reale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Specchi, vampiri e narcisisti https://www.carmillaonline.com/2022/03/25/il-reale-delle-nelle-immagini-specchi-vampiri-e-narcisisti/ Fri, 25 Mar 2022 21:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70969 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non [...]]]> di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non riesce a farne a meno.

Anche se la svolta digitale della fotografia sembra infrangere definitivamente lo specchio, ossia spezzare il cordone ombelicale tra realtà e immagine, questa non sembra smettere di fingersi «messaggera autorizzata del Vero», come scrive Michele Smargiassi nella sua presentazione al volume di Joan Fontcuberta, Il bacio di giuda. Fotografia e realtà (Mimesis, 2022), in cui sono raccolti otto saggi critici sulla fotografia scritti dal catalano a proposito della creazione delle immagini e della cultura che le vorrebbe espressione della verità e prova dell’esistente.

Nella fotografia Fontcuberta intravede la crisi del rapporto ultramillenario tra essere umano e immagini ed anziché domandarsi, come tanti, cosa la fotografia sia, preferisce indagare cosa essa faccia. Per il catalano, scrive ancora Smargiassi, «non è la fotografia che impone la propria veridicità con la apparente potenza del suo procedimento di raccolta meccanica di impronte del mondo fisico. È vero il contrario: sono i contesti ideologici intenzionali in cui la incontriamo a conferirle un’autorevolezza che da sola non avrebbe. La fotografia è la servizievole, efficiente collaboratrice di più ampi progetti di mascheramento del reale» (p. 9). La fotografia entra nella cultura moderna ricevendo

il mandato di naturalizzare l’ideologia del capitalismo e di tradurla in un’etica della visione che avesse l’indiscutibilità di una religione rivelata. Bene: quel mandato storico, ci svela Fontcuberta, pur essendo infondato, ebbe sicuramente successo; ma ora è terminato. Si è esaurito. Non serve più. Il sistema, ora, per poter garantire la continuità del proprio potere, ha bisogno di distruggere la fiducia dei cittadini nella possibilità di affermazioni vere, non più di imporre persuasivi realismi (pp. 9-10).

Anziché farsi da parte, la fotografia continua, imperterrita, a «fingersi modello privilegiato di rappresentazione della realtà, nascondendo la sua nuova funzione di simulazione come un cavallo di Troia» (p. 10). Al catalano non interessa smascherare i meccanismi di finzione adottati dalla pratica fotografica, il suo l’obiettivo è piuttosto «demolire radicalmente il fallace paradigma verosimilista con cui abbiamo finora guardato e usato le fotografie (o meglio, abbiamo lasciato che ci usassero)» (p. 11).

Uno spirito ragionevolmente scettico ci spinge a concludere che credere che la fotografia testimoni qualcosa implica, prima di tutto, proprio questo: il credere, l’avere fede. Il realismo fotografico e i valori che esso sottende sono una questione di fede. Perché non c’è alcun indizio logico convincente che garantisca che la fotografia, per sua natura, abbia più valore come promemoria di quanto ne abbia un nodo al dito o una reliquia. Il messaggio di Michelangelo Antonioni in Blow up, oltre a dirci che la manifestazione ordinaria del mondo nasconde altre realtà, si riassume nell’idea che tutto – inclusa la certezza fotografica – è pura illusione: nella sequenza finale del film un gruppo di mimi gioca a tennis con una pallina invisibile, fino a che questa oltrepassa la recinzione del campo e uno stordito Thomas, trasformato in complice di quella illusione, dovrà essere colui che recupererà la pallina invisibile affinché la partita possa continuare (pp. 68-69).

A lungo la fotografia è stata considerata come «il modo in cui la natura rappresentava se stessa» (31), una sorta di conseguimento diretto, naturale, senza mediazioni, della verità.

L’annoso dibattito su ciò che è vero e ciò che è falso è stato sostituito da quello che distingue tra “mentire bene” e “mentire male”. La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare, la fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare diversamente. Ciò che conta, però, non è quell’inevitabile menzogna. Ciò che conta è il modo in cui se ne serve il fotografo, con che proposito la usa. In sostanza, ciò che conta è il controllo esercitato dal fotografo per dare una direzione etica alla propria menzogna. Il buon fotografo è quello che mente bene la verità (p. 23).

Insomma, la fotografia, sostiene Fontcuberta, è po’ come il bacio di Giuda: «un amore fasullo venduto per trenta denari» (p. 25).


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 

 

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Il reale delle/nelle immagini. Il cinema, il reale e l’immaginario negli articoli di Edgar Morin https://www.carmillaonline.com/2021/07/12/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-il-reale-e-limmaginario-negli-articoli-di-edgar-morin/ Mon, 12 Jul 2021 20:30:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67121 di Gioacchino Toni

«Come mai a volte la nostra realtà ci appare ovvia e familiare e a volte strana e sconosciuta? Come mai a volte la nostra realtà possiede una sua realtà assoluta e a volte invece ne ha così poca? Malgrado il sentimento indubitabile della nostra realtà, […] abbiamo a volte la sensazione della scarsa realtà della nostra realtà. Al cinema, invece, diamo una forte realtà ai personaggi e alle loro storie, e solo un piccolo barlume di vigilanza nella nostra mente non dimentica, durante la proiezione, che siamo spettatori seduti su [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come mai a volte la nostra realtà ci appare ovvia e familiare e a volte strana e sconosciuta? Come mai a volte la nostra realtà possiede una sua realtà assoluta e a volte invece ne ha così poca? Malgrado il sentimento indubitabile della nostra realtà, […] abbiamo a volte la sensazione della scarsa realtà della nostra realtà. Al cinema, invece, diamo una forte realtà ai personaggi e alle loro storie, e solo un piccolo barlume di vigilanza nella nostra mente non dimentica, durante la proiezione, che siamo spettatori seduti su una poltrona. Da qui l’idea che la nostra realtà umana sia intessuta di immaginario: sogni a occhi aperti, fantasmi, immaginazioni, fantasie, desideri, romanzi, film, serie televisive e svaghi sono costitutivi della nostra realtà umana. L’immaginario collabora con il reale nelle arti dove si opera la nascita di un universo fantasma dotato di effetto di realtà. La missione del cinema è quella di affrontare questa doppia natura del reale. Obbliga gli spettatori a porsi domande fondamentali sulla loro vita, la loro società, il loro mondo, ossia sull’uomo stesso». (Edgar Morin)

Con queste parole si apre Le Cinéma, un art de la complexité (2018), di cui è appena uscita l’edizione italiana – Edgar Morin, Sul cinema. L’arte della complessità (Raffaello Cortina Editore, 2021) – tradotta da Anna Battaglia. Si tratta di un’ampia raccolta di articoli sul cinema stesi da Morin nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta – in buona parte pubblicati su riviste come la Revue internationale de filmologie e La Nef, oppure ritrovati in forma di bozze, dattiloscritti e manoscritti presso l’archivio del Centre Edgar Morin. Institut interdisciplinaire d’anthropologie du contemporain – proprio mentre lo studioso lavorava ad opere destinate a lasciare il segno come Le Cinéma ou l’homme imaginaire (1957), Les stars (1957) e L’Esprit du temps. Essai sur la culture de masse (1962).

A far da sfondo agli articoli riportati dal volume sono dunque le coeve riflessioni contenute in questi importanti saggi in cui Morin affronta la complessità dei fenomeni audiovisivi concependo l’immaginario come una parte costitutiva della realtà umana.

Le Cinéma ou l’homme imaginaire viene tradotto in italiano nei primi anni Sessanta faticando però ad incidere sul dibattito cinematografico nazionale, come ricostruisce puntualmente Francesco Casetti nell’introduzione all’edizione proposta da Feltrinelli nel 1982 e riportata in quella realizzata da Raffaello Cortina Editore nel 2016. In questo saggio Morin si concentra sul rapporto del cinema con il reale e l’immaginario evidenziando le relazioni con i processi profondi della psiche e della conoscenza.

L’illusione di realtà prodotta dal cinema, secondo il francese, risulta inseparabile dalla coscienza della sua illusorietà da parte del pubblico. Lo spettatore vive il cinema in uno stato di doppia coscienza: da una parte viene posseduto dalla magia delle immagini e dall’altro è cosciente di assistere ad uno spettacolo immaginario. All’illusione di realtà si sovrappone la coscienza dell’illusione. Il cinema, dunque, secondo Morin, permette allo spettatore di godere della “vertigine del doppio”, della duplicazione del reale, permettendogli di immettersi in questo simulacro sottraendosi dal reale. Lo spettatore, durante la fruizione del film in sala, entra a far parte di un universo nuovo senza sentirsi spaesato: è attraverso una trasfigurazione di ordine estetico che esso scopre il mondo.

Nella prefazione all’edizione del 1977 de Il cinema o l’uomo immaginario il francese sottolinea come reale ed immaginario si intersechino a partire dall’era cine-fotografica:

l’unica realtà di cui siamo sicuri è la rappresentazione, cioè l’immagine, cioè la non-realtà, dato che l’immagine rimanda a una realtà sconosciuta. Certo, queste immagini sono vertebrate, organizzate, non solo in funzione degli stimoli esterni, ma anche della nostra logica, della nostra ideologia, e cioè anche della nostra cultura. Tutto il reale percepito passa quindi per la forma immagine. Poi ricompare sotto forma di ricordo, vale a dire come immagine di immagine. Il cinema, come ogni figurazione (pittura, disegno), è un’immagine di immagine ma, come la fotografia, è un’immagine dell’immagine percettiva e, più della foto, è un’immagine animata, cioè viva. Proprio perché rappresentazione di rappresentazione viva, il cinema ci chiama a riflettere sull’immaginario della realtà e sulla realtà dell’immaginario1.

Ed ancora:

l’immagine non è solo il punto di incontro tra reale e immaginario ma è l’atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell’immaginario. A questo punto si può concepire il carattere paradossale dell’immagine-riflesso o “doppio”, che da una parte esprime un potenziale di oggettivazione (distinguendo e isolando gli “oggetti”, permettendo il distacco e la presa di distanza) e contemporaneamente, dall’altra, esprime un potenziale di oggettivazione (la virtù trasfigurante del doppio, il “fascino” dell’immagine, la fotogenia…). Bisogna quindi arrivare a concepire non solo la distinzione ma anche la confusione tra reale e immaginario; non solo la loro opposizione e concorrenza, ma anche la loro complessa unità e complementarità2.

Sempre nel corso degli anni Cinquanta lo studioso pubblica Les stars (1957), ove approfondisce i processi psichici e affettivi di proiezione e identificazione e mette in relazione la dimensione economica con l’immaginario collettivo, invitando a leggere il divismo come un prodotto della società capitalistica e al contempo come una risposta a bisogni antropologici profondi riconducibili addirittura al mito ed alla religione.

Ciò che invece Morin delinea nel successivo L’Esprit du temps. Essai sur la culture de masse (1962), ripubblicato nel 2017 in italiano da Meltemi in un’edizione tradotta da Claudio Vinti, curata da Andrea Rabbito ed impreziosita da un’introduzione di Ruggero Eugeni, si rivela utile ad una comprensione critica del potere delle nuove immagini proposte dalla scena mediatica contemporanea.

È in tale contesto di riflessioni sul cinema e sull’immaginario condotte nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta che Morin scrive gli articoli raccolti nel volume Sul cinema. L’arte della complessità. Questi suoi pezzi partono pertanto dalla convinzione che la realtà umana sia intessuta di immaginario; che si tratti di sogni a occhi aperti, fantasmi, desideri, romanzi o film, l’immaginario collabora con il reale ogni qual volta si dà vita a «un universo fantasma dotato di effetto di realtà»3. Il cinema, nell’affrontare questa doppia natura del reale, obbliga gli spettatori a «una riflessione, una presa di coscienza, un’apertura al pensiero che interroga, al pensiero che cerca»((Ivi., p. X.)), dunque a porsi domande sulla vita, sulla società, sul mondo, in definiva sull’essere umano stesso.

Per farsi un’idea di come Morin traduca le sue riflessioni generali relative al rapporto tra cinema, immaginario e realtà nel “quotidiano” di brevi articoli per qualche rivista riferiti a singoli film o alle poetiche autoriali, si possono prendere in considerazione, tra i tanti contenuti nel volume, gli scritti Elogio del Grido e Ingmar Bergman. L’uomo che pone domande.

Nello pezzo relativo al film del 1957 di Michelangelo Antonioni – pubblicato originariamente in La Nef, gennaio 1959 – Morin sottolinea come la sua bellezza derivi da

una combinazione intima tra il senso profondo di una storia, questa stessa storia e i mezzi formali di una tecnica raffinata. Questa raffinatezza dell’immagine e anche del montaggio sembra a priori mal adattarsi all’esiguità, alla semplicità della vicenda. Eppure è proprio questa dissonanza a emozionarci fino in fondo, a darci quell’emozione che solo una grande opera può procurare: un’emozione che non si riduce all’emozione estetica, ma che non potrebbe sgorgare senza l’emozione estetica4.

La scelta di ambientare il film tra i paesaggi invernali di un’Italia settentrionale periferica coperta da un cielo uniformemente grigio, secondo lo studioso si rivela in grado di conferire al film la sua vita interiore. «Questo paesaggio sarà l’anima stessa del film, l’anima svuotata del protagonista del film: l’operaio Aldo»5. L’intera vicenda è contenuta tra il momento in cui l’uomo è «colpito a morte» – quando Irma, la donna con cui vive, lo lascia – «e il momento in cui cade» morendo «senza neanche compiere un gesto attivo nel suicidio, lasciandosi cadere dall’alto della torre della raffineria dove lavorava»6, dopo aver rivisto, a distanza di tempo, la donna amata che nel frattempo si è costruita un’altra vita senza di lui. Tra questi due terminali c’è il girovagare di Aldo, che diserta il lavoro e cerca di riempire in qualche modo le sue infinite e vuote giornate.

È dunque, di fatto, la storia di un’agonia che dura un anno o due, ma un’agonia intima, di cui nulla ci è mostrato esteriormente. È dalla fatica sempre più grande, dall’indebolimento progressivo dei riflessi di Aldo, che noi capiamo che lui si sta svuotando delle ultime riserve biologiche. Una successione di episodi, sulla sua strada, distraggono lo spettatore dalla visione permanente di ciò che di fatto è un pellegrinaggio di morte. Potremmo anche lasciarci prendere da questo rosario di incontri pittoreschi, di piccoli casi fortuiti, di piccoli avvenimenti, se non ci fosse permanentemente il cielo grigio e il fiume snervato, lento, che con la sua presenza sempre uguale ci fa entrare nell’anima di un uomo. Il film è intriso di una vita interiore suggerita dal paesaggio7.

Antonioni, sostiene Morin, mantiene per tutto il film una “distanza clinica” nei confronti della soggettività del protagonista osservandolo con un’apparente non-partecipazione. Il film ci mostra un essere umano

schiacciato da forze che lo sovrastano, e alla fine domato o distrutto. […] Nulla può essere più doloroso dello spettacolo di un uomo ridotto ad automa, quando ogni sua intima risorsa si è spezzata, e quando si è esaurita ogni sua energia vitale. […] Ne Il grido non si tratta di un automa convenzionale: è l’uomo automatizzato che rimane quando ogni autonoma spinta si è spenta in lui e quando l’energia vitale si è prosciugata in lui. Che cosa straordinaria e rara sullo schermo, la sofferenza silenziosa di un uomo! Diciamo anche soltanto la sofferenza d’amore di un uomo. Il fatto è che il cinema attribuisce sempre solo alle donne i temi profondi dell’amore. Si vedono, è vero, uomini che si suicidano per amore, ma per un gesto di nobiltà o per sacrificio, e sono personaggi, del resto, secondari. Non si è mai visto un uomo agonizzare d’amore per tutto un film. Eppure, i fatti di cronaca dimostrano che anche gli uomini sono capaci di disperazione e di follia. E non sono neanche uomini particolarmente deboli o particolarmente provati e neanche frustrati. Sono come Aldo, degli esseri condotti all’estrema debolezza, all’estrema frustrazione, perché hanno perso ciò che era essenziale per la loro vita. Ne Il grido ci troviamo proprio lì, nell’universo dei fatti di cronaca. Nella cronaca gelida e nebbiosa dell’inverno italiano che riesce a darle musicalità, pur mantenendoci nello “spaccato di vita”. È solo alla fine del film, quando Aldo torna a morire sui luoghi della felicità di un tempo, è solo allora che il fatto di cronaca si trasforma in tema da romanzo, persino romantico8.

Le scelte estetiche del regista ferrarese, continua lo studioso, si adattano a questo racconto sin dalla scelta di mettere lo spettatore nell’incapacità di comprendere esattamente ciò che sta accadendo pur sapendo che qualcosa di tragico accadrà. «Nell’attesa abbiamo gli eventi di superficie» che potrebbero far dimenticare il nulla interiore di Aldo.

E invece Il grido è un film riuscito proprio perché sono queste descrizioni periferiche a rivelarci quel nulla. Nella vita di Aldo non c’è più niente che quella cinepresa possa trattenere, come scene di vita lungo una strada che si percorre velocemente. Le impressioni si succedono tanto per noi spettatori, quanto per il protagonista, ormai passivo, spettatore anche lui9.

Dopo il lento trascinarsi dello svuotamento di Aldo, sul finale Antonioni interviene bruscamente ricorrendo agli strumenti del teatro, del romanzo, della sinfonia:

Aldo arriva nella sua borgata. È assediata dai carabinieri. La folla è in agitazione. Questo tumulto teatrale e sinfonico viene spiegato: vogliono espropriare il comune per costruire un aerodromo. Ma, esteticamente, siamo entrati nel turbine della tragedia o dell’opera da cui sgorgherà il grande tema romanzesco e musicale: la fine che si ricongiunge con l’inizio, il grande ritorno al punto di partenza. Lo spettatore si accorge a stento di questa mutazione, perché il grande grido di orrore che irrompe è stato preparato, lungo tutto il film, come dentro una crisalide10.

Morin accosta la pellicola di Antonioni a quelle di altri registi – Sogni di donna (1955) di Bergman, Senso (1954) di Visconti, Una vita (1958) di Astruc (1958), Gli amanti (1958) di Louis Malle – che, per quanto diversissime tra loro, possono essere accomunate, secondo il francese, dalla comune volontà di approfondire il tema dell’amore in maniera più amara, realistica e tragica.

Tutto ciò, del resto, va di pari passo con l’indebolirsi dei temi sociali e politici che, intorno al 1936 in Francia e nell’immediato dopoguerra in Europa occidentale, attiravano i registi non conformisti. In altre parole, all’avanguardia che significava rivoluzione succede un’avanguardia che significa amore. La promozione del tema dell’amore non è affatto da deplorare, come fanno alcuni critici; ciò che bisogna deplorare è la scomparsa della questione sociale11 .

Nello pezzo relativo a Bergman – pubblicato originariamente in La Nef, n. 27, aprile 1959 – Morin sottolinea come l’originalità del regista svedese risieda sopratutto nella sua capacità di superare, pur mantenendolo,

il piano del racconto, della descrizione, della tesi, per rimanere costantemente al livello dell’interrogazione […] Ciò che mi colpisce in Ingmar Bergman è ch’egli interroga […] tutto. Il reale e il sogno, (il teatro, i guitti), la vita e la morte, il dolore e la felicità, l’uomo e la donna. […] L’interrogazione permanente di Bergman ritorna spesso a posarsi sul volto femminile, come se fosse lì, dietro quel volto, che risiedono i segreti più preziosi che si stanno cercando, come se le verità più profonde si manifestassero attraverso il volto […] La domanda che Bergman pone ai volti di donna non è “Cos’è la donna?”, è “Cos’è l’umanità?”. L’interrogativo di Bergman privilegia la donna, ma la domanda è generale: come vivere? Cosa significa vivere?12.

Interrogando la vita, puntualizza Morin, il regista svedese interroga la morte. Nonostante il cinema sia pieno di morti a mancare in esso è proprio la morte e Bergman per parlarne direttamente

è obbligato a ricorrere al mito supremo della morte, alla Morte-Personaggio, allo Spettro, al Doppio. Cioè a una faccia della morte che sia quella dell’uomo, misteriosa quanto la faccia dell’uomo e per la quale l’uomo non possiede alcuna risposta. Dio è invocato solo come un’impossibile possibilità. È l’interrogazione bergmaniana che ha la prima e l’ultima parola. Il rifiuto della Salvezza non è una sfida. È l’atto stesso del pensiero che interroga. Eppure in questa opera senza Dio e senza Salvezza, senza Provvidenza, senza ricompensa, la disperazione non si chiude in se stessa. Non si chiude proprio per il fatto che quest’opera è innervata dalla permanenza stimolante dell’interrogazione, da quel cortocircuito innescato dalla curiosità appassionata e attenta che nega la disperazione stessa. Non si chiude anche perché è costantemente interrotta da qualcosa di affascinante e stupefacente che è il gioco, anzi il doppio gioco tra il sogno e la realtà, il teatro e la vita. […] Bergman inserisce spesso un teatro nel teatro, ed è in questo doppio della vita, della sua quintessenza, in questa vita recitata e rappresentata, in questa sorta di ebbrezza che, malgrado le infelicità, i dolori e le domande senza risposta, la vita è finalmente accettata e assunta13.

In chiusura Morin invita a riflettere sui motivi per cui, nonostante Bergman goda dell’ammirazione incondizionata della critica, i suoi film non siano riusciti ad entrare nel grande circuito commerciale pur toccando, in molti casi, problemi quotidiani che gli spettatori conoscono in prima persona. Si può incolpare la stoltezza di molti distributori e proprietari di sale ma, conclude amaramente il francese, si può

anche pensare che lo spettatore sia talmente pavlovizzato dal cinema tradizionale da essere incapace, oggi, di aderire a un cinema senza provvidenza, un cinema che interroga, un cinema dove non è il pubblico a proiettare i propri sogni, le proprie sofferenze, la propria sete ardente di felicità e di avventura, ma che proietta, lui, cinema, sul pubblico, la mediocrità e la follia della vita – senza offrirgli la risposta salvifica14.

 


Il reale delle/nelle immagini – serie compelta


  1. Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Raffaello Cortina Editore, 2016, pp. 6-7. 

  2. Ivi. p. 7. 

  3. E. Morin, Sul cinema. L’arte della complessità, Raffaello Cortina Editore, 2021, p. IX. 

  4. Ivi., p. 195. 

  5. Ivi., 196. 

  6. Ibidem. 

  7. Ivi., pp. 196-197. 

  8. Ivi., pp. 197-198. 

  9. Ivi, pp. 199-200. 

  10. Ivi., p. 200. 

  11. Ivi., p. 201. 

  12. Ivi., pp. 204-206. 

  13. Ivi., pp. 207-208. 

  14. Ivi., p. 209. 

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Dall’avatar al corpo: restare umani nel mondo virtuale https://www.carmillaonline.com/2020/07/16/dallavatar-al-corpo-restare-umani-nel-mondo-virtuale/ Thu, 16 Jul 2020 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61476 di Paolo Lago

Michele Cocchi, Us, Fandango, Roma, 2020, pp. 319, € 17,00.

In Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, in una Terra del futuro devastata dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione, le persone si rifugiano nel mondo virtuale di Oasis, una specie di grande videogioco che regala un vero e proprio universo parallelo, una vita finta da opporre alla miseria che attanaglia quella vera. In eXistenZ (1999) di David Cronemberg, in un futuro non precisato, un gioco regala ai partecipanti una dimensione parallela, alternativa alla realtà ma del tutto realistica. In questi due [...]]]> di Paolo Lago

Michele Cocchi, Us, Fandango, Roma, 2020, pp. 319, € 17,00.

In Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, in una Terra del futuro devastata dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione, le persone si rifugiano nel mondo virtuale di Oasis, una specie di grande videogioco che regala un vero e proprio universo parallelo, una vita finta da opporre alla miseria che attanaglia quella vera. In eXistenZ (1999) di David Cronemberg, in un futuro non precisato, un gioco regala ai partecipanti una dimensione parallela, alternativa alla realtà ma del tutto realistica. In questi due film, in futuri più o meno distopici, gli esseri umani si immergono in mondi virtuali per dimenticare quello reale.

La stessa contrapposizione fra mondo reale e mondo virtuale la ritroviamo in Us di Michele Cocchi, recentemente uscito per i tipi di Fandango: un romanzo che tematizza, tramite il conflitto fra questi due universi paralleli, le problematiche dell’infanzia e dell’adolescenza (l’autore è infatti uno psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza e già in un suo precedente romanzo, La casa dei bambini, aveva affrontato il momento difficile della crescita e del passaggio dall’infanzia all’età adulta). Oltre ad affrontare tali problematiche, l’intelaiatura narrativa realizzata da Cocchi attua una vera e propria immersione in alcuni dei conflitti più sanguinosi del Novecento. I personaggi, grazie al loro videogioco di ultima generazione, Us, si trovano proiettati in diversi luoghi del mondo, teatro di svariate guerre e guerre civili: nella ex Jugoslavia del 1992, nel Libano dell’inizio degli anni Ottanta, nel bel mezzo del conflitto con Israele, nel Sudafrica di Nelson Mandela uscito da poco dalla piaga dell’apartheid, nell’Etiopia conquistata dal regime fascista, nella Germania nazista, in Colombia a fianco delle Farc. Logan, Hud e Rin, con i loro avatar, entrano nella realtà virtuale di Us e vivono le loro avventure virtuali, ora a fianco dei ‘buoni’, ora dei ‘cattivi’, come prescrivono le regole del gioco in quelle determinate azioni, o “campagne”. Tommaso, alias Logan, vive in una situazione di estremo disagio: non esce di casa da 18 mesi per un problema psicosomatico, dopo aver interrotto qualsiasi tipo di relazione con il mondo esterno, dallo sport alla scuola. Il racconto di Us si srotola dunque in due dimensioni che procedono parallele: da un lato, la vita di Tommaso nella sua casa in un piccolo paesino della Liguria, vicino al confine con la Francia, i suoi rapporti difficili con i genitori e i fratelli, la vita quotidiana con i suoi mille problemi e le sue ansie; dall’altro, l’universo virtuale del videogioco, in cui è chiamato ad affrontare missioni pericolose e a dover scegliere chi aiutare e chi ostacolare o, addirittura, uccidere.

A differenza dei videogiochi e dei mondi virtuali dei film sopra citati, però, Us possiede qualcosa in più: il fatto, cioè, di creare non dei mondi fantastici e immaginari ma di ricreare, invece, delle situazioni reali, in cui sono ricostruiti, come già accennato, degli importanti conflitti del Novecento. I personaggi si trovano così inseriti in situazioni reali, pure se ricreate artificialmente dal gioco, che hanno vissuto persone realmente esistite. Se Rin, l’unica ragazza del gruppo, e Logan-Tommaso, in queste situazioni, si pongono dei problemi, Hud, che appare come il più cinico e il più sprezzante fra i tre, ripete che si tratta soltanto di un gioco. Eppure, Tommaso, avverte qualcosa di umano anche nella realtà virtuale in cui loro agiscono solo con i loro avatar: “Il problema è che Us propone loro fatti realmente accaduti, pensa, qualcuno queste cose le ha realmente vissute, è questo che lo disturba”. Us pone i propri giocatori di fronte ad una umanità che ha veramente vissuto quelle situazioni: anche nelle avventure virtuali del videogioco, probabilmente, sono nascosti degli esseri umani che soffrono, come i tre personaggi ricorrenti nelle varie “campagne”, dai nomi di Giovanni, Davide e Maria.

Come si può capire, al centro del nuovo romanzo di Michele Cocchi non vi è soltanto la contrapposizione fra il mondo reale e quello virtuale ricostruito dal videogioco, ma una continua riflessione sulle azioni da compiere nella vita quotidiana. Se Tommaso confonde la realtà e la propria esistenza con l’universo parallelo di Us, si insinua in lui una pungente riflessione sulla giustezza delle proprie azioni e sulla dimensione umana, sul compiere scelte che stiano dalla parte dell’umanità, pure all’interno del mondo virtuale del videogioco. Ed è grazie a questa lenta scoperta della dimensione umana che potrà finalmente crescere ed essere responsabile delle proprie azioni, risolvendo i suoi problemi psicologici adolescenziali. Se egli desidera essere un eroe, e forse lo può essere nella finzione del videogioco, dovrà scoprire che nella realtà non c’è bisogno del concetto di eroe, che l’eroismo consiste semplicemente nel rimanere profondamente attaccati alla propria dimensione umana. La dimensione virtuale di Us si trasforma, allora, in una specie di banco di prova per affrontare la vita, come afferma Luca, alias Hud: “«Metterci alla prova», continua Luca, «ho imparato più cose sulla storia del Novecento in due mesi che in dodici anni di scuola. Us ci costringe a essere vittime o carnefici, militari o ribelli, violenti o pacifici. All’inizio ti sembra uno sparatutto come gli altri, sei forte perché hai un fucile ma poi capisci che avere un’arma non è decisivo, che nella vita Tommaso si può scegliere, si deve scegliere»”.

Senza svelare troppo la trama, è necessario comunque ricordare che i personaggi, alla fine, si troveranno coinvolti in un’azione reale in cui si trovano schierati dalla parte dell’umanità: aiutare una famiglia di immigrati irregolari africani ad attraversare il confine con la Francia. Abbandonati gli avatar, essi si riappropriano fortemente dei loro corpi e della loro dimensione umana: non devono più sottomettere le loro scelte alle opzioni del gioco, non devono più compiere azioni disumane soltanto per accumulare maggiore punteggio. Scelgono di stare dalla parte dell’umanità, pure se nell’illegalità, contro l’ordine costituito e i pattugliamenti delle “ronde” che cercano di bloccare i migranti irregolari. I ragazzi si troveranno quindi di fronte alla scelta che li fa crescere e maturare, come il giovane protagonista di Terraferma (2011) di Emanuele Crialese, il quale, infrangendo una legge disumana, aiuta una ragazza africana e la sua bambina a fuggire dall’isola di Linosa e a raggiungere il marito che risiede a Torino.

Il ritorno definitivo alla dimensione umana risuona come una vera e propria catarsi segnata dal riso, un’espressione profondamente legata al corpo. Tommaso e gli altri, compiuta la loro azione, scoppiano a ridere, come in uno scioglimento della dimensione tragica che li aveva avvolti fino ad allora. Se nel gioco, dal significativo nome di “Us” (“Noi”) era necessario essere sempre in accordo con i membri della propria squadra e comportarsi come fratelli, nella realtà, in una nuova dimensione fraterna, il corpo si sostituisce all’avatar. Riappropriatisi dei loro corpi, i personaggi saranno finalmente liberi di scegliere e, nel più difficile e complesso fra i mondi attraversati, quello reale, sceglieranno l’apertura all’altro, l’ibridazione, l’umanità contro tutte le chiusure, tutte le paure, tutti i fascismi.

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Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/22/28837/ Tue, 22 Mar 2016 22:45:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28837 di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. [...]]]> di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. Riprendendo gli studi di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) che indicano nel cinema la presenza di due caratteri, quello della pittura non-realista, votata alla creazione di una propria realtà, e quello della fotografia, volta ad immortalare la realtà esistente, Rabbito segnala come nel caso della finzione terziaria, ciò che si osserva risulti sbilanciato sul versante della pittura non realista.
Nella finzione terziaria di grado minimo la finzione è occultata, nonostante lo spettatore sappia perfettamente di trovarsi di fronte ad una costruzione. Allo spettatore è richiesto di stare al gioco al fine di godersi lo spettacolo; la realtà rappresentata deve essere percepita come vera, come uno specchio della realtà. Fingendo vi sia soltanto il rappresentato senza alcun rappresentante, si struttura uno spettacolo antitetico a quello proposto da Bertold Brecht (Scritti teatrali).
Nel caso di una finzione terziaria di grado intenso, si riprendono alcune finalità tipiche delle rappresentazioni barocche, cioè «spingere a fare proprio il sapere dell’incertezza, di diffidare di ciò che si vede e di stare all’erta sia nei riguardi della realtà sia nei riguardi della finzione. […] Si invita insomma a considerare l’immagine per quella che è, una rappresentazione, e non creare una confusione tra questa e la realtà» (pp. 121-122). Dunque, nel ricorso alla finzione terziaria di grado intenso si intenderebbe: mettere in discussione il linguaggio audiovisivo; ripensare al ruolo del regista e dello spettatore; evidenziare la complessità della realtà mostrata; esplicitare le modalità di messa in rappresentazione della realtà; rendere vigile lo spettatore e farlo riflettere sulle nuove immagini. In tal modo lo spettatore non verrebbe più trascinato in un ruolo passivo ed ipnotico, ma resterebbe vigile e consapevole.

In questo scritto ci si limiterà a prendere in esame la finzione terziaria di grado intenso proposta dal volume di Andrea Rabbito.

Synecdoche, New York (2008) di Charlie KaufmanIn Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, analizzato da Rabbito a partire dagli studi di José Ortega y Gasset (Meditazioni del Chisciotte), in un intrecciarsi di figure retoriche (metafora, sineddoche, metonimia), si narra di come il protagonista, il regista Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), intenda creare uno spettacolo teatrale capace di riproporre il mondo esterno in una sorta di doppio del reale che lo porta a ricreare all’interno di un grande capannone uno spaccato di una zona di New York. «La New York di Cotard diviene così una particolare metafora/sineddoche/metonimia dell’originale New York, nel senso che la prima sostituisce la seconda; il rappresentante, dunque, il doppio, il falso più che rimandare al rappresentato, al vero, crea con questo un forte legame e tende a sostituirlo» (p. 136). Cotard giunge a creare una situazione talmente legata alla realtà che finirà col perdersi in questa con-fusione tra i due mondi.
La duplicazione del reale allestita dal protagonista lo induce anche a trovarsi un alter ego, Sammy Barnathan (Tom Noonan), che lo interpreti trasferendosi nell’appartamento allestito sul set. «Quello che si verifica dunque, con progressiva evidenza, è la dinamica della metafora/sineddoche/metonimia: ovvero il rappresentante, Sammy, nega sempre più la propria realtà per essere sostituito dal personaggio che rappresenta, Cotard; e questi a sua volta si orienta ad una sempre maggiore derealizzazione di se stesso, per sparire nell’irreale da lui creato. E tale derealizzazione avviene con esito così incisivo in quanto non è in gioco un rimando, ma un legame, reso mediante l’eccedere la norma della verosimiglianza. Il riflesso speculare si confonde con il soggetto reale di cui duplica le apparenze, creando una dinamica di reciproca sostituzione dei due enti e profonda confusione fra questi» (pp. 139-140).
Si apre così un gioco di specchi che porta alla creazione di un altro set che, dal suo interno, duplica il primo, così che Sammy possa imitare Cotard. A ciò si aggiunge poi l’idea di aumentare il tutto di un nuovo livello di riproduzione, un terzo spazio in cui continuare questo gioco di duplicazione. Tale proliferazione conduce a quella mise en abyme di cui parla Andrè Gide analizzata da Lucien Dällenbach (Il racconto speculare). «Si palesa come attraverso la mise en abyme si costruisca una rappresentazione mostrando in che modo questa intenda rimandare alla realtà, e come il rappresentato rimandi al rappresentante, mettendo in luce la modalità con cui queste dimensioni “si derealizzano, si neutralizzano” tra loro. E, inoltre, si mostra come la derealizzazione avvenga in maniera particolarmente suggestiva quando vi è una forte somiglianza, la quale […] pone in essere non più un rimando, ma un legame tra rappresentato e rappresentante, fra rappresentazione e realtà; quando infatti fra questi due vi è una forte somiglianza, la finzione più che a rimandare al vero, tende a legarsi in maniera radicale a quest’ultimo fino ad orientarsi a farne le veci e a sostituirlo» (p. 143).
Di fronte ad una tale confusione di piani, lo spettatore è indotto a riflettere a proposto del confine che separa realtà e finzione e di come ogni tipo di rappresentazione crei un dialogo tra reale e simulacro. Quello sviluppato dal film di Kaufman, sostiene Rabbito, è un discorso metalinguistico che, pur riguardando anche le immagini classiche, sembra avere come vero obiettivo le nuove immagini.

La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański è un film – tratto da una pièce di David Ives che narra delle prove teatrali dell’adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch – che mette in scena il rapporto di stampo sadomasochistico tra i due interpreti soffermandosi sulla descrizione dei meccanismi della rappresentazione. Il primo livello di lettura dell’opera è rivolto allo spettatore che intende limitarsi a seguire il contenuto, il secondo livello è invece destinato a chi desideri approfondire la forma mediante la quale il contenuto si offre al pubblico.
A differenza della rappresentazione cinematografica convenzionale che tende a mostrarsi come duplicazione del reale, il film di Polanski «mira invece a decostruire la magia cinematografica, a scardinarla, in quanto mostra i meccanismi mediante i quali la rappresentazione realizza la sua magia» (pp. 149-150). Il cineasta polacco mostra quel significante che solitamente risulta celato nelle opere cinematografiche. Attraverso l’uscita dai personaggi di Wanda e Thomas l’illusione viene continuamente interrotta in modo da indurre lo spettatore a rimanere vigile.

venere pellicciaA partire dalla resa esplicita della finzione si moltiplicano i livelli di realtà ed i personaggi iniziali, Wanda von Dunayev (Emmanuelle Seigner, attrice moglie di Polanski) e Thomas Novachek (Mathieu Amalric, attore somigliante a Polanski) finiscono per rinviare alla coppia Polanski-Seigner generando nello spettatore «la strana sensazione che Polanski e Seigner stiano recitando la parte di Thomas e Wanda, e che questi due, a loro volta, interpretino i ruoli di Wanda Dunayev e Severin Kushemski» (p. 151). Il gioco di specchi continua ed alle «tre dimensioni, a cui rimanda il film, vanno aggiunte quella relativa al Thomas e alla Wanda, non dell’adattamento di Thomas, ma del romanzo di Sacher-Masoch; e in più, viene interpellata anche la dimensione dello stesso von Sacher-Masoch e della scrittrice Fanny Pistor, i quali realmente pattuirono un rapporto di padrone e schiavo dietro la volontà dello scrittore, il quale, in seguito, trasse da questa personale vicenda ispirazione per la sua opera letteraria» (p. 151). Si crea così un inestricabile mise en abyme che spinge lo spettatore a riflettere a proposito dell’illusione del doppio ed a proposito di come risulti difficile distinguere la realtà dalle rappresentazioni.

Il film Dans la maison (2012) di François Ozon narra invece del rapporto tra il professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini) e l’allievo Claude Garcia (Ernst Umhauer) che sottopone al docente suoi resoconti del tempo passato presso la famiglia dell’amico Rapha Artole (Bastien Ughetto). Dall’intrecciarsi della tendenza della letteratura e del cinema di duplicare il reale si giunge ad esplicitare come ciò «si leghi al desiderio di ammirare e possedere il mondo esterno. A riguardo il mito di Narciso descrive chiaramente come l’uomo risulti affascinato dalla possibilità sia di visionare la realtà che si apprezza, sia di far proprio tale fenomeno del reale; ed è per questo il simulacro si dimostra, come mette in luce il mito, una perfetta forma che soddisfa tali desideri e che permette di immergersi in esso, e in questo perdersi» (p. 156). Rabbito ricorda a tal proposito come Christian Metz sottolinei come i desideri di vedere ed ascoltare attivati dal cinema si possano considerare “pulsioni sessuali” basate sulla “mancanza”.
Germain, grazie ai racconti di Claude, si introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Artole, ma, sostiene Rabbito, il voyeurismo del docente è diverso da quello dello spettatore cinematografico; lo spettatore è di fronte ad un prodotto di finzione mentre Germain spia l’intimità dell’abitazione. «Certo, quello di Germain è proprio un atto di spiare, è vero, ma Ozon ci rende coscienti, a noi spettatori, che ciò che sta leggendo il suo personaggio possa essere un inganno, una costruzione immaginata da Claude. Ed è lo stesso Germain che all’inizio ne è cosciente» (pp. 158-159). Seppur cosciente del possibile inganno operato da Claude attraverso il racconto, il docente non è più in grado di discernere la finzione dalla realtà giungendo così, un po’ alla volta, per essere fagocitato dall’Oltremondo.

Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard intende svelare l’illusorietà delle nuove immagini ed enfatizzare come, a differenza di quanto accade ai protagonisti dei film precedentemente analizzati di Kaufman, Polanski e Ozon, non si debbano con-fondere i due mondi. Le immagini sono le immagini e la realtà è la realtà, sembra suggerire con forza il lungometraggio del cineasta francese.
In Adieu au langage, suggerisce Rabbito, non abbiamo un protagonista che cade vittima della proliferazione dei duplicati di realtà determinata dal teatro o dalla letteratura, ma i principali protagonisti del film di Godard risultano essere la rappresentazione stessa e lo spettatore.
«Non c’è infatti, nell’opera di Godard, la creazione di una vera e propria storia con un personaggio che si trova coinvolto nelle spire della finzione, ma è lo spettatore stesso che diviene il protagonista ed è lui a dover da un lato fronteggiare senza intermediari il mondo delle nuove immagini e della loro illusione, dall’altro lato confrontarsi con la loro messa in discussione sviluppata dal regista francese» (p. 162).

cinema-rabbito-onda-medialeL’opera di Godard recupera la forma epica brechtiana rivolgendosi ad uno spettatore a cui si richiede la “ratio” e non il “sentimento” e, sostiene Rabbito, attraverso la sua opera, il regista francese «ridimensiona l’onda mediale, interrompe sul nascere la possibilità del sorgere di illusioni da parte del film, e di identificazioni da parte dello spettatore [indirizzandosi] verso quella “funzione sociale” propria del cinema […] Funzione che riconosce come uno dei suoi fini quello non solo di spezzare le illusioni, ma di rendere consapevole il pubblico, attraverso lo svelamento del “gioco” della rappresentazione, di come quest’ultima agisce» (p. 163).
Secondo Rabbito il film di Godard critica quelle immagini che duplicano il reale, che lo uccidono sostituendolo con il suo simulacro. È evidente quanto ciò sia affine alle tesi di Jean Baudrillard (Le strategie fataliIl delitto perfetto) che ha più volte evidenziato come la perfetta duplicazione della realtà comporti l’uccisione del reale. A tutto ciò, sostiene Rabbito, Jean-Luc Godard aggiunge, analogamente a Guy Debord (La società dello spettacolo) che la duplicazione e la sostituzione pregiudicano il funzionamento dei sentimenti dell’uomo, della sua esperienza cosciente o subcosciente. «L’obiettivo […] che si pone Godard, recuperando il pensiero di Brecht, è quello di “rinuncia[re] a creare illusioni” per far “prendere posizioni” allo spettatore e svegliarlo dal suo sonno e dal suo cattivo sogno, e questo permette anche all’autore di instaurare un dialogo costruttivo e stimolante con il proprio pubblico» (p. 174).
Adieu au langage mette dunque «in evidenzia che, con le nuove immagini, […] gli oggetti del reale [e] ciò che crea l’uomo, si confondono fra loro, in una duplicazione in cui il referente reale si perde nel suo doppio, in maniera molto più esaustiva rispetto a quanto riescono le immagini classiche» (p. 175).

Gone Girl (2014) di David Fincher riflette sul ricorso alle nuove immagini come registrazione oggettiva della realtà. Se per mettere in discussione la presentazione della realtà da parte delle nuove immagini, Godard fa ricorso alle modalità epiche brechtiane, Fincher preferisce riprendere i meccanismi barocchi: denuncia le illusioni delle nuove immagini proponendo agli spettatori le stesse illusioni prodotte da tali immagini.
Se nella prima parte del lungometraggio lo spettatore è indotto a condividere con i personaggi del film, influenzati dalle immagini, che il protagonista Nick è colpevole della scomparsa della moglie, nella seconda parte del film si fa strada il dubbio, le deduzioni iniziali risultano superficiali. «Il farci cadere in errore, da parte di Fincher, è una scelta funzionale per far riflettere come la presentazione della nuova immagine possa essere del tutto inattendibile, e sollecita a ripensare come sia una quasi-realtà ciò che viene proposta in immagine e non una realtà, marcando particolarmente il suo essere “quasi”» (p. 182). Se col metodo brechtiano rappresentante e rappresentato vengono differenziati sin dall’inizio enfatizzando lo statuto illusorio, la “via barocca” propone invece una momentanea illusione poi messa in discussione.

Gli esempi riportati da Rabbito hanno mostrato come la capacità delle immagini di presentare la realtà esterna possa essere utilizzata al fine di contrastare questa loro capacità illusionistica. Tra gli ulteriori titoli citati dallo studioso come esempi di opere capaci di far riflettere lo spettatore circa il fatto che le immagini dovrebbero limitarsi ad avere un ruolo di mediazione e non di identificazione con il reale si possono ricordare: Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, eXistenZ (1999) di David Cronemberg, Being John Malkovich (1999) di Spike Jonze , Mulholland Drive (2001) di David Lynch, Dogville (2003) di Lars von Trier, La mala educacion (2004) di Pedro Almodóvar, Cigarette burns (2005) di John Carpenter, The Wild Blue Yonder (2005) di Werner Herzog, La Science des rêves (2007) di Michel Gondry, Avatar (2009) di James Cameron, Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, Inception (2010) di Christopher Nolan, Holy Motors (2012) di Leos Carax, Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino. Anche grazie a queste opere, la lotta contro l’illusione di cui parla Edgar Morin (I sette saperi necessari all’educazione del futuro), è aperta.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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