recessione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il coronavirus ai tempi dell’Ecuador/2 https://www.carmillaonline.com/2020/05/30/il-coronavirus-ai-tempi-dellecuador-2/ Sat, 30 May 2020 02:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60456 di Alberto Acosta (*)

[A questo link il capitolo precedente. Mentre stavamo ancora traducendo questo saggio di Alberto Acosta, l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato, la Ley de Apoyo Humanitario e la Ley Orgánica de Ordenamiento de las Finanzas Públicas, considerate dalle organizzazioni indigene e popolari come veri e propri attentati al sistema di previdenza sociale ed alle tutele del lavoro. Il 25 maggio migliaia di persone, sfidando il coprifuoco, hanno riempito le strade delle principali città dell’Ecuador per protestare contro i tagli al settore pubblico e gli accordi con [...]]]> di Alberto Acosta (*)

[A questo link il capitolo precedente.
Mentre stavamo ancora traducendo questo saggio di Alberto Acosta, l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato, la Ley de Apoyo Humanitario e la Ley Orgánica de Ordenamiento de las Finanzas Públicas, considerate dalle organizzazioni indigene e popolari come veri e propri attentati al sistema di previdenza sociale ed alle tutele del lavoro.
Il 25 maggio migliaia di persone, sfidando il coprifuoco, hanno riempito le strade delle principali città dell’Ecuador per protestare contro i tagli al settore pubblico e gli accordi con l’FMI.
Il 26 maggio viene firmato dal Ministro della Difesa Oswaldo Jarrín l’Acuerdo Ministerial 179, che permette alla forze armate di utilizzare armi da fuoco contro i manifestanti per disperdere le proteste sociali.
Nel frattempo la popolazione e la natura subiscono l’attacco delle attività estrattive. Foto dal satellite mostrano l’avvenuta costruzione, in pieno coprifuoco da pandemia, di una strada nella selva della riserva naturale di Yasuni, funzionale ai progetti di sfruttamento petrolifero. Poco più a nord la rottura di due oleodotti sta provocando uno dei peggiori disastri ambientali della regione. Alexik]

Guayaquil tra neoliberismo e filantropia

Guayaquil, Isla Trinitaria

Se il problema dell’inadeguatezza delle abitazioni caratterizza tutto l’Ecuador, a Guayaquil  si presenta in maniera ancora più accentuato.
È una città “escludente e neoliberista” a causa del suo tipo di rigenerazione a favore del capitale, con una grande quantità di carenze denunciate già da prima della pandemia, e ostinatamente negate dalle autorità e dalle élites cittadine, che anche in questo momento stanno cercando di minimizzare le loro responsabilità additando come causa dei problemi il  centralismo della capitale.
In realtà, come succede da molte altre parti, queste città si trasformano in una macchina che genera sempre più  disuguaglianze. La avvocatessa guayaquileña Adriana Rodriguez così sintetizza la questione:

Non c’è da sorprendersi che Guayaquil, la città  dell’Ecuador dove è maggiore la disuguaglianza sociale, sia al primo posto per il numero di contagi e di morti per Covid 19. La città, governata dal partito Social Cristiano da più di 20 anni, è  l’evidente dimostrazione del fallimento del “vittorioso modello” neoliberista, tanto celebrato dalle élites al potere.
E’ che si intrecciano grandi imprese commerciali ed una opulenta ricchezza  in una città con il maggior numero di poveri del paese, che rappresentano quasi il 17% della sua popolazione se si sommano gli indicatori di povertà a quelli della povertà estrema1.

In questa città portuale, contrassegnata da differenze sociali estreme,  il coronavirus è arrivato ovunque.
Per quel che ci è dato sapere, è giunto  dall’Europa  portato tanto da  gente benestante, che tornava da viaggi di studio o di turismo,  che da  persone che lavoravano in Spagna e in Italia.
È evidente che chi ha più possibilità economiche affronta meglio il coronavirus negli ospedali privati, mentre  coloro  che non hanno questa fortuna,  includendo settori di classe media duramente colpiti, hanno dovuto rivolgersi al sistema pubblico causando la sua saturazione.

Guayaquil, in attesa di sepoltura.

E tra l’altro, portando al collasso l’intero sistema di registrazione dei decessi e sepoltura dei cadaveri.
COVID-19 ha messo a nudo queste e molte altre aberrazioni in una città dove anche a livello municipale si  lavora attraverso una serie di alleanze fra pubblico e privato.
Il suo sistema sanitario negli ultimi anni ha oscillato tra gli sforzi progressisti per modernizzarlo e l’esistenza di sistemi di assistenza sanitaria e sociale provenienti da una curiosa logica filantropico-neoliberista, che ha caratterizzato le strutture di potere della città.
Le amministrazioni comunali  cristiano sociali – al potere ininterrottamente da oltre 20 anni –  spinte dai populismi e dai sogni di modernizzazione e lungi dall’occuparsi di problemi strutturali come salute, cibo, occupazione e abitazioni, hanno cercato soprattutto di ripulire la “facciata” della città, migliorando ad esempio piazze e parchi con l’intervento di fondazioni in partenariato pubblico-privato.

La questione è più complessa se si considera che questa città –  la quale,  oltre ad essere la più popolosa dell’Ecuador,  è stata anche il  suo motore commerciale – continua ad attrarre  molte persone che arrivano da altre regioni impoverite  alla ricerca di un lavoro.
Proprio per  questo il lavoro informale è una delle sue caratteristiche  principali  e i quartieri  marginali –  spesso privi  di pavimentazione, acqua potabile e fognature — crescono inarrestabilmente in assenza di piani di urbanizzazione  adeguati e di risposte che risolvano strutturalmente le disuguaglianze e le esclusioni.

Guayaquil, barrio Guasmo Sur.

Secondo i dati del 2016 sulle abitazioni, il 20% delle case ha carenze di spazio, acqua potabile e fognature. Il 17% della popolazione locale vive in sovraffollamento.
C’è da considerare che questo non è l’unico problema, poiché i servizi sanitari ed educativi sono estremamente precari.
Come osserva l’architetto di Guayaquil Patricia Sánchez, profonda conoscitrice dei problemi della sua città:

L’emergere del settore informale nella città è legato alla logica della concentrazione della proprietà  dei terreni in mani private nonché  alle rigide normative sul  territorio urbano,  vere e proprie barriere istituzionali  quando si tratta il tema degli alloggi popolari.
Il carattere elitario e tecnocratico di pianificazione urbana finisce per escludere in questo modo gran parte della popolazione , riservando ai poveri le terre  di nessun interesse per il mercato immobiliare2.

Di fatto, in questa città portuale vibrante per il commercio e le migrazioni ma caratterizzata da profonde disuguaglianze, mancano le strategie abitative per creare le condizioni materiali che consentano di articolare modalità più favorevoli per la riproduzione della vita.
Si è trascurato l’habitat popolare, spazio privilegiato per l’autogestione collettiva delle condizioni di produzione e riproduzione di un’economia basata sul lavoro, totalmente contrapposta alla logica del capitalismo immobiliare che concepisce gli alloggi e gli habitat semplicemente come merce.
E certamente non si è fatto nulla per provare almeno a stabilire relazioni di armonia con il contesto naturale.
Riflessioni valide per l’intero paese, di cui resta tanto da conoscere, comprendere e migliorare.

Il rischio di abbandono delle campagne

Ecuador, piantagione di cacao.

L’altro pilastro della salute, l’alimentazione, è sempre più dominata dall’agroindustria, ed il controllo dei mercati è nelle mani di pochi gruppi commerciali.
Per citare solo un aspetto, tre catene controllano il 91% del mercato dei prodotti alimentari che necessitano qualche tipo di lavorazione.
La maggior parte delle terre migliori e delle forniture di acqua sono destinate sempre più alle colture rivolte all’agro-esportazione.
Nel frattempo  il settore dei lavoratori agricoli sopravvive  ad un’emarginazione di lunghissima data.

Contrariamente a quanto si possa immaginare dall’esterno, sono molteplici nelle campagne gli effetti della crisi economica e della pandemia.
Tanto per cominciare i livelli di povertà e marginalità sono più alti che nelle città, elemento ancora più lacerante se rapportato ai  gruppi indigeni.
Poi  c’è anche da tenere presente la minaccia che può rappresentare il contagio di coronavirus in comunità  distanti da infrastrutture sanitarie, già colpite da  varie penurie, come già accade in alcune aree amazzoniche.
Secondo i dati del Instituto Nacional de Estadística y Censos (INEC) la povertà è sempre stata molto superiore nelle aree rurali che nel mondo urbano.
Ad esempio il tasso della povertà multidimensionale arrivava al 38,1% a livello nazionale, al 22,7% nei centri urbani ed al 71,1% nelle campagne: in pratica sette abitanti su dieci del settore rurale vivono in condizioni di povertà.
Una realtà che contrasta con la capacità dei contadini e delle contadine di alimentare la società ecuadoriana.

Le piccole unità produttive inferiori a cinque ettari, per lo più gestite da donne, soddisfano il 65% dei generi di consumo alimentare del paniere  dei beni nazionale.
Tuttavia, in campagna la malnutrizione infantile è maggiore che in città: il 38% dei bambini da zero a cinque anni soffre di malnutrizione nelle zone rurali, e il 40% nei territori indigeni (rispetto al 26% della media nazionale).
Questa è un infamia per un paese così orientato alla biodiversità  e così pieno di  potenzialità in tal senso.

Ecuador, raccolta dei frutti della palma da olio.

In Ecuador persiste una spiccata disuguaglianza nella distribuzione della proprietà in generale, e della terra in particolare, che non è stata  in nessuna maniera affrontata  dal precedente governo e meno che mai da quello attuale.
Alcune stime basate sui dati dell’INEC indicano che, nel 2017, il coefficiente di Gini3 sulla distribuzione della Terra ha superato 0,8 punti.
In pratica il 2,3% delle unità produttive possiede il 42% della terra coltivabile, con proprietà superiori a 100 ettari prevalentemente orientate alla produzione per l’esportazione.
Mentre il 63% delle unità di produzione agricola, soprattutto condotte da indigeni e contadini, possiede il 6% della superficie coltivabile, e la stragrande maggioranza ne ha meno di un ettaro.
Se questa è la situazione della concentrazione della terra, per l’acqua risulta ancora più iniqua.

Tutto ciò  pone una questione  assai problematica.
Un tempo, gran parte dei contadini, in particolare quelli appartenenti alle popolazioni indigene, potevano badare a loro stessi e raggiungere, in qualche modo, un livello di maggiore autosufficienza, così da distanziarsi da questo mondo reso folle dall’accumulazione di capitale, che è poi il mondo dove si sta sviluppando il coronavirus.
Ora invece  i contadini e gli indigeni sono sempre più legati alla logica del mercato e nonostante producano cibo, soffrono la fame.

Ecuador, abitazioni rurali.

E questo si spiega perché  traggono i loro prodotti sempre più attraverso  monoculture: hanno perso gran parte della capacità di gestire il loro orto,  la loro chacra (fattoria), con prodotti diversificati, con i quali potrebbero soddisfare i loro bisogni alimentari e persino medicinali.
In ogni caso, nonostante si trovi ai margini di molti servizi sociali, come ad esempio quelli sanitari, la campagna sembra  comunque maggiormente in grado di affrontare la pandemia rispetto alle grandi città.

Un’economia in asfissia come un paziente con coronavirus

Lo scenario è complesso e, senza peccare di pessimismo, le prospettive sono sempre  più oscure.
Come già segnalato, questa conclusione è stata ipotizzata  da vari organismi internazionali, e anche il governo dà segnali in questo senso. Per esempio, il vice presidente Otto Sonnenholzner stima che il costo della pandemia raggiungerà il 10-12% del PIL.
Come un paziente con coronavirus, l’economia sta letteralmente asfissiando.
Un soffocamento aggravato dalla mancanza di apparato respiratorio, visto che, trattandosi di una economia dollarizzata4, non ha la possibilità di gestire una propria politica monetaria.
È un’economia che non ha una bombola di ossigeno perché non ha risparmi.
È un’economia gravata da enormi oneri come il debito estero, irresponsabile e molto oneroso, e da molti altri e gravi problemi, sia congiunturali, come un calo a picco del prezzo del petrolio, che strutturali, come l’assenza di reali trasformazioni produttive.
L’analisi  si complica  con le misure recessive del FMI e con l’ostinazione di un governo che non accetta misure creative, straordinarie, e soprattutto  sostenute da un modello che riesca ad unire la solidarietà alla giustizia sociale ed ambientale.

Ecuador, maggio 2020.

Un simile caos genera  lugubri prospettive.
Il governo di Lenín Moreno – insensibile ed estremamente disorientato – ha risposto presentando in modo frammentario diverse misure economiche, tra cui la rinegoziazione del debito estero e la richiesta di nuovi prestiti, l’introduzione  di nuove imposte sui redditi dei lavoratori del settore pubblico e privato, una tassa del 5% sugli utili delle grandi società, garanzie pubbliche per i crediti alle imprese private, bonus di protezione sociale (60$ per le famiglie più povere), nuove forme di flessibilità del lavoro, la preminenza della contrattazione privata sulle norme in materia di affitti e di lavoro, insieme a misure varie di ampliamento dell’assistenza sociale e sanitaria.
Allo studio anche la riduzione permanente dello stipendio del 10% di tutti i dipendenti pubblici.

Sulla rinegoziazione del debito estero, considerando le esperienze precedenti, non si prevedono miglioramenti sostanziali se le regole dei creditori internazionali continueranno ad essere accettate passivamente dal nostro paese.
In questo scenario si potrà ottenere giusto un sollievo passeggero, un po’ di liquidità per qualche mese, ma l’Ecuador manterrà comunque il percorso di adeguamento preteso dal Fondo Monetario, che comporta un’integrazione sempre più profonda nel mercato mondiale come paese esportatore di materie prime, in particolare petrolio.
Prospettiva estremamente preoccupante in un mondo sempre più incerto, e con il mercato del petrolio prossimo al collasso.

Quito: la polizia sbarra il passo e spara lacrimogeni sui manifestanti del 25 maggio.

Per quanto riguarda l’aumento delle tasse per le aziende, il contributo del 5% degli utili non è un importo compatibile con i profitti accumulati negli ultimi anni, soprattutto dalle imprese più grandi del paese.
Gran parte delle imprese appartiene ad importanti gruppi economici dai quali si potrebbe esigere un contributo maggiore, senza considerare aziende come le compagnie telefoniche (Claro o Telefónica) che hanno registrato profitti superiori al 90%.
Si potrebbe richiedere un contributo più alto al settore bancario, ricordando come tra il 2007 e il 2016 abbia accumulato profitti per 2.820 milioni di dollari.
Come se non bastasse, negli ultimi anni le attività bancarie hanno continuato a guadagnare come mai prima d’ora nel bel mezzo di un’economia in crisi, al punto di ottenere profitti  per 1.566 milioni tra il 2017 e il 2019.
A fronte di questa ‘età dell’oro’ del settore bancario un contributo del 5% sugli utili non è sufficiente.
Il governo punta ad ottenere maggiori risorse dalla tassazione delle persone fisiche che dalle società, quando sarebbe più comprensibile il contrario, soprattutto ricordando come una manciata di aziende e di banche hanno realizzato profitti milionari durante il boom dei prezzi di petrolio, ai tempi del governo di Correa, ed anche in seguito, in piena crisi, con il presidente Moreno.

Lo scenario si complica ancora di più con le crescenti pressioni estrattiviste sui territori.
Assieme alla flessibilizzazione del lavoro,  anche la flessibilizzazione ambientale dovrà servire – ci diranno – a riattivare l’economia e tornare a rendere competitivo l’apparato produttivo.
In un’intervista televisiva all’inizio di aprile il Ministro delle Risorse Naturali dell’Ecuador, parlando delle attività petrolifere, dell’estrazione mineraria e delle risorse energetiche, ha sintetizzato la sua posizione senza peli sulla lingua:

Lavoreremo più velocemente … il mondo non si è fermato, è in mezzo a questa crisi ma non si ferma, e noi trarremo da questa crisi l’opportunità di monetizzare [“privatizzare”, nota dell’autore] tutto ciò che è rimasto in sospeso“.

Ecuador 2019, lotta antimineraria a El Goaltal, ai confini con la Colombia.

Il messaggio è chiaro. Per superare la crisi pandemica e la recessione globale si annuncia di voler spingere l’acceleratore sul neoliberismo e sull’estrattivismo.
Tutto questo lavorio per riavviare prima possibile l’apparato produttivo si svolge in assenza di considerazioni o analisi su quali siano i problemi di fondo, e in un contesto di crescente confusione politica.

Mentre la situazione diventa sempre più critica in termini economici e soprattutto in termini umanitari, molte forze politiche sono impegnate a pescare nel torbido.
Potenziali candidati per le elezioni parlamentari del 2021 muovono le loro fiches provando ad ottenere benefici elettorali, senza assumersi reali responsabilità neanche in questi momenti critici, incoraggiando ulteriormente il caos.
Il governo, nonostante la sua manifesta debolezza, preme sull’Assemblea Nazionale, che sta elaborando due grandi pacchetti di riforme.
Voci dal regime parlano apertamente di un possibile scioglimento del Parlamento e di nuove elezioni generali per designare nuove autorità fino al completamento della legislatura, a maggio 2021. Ciò costituirebbe uno scenario molto complesso, tenendo conto della pandemia e della recessione, che potrebbe portare a qualche avventura dittatoriale palese o occulta.

Per ora non appare alcuna forza politica capace di dare una svolta basata su principi di autentica solidarietà, che imponga l’onere di un contributo superiore a chi più possiede e più guadagna.
Vale a dire introdurre tasse e contributi con criteri di equità, riscuotere le tasse non  pagate, sospendere il pagamento del debito estero da cui dipende la privatizzazione della sanità, procedere verso la socializzazione del sistema bancario, porre sotto il controllo dello Stato le transazioni in moneta elettronica per dare ossigeno all’economia, sostenere una profonda trasformazione agraria improntata al principio della sovranità alimentare, trasformare il bonus di solidarietà in un reddito minimo vitale …
E tutto questo nel senso di una necessaria transizione post-estrattivista, che consenta al paese di superare la dipendenza perversa, la volatilità e l’incertezza di un’accumulazione basata sulle esportazioni di prodotti primari.

Dalla vecchia normalità ad una normalità ancora peggiore

Per concludere, non possiamo che costatare come il vecchio ordine stia cadendo a pezzi.
Il ritmo frenetico dell’economia mondiale si è fermato. Le società si rinchiudono in se stesse e diventano più precarie di fronte alla pandemia. I regimi politici si irrigidiscono.
Se ci fosse la necessaria comprensione di ciò che sta accadendo, il mondo dovrebbe approfittare di questa tregua e promuovere un cambiamento di rotta.

Ma non sembra sia così. Man mano che l’esistente viene smantellato, inizia a organizzarsi un nuovo regime che, per il momento, sembra recuperare il peggio del vecchio. Vi sono alcune indicazioni che consentono di giungere a questa conclusione scoraggiante.
Lungi dal trarre lezioni adeguate, in molti paesi si riprende a sostenere la vecchia economia, sperando in un rapido ritorno alla normalità.
Affrontano questa sfida per la salute globale proprio come farebbero con un dosso sulla strada.
Ma non si tratta solo di questo.
Ignorando la gravità del momento e le cause profonde che hanno provocato questa grande crisi, non mancano le voci che invocano il recupero della vecchia strada della prosperità.

In altre parole, l’economia deve crescere, aprirsi ancora di più al mercato internazionale, spingendo sulla competitività.
Così, nel mondo impoverito, si propone di accelerare l’inutile crociata per raggiungere lo sviluppo: un fantasma devastante.
Si cercano spiegazioni cospirative per non affrontare il collasso del clima, provocato dalla brutale velocità di accumulazione del capitale, che soffoca la vita degli umani e non umani.
Le ricette imposte dai grandi gruppi di potere, in particolare economici e politici, rimangono invariate. Cercano di approfittare del momento per accelerare l’estrattivismo attraverso una maggiore flessibilità delle normative ambientali, con il pretesto di affrontare la crisi e migliorare la “competitività” dell’apparato produttivo, sfruttando anche nuove forme di precarizzazione del lavoro.
Il risultato di questa evoluzione provocherà senza dubbio frustrazione e disperazione crescente, in particolare tra i settori popolari sempre più abbandonati nell’incertezza.
Per questo non bisognerà sorprendersi se nuove ribellioni sorgeranno dietro l’angolo.

Senza minimizzare la complessità del momento e le minacce incombenti, c’è però anche spazio per l’ottimismo.
Basta guardare le risposte di solidarietà delle comunità indigene e reti di vicinato, di molti gruppi della società tradizionalmente emarginati, e soprattutto delle donne, che attraverso il loro parlamento popolare sono consapevoli della necessità di un impegno collettivo per riorganizzare la speranza e per trasformare tutto, perché “esigono la cura delle persone, cura della vita, salute e dignità“, perchè “nel suono dei  cacerolazos di questi giorni, si sente un’eco che dice … solo el pueblo salva al pueblo“.

(*) Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.
L’immagine di apertura è del 25 maggio scorso. Il cartello si riferisce alla ripresa delle lotte di massa in Ecuador, come nell’ottobre 2019.


  1. Rodríguez Adriana, Guayaquil, el coronavirus y la barbarie de la desigualdad, Línea de Fuego, 25/03/2020. 

  2. Bertha Patricia Sánchez Gallegos, Mercado de suelo informal y políticas de hábitat urbano en la ciudad de Guayaquil, FLACSO, 2013. 

  3. Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza nella distribuzione. 

  4. Nel 2000 l’Ecuador ha adottato come moneta propria il dollaro statunitense. 

]]>
Hanno la faccia come il Covid https://www.carmillaonline.com/2020/04/19/hanno-la-faccia-come-il-covid/ Sun, 19 Apr 2020 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59476 di Alessandra Daniele

“Gli ufficiali tornino ai loro uffici, gli schiavi alle loro schiavitù. E se sapete un inno, intonatelo” – Alberto Sordi,  Due notti con Cleopatra 

È la Ripartenza. Mentre gli esperti embedded blaterano di plateau come cuochi, e si continua a morire a centinaia nella Lombardia dell’orrore degli ospizi-lazzaretto, e in tutto il Nord dove non c’è mai stato nessun reale lockdown delle attività produttive, già Confindustria e Confcommercio scalpitano per riaprire anche quel poco che è stato chiuso, con la complicità di politici ed esperti embedded che hanno la faccia [...]]]> di Alessandra Daniele

“Gli ufficiali tornino ai loro uffici, gli schiavi alle loro schiavitù. E se sapete un inno, intonatelo” – Alberto Sordi,  Due notti con Cleopatra 

È la Ripartenza. Mentre gli esperti embedded blaterano di plateau come cuochi, e si continua a morire a centinaia nella Lombardia dell’orrore degli ospizi-lazzaretto, e in tutto il Nord dove non c’è mai stato nessun reale lockdown delle attività produttive, già Confindustria e Confcommercio scalpitano per riaprire anche quel poco che è stato chiuso, con la complicità di politici ed esperti embedded che hanno la faccia da Covid di attribuire i dati negativi a fantomatici “contagi avvenuti in famiglia”.
Attilio Fontana The Mask guida i governors leghisti annunciando una Fase Due all’insegna delle Quattro D (come la pellagra): Distanza, Digitalizzazione, Diarrea e Demenza.
Intanto al governo, PD e Movimento 5 Stelle si preoccupano di spartirsi le poltrone ai vertici delle partecipate statali. La partita delle nomine s’è giocata a porte chiuse.
Bisognerà smettere di citare I Promessi Sposi, le epidemie vere non finiscono come la Peste manzoniana, non sono i Don Rodrigo a morire, nessun Innominato si pente, piuttosto continuano a curare i loro affari insieme, mentre l’Azzeccagarbugli si dedica alle conferenze stampa in Tv.
Non sarà la Provvidenza manzoniana a salvarci, né l’UE del MES, Miliardi Europei a Strozzo, né “Il sole dell’Italia che non si arrende mai” come flauta melenso lo spot del cibo per cani, che arricchisce Urbano Cairo, insieme a quello dello yogurt che “rinforza le difese immunitarie”, e al condizionatore che “purifica l’aria”.
Bisognerà smetterla con questa anosmia che ancora a troppi impedisce di sentire tutta la puzza delle stronzate d’una classe dirigente di scarafaggi stercorari, e d’un sistema socio-economico di merda che ci sta letteralmente soffocando a morte.
E che strozzerà i superstiti con la recessione. Usando il distanziamento e il tracciamento anti-contagio come strumenti di controllo sociale.
Bisognerà imparare a salvarsi da soli.
E poi, ci chiameranno Provvidenza.

“- What genre is this?
– It’s reality, man”
Westworld, 3X05

]]>
FAHRENHEIT Covid/19 https://www.carmillaonline.com/2020/03/29/fahrenheit-covid-19/ Sun, 29 Mar 2020 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58961 di Alessandra Daniele

Oltre 10 mila morti accertati. Più d’un terzo delle vittime globali. Il tragico record italiano della polmonite virale Covid-19 non è una catastrofe naturale, è una strage, che ha dei colpevoli: in primis coloro che hanno avuto responsabilità di governo, sia a livello nazionale che locale, e che in questi decenni hanno tagliato fondi alla Sanità pubblica, chiudendo ospedali, negando attrezzature e presidi indispensabili, eliminando posti letto e posti di lavoro in nome d’una spending review che dà più valore al pareggio di bilancio che al bilancio delle vittime.   E oggi, i padroni che tengono aperti stabilimenti, fabbriche e cantieri [...]]]> di Alessandra Daniele

Oltre 10 mila morti accertati. Più d’un terzo delle vittime globali.
Il tragico record italiano della polmonite virale Covid-19 non è una catastrofe naturale, è una strage, che ha dei colpevoli: in primis coloro che hanno avuto responsabilità di governo, sia a livello nazionale che locale, e che in questi decenni hanno tagliato fondi alla Sanità pubblica, chiudendo ospedali, negando attrezzature e presidi indispensabili, eliminando posti letto e posti di lavoro in nome d’una spending review che dà più valore al pareggio di bilancio che al bilancio delle vittime.  
E oggi, i padroni che tengono aperti stabilimenti, fabbriche e cantieri anche in tutto il Nord, lasciando che continuino a diffondere il contagio proprio nell’epicentro del bio-sisma.
Chi gliene chiederà conto, e quando?
Per citare Maurizio Landini, quand’è che la paura della gente diventerà rabbia? E in quale direzione?
Qualche segnale già c’è, come un paio di tentati assalti ai supermercati alimentari, ma sono tutti al Sud, dove il numero di vittime e la conseguente paura del contagio sono ancora molto minori. Nelle zone maggiormente colpite per adesso la pandemia sta ottenendo perlopiù l’effetto contrario.
Dopo l’inevitabile estinzione spontanea delle manifestazioni di piazza, si moltiplicano le ansiose richieste di controllo sociale, sia con mezzi tradizionali come polizia ed esercito, che tecnologici come droni guardiani e app di tracciamento e localizzazione.
Il tricolore sventola sui balconi, i vicini denunciano chi esce di casa senza autorizzazione, lo sciopero è considerato diserzione.
Nessuno strumento repressivo convenzionale sarebbe mai potuto essere così efficace. Covid-19 è il ministro dell’Interno che il sistema stava aspettando.
Un ministro invulnerabile alla satira e alla magistratura.
Un ministro contro il quale non si può manifestare in piazza senza fargli letteralmente un favore.
Un ministro dell’Interno che può vietare qualsiasi assembramento, chiudere scuole e università, sospendere le elezioni sine die, e abolire il diritto di sciopero nei settori “essenziali”, nell’obbedienza della nazione terrorizzata.
La stretta securitaria dei domiciliari di massa, e il lavoro forzato nelle fabbriche-lager stanno funzionando di fatto come due articolazioni interconnesse dello stesso meccanismo a tenaglia, che sbriciola definitivamente la massa in uno sciame di individui isolati, smarriti, autorizzati a uscire di casa soltanto per andare a lavoro o a fare la spesa, se possono.
È l’ultimo stadio del capitalismo totalitario, il tetro capolinea al quale ci ha condotto.
Come droni telecomandati.
Covid-19 è il suo ministro dell’Interno, e dall’interno, e non se lo lascerà scappare facilmente.
È ancora in atto la prima ondata della pandemia, e già si parla di possibile seconda ondata autunnale in stile Spagnola 1918, quando il virus prima assaggiò gli umani uccidendo i più debilitati, per poi tornare con una mutazione più potente a sterminare anche milioni di giovani.
Nei prossimi mesi estivi la tensione potrà allentarsi, come e quanto lo pretenderà l’Economia.
L’emergenza dei Coronavirus – plurale – però non sarà mai davvero finita. L’allarme non rientrerà mai del tutto.
Nelle intenzioni dell’establishment non saranno mai più da considerarsi davvero sicuri nessun assembramento, nessuna manifestazione, nessuno sciopero non autorizzati. Questo è l’unico sistema che gli è rimasto per cercare di evitare le prevedibili rivolte sociali conseguenti alla recessione mondiale, che era già cominciata prima dello scoppio della pandemia, e far pagare il conto della crisi ancora una volta ai lavoratori.
Ci sarà sempre questo, o un altro Coronavirus dormiente in agguato. L’establishment terrà questa spada di Damocle appesa sulle nostre teste per tutto il tempo che potrà.
La democrazia è morta, uccisa da una brutta polmonite. D’altronde era già molto debilitata.

]]>
Blood in the streets https://www.carmillaonline.com/2020/03/23/blood-in-the-streets/ Mon, 23 Mar 2020 09:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58767 di Alessandra Daniele

“Ci sono regioni che non sanno più dove mettere le bare” – Luigi Di Maio, M5S

“Questo virus non se ne andrà. Ormai  è nella popolazione umana” – Ilaria Capua, virologa

“È giunto il momento di militarizzare l’Italia” – Vincenzo De Luca, PD

La polmonite virale Covid-19 ha già fatto quasi 14 mila morti. Più d’un terzo dei quali nel Lombardo-Veneto. Confindustria però non ritiene sia il momento di sospendere tutte le attività produttive non necessarie, ed ha quindi ordinato al tetro burattino di Palazzo Chigi un ulteriore rinvio, e un concetto più ampio e comodo [...]]]> di Alessandra Daniele

“Ci sono regioni che non sanno più dove mettere le bare” – Luigi Di Maio, M5S

“Questo virus non se ne andrà. Ormai  è nella popolazione umana” – Ilaria Capua, virologa

“È giunto il momento di militarizzare l’Italia” – Vincenzo De Luca, PD

La polmonite virale Covid-19 ha già fatto quasi 14 mila morti. Più d’un terzo dei quali nel Lombardo-Veneto. Confindustria però non ritiene sia il momento di sospendere tutte le attività produttive non necessarie, ed ha quindi ordinato al tetro burattino di Palazzo Chigi un ulteriore rinvio, e un concetto più ampio e comodo di “necessario”.
Che differenza possono fare qualche giorno e qualche fabbrica in più? Qualche migliaio di morti, niente per cui il capitale sia mai stato disposto ad accettare un calo dei profitti.
Medici e paramedici sono allo stremo. E quella lombarda è considerata la Sanità più attrezzata d’Italia.
Se la pandemia dovesse dilagare al Sud con la stessa virulenza, sarebbe un’ecatombe.
La gente chiusa in casa aspetta angosciata che l’emergenza finisca.
Ma non finirà.
Perché Covid-19 e le sue conseguenze sono qui per restare.
Perché della contemporanea recessione mondiale, che era già cominciata, tutti gli speculatori approfitteranno come virus in un organismo debilitato.
Come dicono a Wall Street, è quando il sangue scorre per le strade che si fanno gli affari migliori.
Il sangue, e la paura.
In questi giorni di escalation virale e securitaria, gli italiani hanno preteso che i trasgressori dell’ordinanza di distanziamento sociale per la strada venissero tracciati attraverso il cellulare, denunciati e multati. Mentre operai e impiegati restano costretti a continuare a lavorare in fabbriche ed uffici pieni.
Hanno approvato che il parlamento venisse chiuso di fatto, e che le elezioni venissero rinviate sine die.
Hanno invocato e ottenuto l’esercito a presidiare le strade. Il “soccorso” della BCE. Il ritorno di Bertolaso.
Hanno ignorato un’atroce strage di detenuti che chiedevano di non essere condannati anche al Coronavirus.
Naturalmente non tutti l’hanno fatto, ma sono stati abbastanza.
C’è da augurarsi che questo giro di vite para-golpista finisca per provocare una reazione uguale e contraria, una rivolta generalizzata contro l’attuale sistema socio-economico che ha tradito tutte le sue promesse di benessere, libertà, sicurezza, progresso.
Per il momento però quasi tutti i segnali necessariamente indicano la direzione opposta.
In tutto il mondo, dalla Francia all’Iran, dalla Catalogna a Hong Kong, la quarantena ha spento il fuoco delle manifestazioni di piazza, sostituite dalle spettrali pattuglie in tuta bianca che spruzzano disinfettante.
Se sopravviveremo, con l’estate, e gli auspicabili progressi nella ricerca di terapie efficaci, la tensione securitaria probabilmente calerà. Lo chiederà il business del turismo.
Ma al prossimo autunno, al prossimo Coronavirus che arriverà puntualmente come ormai succede ogni paio d’anni – la SARS, la MERS, la H1N1, la Covid-19 – si tornerà a rinunciare a tutte le nostre già poche e illusorie libertà per paura di finire in una di quelle bare. O di vederci finire un familiare, un amico, senza neanche poterlo salutare per l’ultima volta.
E Confindustria ci conta: dopotutto è quando il sangue e il disinfettante scorrono per le strade che si fanno gli affari migliori.

]]>
La recessione interiore https://www.carmillaonline.com/2019/03/08/la-recessione-interiore/ Thu, 07 Mar 2019 23:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51473 di Giovanni Iozzoli

Avete presente i vecchi film di indiani in cui improbabili Apaches si mettevano a culo in aria, con un orecchio ben piantato per terra, onde avvertire in lontananza l’arrivo del treno o lo scalpiccio dei cavalli? Ecco, quella è la postura assunta da imprenditori ed economisti italiani negli ultimi cinque mesi – più o meno dall’ultimo trimestre del 2018. Solo che i pellerossa in fase di ascolto erano intrepidi e impassibili, mentre le nostre sedicenti classi dirigenti, appaiono tremebonde, spaesate, sempre sull’orlo della crisi di nervi. E quell’orecchio schiacciato sui [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Avete presente i vecchi film di indiani in cui improbabili Apaches si mettevano a culo in aria, con un orecchio ben piantato per terra, onde avvertire in lontananza l’arrivo del treno o lo scalpiccio dei cavalli? Ecco, quella è la postura assunta da imprenditori ed economisti italiani negli ultimi cinque mesi – più o meno dall’ultimo trimestre del 2018. Solo che i pellerossa in fase di ascolto erano intrepidi e impassibili, mentre le nostre sedicenti classi dirigenti, appaiono tremebonde, spaesate, sempre sull’orlo della crisi di nervi. E quell’orecchio schiacciato sui pavimenti dei loro eleganti uffici riceve solo segnali preoccupanti. Si sa che il nemico è in avvicinamento, se ne vedono tutti gli effetti già pienamente squadernati: fatturati, ordinativi, scorte, inflazione, tutti gli indicatori hanno il segno meno, e con persistente continuità.

In Italia siamo passati da un periodo di contenuta euforia – la crisi è passata, concentriamoci sulla terribile bellezza e la geometrica potenza dell’industria 4.0 –, all’attuale panico mal dissimulato. Il dio capricciosissimo del ciclo economico sta compilando nuovi elenchi di predestinati all’inferno: i fedeli non si salveranno mediante le opere – eppure ci danno dentro di brutto, attraverso l’intensificazione dei ritmi, le condizioni di sfruttamento, la compressione dei salari, il dumping contrattuale. Fanno il loro dovere, gli imprenditori italiani: piangono e fottono, soprattutto i lombardo-veneti – che dentro la crisi, con riflesso automatico, abbandonano le compassate velleità mitteleuropee e si riscoprono interpreti del più melodrammatico mammismo mediterraneo. Aiutateci, aiutateci tutti a stare in piedi, a rimanere sul mercato, compattiamoci, abbiamo bisogno.

Adesso la panacea di tutti i mali, il rimedio anticiclico per eccellenza, sono diventate le grandi opere – come se la realizzazione di una bretella stradale Sassuolo-Campogalliano, nel modenese, ad esempio, potesse invertire il corso della crisi globale. In una disperata assillante richiesta di risorse e intervento pubblico, il capitalista si scopre veterosocialista ogni volta che sente puzza di fallimento: bisogna sganciare soldi pubblici per la sostenibilità del sistema bancario, per incentivare l’innovazione, per lanciare le start-up, per stimolare nuove assunzioni, per coprire le carriere contributive dei precari-massa, per martoriare il paese solcandolo di nuove inutili lingue d’asfalto – soprattutto il catino padano, insalubre epicentro europeo del tumori, in cui la costruzione di nuove strade dovrebbe essere vietata per legge, come la circolazione di gran parte del parco veicoli. Volevi solo i soldi – canta Mahmoood e sembra un’invettiva contro l’imprenditore italiano. Cambierebbe il suo Keynes con due Friedman e un Adamo Smith? Nessun padrone italiano accetterebbe il cambio, perché il mercato è bello quando funziona e gonfia dividendi e compensi. Ma quando si inceppa, quando i suoi inafferrabili meccanismi interni smettono di valorizzare i capitali in circuito, allora il sistema si rivela farlocco, spericolato, distruttivo e insostenibile anche per i suoi cantori. E lo Stato – la potenza etica del Def – ridiventa imprescindibile. Del resto, non li abbiamo sempre tacciati di “ordo-liberismo”? Laddove ordo per loro vuol dire soldi pubblici alle imprese private. Lasciamole studiare ai ragazzi all’università, le favolette sui mercati. Chi “fa impresa” è dedito al pragmatismo.

Già, ma chi è che fa impresa nell’Italia del 2019? Siamo la seconda manifattura d’Europa, ma che peso specifico abbiamo come sistema industriale? Siamo consapevoli che il nostro manifatturiero è per il 95% formato da micro-aziende? È da qui che dovrebbe nascere il “partito degli industriali” che auspica disperatamente «Repubblica»? Come fa questa mucillagine a rivendicare un ruolo di moderna borghesia, di classe dirigente, ad avviare una qualsivoglia riflessione sui modelli di sviluppo o di consumo? Dice qualcosa il fatto che il presidente di Confindustria sia oggi un morto di fame salernitano con un’aziendina da quaranta milioni di fatturato? (E poi quel Boccia lì è una figura inquietante: non ha alcuna espressione o motilità facciale, sembra manchi di un vero volto, come Fantomas – e anche questo dato fisiognomico è una buona metafora dello stato dell’impresa italiana).

La crisi non è mai passata, assume semplicemente un andamento irregolare perché il ciclo è sottoposto a una moltitudine di condizionamenti, anche politico-militari, che ne modificano imprevedibilmente il corso. Cinque o sei anni sono un tempo storicamente irrisorio e ininfluente, per giudicare i cicli economici. Solo degli inguaribili ottimisti potevano pensare che “c’eravamo saltati fuori”: in base a cosa, a quale nuovo filone aureo di investimenti, in base quale forte domanda aggregata, sostenuta da quali redditi? Eravamo usciti dalla crisi per la benedizione dello Spirito Santo? Quali cause erano state poste – non dico nel mondo, ma almeno a livello europeo – per contrastare il rischio di inevitabili ricadute? Oggi si dà la colpa a Trump, al contenzioso commerciale con la Cina, alla persistente instabilità del Medio Oriente, mentre dieci anni fa si dava la colpa alla voracità dei grandi attori finanziari e ai mutui subprime. Come se il sistema fosse sano ma occasionalmente deviato dal peccato o dall’imperizia. Tutti sanno che le contese commerciali non sono cause di crisi, bensì sue manifestazioni epifenomeniche. Tra compari si litiga e ci si accoltella quando il bottino è scarso: le guerre daziarie di solito precedono quelle militari.

Quindi torniamo a noi, ai padroncini italiani, le seconde e terze generazioni di quelli che avevano fatto il boom. I nostri baldi capitani d’impresa sono lì accovacciati con un orecchio in terra, il «Sole 24 Ore» in mano, lo sguardo perso rivolto a consulenti e collaboratori. Il range di scelte che hanno davanti è obiettivamente ristretto: la maggior parte delle impresuccie italiane non ha capitali e know how per fare competizione “sui processi e sui prodotti”. Si tratta di aziende che in questi anni, nel migliore dei casi, sono tornate a fare i contoterzisti del sistema franco-tedesco, enormemente più solido. I più attrezzati continuano ad esportare, dentro settori in cui permane una vocazione specialistica, settoriale, nella quale mantengono il primato. Ma anche questa faccenda dell’export a tutti i costi, sta rivelando l’altra faccia della crisi italiana. Sta a galla chi esporta perché l’Italia è un mercato di consumo chiuso, saturo, esposto a ogni genere di penetrazione di prodotti low cost, a causa della caduta dei redditi. In questa condizione, Boccia-Fantomas accetterebbe di buon grado anche un piano quinquennale varato dal Gosplan.

E poi chi è in grado oggi di competere e aumentare i volumi, ha sempre qualche carta nascosta nella manica. A Modena ha destato clamore nazionale la vertenza Italpizza – azienda esportatrice in crescita, eccellenza dell’agroalimentare, ben ammanicata con la politica che la additava come esempio virtuoso. In seguito a una dura lotta ai cancelli, in cui sono volati decine di lacrimogeni (ed è stato utilizzato per la prima volta il decreto Salvini per denunciare penalmente gli operai che facevano i blocchi stradali) i lavoratori Italpizza hanno conquistato le prime pagine locali: e i modenesi hanno scoperto che in quell’azienda-goiello si vessano normalmente i dipendenti, gli orari sono impossibili e più dell’80% di loro sono precari, poveri, in mano alle solite cooperative, inquadrati con il più miserabile dei contratti – quello delle pulizie – anche se farciscono le pizze che poi troviamo nei banchi surgelati. Pure il benpensante medio modenese ha cominciato ad arricciare il naso: non è che si sta eccedendo, con queste robacce? Non è che a forza di impoverire e precarizzare, finisce che tagliamo il ramo sui cui siamo tutti seduti? Si, è proprio così. I rimedi alla caduta dei profitti ne accelerano il corso. Sembra un bignamino marxista. E poi in certi territori permane una memoria di mobilità sociale e di dignità del lavoro, un residuo dei tempi gloriosi in cui l’impiego operaio non era una condanna alla miseria e alla dequalificazione. La chiamavano “coesione sociale” e sembra un’antica leggenda.

Anche gli economisti cominciano a manifestare qualche perplessità. E i giornalisti economici – sottocategoria sfigata dell’ambient – annusano l’aria. Migliaia di accademici e studiosi continuamente impegnati a sfornare saggi e consulenze e mai nessuno che sia in grado di effettuare una qualche realistica previsione: anche questa fase della crisi, fino alla primavera scorsa, non era stata predetta da nessun economista maistream. Viene da pensare che davvero le facoltà economiche coltivino generazioni di falliti, nottole di Minerva che, con i loro grafici stretti nel becco, provano a spiegare ciò che già è in essere, sotto gli occhi di tutti. E comincia a manifestarsi qualche legittimo dubbio anche tra i sapienti. In tutto il mondo occidentale esiste un gigantesco problema di caduta dei redditi da lavoro (una quota crescente di americani non riescono a onorare i prestiti subprime per l’acquisto dell’auto, altro che i mutui casa del 2008). E qualcuno (vedi il pasdaran riformista Fubini) sta iniziando a nutrire il timido sospetto che ciò rappresenti un problemino rilevante, rispetto a ogni velleità di ripresa. A Parigi da 4 mesi migliaia di persone anziché impegnarsi nello shopping del sabato pomeriggio, vanno a spaccare vetrine in centro: c’è una qualche connessione macroenomica tra questi comportamenti sociali, l’andamento del ciclo e la distribuzione del reddito nazionale? Qualche studente del primo anno di Economia e Commercio, potrebbe spiegarlo ai suoi prof?

E i sindacati, cosa annusano nell’aria mentre la recessione si avvicina? Sono francamente terrorizzati anche loro. Il fatto è che il capitalismo è un sistema di oggettiva corruttela morale: cioè corrompe le menti, costringe alla complicità anche chi dovrebbe esserne contrappeso. Il sindacato dentro un sistema capitalistico che si destabilizza o si impoverisce, perde progressivamente peso. Perde cioè il potere di interdizione e di contrattazione, che rappresentano i suoi fondamenti: antico dilemma del movimento operaio, la “lotta economica” è efficace solo se il capitalista guadagna e la macchina gira. È dal 2008 che, con queste materialissime contraddizioni, il movimento sindacale tutto, in Italia e in Occidente, ci sta sbattendo il grugno: i posti di lavoro persi, le aziende chiuse o delocalizzate, i territori impoveriti; e a catena, meno scioperi da praticare o minacciare, meno quote-delega, meno risorse, meno delegati e attivisti disponibili. Non è un caso che negli ultimi dieci anni, l’unico settore in cui si siano sviluppati lotte e organizzazione, sia quello della logistica, settore fisiologicamente in crescita per i colossali cambiamenti dei mercati e dei consumi. I sindacati da un po’ di tempo stavano ricominciando a fare un po’ di contrattazione aziendale, finanche con qualche elemento “acquisitivo”, dopo che per lunghi anni avevano svolto essenzialmente il ruolo di enti di cogestione degli ammortizzatori sociali. Qualche azienda, qua e là, a macchia di leopardo, aveva ricominciato timidamente ad assumere, sbloccando il turn over. I milioni di ore di cassa integrazione si erano andati anno dopo anno riducendo. E l’ipotesi di tornare al punto di partenza – tra l’altro con uno strumentario di ammortizzatori sempre più povero – deprime oggi anche i più arditi.

E gli operai e le operaie, gli impiegati, i tecnici, i precari del lavoro privato italiano, come vivono questa quasi-recessione ormai conclamata? Dieci anni di crisi hanno colpito duramente consapevolezza e morale. È come se l’orizzonte della crisi fosse stato interiorizzato, come se rimanere senza lavoro o perdere fette consistenti di reddito, facesse parte dell’ordine naturale delle cose. Perché fasciarsi la testa? Se arriva arriva. Pazienza per i mutui da onorare, per le rate dell’università dei figli, per carriere che si trasformano in corse ad ostacoli verso la pensione. E questo è uno dei segreti della longevità del capitalismo: riuscire a convincere i proletari che le sue categorie – il mercato, la valorizzazione e appunto la crisi – siano elementi naturali. E nelle zone industriali la memoria del 2008 è ancora vivida e terrorizzante: le aziende che chiudevano, migliaia di interinali e partite Iva a casa dalla sera alla mattina senza preavviso, microimprenditori strangolati dalla stretta creditizia e dall’annullamento delle commesse. Nei baretti di periferia si attendevano con ansia i dati dell’indice Nikkei.

Torna in mente una vecchia intervista al professor Cacciari, nel 1989. Nei giorni convulsi della caduta del blocco socialista, l’esimio accademico ebbe a dire: «oggi non possiamo più definirci marxisti, perché altrimenti dovremmo andare davanti ai cancelli delle fabbriche a raccontare ai lavoratori che per loro nel capitalismo non c’è alcun futuro!». E lo diceva in modo paradossale, come a dire, «suvvia: siamo alla vigilia di una belle epoque, di un rinascimento globale, basta con gli antichi pessimismi dei nostri vecchi maestri». Oggi, invece, sarebbe proprio necessario farli quei due passi davanti ai cancelli e dire parole di cruda verità sul futuro nostro e del nostro mondo. Un giorno per le prossime generazioni che avranno conquistato la libertà di un nuovo discorso anticapitalista, il nostro modo di produrre sembrerà una vecchia irrazionale superstizione.

Esistono spesso, nelle brutte zone industriali della Padania, degli spazi abbandonati tra gli stabilimenti; là dove finisce il muro di cinta di un capannone, si apre uno spazio di terra abbandonato che termina trenta o cinquanta metri più in là, per lasciare il posto alla recinzione di un’altra azienda. Sono pezzi di campagna che nessuno cura, pieni di rovi, spine, arbusti storti e intricati; o brulli, senza vegetazione, con la terra nera e secca, che d’inverno è sempre ghiacciata. I comuni non hanno i soldi per pulire, le piccole aziende pure, e forse non si sa neanche bene di chi è la competenza. Forse quei pezzi di terra sono ancora di proprietà di vecchi contadini ormai morti, che quaranta o cinquant’anni fa vendettero le loro aree agricole a vecchi imprenditori, morti pure loro. Quelle zolle ghiacciate sono i testimoni muti di un passaggio, di una transizione, di un cambio d’epoca. A qualcuno danno inquietudine, evocano l’idea di una bocca sdentata e malandata. Rappresentano l’ombra della povertà rurale, che solo un paio di generazioni prima fu il nostro pane. Meglio non fissare troppo lo sguardo su quei vuoti, di questi tempi.

]]>
La signora in giallo https://www.carmillaonline.com/2019/02/10/la-signora-in-giallo/ Sun, 10 Feb 2019 18:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51047 di Alessandra Daniele

Luigi Di Maio l’ha presentata in una teca come una Madonnina piangente: la prima tessera del mitico Reddito di Cittadinanza. Che in realtà non è un reddito, e non è di cittadinanza, ma sarà (se e quando partirà davvero) un sussidio di disoccupazione, vincolato a un milione di regole burocratiche che trasformeranno in un sorvegliato speciale chi cercherà di ottenerlo. Inoltre, la gialla master card destinata secondo Di Maio ad “abolire la povertà” sarà comunque negata proprio ai più poveri. Non la riceveranno gli sfrattati e i senzatetto. Non la [...]]]> di Alessandra Daniele

Luigi Di Maio l’ha presentata in una teca come una Madonnina piangente: la prima tessera del mitico Reddito di Cittadinanza. Che in realtà non è un reddito, e non è di cittadinanza, ma sarà (se e quando partirà davvero) un sussidio di disoccupazione, vincolato a un milione di regole burocratiche che trasformeranno in un sorvegliato speciale chi cercherà di ottenerlo.
Inoltre, la gialla master card destinata secondo Di Maio ad “abolire la povertà” sarà comunque negata proprio ai più poveri.
Non la riceveranno gli sfrattati e i senzatetto.
Non la riceveranno italiani e stranieri in povertà assoluta che risiedono in Italia da meno di dieci anni.
Non la riceveranno i giovani disoccupati che devono abitare ancora coi genitori.
Se la riceverà, la perderà l’imbianchino disoccupato di Catania che si rifiuta di andare ad allevare anguille a Comacchio, e viceversa.
Non riuscirà mai ad ottenerla chi non sa o non può procurarsi tutta la documentazione necessaria per dimostrare a Nostra Signora del Sussidio che non è un truffatore fancazzista, né un immigrato a torso nudo con lo smartphone.
Ma basta con queste lamentele, guardiamo il bicchiere mezzo pieno: se tutto va bene, da maggio circa un milione di famiglie riceveranno una nuova social card con circa 100 euro a settimana per fare la spesa (l’eventuale resto sarà rigorosamente destinato all’eventuale affitto).
È il momento di recuperare lo scontrino col quale Pina Picierno voleva dimostrarci come 80 euro bastassero a una famiglia di tre persone per una spesa settimanale.
Lo scopo primario del Reddito di Cittadinanza però non è lo stesso degli 80 euro renziani, cioè pagare gli italiani per votare un branco di cazzari. Quello lo fanno anche gratis.
Il Reddito di Cittadinanza è innanzitutto uno strumento di controllo sociale, come ha esplicitato il sociologo ex-grillino Domenico De Masi: “Elargire questo sussidio serve ai ricchi, per evitare che i poveri s’incazzino e gli taglino la testa”.
Il compito dichiarato del Movimento 5 Stelle è sempre stato fin dall’inizio quello di assorbire la rabbia popolare, per impedire che producesse qualcosa di realmente rivoluzionario.
Beppe Grillo l’ha rivendicato più volte: “Se non ci fossimo noi a tenerla buona, la gente scenderebbe in piazza”. E Di Maio s’è vantato di recente: “Senza di noi, anche in Italia ci sarebbero i gilet gialli”.
Il RDC è un sedativo di massa. 
E non è certo concepito per evitare la recessione (generale e prevista) né la conseguente prossima Quaresima di tasse e tagli, ma per renderle più sopportabili per le masse, con un centinaio di euro in più a settimana a quelli che potrebbero diventare realmente pericolosi per il sistema.
Per tenerli tranquilli. E sorvegliati.
Perché restino buoni cittadini.
E consumatori.
Non ai senzatetto quindi, né ai migranti, che invece vengono spinti sempre più verso l’emarginazione totale – anche col decreto Salvini – per essere usati come spauracchio e capro espiatorio.
Questo disegno non è occulto, è esplicito, come le dichiarazioni che ho citato confermano, ma funziona lo stesso, come ogni manipolazione che faccia leva sugli istinti e sui bisogni primari.
L’utilità del governo Grilloverde per le élite che dice di combattere però difficilmente lo salverà dal suo destino ultimo: diventare a sua volta il capro espiatorio, quando la Crisi affonderà le zanne, e i sedativi di massa non basteranno a tenere buone le prede.

]]>
L’anno del maiale https://www.carmillaonline.com/2019/02/03/lanno-del-maiale/ Sun, 03 Feb 2019 18:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50929 di Alessandra Daniele

Una notte di metà dicembre, nella fattoria il maiale si diverte a prendere in giro l’asino: “Il padrone ti bastona, ti affama, ti costringe ai lavori più faticosi e umilianti. Guarda me invece: non devo far altro che mangiare, dormire, e rotolarmi nel fango!” L’asino gli dà un’occhiata, e poi gli chiede: “Tu non sei quello dell’anno scorso, vero?” (Antica barzelletta)

Oggi Matteo Salvini è apparentemente il politico più popolare d’Italia. Sembra che non debba far altro che mangiare, ghignare, e rotolarsi sui social, per continuare a guadagnare consensi a spese [...]]]> di Alessandra Daniele

Una notte di metà dicembre, nella fattoria il maiale si diverte a prendere in giro l’asino: “Il padrone ti bastona, ti affama, ti costringe ai lavori più faticosi e umilianti. Guarda me invece: non devo far altro che mangiare, dormire, e rotolarmi nel fango!”
L’asino gli dà un’occhiata, e poi gli chiede: “Tu non sei quello dell’anno scorso, vero?” (Antica barzelletta)

Oggi Matteo Salvini è apparentemente il politico più popolare d’Italia. Sembra che non debba far altro che mangiare, ghignare, e rotolarsi sui social, per continuare a guadagnare consensi a spese di tutti. La cosa spaventa molto i suoi soci a cinque stelle, ormai pronti a rimangiarsi persino la loro Prima Direttiva legalitaria, pur dì garantire al pingue leghista l’impunità che pretende.
Giuseppe Conte l’ha spiegato molto bene ad Angela Merkel: i grillini sono nel panico per il calo nei sondaggi del Movimento a favore della Lega, perciò si sono buttati alla disperata rincorsa di Salvini sul terreno – anzi nelle acque – della peggiore propaganda razzista, mentre contemporaneamente fanno mostra di sfidarlo sul no al TAV.
Un gioco delle parti sempre più spericolato.
“Lo so” ha commentato la Merkel, serafica. “Salvini è contro Francia e Germania?” Ha chiesto.
“Salvini è contro tutti” ha risposto Conte.
La Merkel ha sorriso, divertita.
Questo grottesco esecutivo Grilloverde è esattamente il “Nemico” del quale lei e l’Europa carolingia del Patto di Aquisgrana hanno bisogno.
Proprio come il maiale della barzelletta, oggi Matteo Salvini è all’ingrasso. Mediaticamente, politicamente (e fisicamente). L’Unione Europea lo adopera come spauracchio, allo stesso modo in cui lui strumentalizza i migranti. Salvini è l‘Uomo Nero d’Europa.
L’intenzione delle élite europee è lasciare che questo governo di arroganti babbei scaraventi l’Italia nel burrone, per poi usarlo come esempio e monito.
Esporre l’Italia pentita in gabbia sulle mura esterne della Fortezza Europa, e citare il Grilloverde per dare del coglione fascista a chiunque oserà in futuro mettere in discussione il liberismo.
Così che tutte le feroci stronzate di Salvini e Toninelli vengano rinfacciate anche a chi a sinistra le avrà combattute. Come oggi gli si rinfaccia Pol Pot.
E l’inevitabile fallimento Grilloverde trascini alla rovina tutte le forze antagoniste – sia vere, che false come il M5S – mentre alla fine la Lega di Giorgetti e Zaia torna al governo coi Moderati, dopo aver voltato per l’ennesima volta la verde gabbana.
Se Salvini è il metaforico maiale della barzelletta, l’asino siamo noi. La nostra condanna è quella di Sisifo al contrario: ogni volta che riusciamo a buttare giù il maiale seduto in cima alla collina, ce ne viene issato sopra un altro.
E nessuno butta giù il padrone.

[Secondo l’oroscopo cinese, il 2019 è l’anno del maiale] 

]]>
La spirale del capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/02/15/la-spirale-del-capitalismo/ Mon, 15 Feb 2016 22:00:43 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28683 di Luca Cangianti

spirale-bianca-e-neraDomenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, “crisi secolari” ed euro, Imprimatur, 2015, pp. 254, € 16,00

La figura geometrica che rappresenta meglio lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è la spirale: una sequenza di cerchi che si allargano e collassano ciclicamente, per riprendere poi il proprio movimento da un nuovo punto d’inizio. Domenico Moro, nel saggio Globalizzazione e decadenza industriale, illustra con chiarezza la causa di tali movimenti, sia sul piano alto e modellistico della critica dell’economia politica marxiana, che su quello empirico delle cronache economiche [...]]]> di Luca Cangianti

spirale-bianca-e-neraDomenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, “crisi secolari” ed euro, Imprimatur, 2015, pp. 254, € 16,00

La figura geometrica che rappresenta meglio lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è la spirale: una sequenza di cerchi che si allargano e collassano ciclicamente, per riprendere poi il proprio movimento da un nuovo punto d’inizio. Domenico Moro, nel saggio Globalizzazione e decadenza industriale, illustra con chiarezza la causa di tali movimenti, sia sul piano alto e modellistico della critica dell’economia politica marxiana, che su quello empirico delle cronache economiche e politiche contemporanee.

Uno dei temi principali del libro riguarda la perdita di capacità produttiva subita dall’Italia. Nel periodo 2007-2014 nel nostro paese gli investimenti fissi lordi in valore reale sono diminuiti del 30,4% a fronte del 12,3% nell’Unione europea. Ciò tuttavia non va considerato un fallimento del sistema, mera decadenza industriale, ma una “riorganizzazione complessiva dell’economia e della struttura delle imprese italiane, in quanto necessario adattamento alla nuova fase di accumulazione caratterizzata dalla globalizzazione e dallo stato endemico di sovrapproduzione in cui versa il capitale.” In sostanza, le perdite dell’Italia non sono frutto di scelte sbagliate di avidi operatori economici, né dell’inefficienza e corruzione di un ceto politico-amministrativo che avrebbe impedito l’adeguamento del paese al nuovo contesto internazionale. Il rallentamento economico del nostro paese rispetto ad altre zone industrializzate è il risultato dell’applicazione profonda e tempestiva di strategie neoliberiste utili a contrastare la caduta del saggio di profitto che misura il ritorno del capitale investito.

domenico_moro_globalizzazioneDi contro all’incapacità di spiegare teoricamente la crisi da parte delle scuole economiche convenzionali che individuano cause sempre diverse e contingenti (prezzo del petrolio, eventi bellici, speculazioni di ogni sorta), Moro trova più convincente l’approccio monistico marxiano e impiega la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, e specialmente le sue cause antagonistiche, come griglia analitica. Consistendo il saggio di profitto nel rapporto tra plusvalore (numeratore) e capitale investito in macchine e salariati (denominatore), l’aumento costante di questo capitale anticipato nella dinamica di sviluppo del capitalismo comporta il ridursi del tasso. Ciò, tuttavia, non consente d’immaginare nessuna forma d’implosione del modo di produzione dominante. La caduta del saggio di profitto è infatti contrastata da altri fattori: l’aumento del grado di sfruttamento della forza-lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la svalorizzazione delle macchine e delle materie prime, l’aumento dell’offerta di forza-lavoro sul mercato, la crescita del capitale azionario (che può sfuggire al livellamento del saggio medio di profitto) e infine lo sviluppo del commercio estero. Quest’ultimo è uno dei fattori più importanti, comportando migliori economie di scala, la vendita delle merci a prezzi di produzione superiori al loro valore e il drenaggio di quote di plusvalore dalle economie meno sviluppate verso quelle più sviluppate.

Non a caso negli ultimi anni le istituzioni europee hanno agevolato in tutti i modi l’esportazione di capitale e di merci mediante la contrazione dei costi di produzione. Gli investimenti diretti esteri (ide) in uscita dall’Italia sono passati dall’1,6% del pil nel 1980 al 28,9% del 2013. Inoltre tra il 1990 e il 2013 la crescita annua degli ide italiani è stata del 22,4% in confronto al 19,8% dell’Eurozona. Tale dinamica sottrae all’economia nazionale risorse per l’occupazione e gli investimenti generando recessione. Sul versante delle esportazioni di merci è vero che l’Italia ha perso delle quote relative sul mercato mondiale passando dal 3,9% del 2003 al 2,8% del 2014, tuttavia l’incidenza delle esportazioni sul pil è in crescita e la competitività internazionale del nostro paese nel periodo 2010-2014 è stata superiore ai livelli del 2007-2008 precedenti alla crisi. Il calo delle esportazioni insomma va messo in relazione con la sovraccumulazione di capitale ormai presente anche nelle aree periferiche del globo grazie all’affluenza di investimenti diretti esteri.

La recessione permanente in questo modo diventa strumento di gestione della crisi: “il capitale, in questa fase storica del suo sviluppo, non ha interesse né alla crescita né alla piena occupazione e, essendo il mercato globale, non ha neanche un interesse particolare al mercato nazionale.” Questo significa che piuttosto che di decadenza industriale in Italia si deve parlare di decadimento sociale per tutti quei settori, e sono la maggioranza, esclusi dai benefici del nuovo assetto economico: salariati pubblici e privati, piccola e media impresa, grandi imprese non inserite nelle catene transnazionali del valore o nei monopoli. Tra i vincitori invece abbiamo il grande capitale globalizzato che controlla i settori dell’economia italiana capaci di esportare, le élite professionali tecnico-scientifiche e manageriali collegate a questi comparti, e in generale chi riesce a vendere sul mercato competenze adeguate a un contesto più tecnologico e internazionalizzato. Insomma, conclude l’autore, “Ciò a cui si assiste è il rialzo dei profitti del vertice capitalistico, sempre più integrato con il capitale internazionale, al prezzo del peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte della società e della stagnazione di lunga durata dell’economia”.

Secondo Moro a fronte di una situazione che spontaneamente tende verso una recessione permanente, nuovi investimenti che rilancino lo sviluppo e la produzione di beni e servizi socialmente utili (ma non necessariamente profittevoli) possono provenire solo da un’organizzazione statuale sottratta ai vincoli sovrannazionali di bilancio e di gestione della moneta unica. Tuttavia parlare oggi di uno stato “espressione degli interessi della collettività” che non sia “un organismo separato e contrapposto a essa” è un obiettivo di natura titanica, impensabile se non con l’emergere in Europa di una forte conflittualità sociale in congiunzione con uno dei momenti di collasso ciclico della spirale capitalistica.

]]>