realismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 23 Feb 2025 21:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /4 https://www.carmillaonline.com/2023/10/28/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-4/ Fri, 27 Oct 2023 22:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79560 di Fabio Ciabatti

Avevamo concluso la precedente puntata con Pantera che per la prima volta aveva assemblato un Nganga con parti di un corpo femminile, quelle di Molly. Come anticipato si tratta di una piccola svolta. E questo ci dà il destro per accennare al rapporto di Pantera con il mondo femminile, tema che emerge ripetutamente anche se sottotraccia (sicuramente in modo meno centrale rispetto a quello che accade per Eymerich). Evangelisti evoca il cliché dell’eroe che salva la fanciulla indifesa e poi convola a giuste copule. Ma si [...]]]> di Fabio Ciabatti

Avevamo concluso la precedente puntata con Pantera che per la prima volta aveva assemblato un Nganga con parti di un corpo femminile, quelle di Molly. Come anticipato si tratta di una piccola svolta. E questo ci dà il destro per accennare al rapporto di Pantera con il mondo femminile, tema che emerge ripetutamente anche se sottotraccia (sicuramente in modo meno centrale rispetto a quello che accade per Eymerich). Evangelisti evoca il cliché dell’eroe che salva la fanciulla indifesa e poi convola a giuste copule. Ma si guarda bene dal cascarci dentro. Pantera non ha mai una storia d’amore. Solo rapporti sessuali occasionali, sempre con prostitute nei confronti delle quali, comunque, nutre un sostanziale rispetto, sempre nei limiti consentiti dalla sua connaturata asocialità. Finisce per avere atteggiamenti protettivi, soprattutto nei confronti delle giovanissime Cindy e Kate, dopo aver sperimentato un profondo turbamento per le loro rispettive sorti. Più scostante il suo comportamento nei confronti di Molly alla quale, però, è profondamente legato. Le tre principali figure femminili, nonostante appaiono inizialmente fragili e indifese, dimostrano alla resa dei conti un’insospettabile forza. E i rapporti stretti con loro non passano senza lasciare tracce significative. Potremmo dire che la cruda visione del mondo di Pantera viene un po’ ingentilita o, per meglio dire, resa più empatica.
Questo è particolarmente evidente quando il
palero assembla il suo Nganga con i resti mortali di Molly. È la piccola svolta cui abbiamo accennato. L’universo spirituale di Pantera, che fino a questo momento ci è stato presentato come abitato da divinità potenti fino al limite della brutalità, si arricchisce di una nuova sensibilità. Il Santo, o meglio la Santa, comunica a Pantera nuove sensazioni: meno cattiva dei precedenti Nganga, è capace di sorridere con divertimento, di trasmettere affetto con qualche sfumatura dispettosa, di ispirare pensieri gentili, ma può anche arrabbiarsi al momento giusto sciorinando visioni di antiche cerimonie sacrificali.
Allo spirito di Molly Pantera finisce per attribuire disposizioni d’animo per lui inconsuete e di primo acchito assai fastidiose. Dopo aver assistito a un ultimo eccidio, per esempio, continua a provare un acuto senso di nausea sebbene nella sua vita abbia già assistito molte volte a scene di efferata violenza. Cercando una spiegazione razionale chiama in causa l’insopportabile ipocrisia degli americani che

Avevano una capacità diabolica nel ricondurre prepotenze e delitti da loro perpetrati a motivazioni di particolare nobiltà, anche quando il movente vero era l’istinto di sopraffazione o un interesse di infimo contenuto etico.1

Si tratta di una spiegazione plausibile? Pantera ne dubita:

forse – e questa era la spiegazione irrazionale: dunque, probabilmente, la sola autentica – Pantera era condizionato dal fatto di avere Molly nel Nganga, e dunque di subirne la sensibilità. Se ciò fosse risultato certo, se ne sarebbe sbarazzato in fretta. Per il momento, l’unico dato sicuro era la nausea persistente.2

Ma non è tutto. Pantera dà la colpa allo spirito di Molly di essere “capitato in mezzo a congreghe di utopisti”, un genere di persone che aveva sempre tollerato a stento. Insomma, dopo mille esitazioni, il messicano si affilia alla società operaia Le cinque stelle. Quando gli viene l’idea di chiedere l’adesione, Pantera la considera “così balzana che fu sul punto di attribuirla all’influenza del Nganga”.3

E’ interessante notare che l’atteggiamento nei confronti della società operaia non è differente da quello che Pantera aveva verso il mesmerismo di Rosenthal o la magia dell’indiano Vecchia Pipa: dubita della sua efficacia, ma alla fine la accetta perché apprezza le buone intenzioni dei suoi membri. 

Quelli delle Cinque Stelle (chiamarli col loro vero nome, Knights of Labor, era assolutamente proibito) gli piacevano. Avevano pochissimo in comune con i Molly Maguires. Non badavano alla nazionalità, né al sesso, né alla razza. Erano alieni al concetto di vendetta, o di esecuzione individuale. Molti tra essi (non tutti) sognavano una rivoluzione da attuarsi tramite uno sciopero a oltranza, che avrebbe costretto il padronato a consegnare ai lavoratori i mezzi di produzione. Agli occhi di Pantera si trattava di una fantasia, ma almeno un fine c’era, e non era idiota come una supposta liberazione degli irlandesi dal dominio inglese trasferita in contesto americano.4

Soprattutto, Pantera, da uomo d’azione, rimane indifferente alle discussioni dottrinali.

Lui credeva poco o niente all’ineluttabilità delle leggi storiche, al destino che consegnava alla classe operaia la fiaccola che era stata della borghesia, alla natura buona dell’uomo su cui, un giorno, si sarebbe modellata la società perfetta. La sua visione del mondo, se così si poteva chiamare, era fatta di caos e di scontri, intessuti di una barbarie resa ineluttabile dal far parte della realtà biologica dell’essere umano. Ciò che non rientrava in quella sua filosofia primaria lo interessava pochissimo.5

Tutto sommato, la sua concezione primordiale si mostrerà più adeguata della sedicente scienza della storia professata dai leader dei lavoratori, almeno nel momento in cui la guerra di classe si manifesterà in tutta la sua intrinseca violenza.

Siamo così arrivati alle battute finali di Antracite quando Pantera, dopo aver liberato Kate dal penitenziario di Saint Louis, si imbatte nell’esercito e nella guardia nazionale che stanno per assaltare gli ignari lavoratori della Comune di Saint Louis. Si precipita nella Schuler’s Hall, dove si riunisce il comitato esecutivo dei rivoltosi per avvertirlo dell’imminente e mortale minaccia. A questo punto Evangelisti ci sorprende con un piccolo colpo di scena stilistico. Non si limita a un abbassamento della tensione prima del climax finale, come sarebbe tutto sommato normale aspettarsi. Ci catapulta improvvisamente in un intermezzo dall’indubbio effetto comico dove troviamo i leader dei lavoratori riuniti dalla sera prima a discutere e scrivere proclami, come racconta a Pantera un operaio con uno sguardo a dir poco ironico. Di fronte al messicano che irrompe improvvisamente avvisandoli dell’urgenza di agire, non sanno fare altro che litigare tra di loro accusandosi di “economicismo” e di “posizioni lasalliane” (Evangelisti si è probabilmente divertito a prendere spunto dagli innumerevoli scazzi tra i gruppi della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta). Ridicolmente fiduciosi nella volontà di trattativa delle autorità cittadine, i leader operai negano recisamente l’opportunità di utilizzare le armi nell’attuale fase storica. 

Pantera ne aveva abbastanza. Estrasse la Smith & Wesson e ne sollevò il cane. Quindi disse: “Le fasi storiche le decide il tamburo del mio revolver.”6

Se fossimo al cinema a questo punto scatterebbero urla e applausi liberatori. Ma siamo qui a scrivere un saggio e, godendoci la scena silenziosamente, ci chiediamo il senso di questa irruzione del comico, un registro per nulla estraneo alla narrativa di Evangelisti, come ci ricorda Sebastiani.7 Solo che questa volta non serve a smutandare il re di turno, ma prende di mira un certo tipo di immaginario alternativo o che si vorrebbe tale. A questo proposito vale la pena fare un passo indietro, citando uno scambio di battute tra Bellegarrigue e Pantera in Black flag.  

Per sapere la verità non occorre scomodare magia, religione e altre concezioni superstiziose che fanno a pugni con il progresso. Il vero rivoluzionario non ha altra fede che la scienza. Dico bene messicano?
Pantera sogghignò – Cinque anni fa, quando ero ancora ragazzo ho partecipato a due rivoluzioni: la guerra del sale di Santa Fé e la rivolta di Juan Nepomuceno Cortina. Eppure penso che se la scienza diventa fede, non è più scienza. Ma forse sbaglio.8

La scienza che diventa fede si trasforma in una gabbia disciplinatoria se è uno strumento del potere (è il caso di Eymerich), in una gabbia di matti se professata dai rivoluzionari (almeno fino a quando a loro volta non salgono al potere). Una tragedia nel primo caso, una farsa nel secondo. Se qualche materialista oltremodo scientifico si adombrasse di fronte a queste affermazioni, vale la pena ricordare quanto scrive lo stesso Marx, a commento di un’altra più famosa Comune, quella parigina:

Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi avessero parte alcuna.9

Un atto rivoluzionario, o anche di semplice di resistenza, richiede una decisione sempre priva di sufficienti garanzie quanto alla sua adeguatezza e al suo esito. Può essere dettata da una sorta di rabbiosa speranza che può emergere anche nelle situazioni più sconfortanti, come nell’epilogo della storia cornice di Black flag.

– È inutile! Tanto hanno già vinto! Il mondo è loro! Il futuro è loro!
Sheryl rispose: – Può darsi. L’importante è che sappiano che c’è chi resiste.
Avanzò verso i carri sparando tutti e sei i colpi del tamburo, in successione. Sei pallottole argentee perforarono il metallo urlante.10

Quello di Sheryl è un atto che nasce certamente da una decisione personale ma che, occorre sottolineare, non si configura come mero gesto individuale. Evangelisti ce lo fa capire a modo suo: l’arma utilizzata da Sheryl per sparare contro le mostruose forze dell’esercito statunitense è una vecchissima colt a tamburo dalla canna brunita molto lunga, curiosamente caricata a palle argentate, raccolta un attimo prima dalle mani di un giovane panamense ferito a morte che indossava una maglietta insanguinata con la scritta Battallon de la dignidad. Evangelisti non ce lo dice esplicitamente, ma è la pistola di Pantera, passata di mano in mano per generazioni di resistenti! C’è dunque un filo rosso che unisce le lotte degli oppressi del passato e del presente. Un futuro possibile che è stato sconfitto nel passato può risorgere trasfigurato nel presente. La rabbia di Sheryl sta lì a ricordarcelo.

Ma ci può essere anche una differente tonalità emotiva in questi momenti decisivi e tragici, stando almeno alla scena finale di Antracite. Torniamo allora a raccontare la storia di Pantera, ricominciando da dove l’avevamo lasciata poco fa. Il messicano, di fronte all’atteggiamento imbelle dei leader operai, sostiene che l’unica possibilità di salvezza per i manifestanti è rappresentata da un’azione diversiva portata avanti da un “pazzo isolato”. A un membro del comitato che gli chiede “che cosa hai in mente compagno?” risponde solamente “Non so se sono un tuo compagno. E non sono tenuto a dirti nulla. Faccio quello che mi va di fare”.11 Fino alla fine Pantera combatte con la sua natura di lupo di branco, ma i suoi dubbi non gli impediscono di prendere una decisione e, addirittura, di sacrificarsi per il branco stesso. Il messicano, infatti, sale a cavallo. Sta per lanciarsi contro le file nemiche per ritardarne l’attacco e permettere ai rivoltosi di trovare riparo. Ma Kate monta in sella dietro di lui. Pantera cerca di convincerla a smontare perché, le dice, la battaglia è già perduta e lui sta per andare incontro alla morte. “Se la causa è giusta, le battaglie perdute sono le più belle”12 gli risponde la giovane irlandese. Kate sa che non c’è alcuna salvezza per lei nel tornare a casa, nel suo vecchio mondo che troverebbe ridotto in rovina. Per lei rimarrebbe soltanto la prigione o la miniera. Pantera, inizialmente esasperato dall’insistenza dell’adolescente, finisce per arrendersi alla situazione.  

Ciò che avvertiva era solo una pressione morbida contro il dorso. Certo i piccoli seni di Kate. La ragazzina li strusciava anche un poco. Pantera si trovò a sorridere.
Il cavallo accelerò l’andatura, tutto piegato in avanti. I soldati guardarono attoniti i folli che si gettavano contro di loro. Parevano non sapere che fare.
In quel momento Kate gridò, con la sua voce limpida: “Viva i Mollies! Viva l’Irlanda!”
Il sorriso di Pantera si allargò. Sollevò la pistola e sparò un colpo verso le mitragliatrici. Poi un altro. Poi vuotò l’intero caricatore.13

Di fronte alla sciagura che incombe, Evangelisti non ci abbandona a passioni tristi: a prevalere sono bagliori di una delicata sensualità, di una impercettibile gioia, di un limpido orgoglio. Nessuna esaltazione della bella morte, nessuna necrofila fascistoide. Al contrario, un inno alla vita che dischiude il possibile, sebbene si tratti di una possibile che per farsi reale dovrà passare per una sanguinosa lotta.
Anche senza ricorrere al genere fantastico, Evangelisti ci porta a fare l’esperienza dei limiti del nostro mondo, conducendoci insieme a Pantera fino al punto in cui gli oppressi si rivoltano collettivamente contro i loro oppressori. Certamente si tratta di una rivolta destinata alla sconfitta. L’esito tragico, però, non appare come la pietra tombale sui desideri di liberazione del nascente movimento operaio americano e, indirettamente, su quelli dei nostri tempi funestati dalle ripetute disfatte subite da oppressi e sfruttati. I vinti della storia possono avere un loro primo riscatto attraverso il ricordo delle loro gesta, trasfigurate narrativamente  nell’atto eroico e disperato di Pantera. Un gesto difficilmente concepibile senza la possibilità del nostro eroe di attingere all’energia che sgorga dalle profondità di un immaginario alternativo a quello del potere che sta forgiando la nuova America.

Pantera consegna il testimone di questo immaginario ancora incerto, una  miscela instabile di luce e tenebre, passato e futuro, unità e frammentazione, ai protagonisti del successivo romanzo della trilogia americana e, soprattutto, a noi lettori. Come nota Luca Cangianti “la narrazione delle avventure intraprese […] è capace di produrre una mitologia e un immaginario che possono risorgere nelle lotte future”.14 Questa speranza affiora timidamente tra le righe. Non è però affidata a un impossibile happy end che risulterebbe oltraggiosamente consolatorio per i vinti della storia. E neanche ad un esplicito incitamento a proseguire la lotta che apparirebbe vuotamente retorico. Una fragile speranza emerge solo dalla tonalità emotiva con cui è affrontata la sconfitta. Non c’è rassegnazione, ma la rabbia di Sheryl o il  sorriso di Pantera.  
Sembra assurdo, ma è la prima volta che vediamo affiorare un sentimento di gioia sul viso del messicano. Per arrivare a questo punto ha dovuto fare un lungo viaggio, percorrendo le strade di un’America che sta procedendo speditamente verso un futuro disumano in cui lo sterile metallo trionferà su ideali e sentimenti. Il tempo (del romanzo) storico, però, non lascia più spazio per immaginare una rivoluzione della magia, una rivoluzione fatta con l’aiuto di forze sovrannaturali, come quella di Black flag. Certamente anche in Antracite udiamo il ferro gridare: “Lo senti? E’ il metallo che urla. Celebra in anticipo il suo trionfo”15 dice Jesse James, il famoso bandito, a Pantera. Ma il grido disumano non è più quello del ferro e dell’oro che producono bestiali macchine da guerra o corpi semisintetici. Il racconto allegorico è diventato narrazione storica. Il metallo che urla è il fischio acuto di una sirena che viene da una agglomerato di fabbriche industriali lungo la sponda del fiume Schuylkill a Filadelfia.
In un contesto narrativo che si è congedato dal racconto fantastico, Pantera deve fare affidamento su tutta la sua razionalità per comprendere le condizioni oggettive degli avvenimenti in cui è immerso e per capire le forze politiche, economiche e sociali che sono in gioco. Ma il suo schierarsi e il suo agire non sono frutto soltanto di questa comprensione profana. Il suo viaggio non è un percorso a senso unico verso il disincanto. Altrimenti come spiegarsi il suo ultimo ed estremo atto di generosa follia? Il suo odio per l’ingiustizia rimane indissolubilmente legato al suo primordiale diritto alla vendetta, profondamente radicato in una visione del mondo popolata da spiriti portatori di caos e di scontri. Il realismo del romanzo storico conserva la forza narrativa e politica che prorompe dall’incanto del racconto fantastico.

La scena finale di Antracite è colorata da un delicato tocco poetico, nonostante l’oscurità che incombe. È pervasa da una debole forza magica, verrebbe da dire. È l’ultima emozionante tappa di un viaggio straordinario che ha condotto il nostro eroe, lo stregone Pantera, dalla rivoluzione della magia alla magia della rivoluzione.

Fine. Precedenti puntate qui, qui e qui


  1. V. Evangelisti, Antracite, Mondadori, Milano 2003, p. 320. 

  2. Ibidem. 

  3. Ivi, p. 323. 

  4. Ibidem. 

  5. Ivi, p. 328. 

  6. Ivi, p. 360. 

  7. Cfr. A. Sebastiani, Ride bene chi ride ultimo. Forme e retorica del comico in Valerio evangelisti, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  8. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 202, p.104. 

  9. K. Marx – F. Engels, Opere, Vol. XLIV, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 202. 

  10. V. Evangelisti, Black flag, cit. p. 2017. 

  11. V. Evangelisti, Antracite, cit. p. 361. 

  12. Ivi, p. 363. 

  13. Ibidem. 

  14. Luca Cangianti, L’operaismo narrativo di Valerio Evangelisti, in Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, cit., p. 15. 

  15. V. Evangelisti, Antracite, cit., p. 245. 

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Carlotta Susca: David Foster Wallace nella Casa Stregata https://www.carmillaonline.com/2013/10/02/carlotta-susca-david-foster-wallace-nella-casa-stregata/ Wed, 02 Oct 2013 21:55:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9663 di Girolamo De Michele

dfw_casa_stregataCarlotta Susca, David Foster Wallace nella Casa Stregata. Una scrittura tra Postmoderno e Nuovo Realismo, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 218, € 18.00

Infinite Jest, seppur ambientato nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, dice molto più sulla realtà di quanto faccia un saggio sulla crisi economica o il manuale per l’esame di Teoria delle comunicazioni di massa. E in più è scritto dannatamente bene.” (p. 163)

Il destino di David Foster Wallace in Italia è stato bizzarro. L’Italia è uno dei primi paesi in cui DFW [...]]]> di Girolamo De Michele

dfw_casa_stregataCarlotta Susca, David Foster Wallace nella Casa Stregata. Una scrittura tra Postmoderno e Nuovo Realismo, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 218, € 18.00

Infinite Jest, seppur ambientato nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, dice molto più sulla realtà di quanto faccia un saggio sulla crisi economica o il manuale per l’esame di Teoria delle comunicazioni di massa. E in più è scritto dannatamente bene.” (p. 163)

Il destino di David Foster Wallace in Italia è stato bizzarro. L’Italia è uno dei primi paesi in cui DFW è stato tradotto, uno dei primi in cui si è creata quella rete di howling fantods che contrassegna ovunque la diffusione delle sue opere. Nondimeno, i critici laureati hanno reagito con fastidio e/o indifferenza al “fenomeno DFW”, e in particolare alla produzione di critica letteraria autonoma, dal basso o dal web, che abbatteva la distinzione – e soprattutto le gerarchie, oh, le gerarchie! – tra narratore e critico, o tra lettore e critico. Se ogni scrittore, ogni lettore si crede legittimato a fare il critico, dove andremo a finire, signora mia?
E così, mentre libri, saggi, racconti e reportage di DFW circolavano, si diffondevano leggende sul conto del loro autore: in realtà DFW è un autore di cui tutti parlano, ma che nessuno legge; in fondo DFW coincide col suo opus magnum, cioè Infinite Jest, che è il-leg-gi-bi-le; peggio, è un collage di cut&copy da blog altrui di cui DFW non indica la fonte; e poi si sa che non è scritto per essere letto, per cui non importa leggerlo.
È davvero spassoso (e, se perdonate l’assonanza, penoso) l’effetto-specchio che producono queste (pseudo-)critiche. Il tal risaputo inner circle critico-letterario non ammette l’esistenza di una critica post oppidum: quelli che la tenterebbero sono non-critici, dunque non-persone, dunque nessuno legge DFW, giacché i soli che esistono, cioè noi, non lo leggono. I talaltri pigiatoro di tastiere, adusi a copincollare dal web piuttosto che millantare letture non fatte (o non capite: perché bisogna anche capirli, i libri letti), vedono in opere di cui parlano senza leggerle il riflesso dei propri pezzulli, e s’inventano il libro copiato dal web o scritto per non essere letto: inutile negarlo, in questa critica c’è del metodo.

michiko_kakutaniDel resto anche in USA, dove i critici i libri li leggono davvero, può capitare che Michiko Kakutani [a sinistra], la temutissima e severissima critica del NYT (“a very charming Japanese lady from the New York Times ” la definì DFW nella intervista a “Salon”) concluda la propria recensione a Infinite Jest  lamentando, in quanto «lettore old-fashioned che nutre la vaga speranza di connessioni narrative e un inizio, un centro e una conclusione» [maddai!, il triangolo di Freitag! Ma allora ditelo…] di essere rimasta «sospesa a mezz’aria», insomma di non averci capito molto «in quel mucchio caotico di dettagli e incidenti che è Infinite Jest»1. Ma capita pure che un semplice laureando, l’howling fantod Christopher Hagen spieghi nella propria tesi di laurea che IJ «inscrive una curva parabolica su un vertice collocato all’esatto centro matematico del romanzo. La conclusione, della quale secondo alcuni critici il libro è privo, non è nel testo, ma è cronologicamente e spazialmente giusto davanti al romanzo, che come un’antenna satellitare fa convergere una miriade di raggi di luci, voci o informazioni su quella soluzione centrale senza mai toccarla»2. Detto altrimenti, IJ non è un libro per critici old-fashioned – ma questo è un problema loro. IJ è un libro che, come il suo autore, si rivolge a un lettore in grado di trovare quelle connessioni, quel punto di convergenza che la macchine dell’oggetto narrativo produce: la macchina pigra, in questo caso, è il critico, non il libro.

Questa lunga premessa serve a introdurci nel saggio di Carlotta Susca, una di quelle lettrici-howl.fan. che si dedicano con una certa sfrontatezza alla critica letteraria senza chiedere permesso. E che ci ha dato, assieme al saggio del matematico di professione e critico per passione Roberto Natalini Verso l’infinito e oltre. David Foster Wallace e la Matematica ( qui), una delle migliori letture italiane di DFW.
Non è una mappa equivalente all’impero, questo saggio critico: Carlotta Susca ha delimitato il territorio entro confini tracciati con chiarezza dal sottotitolo – salvo che… ma ne parliamo tra un po’.

davidfostwallacePostmoderno Vs Nuovo Realismo, dunque. In apparenza. Per ora, diciamo. Non solo in IJ, ma nel complesso dell’opera di DFW. Dell’opera: perché Susca ha ben chiaro che è dell’opera che si deve parlare, non dell’autore, non delle insignificanti minuzie di cui si occupava durante la stesura di questo o quel testo, men che meno di quale persona “reale” abbia fornito lo spunto per questo o quel personaggio “fittizio”. Un antidoto, questo DFW nella Casa Stregata, a quel regressivo ritorno alla biografia come chiave interpretativa che è Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace di D.T. Max, libro cui bisognerebbe apporre come epigrafe il motto hegeliano “Nessuno è eroe per il proprio cameriere”3.

La questione del postmodernismo, e del ritorno al realismo, dunque. Che, a volerla dir tutta, sarebbe più complessa: DFW ha avuto come obiettivo polemico non solo i postmoderni (tra i quali John Barth), ma anche i minimalisti epigoni di Carver (i “Carver Malriusciti”) e il Brat Pack degli yuppie nichilisti come McInernery e, soprattutto, Bret Easton Ellis e il suo American Psycho. In tutti i casi, è questione dei rapporti tra il reale e il linguaggio che non riesce a descriverlo.
Il postmodernismo risolve la questione col trucco di dire che tutto è finzione: sia lo strumento che descrive, che l’oggetto descritto.
Gli “ultraminimalisti” usano un trucco diverso: fanno aderire linguaggio e reale al prezzo di una radicale mutilazione tanto dell’uno quanto dell’altro – cosa che, se non hai il dono carveriano di far star tutto nel frammento, suona di nuovo artificiale.
I “nichilisti dagli stipendi a sei cifre”, infine, replicano con maestria l’orrore del mondo in cui viviamo, senza mai porsi il problema etico di quale sia l’utilità di una duplicazione dell’orrore da parte di chi dovrebbe invece chiedersi come sopravvivere all’oscurità del tempo presente, cosa significa essere «un fottuto essere umano» – qualcosa che ha a che fare con l’immaginazione di un diverso stato di cose presente, e con le cause della «times’ darkness»4.
Cosa che invece fa la letteratura sperimentale (Pynchon e DeLillo, per rimanere ai gusti di DFW): «C’è una serie di magie che la letteratura può compiere per noi […] una ha a che fare con la sensazione di […] cogliere l’effetto che ha su di noi il mondo circostante in una maniera in cui al lettore viene da dire: “Allora un’altra sensibilità come la mia esiste!. […] E così il lettore si sente meno solo. […] E sono le cose avanguardistiche o sperimentali che hanno ala possibilità di portare avanti questa impresa. Ecco perché sono preziose». Sono preziose, ma spesso «fanno cacare»: perché a volte «parlano di che effetto fa stare al mondo, invece di offrire un sollievo all’effetto che fa stare al mondo»5.

Ed eccoci al punto: se lo sperimentalismo è una sorta di post- o iper- postmodernismo, del quale continua ad usare gli strumenti formali, il problema, piuttosto che di etichette o categorie, non sarà di come inserire il contenuto, cioè l’etica, all’interno del postmoderno? Cogliendo la centralità della questione Susca può bypassare la critica agli ultraminimalisti o al Brat Pack letterario, fregarsene della presunta questione del “Ritorno al Realismo” (e di definizioni tipo “Realismo Isterico” o “Realismo Grunge”, che vi prego di credere non mi sto inventando), e chiedersi cosa è davvero il “Realismo”. E, dopo aver smontato il gioco di specchi e rimandi tra Perso nella casa stregata di John Barth e Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso di DFW (facendo del confronto una sorta di chiave di lettura generale dei rapporti tra DFW e il postmoderno), arrivare, grazie alla mediazione di John Barth6 (e del Perec di La vita, istruzioni per l’uso), al confronto tra DFW e Italo Calvino.

Carlotta Susca, beata gioventù!, non aveva l’età quando una lettura, che pareva scaturita dalle pagine del Vernacoliere più che dall’Università di Pisa, faceva di Calvino la fonte di tutte le nequizie e i disimpegni. Invece è proprio in Calvino che troviamo il tema-chiave di DFW: l’inserzione dell’etica e dell’impegno nella perfezione stilistica di una letteratura il cui “eroe” ha abdicato alla responsabilità etica, sostituendola con quella forma di distacco ironico mediato dalla televisione, che fa dell’ironia un innocuo e impotente strumento espressivo. Il risultato, scrive Susca citando Rovatti, è di «buttare via il bambino insieme all’acqua sporca: peggio, di buttare nella spazzatura il cosiddetto bambino e tenerci l’acqua sporca». E magari, aggiungerebbe il don Florestano Pizzarro di Corrado Guzzanti, usarla per cuocerci la pasta.
A cosa porta il parallelismo tra DFW e le celebri Lezioni americane di Calvino? A enucleare, attraverso la presenza di leggerezza, esattezza, molteplicità, visibilità e rapidità nella scrittura dfwallaciana, la presenza di nuclei calviniani: la peste del linguaggio originata dalla pervasività della comunicazione televisiva; la quantità crescente di informazioni inutili (i “fattoidi” di DFW) che ci assediano, e dai quali dobbiamo discernere le informazioni davvero utili e rilevanti; la presa di coscienza della perdita d’innocenza del linguaggio «tutt’altro che innocuo, che è in grado di creare mondi. In effetti le parole cambiano la realtà e modificano la relazione tra gli eventi» (pp. 167-168).
Nuclei che si condensano nella definizione di immaginazione come «repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere». Definizione che apre un intero mondo: perché se l’immaginazione è repertorio del potenziale, potenziale, cioè in fieri, in divenire, non pre-formattato né sottomesso alla fatalità è anche quel fatturo essere umano che tanto stava a cuore a DFW. E potenziale è il mondo stesso in cui viviamo, cioè il “reale”: tanto quello che sta “al di fuori” del libro, quanto quello che vi sta dentro – il reale tout court. Potenziale, dunque costituito: e dunque è importante scoprire cosa costituisce il mondo, e gli essere umani che lo abitano, e l’oscurità, la times’ darkness che lo avvolge: è anche di questo che parla Infinite Jest.

«Non c’è lieto fine nella storia del dolore per quelli nati con la predisposizione alla disperazione. Il mondo è, dopo tutto, un posto rude, brutale e crudele. Si tratta solo di sapere quanto a lungo puoi viverci», ha scritto Elizabeth Wurtzel ricordando DFW7. Riuscire a mostrare quantomeno le scaglie del Leviatano è qualcosa che ha a che fare col procurare sollievo all’effetto che fa stare al mondo; creare la magia di far sentire meno solo il lettore ha a che fare con le cause, gli apparati, le istituzioni che usano solitudine e tristezza come forme di governo; rompere la crosta di consuetudine e rassegnazione della rappresentazione dello stato di cose esistente ha a che fare col compito del narratore: che è oggi (p. 164) «l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere nuovamente strano ciò che è familiare».


  1. Michiko Kakutani, A Country Dying of Laughter. In 1,079 Pages, “The New York Times”, 13 feb. 1996, qui: «At the end, that word machine is simply turned off, leaving the reader — at least the old-fashioned reader who harbors the vaguest expectations of narrative connections and beginnings, middles and ends — suspended in midair and reeling from the random muchness of detail and incident that is “Infinite Jest”». 

  2. «Infinite Jest’s structure does internalize something of late twentieth-century technological energy, but something remarkably ‘centering.’ The text inscribes a parabolic curve (diving into an engaging world & plot, then turning and pulling out of that world and lumbering towards a close as gradual as any novel’s beginning), oriented symmetrically about a vertex (a crucial point, though different from a climax) located at the novel’s precise mathematical center. And, as with most parabolic curves nowadays, Infinite Jest’s text functions rather like a satellite dish: the resolution that reviewers complain the novel lacks isn’t in the text, but sits chronologically & spatially in front of the novel proper, which, as a satellite dish, serves to focus myriad rays of light, or voices, or information, on that central resolution without actually touching it», qui

  3. “Non perché quello non sia un eroe, ma perché questi è un cameriere”, chiariva Hegel. È davvero irritante il modo in cui D.T. Max ci conduce in una visita guidata della vita di DFW, indicandoci ora il ramo del primo supposto tentato suicidio, ora il divano sul quale giaceva depresso, o la poltrona nella quale si rincoglioniva davanti alla televisione, e le calze e gli asciugamani appesi ad asciugare proprio lì, e wow!, le sue bandane sudate!, per poi introdurci nel Garage, sì, proprio quel Garage. E che dire il modo voyeuristico con quale spia dal buco della serratura le avventure sessuali di DFW, ammiccando (senza conoscenre il monito del cantautore milanese: tanto che importa a chi [ti] ascolta se lei c’è stata o non c’è stata, e lei chi è?), all’allora-giovane-scrittrice-famosa-un-tempo-depressa? In cosa la nostra comprensione dei testi di DFW migliora, una volta che abbiamo appreso che il tal personaggio sarebbe la trasposizione di un Edipo irrisolto (niente male per un autore che stigmatizzava gli scrittori da «niente personaggi senza traumi freudiani in un passato accessibile»), il talaltro una trasfigurazione per vendetta (tipo: «nun me l’hai data e io te distruggo»), e così via? A cosa ci serve sapere che sì, DFW si nascondeva dietro piccole bugie che l’impietoso biografo svela una per una – se non a chiederci, una volta imparato che DFW dissimulava o anche mentiva, come si possa fondare su lettere e conversazioni di un timido insincero una biografia verosimile? 

  4. La vera risposta di Ellis a DFW (non il famoso tweet stile “la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”), e cioè Lunar Park (=”che cosa credevate di aver capito di American Psycho? È tutta una finzione, è persino postmoderno – non crederete che io sia davvero così cinico e gelido: è che mi ci vestono così…”), nella sua debolezza, dice già tutto su quanto a fondo sia andata la critica dfwallaceana. 

  5. David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, minimum fax, Roma 2011, citato in DFW nella Casa Stregata, p. 199. 

  6. Che DFW fa bene a criticare e superare, ma che resta uno scrittore di racconti di un nitore e una perfezione encomiabili, vi assicuro. 

  7. Elizabeth Wurtzel, Beyond the Trouble, More Trouble. Depression in the best of us, “New York Magazine”, 21 sept. 2008, qui

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