recensione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Su “Se camminare fa troppo rumore” di Giusi D’Urso https://www.carmillaonline.com/2024/07/16/su-se-camminare-fa-troppo-rumore-di-giusi-durso/ Tue, 16 Jul 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83433 di Serena Penni

Giusi D’Urso, Se camminare fa troppo rumore, Il ramo e la foglia, Roma, 2024, pp. 224, euro 16,00.

Se camminare fa troppo rumore racconta la storia di un risveglio, di una presa di coscienza dolorosa e faticosa, di un progressivo e inevitabile avvicinamento alla realtà da parte della protagonista, Sofia. Il romanzo è strutturato su un duplice binario: quello del passato e quello del presente narrativo. Nel passato c’è una bambina che nasce e cresce in Sicilia. È inserita in una famiglia apparentemente normale, costituita da un padre, una madre e una nonna. Tutto scorre tranquillo, peccato che i genitori [...]]]> di Serena Penni

Giusi D’Urso, Se camminare fa troppo rumore, Il ramo e la foglia, Roma, 2024, pp. 224, euro 16,00.

Se camminare fa troppo rumore racconta la storia di un risveglio, di una presa di coscienza dolorosa e faticosa, di un progressivo e inevitabile avvicinamento alla realtà da parte della protagonista, Sofia.
Il romanzo è strutturato su un duplice binario: quello del passato e quello del presente narrativo. Nel passato c’è una bambina che nasce e cresce in Sicilia. È inserita in una famiglia apparentemente normale, costituita da un padre, una madre e una nonna. Tutto scorre tranquillo, peccato che i genitori ogni tanto giochino in un modo un po’ troppo rumoroso, che il padre scherzi alzando un po’ troppo la voce, che un occhio della madre ogni tanto, come per magia, si tinga di azzurro, costringendola a truccare anche l’altro con un ombretto dello stesso colore, per amore di simmetria ma soprattutto per dare l’impressione che il suo sia “un matrimonio per bene”, volendo dirla con Doris Lessing.

Come tutti i bambini, Sofia va a scuola e qui si imbatte in Filomena, bruna, alta e sgraziata: tanto Sofia è studentessa modello, quanto Filomena appare negata per la scrittura, la lettura e, insomma, ogni attività di tipo didattico. Ma tra le due nasce un legame profondo, che va ben oltre le differenze anzi, che proprio delle differenze sembra nutrirsi. Un legame che non piace agli adulti, specialmente ai familiari di Sofia, le cui frasi a mezza voce giungono alle orecchie della bambina senza che lei le possa davvero comprendere, ma lasciandole addosso un senso di mistero e di oscura fatalità. Un legame di cui solo alla fine del romanzo capiremo il valore e la portata.

L’adolescenza di Sofia è segnata dall’improvviso trasferimento a Pisa – e il romanzo si apre proprio con la descrizione di questa città, vista con gli occhi di una ragazza fragile e sensibile, capace di coglierne la bellezza ma anche l’estraneità. Anche il mistero del trasferimento, così come quello del legame con Filomena, osteggiato dagli adulti, si chiarirà alla fine della narrazione, quando tutti i pezzi del puzzle torneranno al loro posto.

Sofia cresce e si iscrive alla facoltà di medicina. Con il passare del tempo, le dinamiche di sopraffazione che infestano la sua famiglia le divengono tristemente chiare: capisce la violenza del padre, l’ombretto azzurro della madre. I fantasmi del passato e del presente salgono in superficie, ben simboleggiati dalle scutigere, insetti striscianti richiamati dall’umidità, che popolano la vita e soprattutto l’immaginazione di Sofia. Alla madre, la giovane cerca di aprire gli occhi. Ma la donna sulle prime non accetta la realtà, di cui tuttavia è la prima vittima. È troppo attaccata a un’idea, soprattutto, è troppo attaccata al gioco dei ruoli per potersene liberare. Lo farà solo gradualmente, e mai del tutto. Assai interessante appare l’evoluzione del personaggio del padre di Sofia, o meglio, dell’immagine che la protagonista ha di lui. Se da bambina, come ogni figlia, lo idealizza, da ragazza ne scopre l’aggressività e la natura di essere fallimentare. Non tanto e non solo perché l’uomo è un artista mancato, ma perché non accetta di esserlo. anzi, mette in atto una forma di autodifesa che gli impedisce persino di rendersene conto, dirottando la sua rabbia altrove. Poi, Sofia arriva a vedere in lui un uomo malato – la malattia psichica, da sempre latente, si rivela a un tratto in tutta la sua gravità, seguita poi – e non sembra essere un caso – da quella fisica, descritta come terribile, degradante, invalidante. È forse l’ultimo strumento, attivato inconsapevolmente da parte dell’uomo, per tenere legata a sé una moglie che, seppure a fatica, ha preso emotivamente le distanze da lui.

L’amicizia tra Sofia e Filomena non si interrompe con la partenza della prima per Pisa anzi, sembra quasi rafforzarsi, perché ognuna trova nell’altra un antidoto alla propria solitudine: le due instaurano un rapporto epistolare in cui entrambe riversano le loro esperienze quotidiane ma soprattutto i loro sogni, le aspirazioni, le paure, i desideri di fuga. Poi, un bel giorno, quando si rivedono per via di una visita di Sofia in Sicilia, la protagonista rovescia addosso all’amica d’infanzia un’enorme quantità di veleno, rimanendone essa stessa colpita e turbata. Si rivedranno solo da adulte, quando Sofia ritroverà l’amica incastrata in una vita infelice, costellata di affetti che sono tali solo in apparenza e in cui nessuno dei suoi sogni di bambina, come era prevedibile, si è realizzato. Una vita che avrà un epilogo drammatico, facendo di Filomena l’ennesima Emma Bovary, vittima senz’altro delle proprie stesse aspirazioni, ma anche di un entourage crudele e maschilista, in cui vige la legge del più forte e in cui i deboli non possono che essere divorati dai forti, lasciando in chi resta inutili rimpianti e sensi di colpa.

Tutto questo riguarda il passato. Nel suo presente, Sofia si trova in un luogo non ben definito ma che, sin dalle prime pagine, intuiamo trattarsi di un ospedale psichiatrico. Il tempo è scandito dai pasti accolti senza entusiasmo, dalla luce flebile che filtra dalla finestra ma soprattutto dal dialogo con un uomo che, al pari del luogo, non è classificato ma che sembra trattarsi di uno psichiatra. È lui che, attraverso le sue domande, fa riemergere in Sofia un passato in buona parte doloroso, per lo più privo di amore e intriso di buchi neri. Sarà lui, infine, a portare Sofia a ricordare il legame che la univa a Filomena, la sua tragica presa di coscienza di esso, il bagaglio di non detti e di atti colpevoli che tale legame portava con sé. Sarà quest’uomo a permettere a Sofia di ricordare di avere, all’improvviso, visto la propria madre sotto una luce nuova, che le era intollerabile. Sarà lui a permettere a Sofia di ricordare il gesto che l’ha portata in quel luogo di cura, sì, ma anche di reclusione e dunque, paradossalmente, sarà proprio lui a liberarla.

Se camminare fa troppo rumore è un romanzo che parla di amicizia, di legami familiari, di malattia mentale, di violenza di genere, di dipendenze affettive e ancora di molto altro. L’autrice riesce a tenere il lettore incollato al libro pagina dopo pagina, grazie alla sua indubbia capacità di creare suspence, attesa, desiderio di scoprire cosa ne è – o cosa ne è stato, o cosa ne sarà – dei personaggi: della protagonista in primis, ma naturalmente non solo, perché chi legge si affeziona anche a coloro che costellano il suo mondo – interiore ed esteriore –, in particolare a Filomena. Quest’ultima appare come una sorta di doppio che non ce l’ha fatta, ma la cui immagine Sofia imparerà finalmente ad accettare, a custodire dentro di sé, per andare avanti come meglio potrà nel cammino accidentato e impervio dell’esistenza.

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Le brigate: distopia pandemica e stato d’eccezione https://www.carmillaonline.com/2020/07/22/61557/ Tue, 21 Jul 2020 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61557 di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi [...]]]> di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi contro il lockdown (leggi: arresti domiciliari), ho scoperto che in Francia, dove Macron si frega le mani soddisfatto per essersi tolto dai piedi i gilet gialli, è partita un’iniziativa inquietante: è nata una task force di “investigatori sanitari” che impegnerà almeno 30.000 membri per scovare i “positivi” al Covid19, tracciare e avvertire i loro contatti e organizzare misure di segregazione. Altro che app più o meno volontarie: 700.000 test a settimana, e quando qualcuno sarà trovato “positivo”, a tutti i suoi contatti verrà chiesto di “isolarsi da soli”, in casa o “negli hotel requisiti a questo scopo”. Ma è stato il nome scelto per questa task force a far scattare nella mia testa un campanello d’allarme e una rapida associazione mentale: “brigate”. 

Le brigate, infatti, è il titolo di un romanzo dello scrittore argentino Ariel Luppino (classe 1985), pubblicato dalla casa editrice Arcoiris nella collana Gli eccentrici (traduzione di Francesco Verde e postfazione di Federica Arnoldi), che avevo letto di recente nell’originale e che ha suscitato il mio entusiasmo.

Fin dalla prima pagina siamo immersi in un universo distopico e in una atmosfera a dir poco infernale: una misteriosa epidemia che si presume trasmessa dai topi e i cui sintomi sono strane macchie sulla pelle e disturbi del linguaggio – do you remember William Borroughs? “Il virus è il linguaggio” –, ha trasformato la città di Buenos Aires in una sorta di lazzaretto. Il sipario di questo vero e proprio teatro della crudeltà si apre in un Centro di Detenzione dove i reclusi sono costretti a “pelare topi” e vengono vessati da una figura archetipica, il Milite, uno psicopatico che si diverte a torturare senza motivo e a stuprare chiunque gli arrivi a tiro. Il suo motto: “Il lavoro rende liberi”. I prigionieri, costretti a girare in pigiama, hanno i capelli rasati a zero: “Tutti uguali, tutti la stessa merda: detenuti”, e ogni tanto qualcuno viene usato come cavia per qualche esperimento “scientifico”. “Il giuramento d’Ippocrate non valeva in quel merdaio. Potevano fare di noi ciò che volevano.”

I vecchi devono nutrire i topi, i giovani devono raccoglierne le palline di sterco (“i più curiosi dicevano che a mangiarle non facevano male, che avevano un buon sapore”), e intorno ai topi si sviluppa una fiorente economia: con le loro pelli si fabbricano stivali, e c’è chi se li mangia vivi o ne beve il sangue, incurante dell’epidemia, mentre la città è percorsa da orde di cacciatori, poliziotti corrotti, spacciatori e alienati.

La voce narrante è un detenuto qualsiasi, nei confronti del quale però il Milite, che “continuava ad atteggiarsi a peronista”, mostra una certa simpatia, tanto da affidargli incarichi meno obbrobriosi degli altri: “Il mio compito, spiegò, sarebbe stato quello di accendere il fuoco [per preparare il mate], ma pareva meno pesante che rispondere al telefono in un call center”. Nella seconda parte del romanzo l’io narrante, che legge il Mein Kampf come se fosse la Bibbia o l’I-ching, rivelerà di essere un aspirante scrittore impegnato nella stesura di un romanzo “che nessuno avrebbe mai voluto pubblicare”, oltre che un allucinato convinto di essere stato contattato dagli alieni, che gli infondono il loro sapere straordinario… eiaculandogli dentro.

È anche innamorato – “… lei, che dava un senso al non-mondo”, sempre che si possa parlare d’amore in questo girone infernale – di una donna di cui si fida assai poco e che lo trascinerà in situazioni scabrose ed estreme. L’unica traccia di umanità, di dignità umana, trapela dal comportamento della moglie di un carrettiere, che si suicida dopo aver cantato una canzone tristissima in guaranì, perché il Milite, invaghitosi di lei, le ha ucciso il marito. Tutti gli altri personaggi, che fanno capolino in una sequenza di scene in cui la violenza diventa sempre più parossistica, sono abominevoli: così l’Industriale con la moglie, che visitano il Centro di Detenzione per ottenere un fegato sano da trapiantare al figlio, o decisamente parodistici, come il concorrente di un programma televisivo che finge da dieci anni di vivere in stato vegetativo: “Otto infermieri, quattro sceneggiatori e un direttore di produzione lavoravano per rendere la storia credibile”.

Assistiamo persino a uno spettacolo teatrale allestito per i detenuti che mette in scena la loro stessa grottesca situazione (do you remember Shakespeare, il Sogno d’una notte di mezza estate?).

Il Milite sogna di scatenare una seconda guerra per riprendersi le Falkland/Malvinas (“Là, in quelle isole di merda, me ne stavo in fondo a una trincea, a pisciarmi addosso per cercare di scaldarmi”) e vuole estorcere, con i consueti sistemi brutali, il denaro all’Industriale e l’appoggio tecnologico di uno “scienziato”. All’obiezione secondo cui: “Non basta un conflitto diplomatico per scatenare una guerra”, risponde: “Dipende. Per questo ci sono i media, no?”.

Nel frattempo, “l’ossessione sanitaria cresceva di giorno in giorno e io non ne ero immune”: vi ricorda qualcosa? Bastano poche citazioni per evidenziare le qualità “profetiche” dell’autore, che ha pubblicato in Argentina il suo romanzo nel 2017: “La gente però circolava con le mascherine, e il ricorso alla fecondazione in vitro, per evitare che l’ovulo potesse essere fecondato da un ignaro portatore sano, andava aumentando”.

Le brigate è un romanzo denso, stratificato: en passant Luppino nomina alcuni autori che configurano una stirpe a cui appartiene a pieno titolo: “… cominciai a leggerle dei racconti. Onetti, Fogwill, Laiseca. Niente Saer!”. In un altro punto fa capolino anche Jorge Barón Biza, autore del magnifico Il deserto, mentre non viene fatto il nome di Osvaldo Lamborghini, che pure è assai presente, sia per la violenza del linguaggio – da apprezzare il lavoro improbo del traduttore – sia per le numerose scene a sfondo sessuale. Le metafore sono scarse e scarne: “Mise le mani come se stesse strangolando un suricato”; “non poté frenare l’impulso di andare controcorrente, come un salmone kamikaze”; del resto, se la strada dell’inferno è lastricata di metafore, qui siamo già arrivati a destinazione e non ne abbiamo bisogno.

In Argentina il romanzo è stato accolto con grande favore dalla critica. Ricardo Strafacce ha sottolineato che, facendosi carico della storia del genocidio militare argentino, il modo di narrare di Luppino “ce lo fa vedere meglio di qualsiasi descrizione realista di quel passato”. Agustín Conde De Boeck, che ha scritto la recensione più acuta ed esaustiva, dice che Le brigate “fa sembrare Meridiano di sangue di McCarthy una semplice puntata di Bonanza”. César Aira ha dichiarato di approvare senza riserve il romanzo. E secondo la scrittrice Gabriela Cabezón Cámara, con Le brigate “la letteratura argentina ha raggiunto uno dei suoi nuovi vertici, fra i migliori”. Un libro necessario, che serve a ricordarci che non viviamo affatto nel migliore dei mondi possibili.

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Solo danni colletarali https://www.carmillaonline.com/2020/06/28/solo-danni-colletarali-di-pier-bruno-cosso/ Sat, 27 Jun 2020 22:10:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60588 di Anna Fresu

Pier Bruno Cosso*, Solo danni collaterali, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni, 2020, pp. 204, € 11,92.

Immagina che qualcuno mangi un pipistrello, o che una farfalla batta le ali in qualche parte del mondo; o un lutto improvviso, una disgrazia…

O, magari, che un plotone di carabinieri irrompa all’alba di un sabato qualunque nella tua casa. Immagina che quel sabato volevi andare a mangiare al mare, in un ristorante ad Alghero, con la tua famiglia, sul SUV che hai appena comprato.

Immagina di crederti felice, di fare [...]]]> di Anna Fresu

Pier Bruno Cosso*, Solo danni collaterali, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni, 2020, pp. 204, € 11,92.

Immagina che qualcuno mangi un pipistrello, o che una farfalla batta le ali in qualche parte del mondo; o un lutto improvviso, una disgrazia…

O, magari, che un plotone di carabinieri irrompa all’alba di un sabato qualunque nella tua casa. Immagina che quel sabato volevi andare a mangiare al mare, in un ristorante ad Alghero, con la tua famiglia, sul SUV che hai appena comprato.

Immagina di crederti felice, di fare il lavoro che hai sempre voluto, di avere una moglie che ami e che ti ama, una figlia adolescente che cresce bene, di ricevere stima per quel che sei e per quel che fai, di possedere una bella casa, di aver raggiunto un benessere che sai meritato. Immagina di avere una vita.

Immagina di essere il dottor Enrico Campanedda, di Sassari.

È la sua vita ad essere sconvolta quel sabato mattina da un’irruzione dei carabinieri con un’accusa assurda.

È Enrico Campanedda la voce narrante del romanzo Solo danni collaterali, di Pier Bruno Cosso, recentemente pubblicato da Marlin editore. È lui che ci tira dentro la sua storia facendocene condividere l’angoscia, la frustrazione, il senso di impotenza di fronte a un’accusa da cui sembra impossibile difendersi, al punto di chiedersi dove ha sbagliato, se è davvero colpevole, e di che cosa. Tante domande alle quali è difficile trovare una risposta.

È lui, siamo noi, che crolliamo, che entriamo in depressione, che guardiamo sfumare tutte le nostre certezze, che ci troviamo da un giorno all’altro senza lavoro, che dobbiamo rinunciare alla nostra sicurezza economica, che rischiamo -forse- di perdere gli affetti, di dubitare di tutti, di lasciarci andare.

La colpa è delle ali della farfalla o forse, sì, la colpa è dell’Autore. Che con capitoli serrati, una scrittura pulita e affilata come lama di coltello, con un ritmo che toglie il respiro… ci chiama in causa, accusati/accusatori, a volte troppo sicuri, dimentichi di essere fragili, sospesi sulla corda sottile dell’esistenza, incapaci di dare ascolto alle nostre inquietudini. E quel che resta dietro sono solo “danni collaterali”. O vite spezzate.

E allora tocca farsi coraggio, ritrovare fiducia, iniziare a lottare. Forse andrà bene, forse no. Sarà tutto come prima? O potrebbe essere meglio? Dipenderà da quanto avremo imparato.

Il romanzo si ispira a una storia vera, quella di un medico – come il protagonista del libro – che ha vissuto gli stessi eventi traumatici, in un luogo imprecisato della Sardegna. I personaggi, le vicende narrate, le ambientazioni sono però frutto della fantasia dell’autore che ci tiene a precisare:

“In ‘Solo danni collaterali’ tutto quello che sembra assurdo, che ti pare impossibile, è vero! L’intreccio con amori, passioni e tradimenti, invece è più attinente al mondo della fantasia. Anche per proteggere la vera identità del protagonista reale che ne ha passate abbastanza…” (intervista rilasciata a Massimiliano Perlato, per “Tottus In Pari”.

C’è uno sguardo rivolto anche alle vicende giudiziarie di cui fu vittima Enzo Tortora. Come nella realtà, anche nel libro si parla di un giudice che monta un caso clamoroso per far carriera, con la complicità di altre figure che perseguono i loro interessi personali. Il romanzo non vuole essere un atto d’accusa contro la magistratura, bensì una riflessione sul ruolo che ambizione e invidia possono giocare nella vita di un cittadino comune.

 

*Pier Bruno Cosso è nato nel 1956 a Sassari, dove vive tuttora e che è la sola città in cui vorrebbe vivere. Ha pubblicato i romanzi Il giorno della tartaruga (2013) e Dannato Cuore (2015), entrambi Parallelo45; la raccolta di racconti Fotogrammi slegati (2018), Il Seme Bianco (Gruppo Elliot–Castelvecchi). Solo danni collaterali (Marlin Editore 2020) è il suo ultimo romanzo.

 

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The Black Star, un affresco sulla tratta degli schiavi e la pirateria https://www.carmillaonline.com/2018/10/13/the-black-star-un-affresco-sulla-tratta-degli-schiavi-e-la-pirateria/ Fri, 12 Oct 2018 22:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49067 di Angelo Truncellito

Daniele Cardetta, The Black Star, Ed. Meligrana, Tropea, 2018, pp. 366, € 15.

Il filone piratesco, per intenderci quello che parla di corsari e pirati, tesori da scoprire, battaglie navali e duelli all’arma bianca sul ponte della nave, è già piuttosto trito e ritrito. Parrebbe difficile quindi aggiungere qualcosa. Pur avendo cominciato la lettura delle pagine di “The Black Star” scetticamente, il prosieguo mi ha confermato, invece, che la lettura valeva la pena e riservava sorprese. Daniele Cardetta, l’autore del romanzo, tratteggia in modo vivido e convincente un mondo, [...]]]> di Angelo Truncellito

Daniele Cardetta, The Black Star, Ed. Meligrana, Tropea, 2018, pp. 366, € 15.

Il filone piratesco, per intenderci quello che parla di corsari e pirati, tesori da scoprire, battaglie navali e duelli all’arma bianca sul ponte della nave, è già piuttosto trito e ritrito. Parrebbe difficile quindi aggiungere qualcosa. Pur avendo cominciato la lettura delle pagine di “The Black Star” scetticamente, il prosieguo mi ha confermato, invece, che la lettura valeva la pena e riservava sorprese. Daniele Cardetta, l’autore del romanzo, tratteggia in modo vivido e convincente un mondo, quello del XVIII secolo nei Caraibi, che risulterà per certi versi familiare a molti. Le descrizioni del contesto rivelano un gran lavoro di documentazione e di studio, che si riflette anche nei personaggi, numerosi e ben delineati dal punto di vista psicologico. Due esempi su tutti sono quelli del capitano Lind, un uomo ricco e idealista che per motivi strettamente personali decide di lanciarsi nel mondo della pirateria, e Asa, un giovane africano strappato alla sua casa da uomini senza scrupoli. L’intreccio del romanzo rivelal’incastro ben realizzato tra le avventure di un gruppo di pirati capeggiato da un capitano eccentrico e spinto da motivazioni profonde, e quelle degli schiavi sradicati dalla loro terra africana e deportati nelle piantagioni assolate dei Caraibi. Le avventure dei pirati e degli schiavi si incrociano tra di loro mostrando come quello narrato fosse un mondo aperto, dove gli scambi tra le due sponde dell’oceano erano continui e fertili e potevano portare a ibridazioni inaspettate. 

Cardetta ci restituisce in modo mirabile tutta la sofferenza provata da questi uomini e queste donne, soggetti dimenticati dalla storia ma che hanno lasciato tracce di resistenza quotidiana. Sfogliando “The Black Star” sembrerà di respirare la salsedine trasportati in un viaggio vorticoso tra le due sponde dell’Atlantico, un viaggio che trasporterà il lettore tra battaglie navali disperate, tradimenti e giochi di potere. Un romanzo che non parla solo di avventure e di pirati, ma che ha il merito di gettare luce su una delle grandi “rimozioni” dell’Occidente, ovvero la tratta degli schiavi che ha fatto sì che in pochi secoli milioni e milioni di africani venissero messi ai ceppi e deportati. Poco si sa di solito di come vivevano questi uomini, di cosa pensavano, delle pratiche di resistenza quotidiana che mettevano in campo per sopravvivere. Eppure l’autore riesce a far rivivere quelle sofferenze, facendo toccare al lettore con mano la loro sofferenza e anche il loro coraggio, senza aver paura di lasciarsi andare in dettagli realistici, crudi e forse poco digeribili ai più.

“The Black Star” è un libro di pirati ma non solo di pirati, è un romanzo di avventura, ma è anche un romanzo storico e di denuncia sociale. E’ tutte queste cose assieme e ha l’ambizione di avvincere il lettore facendolo appassionare a un intreccio ben congeniato e sviluppato con l’intento di far sì che le varie storie dei personaggi si intersechino. Emerge anche, come un filo rosso, l’attenzione alle tematiche sociali, un filo che attraversa tutte le pagine del romanzo dall’inizio alla fine e che si muove in parallelo all’intreccio principale. Insomma, un romanzo di avventura ma anche uno spaccato sulle sofferenze umane degli schiavi e dei marinai coinvolti nell’orribile macchina dello schiavismo che fa enfasi sugli aggravi sofferti da quelle persone, per cui la riflessione si concentra su come queste atrocità non appartengano al passato ma, purtroppo, siano ancora parte integrale e quotidiana del nostro presente.

Precisa anche la contestualizzazione, con la storia che è stata ambientata nel periodo della guerra anglo-spagnola del 1739-1742, anche detta la guerra dell’orecchio di Jenkins. Il riferimento è a Robert Jenkins, capitano di un vascello mercantile britannico che nel 1738 esibì alla Camera dei comuni, come prova della violenza spagnola nei confronti delle navi inglesi, l’orecchio che gli era stato mozzato. Fu una guerra molto importante in quanto gli inglesi cercarono di distruggere l’egemonia spagnola nei Caraibi, ma il conflitto si concluse nel 1742 senza vantaggi significativi per Londra.

Infine, non meno importante, il merito dell’autore nel suo “gioco” e dialogo con la storia, permette che i suoi personaggi si rincorrano tra Caraibi, Africa ed Europa e sullo sfondo i grandi fatti del tempo, uno su tutti il terremoto che annichilì Lisbona nel 1755.

Uno dei tratti caratteristici del romanzo è la coralità. Si tratta di un espediente molto riuscito in quanto consente al lettore di immergersi nella narrazione tenendo conto di più punti di vista. In questo modo il testo riesce a far risaltare i chiaroscuri, sottolineando come il mondo entro cui si svolge la narrazione sia un mondo dove i confini tra bianco e nero sono molto sfuocati. Non vi sono, infatti, eroi e antieroi chiaramente distinguibili, non si trovano dei personaggi completamente positivi o negativi, e gli stessi schiavi, palesi vittime sistemiche, sono rappresentati nella loro umanità con pregi, debolezze e realismo.

L’evoluzione psicologica dei personaggi riserva svolte inattese, si pensi al succitato Asa che, nel corso del romanzo, passerà da giovane e spaventato schiavo e a un feroce e carismatico pirata. Il lettore è catapultato dai salotti della nobiltà mercantile britannica del XVIII secolo fino alle strade coperte di sterco e polvere dei porti africani dove venivano ammassati migliaia di schiavi in attesa di essere imbarcati per i Caraibi. Insomma, non si tratta di una semplice storia, coinvolgente e fluida, di pirati, ma di un viaggio a trecentosessanta gradi all’interno di un mondo dimenticato in cui lo scrittore tocca tematiche che possiamo tranquillamente definire come contemporanee. Il modo con cui la società civile del tempo accettava senza colpo ferire l’orribile fenomeno della schiavitù, pur conoscendone perfettamente le condizioni disumane. La società civile di oggi forse si indigna un po’ di più ma, nella sostanza, assiste comunque impotente di fronte all’indifferenza della “maggioranza silenziosa”.

Emerge una solida ricerca storiografica a strutturare il modo in cui l’autore tratteggia le figure della tratta degli schiavi, dai negrieri fino ai mercanti di uomini. La storia raccontata non è basata su fatti realmente accaduti, ma si svolge all’interno di un contesto storico e in un periodo caratterizzati in dettaglio. Per quanto i personaggi, dal capitano pirata Pedro Lind fino al giovane schiavo Asa, siano frutto dell’immaginazione, le loro vicende sono verosimili e archetipiche. Non era certo insolito, infatti, che il mondo degli schiavi e il mondo dei pirati si incrociassero, e si tratta a ben vedere di un filone narrativo ancora largamente inesplorato.

Black Star aiuta anche a fugare un altro luogo comune, ovvero che la pirateria sia stato un fenomeno che ha riguardato principalmente la zona dei Caraibi e del Golfo del Messico. Ciò è vero solo in parte dal momento che molti pirati, anche famosi, hanno agito anche a largo delle coste dell’Africa Occidentale. Il tentativo dell’autore di descrivere ed evocare luoghi così lontani tra di loro, ma collegati comunque dall’infame tratta degli schiavi, permette al lettore di calarsi completamente nello spirito del tempo e di toccare con mano come, in fondo, il mondo fosse già largamente “globalizzato”.

L’ipocrisia di un’epoca che vedeva come giusta la schiavitù ma riteneva invece demoniaca e barbarica la pirateria è una delle tante contraddizioni che la penna dello scrittore è riuscito a fare emergere. “The Black Star” non è quindi inquadrabile nel classico genere piratesco, ma più che altro è un romanzo storico, nel quale i pirati svolgono un ruolo importante anche se non preponderante.

Tra molteplici scenari geografici e riferimenti ad alcuni avvenimenti realmente accaduti, il filo della narrazione condurrà il lettore dalla succitata guerra Anglo-spagnola fino al terribile terremoto del 1755 che distrusse quasi completamente Lisbona. Viene restituito qui un quadro della capitale lusitana vivace e godibile, un diario di viaggio storico che trasporta il lettore tra l’odore di caffè dei vicoli e il vociare dei mercatini del centro. Sbalzi e colpi di scena, sorprese e irretimenti completano il dedalo di “The Black Star”, che cerca di restituire un senso di “giustizia” nella storia. L’appendice storica posta alla fine del volume fornisce informazioni utili sulle fonti utilizzate, su tutte “La Nave Negriera” di Markus Rediker, e sul contesto storico di riferimento.

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“I canti dell’interregno”, un ritornello! https://www.carmillaonline.com/2018/06/16/i-canti-dellinterregno-un-ritornello/ Fri, 15 Jun 2018 22:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46094 di Antonino Contiliano

Pina Piccolo, I canti dell’interregno, Lebeg Edizioni, Roma, 2018, 10 €, pp. 116

C’è un ritornello di cui, senza molte incertezze, vorrei dire a proposito del libro di poesia di Pina Piccolo (“I canti dell’interregno”), così come conforta legare la parola “canti” del titolo (dell’interregno) a una radice verbale. Il libro è prefato da Rossana Morace. In primis però preme precisare che le poesie del libro, vista la differenza di stile tra quelle della prima parte e l’ultima, sembrano raccontare del diverso rapporto che Pina Piccolo ha [...]]]> di Antonino Contiliano

Pina Piccolo, I canti dell’interregno, Lebeg Edizioni, Roma, 2018, 10 €, pp. 116

C’è un ritornello di cui, senza molte incertezze, vorrei dire a proposito del libro di poesia di Pina Piccolo (“I canti dell’interregno”), così come conforta legare la parola “canti” del titolo (dell’interregno) a una radice verbale. Il libro è prefato da Rossana Morace. In primis però preme precisare che le poesie del libro, vista la differenza di stile tra quelle della prima parte e l’ultima, sembrano raccontare del diverso rapporto che Pina Piccolo ha avuto con la scrittura poetica e i suoi enunciati. In questo senso ci conforta la conferma avuta dalla stessa autrice. Si tratta infatti di una silloge che attinge ad una attività di “43 anni” di ricerca.

Ora torno alla radice. E la radice cui si pensa è quella agganciata alla parola ‘kantos’ – cantuccio, canto, cantina, ripostiglio, interstizio, angolo dell’occhio, l’angolo  dove i muri di un edificio (del regno) si incontrano e chiudono facendo catenaccio  – e non a ‘canere’, cantare.

In questa maniera, scansando l’impossibile comparazione con i “canti” delle magnifiche sorti e progressive di memoria leopardiana (anche se nel corso dei suoi testi l’autrice ne parodizza l’assunto), è probabile che nel tessuto di queste poesie i “canti” vogliano suggerire delle metonimie in funzione del reale concreto; figura e concetto, la metonimia, sottende infatti il vincolo con il reale delle cose messe in campo da questa poesia di denuncia e speranza di un mondo altro.

Un’incertezza, almeno fra le pieghe di chi scrive, rimane però nel decifrare invece la parola ‘regno’ (dell’interregno). Forse un simbolo metaforico o una chiave sineddochica? 

Funziona da metafora? Il regno, per esempio, è allora come la casa dell’Europa (di cui si parla nelle poesie del libro?); una dimora che nasce e si sviluppa cambiando forme e istituzioni? Un regno-casa e dimora immemore, o una fortezza dalle mura come quelle di Gerico o di Troia?

Oppure, il regno, è sineddoche? Il contenitore cioè che sta per ogni singolo contenuto (errori, orrori, contraddizioni, idealità, voci, truffe, guerre tra poveri, bussole…) custodito negli interstizi della fortezza-Europa con le sue terre e gli Stati a guardia del regno che difendono dagli assalti degli stranieri; il contenitore che negli angoli di casa (i canti) conserva le sonorità stridenti e le patologie «[…] / tra le sindromi morbose / sindoni irradiate / antropogenici cambiamenti / antropologici mutamenti / e ammutinamenti / costituzionali scrostamenti / e crollo di nazioni. » (Interregno, pp. 8-9); oppure il tutto che «nelle candide viscere / inghiottito / onde evitare rallentamenti / aggirare gli blocchi / truffando gli allocchi / grande tunnel di luce / che via dalla vita conduce” (Versetti dell’alta velocità, p. 34) e in serbo serva altre segreti d’ordine capitalistico.

Ma ritorniamo volentieri al ritornello!

Un ritornello che potrebbe funzionare anche come uno scambiatore temporale bidirezionale e reversibile, perché, nonostante i relativi presenti propri, c’è una costante linea di crisi nei rapporti di forza tra le cose e i soggetti di riferimento, sì che dal 2017 si può ritornare indietro al 2011 o al tempo degli argonauti o di Agamennone e al sacrificio di Ifigenia.

Intanto diciamo che questo segno semiotizzante, linguisticamente, è il ritornello che fa capo al segno verbo-grammaticale ‘inter’, ‘tra’; il segno che insieme è anche congiunzione, disgiunzione, luoghi, storia culturale, contesti (eventi mitici, diveniri storici lontani e vicini, andirivieni dilatati, contratti, non lineari…), geografia, ambienti, destini, speranze e lotta tra poteri costituiti e volontà conflittuali (forze di rotture e ri-cominciamenti) fin dalla notte dei tempi.  Una ripetizione, questo ritornello, quale vero complesso ubi consistam po(i)etico di tutti i testi poetici radunati in questo libro.

Il ritornello che, ri-strutturandoli nei versi di una libera metro-ritmica poiesis, introduce e accompagna perciò il lettore-interprete per tutti gli spostamenti semantici (fatti storico-materiali) che affondano la poesia stessa come un sapere che si nutre di conoscenza generale e fatti specifici. Come dire che l’attività compositiva propria alla poeta è un mondo da con-dividere nella divisione della crisi che oscilla (usando l’esergo gramsciano in prestito al libro) tra il vecchio che muore e il nuovo che stenta a nascere.

È il ritornello che nella scrittura poetica si presenta quale ritorno di un “segno” che ripete e differenzia la ripetizione del rapporto in mezzo a un campo di forze che si attualizza come ritmo (intervallo di istanti, ore, stagioni, tempi…); un ritmo però che è altra cosa dalla cosa ritmata (le mura di “Gerico”, di un manicomio, del Mediterraneo odierno  e lo scenario galleggiante della vita dei migranti afro-asiatici che – aggrediti dalle guerre, dalla fame e dalle violenze di sistema internazionali complici – l’attraversano…).

Diversi i portavoce di questo ritornello. Il portavoce può essere – come si legge nella prima poesia (Interregno, p. 7 e sgg.) – un “corno d’ariete” per le mura di Gerico, o la canzone di una gazza “nel giardino del manicomio” (dove si abbatte la speculazione edilizia), o, come in “Messaggio degli alberi recisi nell’ex manicomio dell’osservanza” (pp. 14 e sgg.), sono le “…anime degli alberi / recise, segate dalle magnifiche sorti rossastre / e progressive, qui in questo scorcio di millennio”.  (Per inciso, e non per ultimo – continuamente pungente e presentemente vigile – è in azione la sferza fortemente s-valutativa affidata alla parodia dello stesso noto giudizio leopardiano sul “progresso” umano e civile; basta puntare l’occhio e la mente sulla composizione fonemo-sintagmatica del segno “rossastre”, un enunciato di per sé già ferocemente umoristico).

In altri luoghi delle poesie (Interregno, p. 8.) può essere, per esempio, la ripetizione di un apparente tautologia lessematica: “[…] // Saldi, saldi, saldi! / teniamoci saldi / nell’interregno”, ma che tautologia non è. La parola, infatti, grazie alla posizione proposta, oltre a dirci di una dissociazione semantica tra il primo e il secondo verso citato, richiede una certa articolazione; così leggendo (primo verso) la funzione della virgola nel contesto della strofa precedente (quasi una cantilena che annuncia la vendita delle ultime rose da parte di piccole o grandi mani nere dedite al commercio ambulante, e sfruttate) della poesia, crediamo, volesse dire in successione: vi offriamo le “ultime” cose- saldi; “ancora”- saldi; “sempre”- saldi (e, poi, con “teniamoci saldi”, dire: rimaniamo uniti, aggrappati e fermi a questo slogan di regime…).

E solo per un altro esempio, nella poesia “Ventisei rose di mare” (pp. 39-41) si manifesta con un segno-vehiculm particolare, l’elenco cioè verticalizzato di tanti nomi tombali. Particolare, il segno, perché mixa il significante e il significato sovrappondo simultaneamente l’aspetto fisico-semiotico (la figura di una verticale come una raffica di nomi e corpi naufraghi sparati e inabissati) e quello linguistico-semiotico (i nomi enunciati in assoluto elenco numerico verticale). Una sintesi figurativo-concettuale significante che, offrendo un’eccedenza di senso poetico, rimanda a un altro “re-ligio”e rimando simbolico-culturale:

L’ultima volta che ognuna / levò in alto gli occhi / forse le arrise Oshun, / negra dea dell’acqua dolce / giunta a raccogliere / neri petali di rosa /per farne ghirlanda” (Ivi, p. 41).

Ma, per finire, c’è un altro ri-torno che il ritornello ‘tra’ o ‘inter’, qui, non dimentica; ed è, secondo chi scrive, la presenza di un “virtuale” che è reale sebbene non ancora attuale: è la voce anaforica che ripete: “Non avrete l’ultima parola”.

È la poesia in cui ritornello ripete la differenza degli enunciati (raccolti in  sei strofe) in un crescendo di speranza anti-poteri per chiudersi (p. 86) nella decisone di rottura che, senza esitazione, si scrive così:

Semmai, l’ultima parola / spetta a chi cercate / di imbavagliare nel silenzio.

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Dalla montagna aspra alla montagna lucente- tecniche e meccanismi di contro-narrazione nel romanzo  “La maligredi” di Gioacchino Criaco https://www.carmillaonline.com/2018/06/07/dalla-montagna-aspra-alla-montagna-lucente-tecniche-e-meccanismi-di-contro-narrazione-nel-romanzo-la-maligredi-di-gioacchino-criaco/ Wed, 06 Jun 2018 22:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45802 di Pina Piccolo

Dotato di un’esuberante quantità di personaggi e accadimenti mirabili, nonostante che il titolo alluda a una maledizione, il romanzo La maligredi di Gioacchino Criaco, prequel  che segue di 10 anni il suo primo romanzo di grande successo Anime nere, trasporta il lettore già dalle prime pagine in un territorio che per certi aspetti sembrerebbe distante anni luce dalla quotidianità contemporanea sebbene i fatti di cui narra l’autore siano accaduti una cinquantina di anni fa. Eppure i fatti di oggi discendono direttamente da quello che si è [...]]]> di Pina Piccolo

Dotato di un’esuberante quantità di personaggi e accadimenti mirabili, nonostante che il titolo alluda a una maledizione, il romanzo La maligredi di Gioacchino Criaco, prequel  che segue di 10 anni il suo primo romanzo di grande successo Anime nere, trasporta il lettore già dalle prime pagine in un territorio che per certi aspetti sembrerebbe distante anni luce dalla quotidianità contemporanea sebbene i fatti di cui narra l’autore siano accaduti una cinquantina di anni fa. Eppure i fatti di oggi discendono direttamente da quello che si è fatto o non si è fatto proprio in quegli anni, come ci ricorda  Criaco stesso  in numerose interviste e come si intuisce dal doloroso terzo atto a epilogo del libro.

La narrazione è accompagnata dalla costante presenza benevola e benefica dell’Aspromonte, sia  come ambientazione di alcuni capitoli sia per la continuativa evocazione nelle parole di Papula, il portavoce dell’utopia “L’Aspromonte sarà la nostra fabbrica!”

È in questo spazio-tempo che avviene il ribaltamento decisivo che forma l’impalcatura della contro-narrazione: dalla connotazione di aspro dovuto a un equivoco linguistico che lo vuole legato al significato latino di asper – monte arcigno e irto di pericoli- bisogna risalire al significato  di aspro in lingua grecanica (quello parlato alle sue falde) che invece riporta al bianco e al lucente.  La montagna quindi come liberatoria visione di luce,  e non masso che sovrasta in maniera minacciosa. Citando alcune definizioni del pastore zzu Binu, il personaggio che vi è più solidamente legato,  “La montagna è uno spazio in cui nessuno viene a dirti  cosa devi fare” […] “… è esercizio fisico e spirituale. Per capire questo monte, il desiderio di libertà bisogna averlo dentro”. 

Se lo volessimo mettere a confronto con un altro monte protagonista di bildungsroman scardinanti quale La montagna incantata di Thomas Mann vi è un rovesciamento nell’effetto terapeutico del rilievo montuoso che nel romanzo di Criaco alla fine vede la sopraffazione della natura da parte di un certo tipo di uomo (la ndrangheta) che avvelena sia la montagna che tutti quelli che appartengono a quell’ambiente naturale, tartarughe, falchi, uomini e donne compresi, specialmente le fasce più vulnerabili dal punto di vista economico. A differenza di Hans Castorp che in seguito agli incontri avuti nel sanatorio di Davos viene spinto tra le braccia della prima guerra mondiale, l’irrazionale e catastrofica crudeltà del gesto tossico della ndragheta (anello finale di tutta una serie di sopraffazioni) difeso con un’apparente filosofica mitezza e appello alla rassegnazione da Don Nino Zacco finisce per scatenare la giusta ira di Papula che punisce il mandante della distruzione (p. 316). Sarebbe interessante in questo contesto analizzare in maniera più approfondita le ultime righe del romanzo che descrivono la reazione di Nicola adesso uomo maturo, che sembra però continuare a svolgere una funzione di critica contemplativa, tipica dell’intellettuale europeo del ventesimo secolo.

Alcune delle pagine di maggior forza lirica nella seconda parte del libro “Le ali del cuculo” sono infatti dedicate alla  vita concreta sulla montagna e a come essa viene vissuta e sentita, grande madre protettrice, dal giovane protagonista in fuga (pagg. 262 – 295), pagine in cui Nicola vive l’esperienza di una delle anime nere, come vengono chiamati i fuggiaschi, preludio al romanzo che ne continua la storia. Da questo primo ribaltamento relativo al luogo non è difficile passare poi agli altri slittamenti e rovesciamenti che ne determinano l’andamento, la poesia e il controcanto.

A guidarci per tutto il romanzo è la voce narrante di Nicola (Nichino come lo chiama la madre) per la maggior parte del libro adolescente calabrese  residente nelle case popolari in cui è stata trasferita la parte meno abbiente della popolazione di Africo, che fa parte di un inseparabile terzetto composto anche da altri due ragazzi delle ‘rughe’ Filippo e Antonio, e ne media in un certo senso la coralità, essendo quello più portato a meditare sulle situazioni, a svolgere la funzione di intellettuale, e spesso a confrontarle con quelle con cui si misurano i suoi supereroi di Tex Willer. In questo suo amore per i fumetti e i supereroi potrebbe ricordare Oscar, il nerd del famoso romanzo di Junot Diaz La breve favolosa vita di Oscar Wao, anche lui afflitto da una maledizione, il fukù americanus, che si scatena su alcuni abitanti della repubblica dominicana afflitta a sua volta da dittatori e dall’imperialismo statunitense, in un altro sud di un altro continente. Altro elemento che li accomuna è il concetto di favoloso, mirabile (wondrous) che svolge un ruolo importante nell’economia di entrambi i romanzi. Ma a differenza di Oscar che è l’oggetto del romanzo narrato da una specie di narratore onnisciente che alla fine si rivela banalmente essere Yunior de las Casas , il suo compagno di stanza nella casa dello studente, nel romanzo  di Criaco la funzione di voce narrante corrisponde a uno dei giovani membri più riflessivi di una collettività più vasta  e corale, che nel corso del romanzo di ‘formazione’ scopre certe verità ed è chiamato a scegliere campo.

All’apertura del romanzo non lo sappiamo ancora ma ci troviamo nella piazza di un paese “mbentato” Africo Nuovo in provincia di Reggio Calabria, letteralmente spostato dall’Aspromonte per comodità politiche ed economiche  a una “conca”  che scopriremo  essere edificata su un acquitrino, che a sua volta si trova su un’antica necropoli. Il tutto prospiciente il mare che per i popoli della montagna assume contorni minacciosi. Nell’ultimo atto si mormorerà di verità  ancora più abiette a proposito del terreno su cui è stato edificato il paese e sui materiali di costruzione delle case popolari, ed è questo l’anello di raccordo con la cronaca spesso occultata dei nostri giorni.  Un “destino” fatto da uomini che si lasciano condurre da logiche economiche che accomunano Africo a tanti altri luoghi dell’Irpinia, della Somalia, del Nord Dakota, del Bangladesh perfino Detroit e altre zone la cui popolazione è stata designata ‘a perdere’ dal capitale nella sua manifestazione neoliberista.

E forse, sforzandoci, queste voci dei morti potremmo anche udirle nel chiasso, nell’iperbole e nel parossismo delle prime pagine che ricordano il saggio di Bachtin su Rabelais, il carnevalesco e le culture popolari.

Ma lungi dal lamentare tragedie è il fatto miracoloso che riempie la mente dei ragazzi e li stimola all’azione, e questo approccio eroico e proteso verso il meraviglioso (e sotto sotto verso l’utopia) ce lo rivela il pensiero di Nicola nell’incipit del romanzo:

“Era il fatto più magnifico dell’anno il miracolo di San Sebastiano, il più magnifico di sempre,  il più straordinario che conoscevo, nemmeno al cinema dell’oratorio ne avevo visto uno così e lì ci mostravano tutto il mondo nel film di sceriffi e indiani o in quelli cinesi di arti marziali o nei film dei romani. Mi venne in testa ora che dovevo stare concentrato, “Noi non vogliamo padroni, i diritti ci toccano senza che li chiediamo per favore. La voce rimbombava, gonfiandosi come il pallone di una gigantesca gingomma […]”. p. 15

e non a caso il proprietario di quella voce ben presto si guadagnerà  la ‘njuria’, il battesimo di fuoco  della comunità,  a opera del coro dei ragazzini dietro suggerimento di Don Santoro Motta che pronuncia la sua valutazione sia sul giovane rivoluzionario (nella realtà Rocco Palamara, giovane leader anarchico che animò molte delle ribellioni tra gli anni 60 e 70 ad Africo e nii paesi vicini) – “Questo ha una papula sulla lingua”, sulla rivoluzione che  – “è come le more  di gelso che bisogna stare sotto l’albero (quindi dentro) per vedere se sono mature” (p. 29).

Questa voce dei venti rivoluzionari che, all’inizio del romanzo viene utilizzata come utile distrazione che consente al terzetto di portare a termine un loro ‘colpo’ ancora sul limite della marachella infantile, nell’economia del romanzo assumerà ben presto la funzione del “mirabile”, “meraviglioso” accompagnando la loro formazione.  Un mirabile che però non è legato a un miracoloso ingenuamente religioso, come viene spesso rappresentato invece nelle narrazioni dominanti del sud, ma già  a una cosciente sospensione dell’incredulità, legata alla finzione di film, quindi sotto sotto si sa che il trucco c’è, si tratta di un mirabile disincantato.

La maligredi è un romanzo di formazione anomalo, dagli aspetti corali più che individuali, che invece di prendere forma fuori dal contesto familiare come è solito accadere nel bildungsroman è ambientato nel proprio paese ‘spostato’, in cui arrivano forze insolite e vengono evocate continuamente forze assenti, quali quella della montagna. Un bildungsroman calabro in cui si alternano “mala formazione” da parte dei membri ndranghetisti del paese e la formazione rivoluzionaria rappresentata da Papula e  i suoi fratelli da una parte, coadiuvati dai racconti di una giustizia antica e un’utopia che arrivano attraverso la contastorie la gnura Cata (che priva di mezzi è mantenuta dalla carità nascosta e solidarietà delle comari, vessillo di un modo di essere all’insegna della Grande Madre e della montagna).Rimpiazzando per importanza la gioia compressa nelle festività dei santi, la voglia di ribaltare l’ordine costituito deve però fare i conti con i rapporti di potere economico- sociali  all’interno del paese mbentato e nelle zone limitrofe ed è lì che si annida la ndrangheta nelle sue varie tonalità e nella sua funzione di esca per i ragazzi. Ed è proprio sul fronte linguistico che sarebbe interessante approfondire anche certe peculiarità del linguaggio dei malandrini, in tutte le loro versioni, gerarchie e tonalità, certe ambiguità ed aperture fantasiose di interpretazione con cui i ragazzi si confrontano in una specie di apprendistato in cui si ritrovano inizialmente a loro insaputa (pagg. 64- 75).  Un approfondimento di queste ambiguità e ‘aperture di interpretazione’ nel linguaggio degli ndranghetisti potrebbe anche risultare utile per capire come possa avvenire il dialogo (più che infiltrazione) e le alleanze con altre forme di clientelismo e attività criminali al margine della legalità esistenti in altre parti di Italia e del mondo in cui la ndrangheta riesce a fare affari ed espandere il proprio giro.

Nel romanzo, a cercare di neutralizzare questi tentativi di portare sulla cattiva strada,  ci sono in primis  le madri (gran parte di esse sono vedove bianche di mariti emigrati in Germania), i racconti  della gnura Cata, il bar di Rocco, il proprietario del ristorante che  organizza banchetti, un ex brigadiere un po’ ambiguo. Una tipologia  variegata di popolo, caratterizzato da una  grande ricchezza di caratteristiche individuali, peculiarità espressive e modalità di azione che Criaco dispiega con maestria per tutto il romanzo.  Ed è qui la forza della provenienza diretta da quei luoghi, l’esperienza  di esserci stato dentro, che  getta le basi per un tipo di racconto completamente diverso da chi le cose le percepisce  da estraneo, seppur benevolo, pur ideologicamente bene allineato (penso al racconto di Carlo Levi del paese della Basilicata  in “Cristo si è fermato ad Eboli”, penso perfino ai ‘ragazzi di vita’ di Pasolini nonostante l’aura di realismo e l’uso del dialetto.  La lingua di Criaco non è necessariamente più ‘autentica’ o ‘naturalistica’, è infatti una lingua chiaramente inventata, con una poetica tutta sua che però è efficace nel trasmettere i sentimenti e la visione del mondo di chi vive in quei luoghi modulandola in maniera credibile a seconda del personaggio. Ed è anche un racconto diverso da certe riabilitazioni un po’ mistificatorie del sud e del mediterraneo, alcune che addirittura recuperano con segno positivo i Borbone in nome della denuncia  della colonizzazione del sud da parte del nord.  Altre riscoperte del Mediterraneo e di una cultura comune necessitano anch’esse ulteriori approfondimenti e studi per non cedere alla tentazione di confezionare un prodotto ”Sud” che occulti le complessità e problematicità culturali, con elogi della lentezza costruiti un po’ ad hoc. Criaco nel romanzo è molto attento a non assolvere da responsabilità personali anche chi è vittima di certi contesti sociali e familiari, e per questo il personaggio di Nicola è molto importante.Sempre a proposito di narrazioni dominanti del sud, a parte quelle benevole ma in un certo senso limitative e fuorvianti a cui si è accennato sopra, vi è tutta una vasta tipologia di narrazioni meno benevole del sud, della Calabria in particolare, denunciate ed esposte con dovizia di particolari nel libro dell’antropologo Vito Teti Maledetto Sud , una lettura parallela che potrebbe essere utile per capire l’importanza dell’operazione culturale svolta da Criaco e da tutta una serie di scrittori impegnati a fornire una contro-narrazione del, sud e della Calabria nello specifico.

A livello di analisi letteraria, molti dei personaggi presentati sono emblematici in momenti specifici del romanzo fino quasi a costituire l’incarnazione di certi tipi di vento che soffiano da quelle parti (ricordiamoci sempre il cronotopo, lo spazio-tempo). Infatti vengono esplicitamente ed emblematicamente citati nella struttura del romanzo, diverse tipologie di vento: l’intera prima parte è intitolata “I figli del vento”, suddivisa poi in tre parti, ciascuna dedicata a un tipo di vento “Africo (che è anche il nome del libeccio oltre a essere il nome del paese),  Zefiro e Bruschiu, venti completamente diversi tra di loro per origine ed effetti e che in un certo senso  danno una connotazione agli eventi mirabili che si verificano  nell’arco temporale che li interessa.

La prima parte del libro è introdotta dall’esergo “Il vento non distrugge le vite, le sposta soltanto da un posto all’altro”.  Frase che potrebbe alludere  alle vicende del paese di Africo ma potrebbe anche contenere un accenno sia al carattere di continua mobilità del racconto (gli spostamenti in treno dei ragazzi per andare a/marinare la scuola prima e poi per espletare i primi compiti a carattere ndranghetistico,)  sia a certi slittamenti del linguaggio utilizzato per differenziare un racconto dalla lingua utilitaria impiegata per le comunicazioni di servizio della vita. Per individuare gli sbalzi di registro, basti pensare alle modalità di racconto quasi ieratiche della gnura Cata che invocano ed evocano un antico retaggio comune e formano l’identità delle generazioni, gli slittamenti verso la poesia, casi di code switching tra italiano, dialetto e neologismi. Per un’interessante analisi del linguaggio utilizzato dall’autore in chiave identitaria vedere l’articolo di Maria Zappia.

Al primo fatto mirabile dello smascheramento del trucco nella processione di san Sebastiano operato dagli stessi ragazzi segue un secondo evento epocale che li vede protagonisti come gruppo, cioè grazie ad uno sforzo coordinato riescono ad afferrare, in un particolareggiato racconto di 8 pagine (pagg. 41-49) che oscilla tra l’epico e il picaresco, la coda di volpe della giostra degli zingari e vincono il premio di diecimila lire, che poi spendono immediatamente  per assaggiare per la prima volta la birra e regalare a Lidia, la madre di Nicola, la collana dorata con i ciondoli di pietre verdi, che rimarrà sempre il simbolo del diritto al pane e alle rose.

Sempre in questa prima parte, sotto l’egida dello Zefiro, vento gentile, si verifica grazie agli sforzi collettivi un altro evento mirabile, stavolta di chiara impronta ideologica-politica, che serve a spostare in avanti la trama e la contro-narrazione  del sud: sulle ali della rivoluzione si conclude in maniera vittoriosa la lotta per fare fermare il treno ad Africo, cioè far riconoscere l’esistenza del paese, che veniva  fino ad  allora riconosciuto solo con un rallentamento del treno. (pagg. 170-80). Lotta  portata avanti con spirito di ribellione, strategie innovative e imprevedibili che  stimolano il protagonismo dei giovani di Africo che rifiutano il destino di salire sul Pellaio, il treno che invece si ferma per portarli ineludibilmente all’emigrazione, come i loro padri. Dopo aver costretto autorità e  malandrini  a cedere e a far fermare il treno ad Africo (come non vedere in questo una contro-narrazione alle rappresentazioni del sud in cui i treni si fermano a Eboli) “Andammo in massa alle autorità e pretendemmo che il paese esistesse sempre di più” (p. 180). Avendo trasceso l’ineluttabilità del fato grazie al vento nuovo portato da Papula e recuperando  antiche istanze di giustizia, ascoltate nei cunti della gnura Cata il popolo delle rughe è pronto a proseguire le lotte, e con loro anche i ragazzini  del romanzo di formazione,

“Quasi un mese di tarantelle  e le ferrovie si arresero, costruirono una stazione provvisoria, una baracca di lamiere che sembrava tirata su in mezza giornata, e dentro ci misero un ferroviere che stampava da una macchinetta i biglietti di Africo, e un cartello metallico nuovo di zecca venne avvitato su due pali di ferro.” (p. 180)

Sulla scia di questa prima vittoria, la trama si sviluppa con un susseguirsi di eventi mirabili che interessano i ragazzi delle rughe, alcuni di segno positivo, altri di segno negativo, per arrivare a  quello che sarà il nucleo centrale del libro: la lotta delle gelsominaie  (pagg. 180.-196) di cui la madre di Nicola diventa leader fino al punto di sfidare lo status quo entrando in una istituzione leggendaria del paese – la Rota, il consiglio dei saggi che nessuno della loro generazione aveva visto in azione, tanto meno le donne.  In una dettagliata contro-narrazione della staticità e inerte sensualità con cui sono rappresentate normalmente le donne del sud dallo sguardo maschile nella letteratura canonica, Criaco crea ricostruzioni fedeli delle miserrime  condizioni di lavoro sotto la gestione della ndrangheta e i vari passi intrapresi da rivoluzionari e dalle donne stesse alla fine per redigere le proprie rivendicazioni, donne normali appartenenti alle classi subalterne rese coraggiose tramite resistenze incrementali e dalla forza dell’unità che resiste a minacce e blandimenti.  Dal punto di vista psicologico questo nuovo ruolo assunto dalla genitrice a livello comunitario segna per Nicola uno spartiacque nel rapporto tra madre e figlio, in cui lui cessa di vederla esclusivamente come madre-nutrice ed è in grado di percepirne la dignità e l’intelligenza, specialmente in contrapposizione all’assenza e viltà del padre che si è formato nel frattempo un’altra famiglia in Germania e li ha abbandonati,

“Pensai con commiserazione a mio padre e immaginai la sua signorona tedesca grassa e con i capelli dipinti di biondo.  Mia madre attaccava, rispondeva, si difendeva e di nuovo attaccava. I padroni cedettero e i malandrini incassarono. Lei vinse per tutti, e ottenne quanto era possibile: due giorni di riposo a settimana, lavoro di otto ore e furgoni chiusi al posto dei camion scoperti con le sedie ballerine.” ( p. 184)

Sempre nell’ottica della necessità di una contro-narrazione del sud sarebbe interessante approfondire la figura delle vedove bianche, sia per l’importanza che hanno rivestito in senso numerico nei paesi a forte tasso di emigrazione, sia per quel che ha significato portare avanti la famiglia in un contesto di vulnerabilità di genere (e nel caso di Lidia si vedrà come tra le armi per punire le donne ribelli e la rivoluzione nel suo insieme il malavitoso Sartana punirà userà lo stupro, evento taciuto per pudore e per paura ma intuito dal figlio che non potendolo accettare deve trasformarlo in una sorta di incubo, fenomeno  appartenente a una sorta di dormiveglia che potrebbe travisare la realtà). Altro fattore importante le ripercussioni che non avere un padre e reggere la famiglia insieme alla madre possono avere sulla formazione del carattere sia dei figli che delle figlie.

Quasi a voler porre freno  all’entusiasmo della vittoria rivoluzionaria, Criaco  presenta a chi legge un brusco cambiamento di venti dal felice, leggiadro zeffiro si passa al bruschio foriero delle uniformi dello stato che interverranno a favore dei malandrini che non sono in grado da soli di contrastare la vittoria delle gelsominaie e dei seguaci del cambiamento uniti;

“il vento della sventura, che arriva dalla Libia come il Libeccio, ma non rubava la vita al deserto, ne portava l’alito di peste.. [….] Non era normale pensai, il Bruschiu a inverno finito a troncare sul nascere la speranza di una bella stagione. No questo non era il suo tempo, e l’inverno era appena al debutto.”[…] E infatti l’urlo scemò, le folate divennero raffiche e si portarono via lontano il fischio. Ma dal fondo della nostra schiera arrivò un nuovo urlo, che era umano anche se disumano e  riportò il freddo, che si propagò veloce fino a raggiungere Papula, l’ultimo uomo di questa  nostra rivoluzione…” (p. 196)

Ed infatti ad essere portato via  dalle forze della restaurazione, la pecora nera sacrificale  è Rocco il proprietario del bar, il figlio più anticonformista,  più rigoroso nella sua opposizione alla ndrangheta – che tratta con disprezzo nel suo esercizio, il figlio più imprevedibile della rivoluzione. Una delle ultime immagini del libro quando Papula compie un atto tardivo di giustizia ristorativa, è proprio la rievocazione della testa dilaniata di Rocco nel grembo della madre.

Sempre all’insegna del Bruschio si ha la narrazione del tentativo di Papula di trovare alleanze  nei paesi vicini, riesce a perfino a organizzare movimenti studenteschi di sostegno e di ribellione all’ordine mafioso, ma

“Di nuovo come nella rivolta dentro Africo, i malandrini li difese lo Stato, con le divise, i manganelli e le manette. Il potere colpì duro, i sogni li costrinse in un angolo. […]  la rivoluzione si squarciò, si divise in decine di rivoli e ognuna rientrò nel suo paese d’origine. Di nuovo fratelli contro fratellastri […]  ma appena la nostra lotta tornò a vincere, lo Stato rientrò nelle piazze dei paesi e colpì duro, sempre e solo contro la stessa parte: le uova del gallo.” (p. 216)

Come ribadito più volte in interviste da Gioacchino Criaco, la narrazione dei fatti di Africo nel romanzo si prefigge lo scopo di illustrare come i calabresi abbiano provato ad essere migliori e quali sono stati i meccanismi che li hanno fatto fallire. Ben lungi dall’essere un’atavica maledizione del sangue, quel lupo che entra nel recinto e uccide tutte le pecore non solo quella che poteva saziare la sua fame, non rappresenta un destino biologico ma un’alleanza di forze socio economiche che riceve manforte dallo Stato. Nicola è vittima sia di quelle forze, che delle proprie responsabilità individuali e non a caso nel terzo atto un Nicola ormai maturo  e sconfitto dalle proprie scelte di vita sbagliate ritorna ad Africo dopo decenni di  lontananza prendendo atto di come l’attuale ondata tossica di morte derivi e sia la conseguenza estrema, occultata, proprio della sconfitta di quegli anni,  dell’ostruzione ai cambiamenti che  una sostanziale fetta della popolazione desiderava e aveva intrapreso. Sarebbe interessante inserire  questo discorso all’interno di una nuova letteratura che oltre a fornire una contro-narrativa ai cliché sul sud metta anche al centro dell’attenzione il rapporto tra società e ambiente, incorporando anche il mito e le nuove popolazioni di immigrati da altre parti del mondo che adesso abitano quelle zone. Il tutto all’interno di un discorso ecologico in senso lato, un discorso che ha già avuto le prime manifestazioni per quanto riguarda le Terre dei Fuochi e comincia ad essere conosciuto anche all’estero grazie a libri come Ecocritical Approaches to Italian Culture and Literature  a cura di Pasquale Verdicchio, libro di cui è stato tradotto e pubblicato il saggio del curatore ne La Macchina Sognante n. 9 e n. 10

Nicola trova un momento di riabilitazione etica nel gesto di accudire, nel suo ultimo mese di vita, la madre che è rimasta quell’elemento di lucentezza del gelsomino,  quel lucore di monte, quella utopia quotidiana, come tante madri calabresi  di quegli anni. Nelle sue considerazioni finali rimane coerente al suo ruolo di contro-narratore e mente critica del terzetto,

“Penso che la maligredi e la rivoluzione si assomiglino, rischiano di essere eterne, come la speranza che da queste parti, nonostante la tragedia perenne, è un vento che soffia senza requie.” (p. 316);

Nella cosmogonia sumera, il vento ‘Enlil’ è l’elemento che separa il cielo dalla terra e il Prologo di Gilgamesh e gli inferi tratta di questo primo atto violento, di separazione,  che, dallo stato iniziale di immutabilità, implica anche la creazione di qualcosa di nuovo, il moto e il mutamento.  Da questa prima accezione del vento come elemento di dinamismo, percorrendo i sentieri del mito e della religione, si può arrivare per analogia al soffio vitale, al fiato. Da lì vi è solo un breve passo alla parola creatrice, che si ricongiunge al concetto di Verbo della tradizione ebraica. Dal punto di vista letterario dobbiamo rendere grazie a quel vento che è quello del linguaggio poetico, degli slittamenti lirici di Criaco, senza cui non avremmo avuto un romanzo del calibro di La maligredi.

 

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L’opera degli ulivi: anni ’70 – di università, utopia, amore, fascismi e ndrangheta https://www.carmillaonline.com/2018/05/25/lopera-degli-ulivi-anni-70-di-universita-utopia-amore-fascismi-e-ndrangheta/ Thu, 24 May 2018 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45732 di Pina Piccolo

Santo Gioffré, L’opera degli ulivi, Castelvecchi, Roma, 2018, pp .108, 13,50 euro.

Con una decisa virata che lo allontana dalle modalità classiche di racconto impiegate in precedenza nei suoi romanzi storici, l’ultimo romanzo di Santo Gioffrè, “L’opera degli ulivi” si presenta come una coraggiosa e riuscita operazione culturale, sia a livello di scrittura che di contro-narrazione/controcanto  alle più diffuse e consuete narrazioni del sud, di quelli che furono i movimenti di contestazione giovanile degli anni 70, del ruolo dello Stato nell’eversione di destra e nella complicità con le associazioni criminose. Un controcanto che posiziona  le dinamiche che perpetuano [...]]]> di Pina Piccolo

Santo Gioffré, L’opera degli ulivi, Castelvecchi, Roma, 2018, pp .108, 13,50 euro.

Con una decisa virata che lo allontana dalle modalità classiche di racconto impiegate in precedenza nei suoi romanzi storici, l’ultimo romanzo di Santo Gioffrè, “L’opera degli ulivi” si presenta come una coraggiosa e riuscita operazione culturale, sia a livello di scrittura che di contro-narrazione/controcanto  alle più diffuse e consuete narrazioni del sud, di quelli che furono i movimenti di contestazione giovanile degli anni 70, del ruolo dello Stato nell’eversione di destra e nella complicità con le associazioni criminose. Un controcanto che posiziona  le dinamiche che perpetuano  la sopravvivenza e sviluppo della ndrangheta in un contesto economico e politico più vasto, su scala nazionale ed internazionale, anche se a volte i personaggi stessi agiscono credendo di  essere spinti da antiche, ataviche maledizioni… Attraverso un alternarsi di cronaca dei fatti, disamina dei rapporti sociali ed economici che rimanda ai romanzi di inchiesta di Sciascia, con squarci di indagine psicologica, e a tratti animatissime contrapposizioni caratterizzate dal grottesco, specialmente quando  i lettori sono invitati a entrare nel gliommero, nel groviglio per dirla con Gadda. Nel suo ritmo la scrittura di Santo Gioffrè in questi momenti  rispecchia certi andamenti dei fermenti dell’epoca, nei quali lo scrittore cala il  personaggio di Enzo Capoferro, studente di grandi ideali di giustizia e cambiamento, in uno scenario specifico che contiene tutti i semi  del momento storico che stiamo attraversando adesso. Quegli anni 70 in cui a livello mondiale si gettano le basi del neoliberismo, anni in cui in Italia si saldano i rapporti tra Stato e movimenti eversivi di destra, Stato e associazioni criminose proprio nel momento in cui queste ultime si stanno trasformando da associazioni criminali a raggio limitato, di natura rurale/pastorale  a business  su scala nazionale, accumulando capitali attraverso i sequestri, capitali che verranno poi investiti nel narcotraffico.

Per lanciarsi eventualmente nel business  internazionale, operando in congiunzione con lo stato attraverso gli appalti, riciclaggio, etc.  Oggi queste operazioni, che avvengono su scala nazionale e internazionale vengono definite ‘infiltrazioni mafiose’, ma questa narrazione dominante dei fatti è una  che poggia sull’idea di una netta cesura tra le modalità sociali ed economiche che dividono il nord dal sud, una narrazione che non prende in considerazione la storia comune di clientelismi e trasformismi che ha caratterizzato e caratterizza l’intera nazione e che costituiscono il terreno fertile su cui attecchiscono, fenomeno abbastanza diverso dall’infiltrazione.

Ritengo infatti  il romanzo  di grande attualità per chi si sforza  di leggere tra le righe e  le pieghe, chi cerca di capire la contro-narrazione della cronaca dei fatti e dei rapporti umani che conducono un giovane di  grandi ideali di giustizia e cambiamento sociale a scivolare  suo malgrado dentro una faida famigliare, in quanto strategia per la propria sopravvivenza. Difendersi e attaccare in quelle modalità potrebbero apparire un astorico destino atavico, e in diversi punti del romanzo i personaggi stessi ne sono convinti,  ne parlano come di una maledizione che colpisce alcune famiglie e non altre. In questo rispetto è interessante il personaggio di Giulia il cui contesto famigliare  non ha contiguità  con quello della ndrangheta per cui stenta a capire le azioni di Enzo  e quest’ultimo la invita a evitare di entrare in quel suo mondo in quanto la sua purezza rimane  l’ultima isola su cui proiettare il suo amore e la sua speranza di futuro, una volta che perfino il mondo dell’ideologia si rivela intaccabile da quello della ndrangheta.  Le scelte, in apparenza obbligate, sono invece il frutto di specifici assetti economici, sociali, istituzionali che Santo Gioffrè delinea con grande maestria  nel corso di poco più di 100 pagine e 14 brevi capitoli regalandoci anche personaggi di intensa tragicità  come la madre di Enzo che si ritrova a dover imporre alla sua famiglia quella vecchia strategia di sopravvivenza alla quale credeva di aver definitivamente scampato.

Autore di 8 romanzi storici  che operano un’attenta disamina del territorio di provenienza, la zona di Seminara in provincia di Reggio Calabria, scavando dall’epoca bizantina su su fino  ad arrivare all’800,  creando personaggi quali Artemisia Sanchez che si fanno interpreti di risvolti della storia a cui negli anni si è dato poco risalto, ci si potrebbe chiedere perché  a questo punto della sua carriera letteraria Santo Gioffrè si prenda la briga di invertire la rotta e di occuparsi di un periodo storico  molto più vicino alla propria contemporaneità, a quaranta anni di distanza dai fatti di cui è stato testimone? di narrare  una storia che va in senso contrario a ciò che l’autrice nigeriana Chimamanda  Ngozi Adichie  chiama “the single story”, cioè la narrazione univoca di fatti , personaggi, circostanze, pratica deleteria che ha grandemente contribuito a impoverire il mondo della cultura  e l’immaginario a livello planetario? Non esistono già potenti contronarrazioni verrebbe la tentazione di obiettare basandosi  sul fiorire di tesi sociologiche negli ultimi anni sulle culture mediterranee: il pensiero  meridiano, le opere di Franco Arminio e di Franco Cassano, la controstoria del risorgimento di Di fiore et al.  Tutte queste opere potrebbero dare l’impressione che questa narrazione univoca si sia indebolita se non addirittura estinta e che adesso l’idea dominante rispetto al sud sia  l’elogio della lentezza o una specie di rivalsa di un sud come depositario di sapienze antiche superiori alla modernità.

In realtà nell’immaginario dominante si stenta a dissociare fenomeni storici come la ndrangheta da un discorso  di retaggio atavico, una specie di maledizione che condiziona  gli usi e i costumi di quelle popolazioni portandole  a seguire i dettami del “familismo amorale” ipotizzato dal sociologo statunitense Edward Banfield negli anni 50. Ed è implicitamente contro questo il tipo di storia che  si dispiega la narrazione fatta da Santo Gioffré della complessità dei rapporti umani, lo scavo dentro  il punto di intersezione  di vari fenomeni storici,  come i rapporti tra  movimenti fascisti di destra che spadroneggiavano all’università di Messina negli anni  1977-78-79, l’eversione internazionale rappresentata dagli studenti affiliati al regime dei colonelli greci che per motivi storici si trovavano frequentare università a Messina, in combutta con la massoneria che a livello istituzionale governava  la città e l’ateneo, per non parlare poi degli studenti ndranghetisti e  ed ella ndrangheta stessa che  ha in quel periodo le mani sull’università e sui vari servizi, per esempio la mensa.   Quando Santo Gioffrè  nel book trailer afferma, “Ho voluto raccontare la storia  di uno di noi, di uno che ideologicamente era destinato ad altro”, parla di tutta una generazione di ragazzi e ragazze che erano stati i primi della propria famiglia ad avere accesso  all’università. Nel caso di Messina si trattava anche di studenti  provenienti da famiglie contadine calabresi, che non avendo all’epoca un’università in regione  erano costretti a fare i fuori sede a Messina, Roma, Bologna o Napoli. Non avendo queste famiglie i mezzi economici per mantenere più di un figlio  all’università, accadeva che solo uno di essi  fosse prescelto per studiare. Il libro  registra la precarietà del rapporto di queste generazioni di studenti universitari sia all’interno della propria famiglia una volta determinata la scelta e nel loro nuovo habitat  in cui vengono trapiantati. Nel libro ci sono brani  che con grande maestria fotografano le tensioni o i sensi di colpa di Enzo verso i fratelli Nicola e Paolo destinati invece a portare avanti  il rapporto della famiglia con l’agricoltura e in un secondo momento, in un ribaltamento simbolico, si assiste a una sorta di rituale messo in atto da Nicola per spogliare il fratello della sua identità di studente,  cosa che avviene quando, mentre si dirigono a compiere il primo delitto di faida insieme gli fa togliere l’eskimo e lo fa sostituire con un vecchio giaccone stile latitante.  Scrive Santo Gioffrè:

“Arrivati al grande palmento della loro famiglia, Nicola diede d Enzo il suo fucile semi automatico e aprì la porta … Grandi botti di rovere , ricordavano anni passati quando il padre produceva vino, prima che la politica del governo, scoraggiandone la coltivazione,  portasse agli espianti dei vigneti. Da una di queste botti, Nicola estrasse un fucile a canne parallele calibro 12, perfettamente conservato. Lo diede a Enzo insieme a otto cartucce  caricate a pallettoni. Lasciato immediatamente il posto s’incamminarono fino al loro rifugio-  Nicola s’accorse solo allora di non avere un passamontagna per il fratello. Camminando tra gli uliveti e frutteti, notò una casa in uso a un contadino. Diede un calcio alla porta ed entrò.  Sul muro  appesi a un chiodo individuò gli indumenti di lavoro […] Con un coltello tagliò una manica e legò con lo spago una delle due estremità, poi con le mani allargò l’altra estremità e la infilò in testa al fratello, pizzicò la maglia nel punto corrispondente agli occhi e alla bocca  e tirandola verso di sé praticò dei buchi”.

Ricordando una scena speculare precedente in cui  Enzo Capoferro ancora in pieno possesso della sua identità di studente rivoluzionario estrae da un nascondiglio una P38 davanti agli occhi esterrefatti di Giulia, confrontandola alla scena nel palmento, il lettore può decifrare  la portata della discesa di Enzo agli inferi. Infatti lo stesso personaggio di Enzo Capoferro riflette amaramente sul fatto che  prima non aveva mai pensato di adoperare un’arma se non  per una convinzione ideologica che lo portasse a utilizzarla  in un atto di giustizia sociale.

L’andamento titubante di questi nuovi insediati  rispetto  alla loro nuova dimensione fatta di  spesso di insicurezze dalla precarietà, dall’essere sempre sul filo di una ricaduta verso il passato è registrato sia dall’indecisione (basti pensare ai ripensamenti di Giulia rispetto all’esprimere vicinanza a  Enzo colpito dall’omicidio del padre e poi quella di Enzo rispetto all’opportunità che Giulia l’accompagni al riconoscimento del padre all’obitorio), sia dall’intensità della  ricerca di un gruppo nel quale rispecchiarsi. La profondità dei legami di amicizia che si formano viene ,ad esempio, espressa dalla tristezza avvertita dall’intero gruppo quando vede Enzo scivolare nuovamente in un contesto da cui sembravano destinati a distaccarsi.  Il corteo dei vecchi compagni si ferma in silenzio davanti alla casa dello studente  per accennare un saluto a Enzo che non è più con loro  fisicamente e mentalmente, ma di cui avvertono la mancanza sia  come persona che come leader.   La mobilità  e l’irrequietezza sembrano rispecchiarsi a livello strutturale nei continui spostamenti dei giovani tra Sicilia e Calabria , gli attraversamenti dello stretto in traghetti della linea Caronte (ironico accenno al nefasto destino che l’aspetta?), i viaggi  Sicilia e Roma, tra l’università e il ‘covo’ che ospita i ‘latitanti’ politici . Della loro vita non vengono registrati i momenti statici ma quelli di mobilità.

È da questa esigenza di sicurezza  e in questo contesto che nasce anche la storia d’amore tra Enzo Capoferro e Giulia. L’incipit del libro è contraddistinto da un tono elegiaco, in cui l’accenno alla prima notte d’amore dei due  è da un lato velata da presagi nefasti “Quell’alba sembrava non avesse trovato nessuna pace nel cielo. Sembrava messa al rovescio, così pallida da pensarla vicino all’estinzione” E Giulia Ed Enzo nella loro prima introduzione nel libro cercano di allontanarsi da questa estinzione “Il riscatto nelle valli delle Serre era l’utopia per soffocare le ombre  della tristezza.  Giulia non voleva morire con il raschio dei calli di suo padre nelle braccia. Era la piccola di cinque sorelle: maritate già minorenni.  Messina era così perfetta, senza nessun intervallo né un vacillamento nel mare. Era la signora di una stirpe imperiale, un accecamento di luce. E le stava andando incontro.”   Quasi a contraddire in maniera eclatante il potenziale utopico di riscatto di cui Giulia investe la città di Messina, già nella pagina successiva il narratore introduce un grottesco cambio di scena contraddistinto dal parossismo dell’azione, che inizia col comizio  improvvisato di Enzo per denunciare la presenza di blatte nella mensa  universitaria “Guardatele le blatte ! Sembra che abbiano le branchie piantate in ogni spazio; questa mensa ha il primato mondiale della sporcizia. Compagni, non possiamo tardare la protesta! Alziamo la nostra lotta! Occupiamo l’Opera Universitaria! Cacciamo chi ha fatto del controllo della mensa un affare”. Il tutto seguito dal parapiglia creato della reazione degli studenti ndranghetisti  che disperdono i manifestanti con delle mazze chiodate e inconsapevolmente danno l’avvio alla love story buttando Giulia tra le braccia di Enzo che la salva dalle mazzate.

Oltre alla frenesia degli spostamenti il libro sembra caratterizzato dalla frenesia del fare e in questo contesto potrebbe essere interessante pensare a un’interpretazione del titolo  “L’opera degli ulivi”, parliamo dell’opera nel senso di melodramma o opera nel senso dell’operare, dell’agire?  I grandi boschi di ulivi della Calabria,  questa sorta di antica monocultura ereditata dalla civiltà greca, in che modo condizionano l’agire degli umani la cui vita ne dipende per necessità economiche e per attaccamento alla bellezza del luogo?  Che richiamo esercitano perfino nelle generazioni che stanno cercando di distaccarsene? Quali sono i saperi che essi racchiudono e le tragedie di cui sono testimoni?

 

 

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La moto di Pio e Koudous, note per una lettura del mondo di A Ciambra https://www.carmillaonline.com/2017/11/17/la-moto-pio-koudous-note-lettura-del-mondo-ciambra/ Thu, 16 Nov 2017 23:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41547 di Pina Piccolo

Sono appena tornata  a casa dalla visione di A Ciambra: visione nel senso “visionario” della parola, con ancora nelle orecchie il chiacchiericcio sulla sua umanità proveniente da alcuni spettatori attempati seduti dietro di me e quello  dei ragazzi  seduti nella mia fila che durante l’intervallo si interrogavano su dove fosse posizionata la cinepresa e se alcune scene fossero state riprese da due. Mentre i primi sottolineavano il messaggio che pensavano di dover trarre dal film, i secondi si interrogavano sulla questione tecnica di come il regista  fosse arrivato a confezionare la [...]]]> di Pina Piccolo

Sono appena tornata  a casa dalla visione di A Ciambra: visione nel senso “visionario” della parola, con ancora nelle orecchie il chiacchiericcio sulla sua umanità proveniente da alcuni spettatori attempati seduti dietro di me e quello  dei ragazzi  seduti nella mia fila che durante l’intervallo si interrogavano su dove fosse posizionata la cinepresa e se alcune scene fossero state riprese da due. Mentre i primi sottolineavano il messaggio che pensavano di dover trarre dal film, i secondi si interrogavano sulla questione tecnica di come il regista  fosse arrivato a confezionare la visione che intendeva far fruire al pubblico.

Scrivo queste note come spettatrice e non in qualità di critica cinematografica , competenza che chiaramente non posso arrogarmi.  Come ti folgora un quadro di Caravaggio seminando una specie di confusione dei sensi in una giornata di musei in cui hai visto innumerevoli tele di pittori rinascimentali, così posso dire è stata per me  la visione di A Ciambra.  Confesso che parte di questa sospensione sensoriale sia dovuta alla trasposizione e attualizzazione  dei luoghi, che in una loro versione antecedente hanno fatto parte della mia infanzia/adolescenza – Gioia Tauro (forse la città che maggiormente trasgredisce le regole dell’estetica urbana italiana), San Ferdinando (frazione di  Rosarno) ed evocati Reggio Calabria e la Tonnara e il supercarcere (di Palmi). Le zingare che conoscevo io erano quelle che, in assenza di tua madre, bussavano alla porta dicendoti che la tua genitrice l’aveva mandata perché le consegnassi una bottiglia di olio. Ordine prontamente eseguito dalla brava bambina obbediente a qualsiasi adulto.

Luoghi, quelli della Piana di Gioia Tauro, che adesso assurgono  a uno status di primo piano in una sorta di mitologia di luoghi negativi della migrazione: in maniera conclamata la tendopoli di San Ferdinando di Rosarno, meno eclatante il porto di container di Gioia Tauro, uno dei più importanti del Mediterraneo, protagonista anche del narcotraffico nella sua tranche  europea. Del quartiere “A  Ciambra” non sapevo niente ma ora, grazie a Pio, il giovanissimo protagonista rom che interpreta se stesso scopro la rappresentazione di un universo avulso da pietismi  e da ideologismi; rappresentazione diretta da Jonas Carpignano,  un italo-americano. Forse serve proprio uno sguardo semi-esterno per poter registrare questo universo in cui avvengono le interazioni del mondo dei rom  con il mondo della migrazione (“i marocchini” )e in maniera più indiretta, implicita, con la ndrangheta.

Pio Amato (attore non professionista e persona) non corrisponde certo ai canoni dell’eroe positivo auspicati da certa estetica di stampo zdanovista; credo che se abbia degli antenati cinematografici/letterari questi si debbano cercare in alcuni personaggi di Truffaut e nei protagonisti di film “on the road”.  E  chi più “on the road” che i rom?  Ma qui sta  l’ironia della sorte: un popolo che prima si spostava  seguendo i lavori stagionali ora è  ridotto nelle fatiscenti case popolari del quartiere “A Ciambra” alla periferia di Gioia Tauro, già paese periferico per conto suo.  E il romanzo di formazione di Pio Amato è collocato all’interno di questo mondo rom che si vorrebbe addomesticare con la stanzialità in un contesto sociologico molto complesso, a diretto contatto con il mondo della migrazione e della ndrangheta.  A livello tecnico la claustrofobia  della vita al chiuso della comunità rom è accentuata dal posizionamento della cinepresa ad altezza  di persona come avviene per esempio in film che seguono i dettami del gruppo danese Dogma (viene in mente il film The Celebration). Lo spettatore viene piazzato al centro della vita collettiva della famiglia Amato (notare i titoli di coda) sia nella propria intimità (la  cena del pranzo con ubriacatura generale)   che nelle sue interazioni con altri “attori” – nel senso sociologico – del luogo (il minaccioso/bonario compare rappresentante della ndrangheta “derubato” dal per una volta sprovveduto Pio) e saltuariamente con “i marocchini” compreso Koudous, l’amico del cuore (e protagonista del precedente lungometraggio di Jonas Carpignano Mediterranea) . Ma è nei luoghi all’aperto  o semi-aperti che Pio e lo spettatore/spettatrice finalmente respirano. Basti pensare alle scene del ragazzo esiliato dalla propria comunità che la osserva con un certo distacco dalla collinetta  che sovrasta  le fatiscenti  case popolari o la scena al semi-aperto della tendopoli di San Ferdinando, dove il ragazzo viene quasi portato in trionfo  e il  suo nome scandito ritmicamente, declamato come eroico autore del  furto/trasporto che permette alla comunità africana di assistere alla partita alla televisione.

L’estraneità dei rom ai vari meccanismi che governano il 21 secolo è palese  sia per quanto riguarda il mondo della scrittura che quello dei soldi, nonostante che  la propria sopravvivenza dipenda dai furti  e dal ricavato. Pio utilizza lo smartphone con disinvoltura ma non è in grado di leggere o mandare  messaggini. La matriarca rom parla di una bolletta della luce di nove mila euro che non possono o intendono pagare e quella cifra non suona particolarmente incommensurata (potrebbe essere la bolletta di 800 euro di una massaia gagé); come non suonerà inaspettata la cifra di 6 o 7 mila euro a risarcimento del danno subito dallo ndranghetista in seguito al furto di un tablet a casa sua operato da Pio. A questa liberalità con gli zero dei soldi corrisponde una particolare maestria nell’escogitare il ricatto che si manifesta sia nel compare gagè che nel fratello di Pio.

La scena di apertura e quella di chiusura del film forse ci offrono una chiave per capire sia la vita di Pio e della sua comunità,  il suo particolare romanzo di formazione, che nella migliore  letteratura non è mai priva di ombre.

Scena di apertura: “campo lungo” un cavallo libero nell’Aspromonte, un uomo (si capirà più tardi che si tratta del nonno di Pio da giovane) gli si avvicina e lo accarezza , lo accarezza anche su quella che potrebbe essere la criniera o la cavezza sbrindellata (simbolo di una libertà che forse nel caso di entrambi, il cavallo e le comunità rom,  è sul punto  estinguersi) . Il nonno è una figura fondamentale nel film, diventa una specie di sibilla di difficile comprensione, non si capisce se perché sia stato colpito da un ictus o se a causa di una sua lingua arcaica – la famiglia comunque si assume il compito di decodificarne i messaggi che sembrano risalire a un’epoca lontana. In un’occasione (sogno? realtà?) invece l’eloquio del nonno è ben chiaro, nonno e nipote sono nella stalla e il nonno indica un carro quasi rottamato, dice al nipote di essere nato su quel carro e che un tempo i rom erano i liberi, ma che comunque tutto il mondo è contro di loro e che essi non hanno che la propria comunità per sopravvivere. Più tardi  questo episodio e questi messaggi vengono ripresi in chiave onirica, simbolica e poi sociologica, per quanto riguarda il tradimento.

Per  attraversare gli spazi occorre un mezzo di locomozione e per Pio il mezzo di locomozione per eccellenza non è più il cavallo (che un tempo offriva anche la possibilità di contatto fisico tra uomo e animale) ma piuttosto  la moto, che gli offre sia la possibilità di evadere  dalla claustrofobia della sua comunità che quella di instaurare un  potenziale contatto fisico che fortemente desidera,  e che lo induce a disdegnare sia la macchina che il treno, visti entrambi come luogo e oggetto di attività  lavorativa. È nella vicinanza fisica e l’allegria e la vitalità del suo amico gagé appartenente alla comunità dei migranti africani della tendopoli di San Ferdinando  che Pio abbozza la sua ricerca di una figura di uomo adulto altra da quello dei maschi della sua comunità (i quali tendono ad essere piuttosto lugubri).  La fisicità del suo rapporto con le donne di famiglia e la nonna appartiene al suo universo di bambino e Pio è combattuto tra il conforto che esse offrono e il desiderio di affrancarsi ed allontanarsene, nel momento del passaggio da bambino ad adulto che egli fortemente cerca ma che gli altri e le altre inizialmente oppongono. Tale transizione ha luogo attraverso l’abbandono di quel desiderio/sogno di una vita altra tramite un “tradimento” e l’accettazione della fedeltà alla propria comunità. Rinuncia ed accettazione entrambe molto sofferte  e che si intuisce frutto di un ricatto. Qui l’espressività del volto di Pio è fondamentale e il regista la sfrutta con grande sapienza in tutta la sua gamma, compreso una sorta di innocente stupore che smentisce la sua abituale malizia. Ad esempio, una scena che induce una certa sospensione è la visita/premio al bordello, organizzata dal fratello maggiore, che dovrebbe sancire la sua entrata ufficiale nel mondo degli adulti. L’accettazione di un nuovo rapporto con l’elemento femminile, in un ambiente di persone con la quale aveva una certa dimestichezza, ma che richiede da lui una diversa prestazione è molto ricca a livello comunicativo nell’esprimere il disagio, contestualizzandolo al 2017 e allontanandosi dalle modalità grottesche a cui ci hanno abituato altri film (basti ricordare Armarcord).

A fasi intermittenti riappare il cavallo, ma nell’ultima scena Pio si trova a un bivio, da un lato viene chiamato dal mondo dei bambini  e dall’altro (finalmente e quando conviene a loro) dal mondo dei maschi adulti della sua comunità. Lo vediamo esitare per un momento ma poi incamminarsi sicuro e con una certa spavalderia verso di loro. Visti i suoi trascorsi, però, al pubblico rimane la sensazione che il suo destino non sia completamente segnato, potrebbe ancora muoversi in direzioni diverse, e la sua stessa accettazione di partecipare al film  testimonia la possibilità di un suo sbrigliamento,  un suo avviarsi per altre strade. Potrebbe ricomparire con la moto ancora una volta aggrappato a Koudous, immagine iconica, a rappresentare i primi decenni del duemila come Nanni Moretti  a cavallo della sua moto per le strade di Roma in Caro diario lo è stato per la società e  il cinema italiano degli anni 90 del novecento.

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Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati. Su Fatti vivo di Chandra Livia Candiani https://www.carmillaonline.com/2017/09/29/guerrieri-indifesi-bisogno-mondo-sacra-ira-occhi-spalancati-fatti-vivo-chandra-livia-candiani/ Fri, 29 Sep 2017 06:39:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40888 di Giorgio Morale

Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, 2017, pp. 176, € 13,50

Il dolore degli altri / non mi sta in mano

Già il titolo è una sveglia: Fatti vivo. L’incontro delle due parole determina quella che Jurij Lotman chiama “esplosione di senso”, “provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti”. Il titolo esercita la duplice funzione di presa di contatto con il lettore e di esortazione. Occorre “farsi vivi” e “farsi vivi” richiede una pratica quotidiana che bandisca inerzie e narcisismi. Con Fatti vivo (Einaudi 2017) Chandra [...]]]> di Giorgio Morale

Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, 2017, pp. 176, € 13,50

Il dolore degli altri / non mi sta in mano

Già il titolo è una sveglia: Fatti vivo. L’incontro delle due parole determina quella che Jurij Lotman chiama “esplosione di senso”, “provocata dall’intersecarsi di immagini della realtà che non potrebbero intersecarsi altrimenti”. Il titolo esercita la duplice funzione di presa di contatto con il lettore e di esortazione. Occorre “farsi vivi” e “farsi vivi” richiede una pratica quotidiana che bandisca inerzie e narcisismi. Con Fatti vivo (Einaudi 2017) Chandra Livia Candiani manifesta piena consapevolezza della propria poetica (“Il nudo / lo spoglio / ha splendore”) e rende esplicite urgenze implicite ne La bambina pugile (Einaudi 2014). Se nel primo libro appassionava la capacità di accoglienza della realtà, in questo nuovo si è scossi e coinvolti dalle implicazioni sociali ed etiche dell’accoglienza. È una accoglienza che non ha nulla di quietistico e che non arretra di fronte al dolore e al male del mondo: “Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto”. Perciò la poesia di Livia Candiani esprime un desiderio di “aspirare / il cielo” ma anche di “farsi terra e polvere”. Senza opporre barriere e difese: “Lasciati bruciare”.

Il libro segue “la sotterranea trama / che fa di una cronaca / storia” attraverso cui si diventa ciò che si è. Questo processo si realizza con un doppio movimento: dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno. Dalle cose all’io, dalla casa al mondo.

Il portone è “un cuore a orologeria

Nella prima sezione, Il sonno della casa, la bambina è dentro la casa ma è vista dall’esterno. Non è lei a parlare in prima persona, ma gli oggetti della casa, il soffitto, il portone, la maniglia, il muro, i vetri, il sofà a parlare di lei. È la antigrammaticalità della poesia, cioè la non corrispondenza tra il livello grammaticale e il livello del significato. Se a parlare è un frigorifero, una frase come “Accolgo quello / di cui non mi nutro” è corretta sul piano grammaticale, ma sul piano del significato è un assurdo. Queste antigrammaticalità sono inciampi preziosi. Esse rendono l’arte qualcosa di imprevedibile che suscita la nostra meraviglia. Al contempo ci dicono che su di esse bisogna soffermarsi, perché sono la spia attraverso cui cogliere la significanza della poesia.

Questi inciampi sono anche un bellissimo esempio del procedimento dello straniamento. Abitualmente “l’oggetto si trova davanti a noi” scrive Sklovskij, “noi lo sappiamo, ma non lo vediamo”. Lo straniamento consiste nella sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione, nel non chiamare l’oggetto o l’evento col proprio nome, ma nel descriverlo come se lo si vedesse per la prima volta. Scopriamo così che il portone è “un cuore a orologeria”, il pavimento è “un bastimento carico”, il muro è “l’orizzonte verticale”, i libri sono “parole / che di notte sussurrano / da sole”, il sofà è una “astronave”. Così ciò che abitualmente passa inosservato, è reso percepibile con la sua trasformazione in qualcosa di insolito. È la maniglia a farci notare che “Dormono tutti ma lei (la bambina) / scavalca le ore come / camicie di forza e vaga / dritta e impetuosa”, mentre la lampada ha il compito di “Consolare di notte / il gelo della bambina”. E il sofà sa che la bambina ha “un dolore / pari a quello di un adulto / ma senza mondo”.

In queste immagini della bambina trasmesse dalla casa si concentrano meccanismi di metaforizzazione della realtà e personalizzazione dei suoi elementi, che diventano viventi e animati, e questo, oltre a essere un suggestivo espediente stilistico, corrisponde a un processo conoscitivo infantile che anziché allontanarci ci trasporta nell’intimità della bambina.

Dov’è mondo per elefante?

Il processo che si attua nel libro va dunque da una indifferenziazione tra interno ed esterno all’acquisizione della consapevolezza della propria identità. Ciò avviene tramite la rottura della soggezione al padre nella sezione Buio padre (“Io resto, padre, non ti seguo / non eseguo il tuo volere, io resto, padre”) e la conquista di una relazione con il mondo nella sezione Dov’è mondo?Sono buttata in tutto ferito / in questo solo questo mondo” dice la voce poetica. Da qui derivano la capacità e la volontà di cogliere i conflitti tra la propria interiorità e il mondo, e di cogliere i conflitti presenti nel mondo. Poiché “Dov’è mondo per elefante / per leone e rinoceronte / dov’è mondo / per tigre e orso bruno / per lince / per storione e delfino / dov’è mondo per aquila e farfalle / per anatre migratrici / dov’è cielo”. Ma, anche, dal mondo vengono tratte “istruzioni per farsi vivi”, poiché come dice Hölderlin “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”.

L’acquisizione di consapevolezza è contrassegnata sul piano linguistico dal progressivo cambiamento del pronome personale. Prima la bambina è una “lei”, per riferirsi a essa gli elementi della casa usano la terza persona. Con l’uscita dalla casa, con l’avventura nel fuori, a partire dalla sezione Dov’è mondo?, la bambina dice “io”: “ballo ballo nella luce tenue / naturale dove solo gli alberi / e ogni filo d’erba canta / che sono nata per diritto / sono nata per mondo”. In alcune poesie, soprattutto nelle due ultime sezioni Fatti vivo e Chi cade, e nella poesia che chiude la raccolta, la voce che ha la parola parla a se stessa dandosi del tu, come nell’emozione di una identità stabilita e di un dialogo tra sé e sé conquistato attraverso il mondo. E si fa maestra a se stessa: “Vai da sola. / Vai da sola nel mondo grande / abbi paura / portala con te / che ti tiene a terra / ti arma le spalle fa barriera”, “Chiedi l’arte di perdere”, “chiedi agli animali / come si azzarda un orientamento”, “Non smettere di guardare il cielo / ti assegna la precisa misura”, “Allora senti… / … lasciati bruciare…”.

Non c’è io / senza noi / non c’è me

Sentire i conflitti del mondo, e sentirli fortemente, è un passaggio fondamentale, poiché ogni conflitto nel mondo ci interpella, è anche un conflitto tra sé e il mondo. Il respiro, ciò che di più intimo abbiamo, “porta brandelli di mondo”. Viene in mente Rilke: “Non è permesso al creatore di estraniarsi da alcuna forma di esistenza”. L’opera d’arte è basata infatti su attenzione e rispetto per il mondo, per culminare nell’amore. Come dice Iris Murdoch, “Amore significa comprendere, ed è molto difficile, che qualcosa di altro da sé è reale. L’amore, e quindi l’arte e la morale, è la scoperta della realtà”. La grande arte spodesta l’io-monade della tradizione occidentale dal suo trono per fare posto al mondo e all’io stesso in quanto frammento di mondo. “Non c’è io / senza noi / non c’è me”. Non c’è io senza “chi cade”, non c’è io senza “Abu faccia sbriciolata”. Il libro si chiude con la capacità di vivere nello squilibrio tra sé e il mondo e interno al mondo, consapevoli che “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”.

Anche Fatti vivo, come La bambina pugile, è un libro da portare con sé, con l’auspicio che possa verificarsi per il lettore quello che nella prima sezione del libro dice Il portone: “quelli che entrano / non usciranno uguali”.

 

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Nulla sfugge al mio cuore straniero https://www.carmillaonline.com/2017/04/28/nulla-sfugge-al-mio-cuore-straniero/ Thu, 27 Apr 2017 22:02:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37797 di Pina Piccolo

ciao mamma gentianaGentiana Minga, Ciao mamma! Un saluto da Bolzano, Terre d’Ulivi, 2017, pp. 84, € 11

Con un titolo come “Ciao mamma! Un saluto da Bolzano” che sembrerebbe preannunciare una cartolina, si dà invece l’avvio alla prima antologia tratta da svariate raccolte inedite, in italiano, della poeta Gentiana Minga, nata, e cresciuta in Albania, con alle spalle una solida esperienza letteraria nel suo paese d’origine  e ora residente in Italia da diversi anni. Ben lungi dal formare un quadro statico, come quello che potrebbe essere [...]]]> di Pina Piccolo

ciao mamma gentianaGentiana Minga, Ciao mamma! Un saluto da Bolzano, Terre d’Ulivi, 2017, pp. 84, € 11

Con un titolo come “Ciao mamma! Un saluto da Bolzano” che sembrerebbe preannunciare una cartolina, si dà invece l’avvio alla prima antologia tratta da svariate raccolte inedite, in italiano, della poeta Gentiana Minga, nata, e cresciuta in Albania, con alle spalle una solida esperienza letteraria nel suo paese d’origine  e ora residente in Italia da diversi anni. Ben lungi dal formare un quadro statico, come quello che potrebbe essere una cartolina che di solito fissa all’interno di una cornice luoghi storico/sociali o naturali deputati alla bellezza, in questa antologia la poeta ci restituisce sequenze quasi cinematiche, dinamiche, in pieno movimento di fenomeni complessi utilizzando ricche metafore, dalla struttura e contenuto abbastanza insoliti rispetto alla tradizione poetica italiana, atte ad approfondire anche i più reconditi risvolti di rapporti, sentimenti, fenomeni sociali.

Due sono i nuclei dell’esperienza umana su cui si sofferma la telecamera: il poemetto narrativo d’apertura delinea il rapporto tra chi ha lasciato un Paese e chi vi è rimasto (in questo caso la madre rimasta e la figlia emigrata, quella che manda i saluti) quindi temi della memoria, nostalgia, sensi di colpa, egoismi, rabbie, piccoli ricatti. L’altro grande tema è l’amore coniugale e il rapporto di coppia nella quotidianità: sono quindi privilegiati l’indagine del nucleo familiare sia d’origine che acquisito. Al tema dell’amore vanno riferiti questi versi, “ So chiaramente che stasera mi sogni / mentre  raccolgo le schegge e sto attenta /

a non tagliarmi le mani e le ginocchia. / Non serve sporcare di sangue il tappeto. /  Dopo un campo lungo sull’esperienza della poeta  nel corso della giornata, la difficoltà della comunicazione dell’esperienza quotidiana tra amanti  viene evocata in  “E poi mi scende una lacrima scarsa / e vorrei dirti  tutto, /ma ho il dubbio che è troppo, / parlarti della mimosa, della mosca, /del fiore che non so annaffiare nella misura giusta, /e temo che mi stia morendo.

Un terzo nucleo, che si dipana in maniera meno unitaria rispetto ai 2 principali, si riferisce  alle esperienze di migrazione che interessano l’Italia,  l’Europa e il mondo di oggi: vengono presentati personaggi come Narin, la guerriera di Kobane,  o il migrante somalo fulminato nel tunnel della Manica, o Abuk Ajou  che muore di fame e a  cui si nega perfino  la domanda “- Saluti Abuk Ajou! Stai morendo bene?”. A differenza delle altre raccolte, anche quando sono raggruppate, a queste poesie manca una continuità narrativa: sono poesie che scaturiscono dalla frequentazione quotidiana della poeta con i fenomeni della migrazione attuale, che la vedono sia “migrante” in prima persona, sia persona impegnata per i diritti dei migranti tramite l’azione e la scrittura. E’ utile, in questo riguardo, sapere che Gentiana Minga è vicedirettrice del bollettino enmigrinta (immigrato in esperanto) contro le discriminazioni, pubblicazione di cui dirige la sezione di Bolzano; scrive regolarmente per El Ghibli, la più importante rivista della migrazione in Italia; è membro del direttivo dell’Associazione Rete dei Diritti dei Senza Voce Bolzano, e  membro sostitutivo della Consulta Provinciale per l’Integrazione degli Stranieri in Alto Adige.

Il poemetto di chiusura “La signora di Scutari e delle ortensie” che contiene  quasi tutti i temi dell’antologia rimane il più lirico ed enigmatico a dispetto del titolo che sembrerebbe preannunciare una narrazione più piana. Le ortensie evocate nel titolo potrebbero rimandarci alle atmosfere crepuscolari de “L’amica di Nonna Speranza” di Gozzano,  ma invece, pur essendo ambientati nella capitale culturale dell’Albania, suscitano sentimenti più bui e di disagio, partendo dall’evocazione della leggenda del sacrificio propiziatorio della giovane donna murata viva  per garantire  la costruzione del castello della città.  Nel descrivere l’atmosfera di Scutari, ci aspettano versi come,  “Trema la musica mentre Marley urla. / Dal treno che scende e sale senza sosta./ Io stasera devo sbattere il giorno /come un tappeto sporco // La notte è lunga, e sempre  affamata. / Difficile, nonna mia, che questo mondo ci ami. /”

L’evoluzione di queste esperienze umane viene tracciata seguendo una specie di albero genealogico della migrazione/estraneità piazzate in contesti storici completamente diversi (i genitori della poeta si incontrano  in veste di giovani studiosi stranieri, in preda all’estraniamento e alla nostalgia, in Cina negli anni 70 del Novecento, entrambi studiosi provenienti dall’Albania, due nostalgie messe a confronto che si riconoscono e trovano rifugio una nell’altra). La nostalgia per il passato viene invece interpretato dalla coppia dei nonni che discorrono “dei compagni che / non c’erano più” sulle note  di una “canzone straziante di Zdravko: /  – Ti moses sve. Tu non puoi fare niente …” mentre l’occhio della nipotina li segue curiosa e impietosa (non le sfugge  l’occultazione della bottiglia di vodka del nonno).  Quindi chi legge si trova  prima  a fare la conoscenza di una serie di personaggi e situazioni, una specie di campo lungo,  e una volta avvinto dalla trama, Gentiana Minga mette in campo potenti metafore che funzionano non tanto come primi piani ma come lente di microscopio ad altissimo ingrandimento che mette a nudo le molecole dei sentimenti, rivelandone le nervature, gli interstizi.  La nostalgia, il sentimento di mancanza e di assenza sono temi molto sfruttati nella letteratura del 900 e del duemila, ma il pregio  dell’opera di Gentiana Minga, oltre alla sua professione di poetica generale “[Scrivo per…] non lasciare nell’oblio quello che fa uno,/ uno qualunque, scrivo. /  quello che succede in un istante, e non succederà mai di nuovo” sta nell’indagarne le pieghe, nel collocarli nel presente  di una società tecnologica e collegata,   (“Nulla  sfugge al mio cuore, straniero./Distante da me sento il tuo palpito, /il fremito della testa che si percuote /per mettere/ il naso fuori acqua”. E riesce ad ottenere tali risultati grazie alla profonda padronanza di tecniche poetiche e strumenti linguistici nati da un lungo allenamento alla scrittura maturato sia in Albania che in Italia, come giornalista, negli anni novanta, di importanti testate albanesi come Koha Jonë, Rilindja e Zëri i Kosovës, Studenti, Zëri i Popullit e poi con le pubblicazioni letterarie, la raccolta di racconti novelle intitolata  Autopsia e shkatërrimit (Autopsia del disastro -Europa, Tirana, 1993); Zonja e Shkodrës (La signora di Scutari -ciclo di poesie, Florimont, Tirana, 2003)

A livello  più  pratico e “utilitaristico” ulteriore  pregio dell’antologia consiste nel suo lanciare un ponte verso l’Albania, offrendo al mondo dei lettori italiani uno scorcio storico, geografico e intimo di un paese vicino (come la poeta ci ripete nella prima raccolta “Città Admirabilis fu Epidamnus /caro Cicerone!”  rievocando la Durazzo albanese di oggi), con il quale esistono rapporti antichi ma che l’ordine mondiale degli ultimi 70 anni  hanno reso  alieno e distante.

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