, uno dei miti dell’immaginario letterario moderno, e della storia d’amore di Swann e Odette, forse il racconto amoroso, introspettivo ma anche di pura fiction, più famoso della letteratura. Proprio su questo romanzo all’interno del romanzo (Un amore di Swann) uno degli autori, Nicolas Grimaldi (il mio preferito, colui che si è addentrato con più lucidità nei territori della Recherche) ha focalizzato uno degli aspetti della diabolica fenomenologia amorosa di Marcel Proust: Swann si innamora follemente di Odette, perché la identifica con un personaggio di Botticelli, Sefora, figlia del sacerdote Ietro che sposerà Mosè, anche se in realtà ci fa capire che la donna reale, in carne e ossa, ha ben poco di quella trasfigurata nella pittura. Ma a Swann non interessa, lui cerca in Odette il capolavoro, e il suo amore travalica il reale, si innamora dell’amore stesso, cioè ama il sentimento in sé, non la donna vera, perché dentro ha già l’immagine che vive di vita propria, e cerca un soggetto adatto cui applicarla. Un racconto per certi aspetti micidiale sull’idealizzazione che si nutre di illusioni, di sogni, di fantasmi, e di delusione quando ci si avvicina troppo all’obiettivo reale, scambiando il tutto per “amore”.

Insomma, Un’estate con Proust non può essere l’unico testo di studio per l’esame, anche perché lo scrittore professionista non è un critico, ma costituisce un “primo approccio” ideale, perché stimola e in un certo senso facilita la lettura, che andrebbe interiorizzata e metabolizzata, obbligando la mente e lo spirito a sviluppare la propria ricerca, che è il vero obiettivo dell’esame, e dell’agognata iscrizione alla bottega di scrittura professionale.

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“Culla nuova mai usata, neonato morto”: Lucia Berlin https://www.carmillaonline.com/2016/07/20/culla-nuova-mai-usata-neonato-morto-lucia-berlin/ Wed, 20 Jul 2016 21:06:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32055 di Sandro Moiso

berlin Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016, pp. 460, € 18,50

Immaginate una scossa di terremoto, seguita da uno sciame sismico. Di intensità sempre più forte. Questo è l’effetto che provoca sul lettore il progressivo addentrarsi nelle storie di Lucia Berlin. Poiché questi racconti ruotano implacabilmente intorno alla vita dell’autrice americana, l’altro paragone che si può fare è quello di un’operazione a cuore aperto. Drammatica e chirurgicamente impeccabile allo stesso tempo.

L’opera narrativa di Lucia Berlin, nata in Alaska nel 1936 e morta nel 2004 in California, rappresenterà per molti un’incredibile sorpresa, in cui [...]]]> di Sandro Moiso

berlin Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, Bollati Boringhieri 2016, pp. 460, € 18,50

Immaginate una scossa di terremoto, seguita da uno sciame sismico. Di intensità sempre più forte.
Questo è l’effetto che provoca sul lettore il progressivo addentrarsi nelle storie di Lucia Berlin. Poiché questi racconti ruotano implacabilmente intorno alla vita dell’autrice americana, l’altro paragone che si può fare è quello di un’operazione a cuore aperto. Drammatica e chirurgicamente impeccabile allo stesso tempo.

L’opera narrativa di Lucia Berlin, nata in Alaska nel 1936 e morta nel 2004 in California, rappresenterà per molti un’incredibile sorpresa, in cui il costante elemento autobiografico si sviluppa in un dramma personale e collettivo in cui il lavoro (quasi sempre umile e mal pagato), l’alcolismo e la dipendenza, la condizione femminile, i sentieri tortuosi e complessi dei legami affettivi e famigliari, l’emarginazione degli immigrati, il ricordo di un’infanzia segnata dalle violenze verbali e fisiche ma anche da momenti di incredibile ilarità danno vita ad uno degli affreschi più vivaci della vita negli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale alla fine del XX secolo.

Paragonabile, per molti versi, ad autori ed autrici come Raymond Carver, Flannery O’Connor, Charles Bukowski, Annie Proulx, cui si aggiungono gli echi di Mary McCarthy, Joan Didion e Susan Minot, l’autrice statunitense ha saputo ricavarsi uno spazio e definire uno stile unici e personali sulla scena letteraria nordamericana, in cui il disincanto e l’ironia dello sguardo sembrano stemperare i drammi dell’esistenza, salvo poi cogliere il lettore di sorpresa con autentici pugni nello stomaco. Spietati e incontrollabili come l’alcolismo e tutte le altre dipendenze.

Si potrebbe parlare, per molti dei suoi racconti, di una “disincantata pietà” che si manifesta in alcuni luoghi cardine della vita quotidiana di un universo femminile quasi sempre proletario o sotto proletario: la famiglia, le lavanderie automatiche, il pronto soccorso in cui si lavora o presso il quale si accompagnano i figli o le vittime di incidenti più o meno gravi. Dove “la paura, la povertà, l’alcolismo, la solitudine sono malattie mortali. Emergenze a tutti gli effetti.” (Taccuino del pronto soccorso, 1977, pag. 112)

Oppure sugli autobus su cui viaggiano le donne delle pulizie che lavorano per pochi dollari presso le famiglie di una “middle upper class” dalla vita allo stesso tempo agiata e miserabile.
Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. E’ proprio come leggere un libro.” (Lutto, pag. 272)

Forse è anche per questo motivo che l’edizione originale di questa antologia, che raccoglie quarantatre dei settantasette racconti pubblicati in vita dalla Berlin, si intitola “A Manual for Cleaning Women. Selected Stories”, un manuale per donne delle pulizie. Un titolo perfetto, preso proprio da uno dei racconti contenuti nell’antologia, in grado di riassumere pienamente il punto di vista e l’ironia dell’autrice, che l’editore italiano ha sostituito con uno forse più indirizzato ad un pubblico femminile. Sbagliando.

C’è il lavoro con tutte le sue contraddizioni e difficoltà in queste storie. E c’è il Messico come luogo di luce e di desolazione. E c’è il rancore per una famiglia di pazzi alcolisti texani (quella della madre), rovinata dalla Grande Depressione. E c’è una sorella più giovane malata terminale di cancro, odiata nell’infanzia poiché protetta dalla nonna materna e abbracciata, fisicamente e mentalmente, negli ultimi anni di vita. Ci sono i figli (quattro, frutto di differenti matrimoni) e i nipoti. E c’è il padre, un ingegnere minerario che si sposta con la famiglia attraverso tutti i possibili campi di estrazione dell’America del Sud e del Nord per il suo lavoro, con una moglie (la madre di Lucia) sempre più dedita all’alcol e alla cinica osservazione del mondo e delle figlie.

E allora la scrittura diventa davvero un modo di far pulizia (attenzione: non di rimettere ordine) in una vita al limite, in cui ogni istante si dilata in un’infinità di storie, di ricordi, di osservazioni che permettono all’autrice di tornare e ritornare ripetutamente sugli stessi temi e momenti per renderli sempre più chiari, puliti, lucidi. Fino a giungere a rivelazioni abbaglianti e, quasi sempre, dolorose.
Un metodo che richiede spesso a chi scrive di sdoppiarsi, per poter narrare in prima persona ma da due differenti punti di vista la stessa storia.

Una sorta di personalissima Recherche du temps perdu in cui, come nella migliore letteratura americana, i fatti e le azioni precedono le parole contribuendo a dar vita ad un’analisi dell’Io e della personalità che non ha nulla di astratto. “B.F. si reggeva alla parete e alla ringhiera, tossiva ed era senza fiato dopo tre i gradini. Era un uomo enorme, alto, grassissimo e molto vecchio. Mentre era ancora fuori a riprendere fiato, sentivo già il suo odore. Tabacco e lana sporca, sudore marcio da alcolizzato. Aveva occhi celesti e sorridenti iniettati di sangue. Mi è piaciuto subito […] Sentivo ancora la sua puzza. Quel fetore era una madeleine per me, mi ha riportato alla memoria il nonno e lo zio John, tanto per cominciare” (Io e B.F., pag.435)

Io esagero molto, e confondo la finzione con la realtà, ma non dico mai bugie” afferma la Berlin in uno dei suoi racconti1 e già questo potrebbe costituire uno degli elementi della sua poetica disvelata . Ma tutti i suoi testi sono disseminati qua e là di elementi utili a comprenderne personalità, poetica e stile.

berlin 1Quanto a me…io non ho pietà.” (Mamma, pag. 358)
Non me ne frega un tubo dei vostri sentimenti. Sono qui per insegnarvi a scrivere. In realtà si può mentire e allo stesso tempo dire la verità” (Qui è sabato, pag. 425)
La mia natura è tenebrosa. Ho conosciuto la morte, la violenza. Il più delle volte non faccio nemmeno caso a quel momento del giorno in cui il sole entra nella stanza” (Panteón de dolores, pag.286)
Non mi dispiace dire cose orribili se riesco a renderle divertenti” (Silenzio, pag. 370)

E di cose orribili ce ne sono tante da raccontare nella vita di Lucia: dalle cliniche clandestine per gli aborti in Messico (dove in realtà negli anni ’50 si recavano un sacco di donne americane di tutte le età)2 allo studio dentistico del nonno, in Texas, dove assistiamo ad una vicenda degna del migliore Landsdale.3

Ma ciò che salta sempre, immediatamente agli occhi è che, nonostante tutto, esiste sempre una fondamentale differenza tra la condizione dell’uomo e quella della donna e tra quella dello scrittore e quella della scrittrice. Anche nell’alcolismo.
Bukowski, per esempio, può narrare le sue disgraziate avventure alcoliche e le risse connesse e poi permettersi di piombare addormentato dove capita e con chi capita.

I personaggi femminili della Berlin anche quando sono affetti, come lo fu lei per anni, dall’alcolismo cronico, devono badare ai figli, alla famiglia o a ciò che ne resta.
Finito di bere, si sentì meglio, andò in lavanderia e caricò una lavatrice. Poi in bagno, portandosi dietro la bottiglia. Si fece la doccia, si pettinò, indossò dei vestiti puliti. Ancora dieci minuti. Controllò che la porta fosse chiusa a chiave, si sedette sul water e scolò il resto della vodka. Quell’ultimo sorso non solo la fece sentire bene, ma anche un po’ brilla. Spostò i panni dalla lavatrice all’asciugatrice. Stava mescolando il succo d’arancia scongelato quando Joel entrò in cucina strofinandosi gli occhi. «Non ho calzini, e neanche camicie». «Ciao, tesoro. Mangia un po’ di cereali. Finisci la colazione, fai la doccia e i vestiti saranno asciutti». Gli versò un po’ di succo, un altro bicchiere per Nicholas, fermo in silenzio sulla soglia. «Come diavolo sei riuscita a procurarti da bere?» La scansò e si versò una scodella di cerali. Tredici anni. Era più alto di lei […] I suoi figli presero i libri e gli zaini, la salutarono con un bacio e uscirono di casa. Lei rimase ferma davanti alla finestra e li guardò andare verso la fermata. Aspettò finché non li vide salire sull’autobus, che poi ripartì alla volta di Telegraph Avenue. A quel punto uscì di casa, diretta al negozio di alcolici all’angolo. A quell’ora era aperto.” (Incontrollabile, pag. 180)

Specialista della sintesi, di cui “Il mio fantino” un racconto di soli cinque paragrafi costituisce un ottimo esempio, Lucia Berlin probabilmente non solo ha costituito uno dei segreti meglio custoditi della letteratura americana, ma anche un esempio di rimozione di una donna troppo forte nella sua determinazione a ripulire letteratura e realtà, soprattutto femminile, dagli orpelli tesi a mascherarle per riempirli di significati e contenuti che spesso non hanno. Soprattutto quando fingendosi realtà la letteratura finisce solo col mentire.

Rappresentante del “Dirty Realism” degli anni ’80, l’autrice sembra averlo voluto portare oltre i suoi stessi limiti toccando anche temi inerenti gli aspetti più scomodi della realtà americana quali le brutalità poliziesche e del sistema carcerario, gli abusi consumati in famiglia sul corpo delle bambine, la repressione degli esponenti della Sinistra e l’emarginazione degli immigrati messicani. Sempre, comunque, eliminando ogni traccia di sentimentalismo e di epica dalle sue narrazioni. Sia in quelle più intime che in quelle più corali.
Tanto che gli avvisi che compaiono nelle lavanderie automatiche che così spesso fanno da sfondo ai suoi racconti (come quello riportato nel titolo di questa recensione), potrebbero rappresentare l’estrema sintesi della sua poetica.

In questo senso i racconti della Berlin potrebbero costituire un autentico manuale di scrittura, soprattutto per tutti quegli scrittori che della prolissità e dell’eccesso di intrighi sembrano aver fatto oggi la loro bandiera, per imparare a tagliare il superfluo e concentrarsi su ciò che conta. Con onestà, coerenza, gusto e disincanto. E un tantino di umiltà, ma mica toppa perché se no diventa un vezzo.

Ora sarebbe bello veder tradotti in italiano anche gli altri racconti di Lucia Berlin, magari in un’altra antologia che riprenda però il titolo originale qui tralasciato…


  1. Silenzio, pag. 375  

  2. Il silenzio era tale che mi sorprese scoprire che nella mia stanza c’erano venti donne, tutte americane. Tre di loro erano ragazze, quasi bambine, accompagnate dalle rispettive madri. Le altre erano enfaticamente sole, sedute, leggevano riviste. Quattro donne avevano più di quarant’anni, forse più di cinquanta…gravidanze in meno pausa, immaginai, e infatti così era. Le altre sembravano avere poco meno o poco più di vent’anni. Tutte apparivano spaventate, imbarazzate, ma soprattutto sembravano vergognarsi. Come se avessero fatto qualcosa di terribile. Vergogna. Fra loro non sembrava esserci nessun legame di solidarietà; il mio ingresso venne a malapena notato. Una donna messicana incinta passava in terra uno straccio sporco e ci guardava con palese curiosità e disprezzo. Provai una rabbia irragionevole nei suoi confronti. Cosa racconti al tuo prete, stronza? Che non hai un marito e ti ritrovi con sette figli… Che devi lavorare in questo brutto posto perché altrimenti muori di fame? Oddio, probabilmente era vero. Provai stanchezza, un’immensa tristezza, per lei, per tutte noi in quella stanza” (Morsi di tigre, pag.93)  

  3. Il Dottor H.A. Moynihan  

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Alle origini della narrativa europea dell’homo epistemologicus https://www.carmillaonline.com/2015/07/03/alle-origini-della-narrativa-europea-dellhomo-epistemologicus/ Fri, 03 Jul 2015 21:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22901 barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i [...]]]> barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i parametri alla base delle diverse epoche culturali.

Occorre iniziare da una questione terminologica: il termine “contemporaneo” viene utilizzato dall’autore per evidenziare come la produzione narrativa trattata nel saggio si differenzi rispetto alle proposte proprie dell’epoca moderna. Altrove, Barilli propone un ampliamento della nozione di “postmoderno”, fino a renderlo paritetico al termine “contemporaneo”, estendendolo sino a farlo partire dal finire del Settecento. (Tutto sul postmoderno, 2013). Vale la pena, in questo caso, mantenere ancora il tradizionale ricorso al termine contemporaneo, come d’altra parte decide di fare lo stesso autore sin dal titolo del saggio.
La distinzione tra moderno e contemporaneo, sottolinea l’autore, risulta evidente se si prende in esame la rivoluzione epistemologica che porta a modalità totalmente nuove di concepire il comportamento umano nei confronti della realtà esterna. Ad un homo oeconomicus, caro alla modernità, in omologia al positivismo ed alle forme narrative proprie del realismo-naturalismo, succede un homo epistemologicus, intento ad indagare la sua soggettività profonda. All’analisi della produzione narrativa dell’homo oeconomicus, l’autore ha dedicato Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna (2003) e La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj (2010), all’attuale testo spetta di affrontare la produzione narrativa europea dell’homo epistemologicus.
L’attenzione rivolta agli eventi minimali del vissuto, alla corrente di coscienza in evidente omologia con l’elettromagnetismo dell’età contemporanea, sancisce la fine dell’esigenza moderna di orientare gli atti di coscienza verso finalità positive: “Succede allora che, nello statuto della narrativa contemporanea, quello che secondo la Poetica aristotelica sarebbe pur sempre il primo ingrediente, l’azione, la diegesi, il mito (…) fa un passo indietro, mentre prevale l’ethos, cioè appunto l’analisi coscienziale, con la conseguente esclusione che si possa raggiungere un esito finale”. Come avviene ai coetanei in ambito tecnico-scientifico, i narratori contemporanei possono tralasciare i “grandi” avvenimenti, differenziandosi così dalle modalità moderne.
Nell’introduzione, l’autore non manca di motivare diverse esclusioni eccellenti tanto tra i predecessori ed i coetanei degli autori analizzati, come ad esempio Gabriele D’Annunzio, Henry James, Joseph Conrad e Thomas Mann, quanto i limiti “in avanti”, oltre ai quali non si spinge la trattazione.

Tra gli autori passati in rassegna da Barilli, Anton Cechov risulta essere forse il più problematico da inserire nella compagine di narratori entrati a pieno titolo tra i fondatori della narrativa europea contemporanea. Più giovane di un paio di decenni rispetto agli altri protagonisti trattati dal testo, Cechov può essere considerato un autore di transizione che mantiene ancora qualche legame con le caratteristiche tipiche del moderno, come ad esempio la persistenza di tracce dell’universo pauperistico ottocentesco ma, al contempo, non manca di fare i conti con “questioni contemporanee” come la difficoltà di amare e di dar vita e mantenere rapporti di coppia. Barilli sostiene che mentre “l’amore spontaneo” rappresenta una dinamica psicologica tipica della stagione moderna del naturalismo, in ambito contemporaneo si assiste all’intervento di una sorta di “freno autocritico” che porta l’individuo ad indagarsi allo specchio: l’atto di amare diventa un’impervia scalata che sottopone ostacoli a ripetizione, soprattutto interni. A proposito della permanenza, nel russo, di questioni pauperistiche, occorre dire che, nei suoi racconti, egli si limita però ad indicare genericamente la causa degli ultimi, senza mai giungere ad una critica sociale esplicita e puntuale. I suoi personaggi possono anche lasciarsi andare ad un minimo di empatia per i deboli ma, dopo averlo fatto, si rifugiano nel dibattito interno, psicologico, in linea con le caratteristiche dell’homo epistemologicus, dell’età contemporanea: “l’impegno verso fini sociali può solo essere agitato, enunciato a livello programmatico, ma mai imbracciato come effettiva via da percorrere”. Sul versante teatrale, se Cechov può dirsi contemporaneo per l’abilità nell’analisi del vissuto psichico, dunque a livello contenutistico, molto meno può esserlo per questioni formali; il teatro cechoviano fatica a reggere il confronto con le grandi prove del teatro novecentesco, non raggiungendo mai, sostiene Barilli, i livelli pirandelliani, pur se, ad onor del vero, conseguiti dall’italiano successivamente alla scomparsa del russo.

Con tutti questi “limiti” che lo rendono, per alcuni aspetti, in bilico tra moderno e contemporaneo, il suo inserimento nel gruppo indagato, si rivela utile a Barilli per poter introdurre gradualmente il ben più innovativo James Joyce, a partire dall’analisi delle analogie e delle differenze tra i due. Non mancano, infatti, analogie tra gli scritti di Cechov e la prima opera in prosa di Joyce, Gente di Dublino. Sebbene l’Irlanda non conosca la servitù della gleba, e dunque l’irlandese, a differenza del collega russo, non sia tenuto a fare i conti con la tematica ottocentesca del pauperismo, se si confrontano i protagonisti, le somiglianze di certo non mancano. In Cechov domina un ceto medio composto da ex proprietari andati in malora ed eterni studenti ed, a ben guardare, tale mondo non è molto diverso da quello dei personaggi mediocri ad un passo dal fallimento, che si rifugiano nell’alcool, che popolano Gente di Dublino. Tanto il russo quanto l’irlandese si guardano bene dallo “sporcarsi le mani” con i grandi eventi delle rispettive terre; i due preferiscono non dare troppo rilievo a tale ambito. In linea con la logica della narrativa contemporanea, così come Cechov evita di battersi contro la burocrazia statale e per il riscatto delle classi subalterne appena uscite dalla servitù della gleba e Joyce si sottrae dal prendere parte alla battaglia per l’indipendenza contro gli inglesi, anche Marcel Proust si mostra refrattario a lasciarsi coinvolgere dall’affaire Dreyfus che scuote la Francia dell’epoca. In tutti tre i casi le grandi questioni vengono tenute sullo sfondo preferendo a queste l’indagine psichica dei personaggi o il perdersi nella narrazione dei dettagli. In fin dei conti i grandi eventi storici finiscono per essere abbassati al ragno di dettagli che, mestamente, prendono posto tra altri dettagli: sono presenti ma pari grado alle inezie. A tal proposito, sostiene l’autore, “L’homo oeconomicus, che dominava la scena dell’ottocentesco teatro ‘moderno’ non aveva tempo per concedersi questi spazi fuori rotta, non così il contemporaneo homo epistemologicus che sa bene come il qui e ora sia solo una provvisoria e momentanea cresta dell’onda, incalzata da altre onde passate e future che si succedono senza tregua”.

Mentre la logica dell’homo oeconomicus è di tipo selettivo, nell’Ulisse joyciano, coerentemente con la logica contemporanea dell’homo epistemologicus, si intende afferrare la totalità degli accadimenti. A tal proposito Barilli indica un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo William James, volto a dare il massimo rilievo alla nozione di flusso di coscienza in opposizione all’economicità moderna. La narrativa moderna impone una selezione rigorosa, volta a cogliere ed a dare rilievo soltanto agli elementi utili all’affermazione del singolo, al soddisfacimento dei suoi bisogni materiali, collocando in subordine gli effetti psicologici, da tutto ciò “deriva anche la necessità di costruire un andamento, una sequenza delle occasioni, dei passi da compiere, il che corrisponde a quanto viene definito usualmente coi termini della trama, del ‘mythos’ nell’accezione originale aristotelica”. Nella narrativa antieconomica contemporanea, pertanto, alla logica lineare e consecutiva ne subentra una a “gorgo”. Se nell’epistemologia di James si vuole che la totalità di sentimenti e percezioni si presenti qui e ora, in Henri Bergson, invece, viene introdotto “un asse verticale-diacronico”, come a dire che molte di quelle sensazioni, le epifanie joyciane, vengono immagazzinate in una sorta di inconscio freudiano dal quale possono essere recuperate “solo se sollecitate da qualche impressione rinvenibile nel qui ed ora”.

Proust, pur essendo un autore molto diverso da Joyce, vanta con esso alcuni elementi in comune. In linea con la cultura contemporanea che intende ricavare “fiumi di energia” anche dal frammento minimo di qualsiasi materia, entrambi si focalizzano sul materiale d’esperienza che meglio conoscono; Joyce insiste sul piccolo mondo di Dublino, mentre Proust sul mondo salottiero parigino. Così come Barilli individua un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo James, analogamente, riscontra un’omologia tra il pensiero di Bergson e la trama di idee su cui si basa la Recherche di Proust. Nell’ambito della medesima epistemologia contemporanea, volta a superare la logica selettiva e narratologica moderna, che raggiunge il culmine nel corso dell’Ottocento, le coppie James-Joyce e Bergson-Proust, rappresentano, secondo Barilli, due differenti procedure. La prima coppia adotta un criterio di “attualismo assoluto”, costretto, inevitabilmente, a fare i conti con una perdita del vissuto che può, però, essere richiamato. L’urgenza di questi recuperi induce Joyce a procedere per brevi attimi, adottando tecniche di registrazione che giungono a spezzare le frasi ed a sperimentare il ricorso alle onomatopee e le pratiche del cislinguismo finendo col negare, in definitiva, ogni possibilità diegetica. La via Bergson-Proust risulta decisamente differente. In James il dato irrilevante resta a premere nelle retrovie ma può riaffiorare nel presente, in Bergson il dato irrilevante affonda lungo l’asse verticale celandosi alla vista e lasciando il primo piano alle condotte abituali. In Bergson una parte della memoria involontaria, le sensazioni inutili ed antieconomiche, sottratta al controllo dell’intelligenza, si deposita in un sottofondo remoto, simile all’inconscio freudiano, mentre in primo piano, a livello orizzontale, domina una “memoria in atto” che fa corpo con i nostri gesti, che, nella scrittura proustiana si traduce nel ricorso a lunghi tratti di narrazione “simil-moderna”. Proust non ricorre alla registrazione diretta, prelinguistica, joyciana, egli struttura un’architettura narrativa complessa e labirintica pur parimenti antieconomica nel mirare alla riemersione di momenti di assoluta gratuità. Joyce, in linea con la logica di James, in funzione dell’immediatezza, deve ricorrere a testimoni, Proust, invece, alla meditazione individuale.

Ai citati narratori pienamente contemporanei, Joyce e Proust, il saggio aggiunge Virginia Woolf e Robert Musil. Nel, 1922, con l’uscita de La stanza di Jacob, si compie la svolta che porta la scrittrice ad entrare con la sua opera pienamente in ambito contemporaneo. La moltiplicazione dei soggetti percipenti permette alla Woolf di accumulare un’ampia massa di dati ove si mescolano elementi ambientali con altri di natura antropologica. Il contatto con Thomas Stearns Eliot risulta importante non solo per le suggestioni che ne riceve, ad esempio dal suo processo di ibridazione tra prosa narrativa e poesia ma, sostiene Barilli, anche per il collegamento, seppure indiretto, che la scrittrice finisce per avere con la produzione filosofica di Francis Herbert Bradley, grazie al fatto che questa era stata studiata da Eliot. Una filosofia che “predica una immersione totale nell’esperienza come in un bagno unificante, in cui spariscono i confini tra i soggetto e l’oggetto, i due momenti mescolano le loro acque in un tutto unico, che può essere una pienezza di dati o anche una notte oscura, comunque qualcosa di ultimativo e finale”.
A Musil tocca chiudere la rassegna degli autori trattati dal saggio ed, a differenza degli altri, egli è in effetti l’unico a stabilire un collegamento diretto con una delle figure fondamentali che segnano il passaggio dal moderno al contemporaneo; si tratta dell’epistemologo Ernst Mach. Musil, infatti, stende la sua tesi di dottorato proprio sulla produzione filosofica di Mach. In questo caso la presenza fissa e costante dell’oggetto lascia il posto ad uno sciame di frammenti. Musil ne deriva una concezione in cui oggetto e soggetto risultano inscindibili, essi diventano “funtivi di un’azione unica, collegati da un nesso relazionale”. In L’uomo senza qualità, del 1925, il protagonista dell’opera risulta essere, secondo la lettura barilliana, “il portatore privilegiato ed esemplare di ogni possibile concomitanza con la grande rivoluzione epistemologica di fine Ottocento”. Si giunge davvero ad un passo da una “puntuale applicazione dell’empiriocentrismo di Mach e, assieme ad esso, di ogni altra concezione fondata sul principio di indeterminazione, tale da ‘porre a casa’ l’universo e le sue fondamenta”.

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Come salvare la memoria del mondo con una canzone https://www.carmillaonline.com/2014/07/10/come-salvare-memoria-mondo-canzone-volta/ Wed, 09 Jul 2014 22:08:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15869 di Sandro Moiso

maurizio_blatto_1Maurizio Blatto, Mytunes. Come salvare il mondo una canzone alla volta, Baldini&Castoldi, Milano 2014, pp. 460, € 16,00

Il tizio nella foto qui accanto lo conosco ed è l’autore del libro. E’ matto. Per la musica, possibilmente rock. Non fatevi ingannare dall’aria per bene, da bravo ragazzo appena uscito dal Liceo. O quasi, considerato che è nato nel 1966. Infatti l’ho conosciuto quando frequentava ancora l’ultimo anno di Liceo. E io, con trent’anni di meno rispetto ad ora, facevo il DJ all’Hiroshima mon amour di Torino.

Non sono ancora del tutto sicuro di essere stato l’unico colpevole di [...]]]> di Sandro Moiso

maurizio_blatto_1Maurizio Blatto, Mytunes. Come salvare il mondo una canzone alla volta, Baldini&Castoldi, Milano 2014, pp. 460, € 16,00

Il tizio nella foto qui accanto lo conosco ed è l’autore del libro. E’ matto. Per la musica, possibilmente rock.
Non fatevi ingannare dall’aria per bene, da bravo ragazzo appena uscito dal Liceo. O quasi, considerato che è nato nel 1966.
Infatti l’ho conosciuto quando frequentava ancora l’ultimo anno di Liceo.
E io, con trent’anni di meno rispetto ad ora, facevo il DJ all’Hiroshima mon amour di Torino.

Non sono ancora del tutto sicuro di essere stato l’unico colpevole di ciò che poi è successo. In fin dei conti era stato lui a salire nella cabina da cui, settimanalmente, assordavo gli avventori con il rock americano degli anni ottanta e sessanta.
Blasters, Dream Syndicate, True West, Los Lobos, Green On Red, Tail Gators, Wipers e True Believers mixati con Creedence Clearwater Revival, Byrds, Buffalo Springfield, Kenny and the Kasuals, Thirteenth Floor Elevators e Sonics. Solo per citarne alcuni. Ma a lui piacevano gli Smiths. Generazioni diverse.
Anche se poi, nel tempo, ho imparato ad apprezzare gli Smiths e anche Maurizio ha iniziato ad ascoltare di più i suoni americani.

Mi chiese cosa potevo consigliargli di leggere, perché, mi disse, ciò che gli passava sotto il naso a scuola lo irritava. No, forse disse proprio che l’insegnante d’italiano gli rompeva i coglioni.
Anch’io all’epoca insegnavo già. Lettere alle scuole superiori, come per il resto della mia vita. Ma, incapace come sono sempre stato di consigliare un autore della tradizione patria, gli suggerii Incontriamoci a Moontown di uno scrittore americano minore: Jay Gummerman. Un minimalista.

E lì, probabilmente, causai il danno. Irreparabile.
Perché non so se il ragazzo scrivesse già prima, ma aveva talento da vendere e col tempo lo tirò fuori. Sia per quanto riguarda il gusto musicale, sia per la scrittura.
Diventando uno dei giornalisti musicali più conosciuti in Italia.
E il libro in questione è il risultato della sua pluriennale collaborazione con la rivista Rumore.

mytunes77 canzoni commentate e collegate a momenti di vita, a frammenti di storia e a vicende della musica rock, pop, soul, punk, wave e disco; dai Kinks a Donna Summer e da John Fogerty ai PIL.
Una stralunata, personalissima e coltissima playlist che fa sparire quasi ogni altra pubblicazione del genere. Perché non è una storia del rock e non è un elenco dei settanta o cento o cinquecento o mille migliori dischi di sempre. Questa è la storia strampalata e divertentissima di una vita, anzi di più vite.

Sono cresciuto all’interno della mia collezione di dischi”, spara subito in apertura l’autore.
Una passione cui ha dedicato tutto, rinunciando anche ad una probabile e brillante carriera come tagliatore di teste alla FIAT. Un vero critico militante. Un intellettuale organico del rock’n’roll e dei suoi dintorni.
Ma che sa raccontare anche la vita e le storie degli altri.
Da quella di Fuffo, un commilitone napoletano del periodo trascorso al CAR durante la naja, che aveva trasformato il refrain di Fortunate Son dei Creedence in “Chillo lì, chillo lì, è nu guaglione fortunato”, alle vicende dell’incendio di Montreux che diedero origine e senso a Smoke On The Water, celeberrimo brano dei Deep Purple dal riff chitarristico neandertaliano.

Tante storie ed una scrittura intrise di musica, ironia, spirito sabaudo e fustigante capacità critica. Il tutto espresso nella forma del migliore minimalismo.
Senza fronzoli e senza orpelli. Verrebbe da dire senza pietà, ma anche senza la saccenteria che spesso contraddistingue chi si trova a rivestire i panni del critico o del giornalista. Pop music allo stato puro.

Nel leggerlo, mi è tornato in mente Lester Bangs1 e, anche se molti hanno cercato di scimmiottarlo, soltanto Maurizio Blatto è riuscito qui in Italia ad emularlo nello stile e nella capacità di raccontare un suono o un gruppo o una canzone.
Però, a voler fare il colto, mi viene anche in mente Marcel Proust e il suo universo in una tazza di tè; anche se qui la Recherche non ha inizio dal ricordo di un’infanzia a Combray, ma a partire da un’enorme autoradio a cassette.

Un modello ai limiti dell’immaginabile. Estraibile come tutte quelle dell’epoca, godeva di un insolito benefit: Se collocate le pile nell’apposito vano, poteva funzionare come walkman. La casa produttrice forniva anche una sorta di tracolla dagli eleganti colori gialli e neri per consentirne un utilizzo da passeggio. Diventava una specie di borsello con le dimensioni e la pesantezza di un tostapane. Una follia. Tu andavi in giro con questa bestia di metallo e potevi allegramente ascoltare le tue compilation su nastro. Non credo sia mai stato utilizzato in questa modalità. La guardai e pensai «Sarò io il primo»”.

Una Recherche rivisitata, alleggerita e condensata alla luce stralunata dei fratelli Marx, che potrebbe costituire, per chiunque ami il rock e i suoi sottoprodotti sociali e culturali, una delle migliori letture possibili per separarsi, almeno durante l’estate, dalle stronzate politiche, mediatiche e propagandistiche con cui il governo Renzi cercherà di ammorbarci la vita quotidianamente.
Al mare, ai monti o anche semplicemente rimanendo a casa propria.
Buona lettura!


  1. Giornalista musicale americano, nato nel 1948 e scomparso nel 1982, che ha letteralmente rivoluzionato il settore del giornalismo dedicato alla music rock. Ha collaborato con Rolling Stone, Creem, Village Voice e New Musical Express. I suoi scritti sono stati pubblicati in Italia da Minimum Fax e Arcana  

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Vermeer e la fabbrica dei miti https://www.carmillaonline.com/2013/10/16/vermeer-la-fabbrica-dei-miti/ Tue, 15 Oct 2013 22:33:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9799 di Mauro Baldrati

Vermeer_originalSappiamo che Swann, uno degli eroi – benché assai poco eroico – della Recherche, sta preparando da molto tempo un saggio sul pittore Vermeer. Ma è un progetto che non porta, né porterà, a termine. Perché Swann è pigro, indolente, incapace di passare all’atto, come molti dilettanti. E’ raffinato, colto, ma alle domande irritate della fidanzata (e futura moglie) Odette, di spiegarle cosa c’è di veramente bello in Vermeer, non sa, o non vuole rispondere. Più probabile la seconda ipotesi, conforme alla proverbiale indolenza del nostro, e alla sua forma di modestia fondamentalista, che in realtà è la [...]]]> di Mauro Baldrati

Vermeer_originalSappiamo che Swann, uno degli eroi – benché assai poco eroico – della Recherche, sta preparando da molto tempo un saggio sul pittore Vermeer. Ma è un progetto che non porta, né porterà, a termine. Perché Swann è pigro, indolente, incapace di passare all’atto, come molti dilettanti. E’ raffinato, colto, ma alle domande irritate della fidanzata (e futura moglie) Odette, di spiegarle cosa c’è di veramente bello in Vermeer, non sa, o non vuole rispondere. Più probabile la seconda ipotesi, conforme alla proverbiale indolenza del nostro, e alla sua forma di modestia fondamentalista, che in realtà è la vera classe di chi non si profonde in spiegazioni o esibizioni della propria erudizione.

Dunque cosa c’è di veramente bello nel pittore olandese secentesco? La luce straordinaria dei fiamminghi? Il loro delicato iperrealismo? La trasparenza celestiale dei colori? Chissà se le migliaia di spettatori che, in febbraio, entreranno nel museo privato bolognese Palazzo Fava, in una grande mostra su Vermeer che, dopo molti anni, fa uscire Bologna dal suo provincialismo e dall’autoesclusione dalle mostre internazionali (grazie a una banca), se lo chiederanno.

Per la verità la mostra non è monografica. Ci saranno altre tele di maestri fiamminghi, Rembrandt, Hals, Ter Borch, Claesz, Van Goyen, Van Honthorst, Hobbema, Van Ruisdael, Steen, ma chi tira è lui, Vermeer. Il suo capolavoro La ragazza con l’orecchino di perla avrà un salone interamente a disposizione, con altissimi soffitti a cassettoni e affreschi di Carracci. Su una parete di questa grande sala sarà posizionato, in una teca climatizzata, da solo, il piccolo quadro di cm 39 X 40.

vermeer_scarlettA dire il vero questo non era il titolo originale del quadro. E’ stato cambiato. Vermeer lo chiamò Ragazza col turbante. Ma è un dettaglio trascurabile. Ora Vermeer è diventato un personaggio pop, e deve sottostare alle regole poco democratiche del marketing selvaggio. Un libro di successo, che ha rinominato il quadro, di Tracy Chevalier (ottimo peraltro, intrigante, ben scritto e piacevole), e un film interpretato dalla superstar hollywoodiana Scarlett Johansson, hanno generato una concatenazione di macchine produttive di immaginario, pubblicità, gossip, che è diventata macchina del tempo, ha fatto un salto di alcuni secoli, ha prelevato Vermeer e l’ha catapultato nel sistema dell’entertainment e della fabbrica dei miti.

Non che il pittore fosse poco conosciuto, o sottostimato. E’ uno dei grandi maestri dell’età dell’oro dei fiamminghi. Ma era lo stesso prima? Cosa pensava di lui Odette, ragazza ordinaria, ignorante, bugiarda, la musa incomprensibile del raffinatissimo Swann? Dietro la sua esasperata domanda: cosa c’è di veramente bello in Vermeer si nasconde la battuta: insomma smettila di rompere con ‘sto Vermeer! E la sua maestra di vita, la petulante, ricchissima, feroce Madame Verdurin, avrebbe apprezzato il pittore solo se adeguato alla sua visione egoistica della moda, della tendenza, e mai, mai, se oggetto di culto per intellettuali d’élite.

Così, accanto agli spettatori che riusciranno a prenotare un biglietto per la mostra, ci saranno Odette e Madame Verdurin, a porsi con loro la domanda. Forse Madame Verdurin non se la porrà, essendo incapace di provare sentimenti che non siano l’astio, il disprezzo per i chic, la crudeltà verso i deboli, ma si limiterà a cercare di stabilire se il pittore, e la mostra, siano conformi al suo modello di artista non-noioso. Odette e gli altri, invece, forse proveranno quel senso di doloroso straniamento che sempre interviene quando, ebbri di mitopoiesi mediatica, ci troviamo di fronte all’oggetto reale che l’ha generata. Proprio come il Narratore delle Recherche che, dopo giorni e notti e mesi di sogni sul salotto mitizzato dei Guermantes, una volta entrato, si stupisce di non provare nulla di speciale né di elevato, ed è incredulo quando è costretto a constatare che si tratta di persone normali, che parlano in maniera normale.

Ovviamente il quadro non è normale. In quello sguardo Vermeer ci ha messo la vita, il sentimento. Nelle labbra socchiuse della ragazza ci sono promesse, sensualità e persino innocenza. C’è la grazia.

Ma cosa c’è di veramente bello?
Gli spettatori spinti, costretti alla visione dalla fabbrica dei miti, forse riusciranno a sdoppiare la domanda e a chiedersi cosa c’è di veramente bello nella monumentale impalcatura di stelle mediatiche, red carpet, flash di fotografi, articoli entusiasti e tutti uguali, filmati celebrativi, primissimi piani ad alta definizione di volti glamour de-contestualizzati, aggettivi roboanti e omologati, gadget e bel mondo. E la domanda potrebbe diventare: perché non riesco a consumare fino in fondo il veramente bello? Perché questo distacco, questa insoddisfazione? Sono io o è il quadro, così piccoletto in confronto all’enfasi di cui è avvolto?

Non sarà invece che la macchina di fabbricazione del mito mi costringe a nutrirmi del suo prodotto, e mi impedisce di godere dell’unica vera bellezza, quella dell’arte, che ci invia i suoi segni reali, addirittura modesti, mentre siamo travolti dai segni mendaci della mondanità?

Ma è dura. Dubitiamo che Odette de Crécy, la cui pigrizia mentale è seconda solo a quella del suo futuro marito, abbia il tempo, e la pazienza, di porsi una simile domanda.

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Paolo Sorrentino: La grande bellezza https://www.carmillaonline.com/2013/06/09/paolo-sorrentino-la-grande-bellezza/ Sat, 08 Jun 2013 22:03:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6462 di Mauro Baldrati

Sorrentino_Servillo_-apertuMentre digitavo nel campo “cerca” di google: “la grande”… è subito apparso La grande abbuffata. Così ho avuto un flash inaspettato: non sarà che tra i numerosi riferimenti attribuiti all’ultimo film di Sorrentino potrebbe esserci anche il film di Ferreri? Entrambi sono produzioni italo-francesi. Non che sia significativo, ma nel Grande Nulla che si sprigiona da La grande Bellezza, viaggio per immagini in territori urbani desertificati, non potremmo iscrivere anche il deserto esistenziale di vite fallite dei quattro amici che decidono di farla finita mangiando?

Vite fallite. La vita di Jeb Gambardella, il nostro navigatore (e anche narratore) [...]]]> di Mauro Baldrati

Sorrentino_Servillo_-apertuMentre digitavo nel campo “cerca” di google: “la grande”… è subito apparso La grande abbuffata. Così ho avuto un flash inaspettato: non sarà che tra i numerosi riferimenti attribuiti all’ultimo film di Sorrentino potrebbe esserci anche il film di Ferreri? Entrambi sono produzioni italo-francesi. Non che sia significativo, ma nel Grande Nulla che si sprigiona da La grande Bellezza, viaggio per immagini in territori urbani desertificati, non potremmo iscrivere anche il deserto esistenziale di vite fallite dei quattro amici che decidono di farla finita mangiando?

Vite fallite. La vita di Jeb Gambardella, il nostro navigatore (e anche narratore) non sembra all’insegna del fallimento. E’ diventato “il re dei mondani”, conosce tutti i salotti romani più esclusivi, dove entra trionfalmente, e scrive su un importante giornale. Però anche sì. E’ anche un fallito. Come scrittore. Almeno secondo il loro punto di vista, l’unico che concepiscono, che prevede il successo, e quindi il fallimento. Ha scritto un unico libro, molti anni prima, poi più nulla. Qualcuno gli chiede: perché non ne scrivi un altro? Era grande quel libro. Ovviamente non sappiamo se sono complimenti sinceri, essendo il film sovrappopolato di personaggi bugiardi, costruiti. Però Jeb a un certo punto fornisce una risposta interessante e geniale: “Mah, perché esco troppo la sera”.

E’ una risposta che avrebbe potuto fornire anche Swann, uno dei personaggi più importanti della Recherche, e uno dei più amati dal suo autore, Marcel Proust. Perché Jeb è anche questo: uno Swann moderno, così disincantato, così raffinato, così arguto, amico di principesse e di contesse, e soprattutto così pigro. Swann sta scrivendo un saggio su Vermeer, da anni. Ma non lo conclude mai. Proust ci informa che è soggetto a crisi di accidia, si siede al tavolo ma non combina niente. Così si agghinda e se ne va per salotti. Anche Jeb non combina nulla, a parte sprecare tempo. Perché questo è uno dei grandi segnali della Recherche: non il tempo perduto, inteso come nostalgia, come memoria di ciò che è finito, ma tempo sprecato. Lo spreco di tempo, di vita. Proprio come la vita sprecata di Jeb, della quale è anche cosciente, come appare qua e là, tra una scena e l’altra, tra una performance e l’altra. Attimi di riflessione, forse di crisi esistenziali. Ma sono brevi cenni, perché la crisi, se esiste, non si manifesta compiutamente nella body-narrazione del personaggio. Non è diffusa. Bisogna intuirla. Bisogna volerla vedere.

Sorrentino_VerdoneLa grande bellezza è anche un film sulla crisi esistenziali, sul vuoto, sul degrado dei rapporti umani. Ma le infinite sfaccettature, le digressioni narrative sulla pura visionarietà delle scene, dei movimenti di macchina, delle comparsate di attori-icone del cinema non solo italiano (Serena Grandi, più felliniana che mai, Verdone in una delle sue classiche macchiette, Fanny Ardant, Sabrina Ferilli molto sexy, addirittura Venditti nel ruolo di se stesso che mangia da solo in un ristorante), non permettono una sintesi compiuta delle metafore. C’è dentro molto materiale, citazioni cinematografiche e letterarie, la decadenza dell’alta società, della stessa città, con punte di grande cinema, come sempre in Sorrentino. Ma sembra che il regista non voglia sbilanciarsi troppo, non si voglia schierare. Prende qua e là ciò che gli serve, ma lo spoglia per così dire del contesto, delle radici.

Così Jeb prende da Swann, ma solo qualche aspetto. D’altra parte questa era la tecnica di Proust. Prendeva campioni di personaggi reali, e li assemblava. In un ristorante, dove sta cenando con Sabrina Ferilli, con la quale andrà a letto senza fare nulla, perché è la figlia di un vecchio amico (“è stato bello non fare l’amore”, dice, mentre giacciono sul letto seminudi, con l’immancabile sigaretta – la solita ossessione di Sorrentino per il tabagismo estremo), di fronte allo sventurato figlio di un’amica miliardaria che lo invita a concentrarsi su Proust, risponde: “meglio concentrarsi sul menu”. Questo Swann non l’avrebbe mai detto. Non avrebbe mai espresso questo cinismo, così italiano, questo disincanto rassegnato.

Per cui in Jeb c’è anche altro. C’è Marcello, il navigatore de La dolce vita, il film più citato come principale riferimento de La grande bellezza. In effetti molte scene sono ultra dolcevitiane. Lo stesso Fellini, tra l’altro, cambiava spesso registro narrativo, e indugiava sulle scene come ricerca sull’immagine in sé. Cinema del cinema insomma. E la festa della nobiltà nel castello viterbese, così atroce, che fece impazzire Warhol (tra l’altro in queste scene figurava anche la futura Chelsea Girl Nico come attrice), irrompe più volte nel film di Sorrentino. Spreco, vuoto centrale, cicaleccio nel deserto esistenziale, pose, falsità, pazzia, la voce umana che si alza nel silenzio del nulla. Una delle centinaia di frasi sparate nello spazio profondo da Winnie, la donna piantata nella sabbia di Giorni felici di Beckett, potrebbe essere il manifesto de La grande bellezza: “Eh, sì, così poco da dire, così poco da fare, e una tale paura, certi giorni, di trovarsi… con delle ore davanti a sé, prima del campanello del sonno, e più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano, passano e vanno, senza che si sia detto niente, o quasi, senza che si sia fatto niente, o quasi”.

Sorrentino_ServilloMa Jeb non riesce ad avere quella punta di malinconia sempre incombente di Marcello. Diciamo che contiene una parte di Marcello, ma più moderno, più adeguato al nostro tempo. Per lo più Sorrentino indugia coi primissimi piani sul viso di Toni Servillo (dimostrando di avere recepito gli stilemi hollywoodiani, l’uso intensivo del primissimo piano sulle star), come se noi, spettatori, potessimo – dovessimo? – scoprire stati d’animo o riflessioni non dichiarate nel personaggio-sfinge. Fellini, e Proust, amano i loro personaggi, anche quando li dipingono con un sarcasmo che rasenta il sadismo. Nel film di Sorrentino c’è come un maggiore distacco, che iscrive alcune scene, soprattutto nella prima parte, pure girate con maestria, a un inevitabile, quanto non voluto, virtuosismo.

Questo film ha spaccato la critica. Non accade spesso. C’è chi ha gridato alla “cagata pazzesca”, chi al quasi capolavoro. Chi ha detto che è il nuovo Dolce vita del terzo millennio, chi si è indignato per questo paragone blasfemo. E’ un dato interessante. Smuovere gli ormoni di certi “critici”, sempre così omologati, sempre servizievoli verso le veline della produzione, è un ottimo risultato. Significa che circola l’energia, in qualche modo, e tocca corde sensibili, perfino in chi la sensibilità l’ha sostituita da tempo col mestiere e con la superficialità.

Ma: per concludere: dov’è la grande bellezza? Forse nella vivacità delle immagini, nello stile raffinato e innovativo delle inquadrature, nelle carrellate di personaggi? Nelle scenografie romane? Nelle belle musiche di Lele Marchitelli? Nella ricerca di un senso, di una identità? O forse nel finale, con inquadratura su Jeb-Servillo, che rappresenta una sorta di miniatura del Temps retrouvé, e una svolta nel “positivo”, nella vita? Qui è indispensabile il giudizio, arbitrario e necessario, dello spettatore, che non si preoccupa di doverlo esprimere, ma solo di sentirlo, metabolizzarlo come risposta multipla, o dubitativa. Perché il recensore, per quanto si impegni, una risposta certa non riesce a trovarla.

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