Rapporto Oxfam – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 20 Jan 2025 21:00:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una guerra civile tutt’altro che nascosta https://www.carmillaonline.com/2024/01/24/una-guerra-civile-strisciante-e-costante/ Wed, 24 Jan 2024 21:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80832 di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), [...]]]> di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), Christian Laval (professore emerito di Sociologia all’Università di Parigi Nanterre) e Pierre Sauvêtre (docente di Sociologia presso l’Università di Parigi Nanterre) sullo stesso argomento e, ancor di più, scoprire che l’edizione originale di La scelta della guerra civile è uscita in Francia nel 2021. Lo stesso anno, appunto, in cui il redattore di queste note ha curato la pubblicazione di Guerra civile globale per l’editore Il Galeone di Roma.

Le similitudini non si fermano però soltanto ai titoli o alla data di prima pubblicazione poiché, in entrambi i casi, al centro dell’analisi ci sono le strategie economiche e repressive, oltre che politiche, messe in atto soprattutto in gran parte del mondo occidentale dai governo variamente neoliberisti che si sono alternati al governo degli stati presi in considerazione. Come si afferma nella Prefazione del testo qui recensito:

Quest’opera s’inscrive nella riflessione collettiva del Gruppo di studio sul neoliberalismo e le sue alternative (GENA). Questo gruppo, costituitosi nell’autunno del 2018, è transdisciplinare e internazionale. In particolare, esso si è dato come oggetto l’osservazione e l’analisi delle metamorfosi del neoliberalismo, considerandolo sotto l’angolazione delle sue varianti strategiche […] così come la diffusione su larga scala di modelli di governo nazionalisti, autoritari e razzisti, è stato il punto di partenza del nostro lavoro collettivo sul ruolo della violenza e la dimensione della guerra civile nella storia del neoliberalismo1.

D’altra parte, come potrebbe accadere, come testimoniano i dati forniti dall’ultimo rapporto Oxfam, che dal 2020 allo scorso novembre, i 5 uomini più ricchi del mondo ( Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno più che raddoppiato le proprie fortune (+ 114%), da 405 a 869 miliardi di dollari a un ritmo di 14 milioni l’ora, mentre i 5 miliardi di persone più povere del pianeta hanno visto rimanere sostanzialmente invariate o peggiorate le proprie condizioni (-0,2%), se non per mezzo di una coercizione sempre più violenta esercitata nei confronti di queste ultime, sia in termini di estrazione di pluslavoro attraverso l’intensificazione dello sfruttamento individuale e collettivo che di negazione dei servizi minimi necessari alla conduzione di una vita degna di questo nome?

Tali dati, confermando le affermazioni di Marx invece più sbeffeggiate dai rappresentanti della “scienza economica” istituzionale, ovvero quelle sull’impoverimento crescente della popolazione nel corso dello sviluppo capitalistico, non fanno altro che ricordare come ormai da anni, o forse da sempre, non soltanto gli uomini più ricchi (dato comunque relativo) ma l’intero sistema di appropriazione privata della ricchezza collettivamente prodotta, non si fondi altro che su una guerra continua condotta contro le classi meno abbienti da parte di coloro che detengono, soprattutto nel Nord del mondo (come rivelano ancora i nomi dei cinque uomini più ricchi), gran parte delle ricchezze e del potere politico “reale”, non formalizzato certo soltanto nelle istituzioni democratiche parlamentari o consimili. Soprattutto a partire dal trionfo politico e ideologico del neoliberalismo, come si afferma ancora nell’introduzione allo stesso testo.

Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile […] Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge2.

Come afferma ancora il rapporto Oxfam, tra il luglio 2022 e il giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitto generati da 96 tra le imprese più grandi del mondo, 82 sono finiti nelle tasche degli azionisti sotto forma di dividendi o di operazioni di riacquisto (buyback) invece di essere reinvestiti nello sviluppo delle aziende, causando così una sorta di soffocante spirale economica in cui la ricchezza si accumula su se stessa senza produrre alcun altro beneficio che non la crescita di capitale azionario e monetario già detenuto dagli stessi.

Un accumulo di ricchezza privo di qualsiasi altra prospettiva che non la ripetizione infinita dello stesso ciclo, anche a costo di guerre condotte all’interno contro le stesse popolazioni, anche nel Nord del mondo, oppure contro qualsiasi altro possibile competitor sia nazionale che internazionale, statale o privato.

Vale proprio per ciò la pena di ricordare che il 74,2% della ricchezza dei miliardari globali è concentrata nel Nord globale e che di questi il 65% è concentrato ancora nella stessa area geo-economica. Mentre il 69,3% della ricchezza globale è concentrata ancora nel Nord, dove però risiede soltanto il 20, 6% della popolazione mondiale. Non a caso, forse, è proprio in una parte di mondo non pienamente considerabile come appartenente al Nord, il Cile, che, nel 2019, ha inizio una formidabile e spietata repressione dei movimenti nati inizialmente per contestare l’aumento del costo dei biglietti della metropolitana di Santiago.

Il 20 ottobre 2019, due giorni dopo l’inizio dei disordini nella metropolitana di Santiago a causa dell’aumento delle tariffe dei biglietti, il presidente cileno Sebastián Piñera non ha esitato a dichiarare lo Stato di guerra in questi termini: “Siamo in guerra con un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno ed è pronto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite”. Per i cileni che lo ascoltano, questo utilizzo del termine “guerra” non ha niente di metaforico: l’esercito ha il compito di far rispettare l’ordine e i veicoli blindati ricompaiono per le strade di Santiago, riportando i più anziani a sinistri ricordi, quelli del colpo di Stato militare di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973. Nelle settimane successive, i Carabineros si assumeranno il compito di dare alla parola “guerra” un senso molto preciso, quello dello scatenarsi violento dello Stato contro comuni cittadini (stupri nei commissariati di polizia, auto della polizia lanciate sui manifestanti al fine di schiacciarli, centinaia di manifestanti feriti agli occhi o che hanno perso la vista a causa dell’utilizzo di proiettili contenenti piombo, ecc.).
Ma qual era il volto del “potente e pericoloso nemico” designato da Piñera? Il 18 ottobre 2019 debutta il movimento noto come “Risveglio d’ottobre”. In pochi giorni, questo movimento orizzontale, senza leader o capi politici, ha assunto la dimensione di una vera e propria rivoluzione popolare, senza precedenti per durata e intensità. È tutta la diversità della società a fare rumorosamente irruzione nello spazio pubblico. È significativo che gli striscioni femministi e le bandiere dei Mapuche si siano mischiati nelle manifestazioni. Le donne cilene sono state schiacciate da un familiarismo che esigeva da loro sempre più sacrifici, i Mapuche sono stati vittime di una “colonizzazione autoritaria interna”. Senza dubbio la guerra dichiarata da Piñera è una guerra civile, una guerra che richiede la costruzione discorsiva e strategica della figura del “nemico interno”. Nasce dalla scelta, da parte dell’oligarchia neoliberale, di fare guerra a un movimento di massa di cittadini che minacciano direttamente il suo dominio. Un graffito onnipresente sui muri lo mostra: “Dove il liberalismo è nato, il liberalismo morirà”3.

Slogan particolarmente significativo, quest’ultimo, poiché proprio in Cile, a partire dal ricordato golpe di Pinochet e dei suoi generali, la scuola economica dei Chicago Boys di Milton Friedman, antesignana del neoliberalismo, poté sperimentare ed esercitare in piena libertà le proprie teorie e pratiche di ridistribuzione della ricchezza esclusivamente verso l’alto4. Insomma, fu un golpe, un’autentica dichiarazione e pratica di guerra contro la società, a dare inizio a quelle leggi economiche che oggi giustificano tutte le scelte portate avanti dal capitale finanziario a livello nazionale e globale.

Nel periodo preso in esame dall’ultimo rapporto Oxfam:

Per quasi 800 milioni di lavoratori occupati in 52 paesi i salari non hanno tenuto il passo dell’inflazione e anzi il monte salari ha visto un calo in termini reali di 1.500 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022, una perdita equivalente a uno stipendio mensile per ciascun lavoratore. […] Vale naturalmente anche per l’Italia, dove dal 2000 a oggi, le quota di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal top-10% è cresciuta di 3,8 punti percentuali nel periodo 2000-2022, mentre la quota della metà più povera ha mostrato un trend decrescente, riducendosi nello stesso periodo di 4,5 punti percentuali5.

Così mentre un’opposizione da operetta, soprattutto nel Bel Paese, si preoccupa di braccia levate nel corso di manifestazioni folkloristiche più che politiche oppure di levare nei teatri urla commosse in difesa della “repubblica antifascista”, la vera guerra civile dichiarata dal Capitale e dai suoi funzionari e profittatori contro i lavoratori, i disoccupati, le donne, gli immigrati e le classi medie impoverite continua a svilupparsi sotto gli occhi di tutti, anche nel cuore di quello che è stato definito fino ad ora come “Nord” del mondo.

Lo spettro della guerra civile non è mai stato brandito tanto quanto durante le ultime settimane della campagna presidenziale americana, mentre si producevano violenti scontri tra suprematisti bianchi e manifestanti antirazzisti a Portland o a Oakland. L’editorialista Thomas Friedman non ha allora esitato ad affermare sulla CNN che gli Stati Uniti erano alla vigilia di una seconda guerra civile. […] Lo spettacolo dell’irruzione del 6 gennaio 2021 a Washington ha rivelato un movimento radicato nelle profondità della società americana. Tutte queste violenze non svelano una classica guerra civile in cui due eserciti si affrontano, come durante la guerra di Secessione, ma una divisione profonda e duratura tra due parti della società, per troppo tempo occultata dal prisma deformante dell’opposizione elettorale tra democratici e repubblicani, e che oggi si presenta come una singolare forma di guerra civile. È troppo facile vedere in Trump un demiurgo che avrebbe creato questa divisione all’interno di una società in precedenza pacifica. Quello che Trump ha saputo fare è stato reinvestire su divisioni molto antiche, razziali, sociali e culturali, per meglio attizzarle a proprio vantaggio, ravvivando in particolare l’immaginario sudista fatto di schiavismo e di razzismo […] Ma la cosa più importante per il futuro è senza dubbio che Trump sia riuscito a tenere insieme intere fasce della popolazione, aumentando anche in modo significativo il numero di voti a suo favore tra il 2016 e il 2020 (da 63 milioni a 73 milioni nel 2020). Questa polarizzazione è stata resa possibile solo da una contrapposizione di valori, quelli della libertà e dell’uguaglianza o della libertà e della giustizia sociale […] È infatti questa contrapposizione ad aver dato senso all’odio o al risentimento provati da gran parte di questi elettori. Come dice Wendy Brown, il più grande risultato dei repubblicani in queste elezioni è stato quello di “identificare Trump con la libertà”: “Libertà di resistere ai protocolli anti-Covid, di abbassare le tasse ai ricchi, di espandere il potere e i diritti delle aziende, di cercare di distruggere ciò che resta di un Stato regolatore e sociale”6.

Ma, come si afferma ancora nello stesso testo:

Non possiamo attribuire all’estrema destra il monopolio della strategia neoliberale. La cosiddetta sinistra “di governo” […] ha condotto dagli anni Ottanta questa stessa guerra, certo in maniera più elusiva, ma sempre con terribili effetti sui rapporti di forza e sulle possibili alternative. Non solo non ha difeso le classi lavoratrici e non ha protetto i servizi pubblici, ma li ha impoveriti e indeboliti in nome del “realismo”, vale a dire in nome dei vincoli della globalizzazione o dei trattati europei, a seconda dei casi. L’ascesa del neoliberalismo nazionalista della destra radicale non avrebbe potuto captare il risentimento delle classi popolari senza questa partecipazione attiva della “sinistra” all’offensiva neoliberale7.

Sinistra di governo che, ammantandosi sempre di politically correct, nel tentativo di smarcarsi dalle proprie responsabilità politiche e amministrative all’interno dell’azione statale messa in atto da governi solo apparentemente diversi per orientamento ideologico, ha cercato ripetutamente di sottolineare come:

l’emergere di una destra autoritaria, nazionalista, populista e razzista corrisponde a uno sviluppo “mostruoso”, a una “creazione frankensteiniana” del neoliberalismo delle origini – quello di Friedrich von Hayek, Milton Friedman o degli ordoliberali tedeschi, che era incentrato sulla difesa del libero mercato e della morale tradizionale. […] Per altri ancora, l’attuale risorgenza della versione “autoritaria” del neolibealismo risalente agli anni Trenta sarebbe “l’espressione del suo indebolimento politico”, della sua “crisi di egemonia avanzata”. In ogni caso, il neoliberalismo, considerato a partire dalle sue forme contemporanee, starebbe subendo uno snaturamento o una degenerazione […] Tuttavia, se affrontato nella sua dimensione strategica, il neoliberalismo sembra essere sempre stato coinvolto in un insieme di relazioni (di composizione o di alleanza, ma anche di antagonismo) con altre razionalità politiche, essendosi quindi confrontato fin dall’inizio con l’obbligo di designare i nemici e di riflettere sulle modalità d’azione che avrebbero potuto garantire l’efficacia dell’offensiva. Riconoscere questa dimensione strategica del neoliberalismo implica come conseguenza il riproporre la questione delle sue origini storiche, per mostrare quanto il ruolo della strategia sia stato centrale sin dall’inizio8.

Ed è proprio questa indagine storica sulle forme e le strategie del neoliberalismo a costituire una delle parti più interessanti e convincenti del testo che, nel suo insieme , risulta diviso in dodici capitoli, ognuno destinato ad approfondire aspetti diversi dell’azione e della storia del neoliberalismo.

Si inizia dal Cile, con un capitolo significativamente intitolato Il Cile, la prima controrivoluzione liberale (pp. 29-54), per poi proseguire con la Demofobia liberale (pp. 55-71), l’Apologia dello Stato forte (pp. 73-95), Costituzione politica e costituzionalismo di mercato (pp. 97-117), Il neoliberalismo e i suoi nemici (pp. 119-141), Strategie neoliberali dell’evoluzione sociale (pp. 143-167), La falsa alternativa tra globalisti e nazionalisti (pp. 169-189), La guerra dei valori e la divisione del “popolo” (pp. 191-211), Sul fronte del lavoro (pp. 213-229), Governare “contro” le popolazioni (pp. 231- 247), Il diritto come macchina da guerra neoliberale (pp. 249-266) e Neoliberalismo e autoritarismo (pp. 267-294).

La raccolta di saggi, tutti rigidamente e consequenzialmente collegati l’uno all’altro, costituisce così un perfetto manuale politico per l’analisi del neoliberalismo, ultima e più recente del dominio del capitale sulla società e il mondo intero, dando vita, contemporaneamente, ad una autentica enciclopedia storico-politica sul tema della guerra civile come normale condizione di esistenza dell’ordine sociale dettato dall’attuale modo di produzione.

contrariamente a quanto sostiene il discorso del potere, la guerra civile non è ciò che lo minaccia dall’esterno: lo abita, lo attraversa e lo implica, perché “esercitare il potere è in un certo modo fare la guerra civile”. In questo modo, la guerra civile funziona come “una matrice all’interno della quale operano gli elementi del potere, si riattivano, si dissociano”. È in tal senso che si può sostenere che, lungi dal porre fine alla guerra, “la politica è la continuazione della guerra civile” 9. […] Agli antipodi di una politica di protezione statale dei rischi sociali a opera dello Stato, lo Stato neoliberale mira a costruire il mercato e a proteggerlo dalle minacce di regolamentazione e di controllo da parte di uno Stato abusivo. Ma per adempiere a questa missione, lo Stato deve rimanere costantemente sul piede di guerra al fine di evitare che la democrazia interferisca sull’economia. Se siamo stati in grado di mostrare la natura “costruttivista” di un neoliberalismo che dà forma a un ordine economico concorrenziale, diventa di conseguenza necessario dare pieno risalto alle strategie di guerra civile condotte dai governi neoliberali contro tutto ciò che minaccia la “società libera”: governi e partiti socialisti, sindacati e movimenti sociali in lotta per rivendicazioni economiche, ecologiche, femministe o culturali. Una guerra che assume essenzialmente due forme: l’istituzione di uno Stato forte e la repressione di tutte le forze sociali e dei movimenti che si oppongono a questo progetto.
Vedere un’“ambiguità”, un “fallimento” o un “segno di crisi” nel fatto che la governamentalità neoliberale possa ricorrere contemporaneamente a forme costituzionali e a forme dirette di repressione statale significa, quindi, mancare proprio ciò che fa la coerenza strategica del neoliberalismo, poiché comprende appieno l’idea della necessità, almeno in certe situazioni, di ricorrere alla violenza. Occorre tuttavia precisare che la violenza neoliberale non è una violenza di tipo fascista, che si eserciterebbe contro una comunità designata come estranea al corpo della nazione, ma, sebbene possa mobilitare gli effetti di tale comunità, è innanzitutto caratterizzata dalla violenza conservatrice dell’ordine di mercato, rivolta contro la democrazia e la società. I neoliberali hanno la convinzione che la posta in gioco nell’ordine di mercato, molto più che una scelta di politica economica, sia un’intera civiltà, basata principalmente sulla libertà e la responsabilità individuali del cittadino-consumatore. Ed è perché la “società libera” poggia su tale fondamento che lo Stato, con tutte le sue prerogative, continua a mantenere un ruolo chiave, e ha persino il dovere di utilizzare i mezzi più violenti e più contrari ai diritti umani, se la situazione lo richiede. 10.

Per concludere, lasciando al lettore il piacere di trovare nel testo mille altri spunti di riflessione sull’azione “civilizzatrice” e fomentatrice di guerre intestine e esterne da parte del neoliberalismo, vale la pena di riprendere un’altra considerazione, contenuta nello stesso, adatta a riassumere il senso della guerra messa in atto dal capitalismo di stampo neoliberale e delle sue conseguenze sociali, politiche e repressive.

In primo luogo queste guerre, condotte su iniziativa dell’oligarchia, sono guerre “totali”: sociali, in quanto mirano a indebolire i diritti sociali delle popolazioni; etniche, in quanto cercano di escludere gli stranieri da qualsiasi forma di cittadinanza, in particolare limitando sempre più il diritto di asilo; politiche e giuridiche, in quanto utilizzano i mezzi della legge per reprimere e criminalizzare qualsiasi resistenza e contestazione; culturali e morali, in quanto attaccano i diritti individuali in nome della difesa più conservatrice di un ordine morale, spesso riferito ai valori cristiani. In secondo luogo, in queste guerre le strategie sono differenziate, si sostengono e alimentano a vicenda, ma non danno luogo a una strategia globale unitaria le cui strategie nazionali o locali sarebbero solo particolarizzazioni. In terzo luogo, esse non oppongono direttamente un “ordine globale” di tipo imperiale, anche se guidato da una potenza egemone, a popolazioni prese in blocco, così come non oppongono due regimi politici o due sistemi economici l’uno all’altro. Esse contrappongono oligarchie coalizzate ad alcune fasce della popolazione, con il sostegno attivo di altre fasce della popolazione. Ma questo sostegno non è mai dato in anticipo; deve essere ottenuto ogni volta, strumentalizzando le divisioni esistenti, soprattutto quelle più arcaiche. È così che queste strategie vanificano qualsiasi schema dualistico. Le guerre civili del neoliberalismo sono appunto civili, in quanto non contrappongono l’“1%” al “99%”, secondo uno slogan tanto famoso quanto fallace, ma mettono in tensione e quindi mettono insieme diversi tipi di raggruppamenti, secondo linee di clivaggio molto più complesse di quelle dell’appartenenza a classi sociali: le oligarchie coalizzate, che difendono l’ordine neoliberale con tutti i mezzi dello Stato (militari, politici, simbolici); le classi medie, che hanno aderito al neoliberalismo “progressista” e al suo discorso sui vantaggi della “modernizzazione”; una parte delle classi popolari e medie, il cui risentimento è catturato dal nazionalismo autoritario; infine, un ultimo tipo di raggruppamento, che si è formato in gran parte tra le mobilitazioni sociali contro l’offensiva oligarchica e che rimane legato a una concezione egualitaria e democratica della società (in cui troviamo in particolare le minoranze etniche, sessuali e delle donne)11.

In occasione della prima edizione del festival Meltemi, che si terrà alla Zam (Zona Autonoma Milano), via Sant’Abbondio 4, dal 26 al 28 gennaio con il titolo Cronache dalla fine dell’impero, La scelta della guerra civile verrà presentato il 27 gennaio da Max Guareschi, Andrea Fumagalli e Vittorio Morfino.


  1. Prefazione a P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, p. 9.  

  2. Ibidem, pp. 11-12  

  3. Ibidem, pp. 12-13 

  4. cfr. anche: A. Peregalli, S. De Guio, Chile despertó.: storia e prospettive di un’insurrezione popolare in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeeone Editore, Roma 2021, pp. 47-84.  

  5. I. Solaini, L. Becchetti, In un mondo con sempre più miliardari la diseguaglianza si sta facendo esplosiva, “Avvenire”, 16 gennaio 2024.  

  6. P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, op. cit., pp. 14-15.  

  7. Ibidem, pp. 15-16.  

  8. Ivi, pp. 20-21.  

  9. M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, EHESS/Seuil/Gallimard, coll. “Hautes études”, Paris 2013, p. 33; tr. it. di D. Borca, P.A. Rovatti, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, Milano 2016, p. 45.  

  10. P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, op. cit., pp. 16-23.  

  11. Ivi, pp. 18-19.  

]]>
Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2017/02/21/hard-working-men-alle-radici-del-fascismo-trump-non-solo/ Mon, 20 Feb 2017 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36493 di Sandro Moiso

Donald Trump A When I was a schoolboy/ Teachers said study as hard as you can/ It didn’t make no difference/ I’m just a hard workin’ driver man ( Hard Workin’ Man, Captain Beefheart 1977)

Nel recente editoriale di un quotidiano nazionale, a proposito dell’allarmismo sollevato dal successo di Donald Trump e dalla possibile affermazione di forze populiste e /o di destra e nazionaliste nelle prossime elezioni europee, è stato affermato che le élite, ancora stordite da un evento inesplicabile e traumatizzante, sperano “che una gaffe, un passo falso, una dichiarazione sbagliata, un incidente di percorso, un’inchiesta [...]]]> di Sandro Moiso

Donald Trump A When I was a schoolboy/ Teachers said study as hard as you can/ It didn’t make no difference/ I’m just a hard workin’ driver man ( Hard Workin’ Man, Captain Beefheart 1977)

Nel recente editoriale di un quotidiano nazionale, a proposito dell’allarmismo sollevato dal successo di Donald Trump e dalla possibile affermazione di forze populiste e /o di destra e nazionaliste nelle prossime elezioni europee, è stato affermato che le élite, ancora stordite da un evento inesplicabile e traumatizzante, sperano “che una gaffe, un passo falso, una dichiarazione sbagliata, un incidente di percorso, un’inchiesta giudiziaria, un’esagerazione smodata, un comportamento censurabile, un tweet deplorevole, uno strafalcione possano minare il consenso da loro accumulato […] E non riescono, proprio non riescono con tutta la buona volontà, a capire qual è il rapporto di identificazione emotiva tra questi alieni e il popolo che si entusiasma per loro”.1

E’ un tema che Alessandra Daniele ha già affrontato con ben altra verve qui su Carmilla, ma le parole dell’editorialista del quotidiano milanese possono servire da spunto per una riflessione sulle modalità con cui, a livello internazionale, la classe dirigente affronta il problema dello s/mascheramento dei suoi obiettivi. Donald Trump appare infatti fin troppo esplicito nelle sue affermazioni mentre il suo programma si riduce a pochi, fondamentali obiettivi: protezionismo e barriere non solo commerciali (con tutto il corollario di esclusioni anche razziali che da ciò derivano), guerra commerciale (prima) e guerreggiata (poi) ai principali competitori (Cina ed Europa germanica)2 anche se non è possibile escludere con sicurezza qualsiasi altra alternativa di carattere militare, salvaguardia dei posti di lavoro e in particolare dei manufatti americani. A farne le spese sono già stati intanto TTP e WTO,3 ovvero due capisaldi della cosiddetta globalizzazione, oltre che tutta la diplomazia americana degli ultimi quarant’anni.4

der spiegel trump 1 Nei punti qui sinteticamente esposti sembra infatti essere messa in evidenza una politica piuttosto aggressiva sia dal punto di vista economico che geopolitico e militare. Se, nella narrazione del nuovo inquilino della Casa Bianca, l’America di Obama e dei precedenti governi ha perso quella che già in altri interventi su Carmilla è stata definita Terza guerra mondiale per la ripartizione delle rovine lasciate dal crollo dell’Urss e delle risorse petrolifere mediorientali fin dalla prima guerra del Golfo, Trump ha l’obiettivo di vincere, e per tale motivo impostarne regole ed indirizzi, la Quarta. Che non sarà più combattuta per interposte persone o alleanze e in cui the Land of the Free non dovrà più fingere di combattere per la libertà altrui o per ipotetici diritti umani. Questa volta gli Stati Uniti combatteranno dichiaratamente per se stessi e per i propri interessi. Senza quell’ingombrante bagaglio ideologico che alla fine sembre essersi ingarbugliato troppo nelle mani di Obama e della consorteria clintoniana liberal/democratica.

Però resta la domanda iniziale, ovvero cosa ci sia di così affascinante nel progetto, fin qui grossolanamente delineato, tanto da attirare il voto di milioni di cittadini americani. La risposta a tale domanda potrebbe essere efficacemente sintetizzata da un’intervista ad un gruppo di operai bianchi, andata in onda in un telegiornale RAI il giorno successivo alla vittoria di Trump, sulle ragioni del loro voto e su quale fosse l’aspetto che piacesse loro di più del neoeletto presidente, ed essa è stata ferma, sintetica, chiara e inequivocabile: “Hard work!”.

Probabilmente altri milioni di operai, farmers ed ex-occupati della rust belt e delle aree industriali ed agricole provate e provati da anni di crisi economica, decrescita industriale e perdita di garanzie e privilegi legati al ruolo di aristocrazia operaia e classe media WASP che sembrava per decenni aver garantito quella stessa classe sociale, avrebbero risposto allo stesso modo. Il duro lavoro scambiato per condizione esistenziale naturale, lo scambio tra forza lavoro e salario in cambio della produzione di plusvalore, la fatica stakanovista del minatore e dell’operaio che si sente orgoglioso del proprio ruolo nel processo di valorizzazione del capitale e nella crescita economica della propria nazione: ecco cosa li ha affascinati nel discorso del più becero degli speculatori trasformatosi in capo popolo nazionalista. E fascista, senza ombra di dubbio alcuna.

der spiegel trump 2 Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo.

Tutti elementi che permettevano a Jack London, già nel 1907 nel suo Tallone di ferro, di ipotizzare una società autoritaria e tirannica in cui “al di sopra delle masse dei diseredati s’innalzano le caste dell’aristocrazia operaia, dell’armata pretoriana, dell’apparato poliziesco onnipresente e dell’oligarchia finanziaria[…]Leggendo queste righe non si cree ai propri occhi; è un quadro del fascismo, della sua economia, della sua tecnica di governo e della sua psicologia“.5

Da questa classe operaia, anche qui da noi in Italia e in Europa, è stata sradicata l’idea del rifiuto del lavoro inteso come sfruttamento, è stata spazzata via l’idea che la vita umana si realizzi pienamente soltanto all’interno di una comunità di intenti antagonista all’esistente, in cui il lavoro torni ad essere una forza creativa collettiva non solamente destinata a produrre ricchezza monetaria e merci. Ed è, occorre dirlo, un’umanità triste e impoverita oltre che impaurita. Un’umanità in cui ogni desiderio è reificabile sotto forma di merci e prodotti oltretutto di qualità sempre più scadente e il cui immaginario è stato interamente colonizzato dal Capitale e dallo Stato.

Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia. Oggi il jihadista, domani il tedesco e il cinese e più in là magari anche il giapponese o qualsiasi altro europeo. Ma tutto questo era già presente, soltanto in maniera più mascherata e nascosta, in tutto il discorso della presidenza o delle presidenze precedenti. Non solo per le capacità mimetiche dei singoli individui che si sono succeduti alla Casa Bianca, ma perché intrinseco a tutte le scelte fatte dall’espansionismo imperiale statunitense. Liberali o liberiste che fossero.

der spiegel trump 3 La responsabilità di Trump agli occhi dell’establishment è così, principalmente, quella di aver reso esplicito ciò che per il bon ton liberal-democratico deve rimanere accantonato: l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo.

Non due entità separate e nemiche, l’una in concorrenza con l’altra, come la vulgata esposta negli ultimi settant’anni ha potuto affermare dopo che le controrivoluzioni totalitarie e stataliste avevano spazzato via qualsiasi discorso sull’autonomia di classe mentre la seconda guerra mondiale era riuscita a piegare le esigenze di liberazione dalla schiavitù capitalistica agli interessi degli imperialismi in lotta. Soprattutto dopo che l’intervento dello Stato nell’economia, sia in chiave fascista, stalinista o keynesiana, aveva contribuito a sviluppare una sorta di statolatria nel seno di quelle stesse masse che lo Stato avrebbero dovuto percepire come nemico in quanto unico garante degli interessi della classe sfruttatrice.

Non si scandalizzi dunque chi ancora oggi è convinto che le politiche keynesiane siano un prodotto dell’azione delle lotte e dei sindacati sull’operato dello Stato a favore dei ceti meno abbienti. La teorizzazione di Keynes è infatti racchiusa nella sua opera più celebre, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1936, ma già prima della sua pubblicazione sia Roosvelt con il New Deal che Hitler e Mussolini stavano operando nel senso di un intervento statale dedito al rilancio delle economie e delle industrie nazionali, anche a tappe forzate.6

In ordine cronologico, però, era stato proprio il fascismo italiano ad inaugurare un piano di azione centralizzata senza precedenti nella storia del capitalismo moderno per la costruzione di più di cento nuove città,7 tra gli anni Venti e l’entrata in guerra del 1940, e allo stesso tempo ad inaugurare una nuova stagione di provvedimenti statali “a favore dei lavoratori”: nel 1933 la CNAS (Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali) aveva assunto la denominazione di Istituto nazionale fascista della previdenza sociale che, dal 1943, divenne definitivamente Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS). Nel 1939 erano state istituite le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari. Ed erano state, altresì, introdotte le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto. Il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia ridotto a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne e istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e del pensionato.8

Mentre “l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – Inail – nasce nel marzo 1933, dall’unificazione della Cassa nazionale infortuni e delle Casse private di assicurazione. Il nuovo Istituto è destinato a crescere in dimensione e importanza nei decenni successivi, con l’estensione della platea degli eventi assicurati e l’assorbimento di enti minori, che gestiscono l’assicurazione infortuni per particolari categorie di lavoratori. È del 1935 l’introduzione dei principi cardine che determinano il carattere pubblicistico dell’assicurazione infortuni e malattie professionali: la «costituzione automatica del rapporto assicurativo, l’automaticità delle prestazioni, l’erogazione di prestazioni sanitarie, la revisione delle rendite e una nuova disciplina nell’assistenza ai grandi invalidi»”.9

Sempre nell’italietta, però fascista originale, il tutto era stato preceduto, nell’aprile del 1927, dalla Carta del lavoro in cui si esprimevano i principi sociali, la dottrina del corporativismo, l’etica del sindacalismo fascista e la politica economica fascista. Portava le firme del capo del governo, dei ministri, dei sottosegretari, dei dirigenti del partito, dei presidenti delle confederazioni professionali fasciste dei datori di lavoro e dei lavoratori e dichiarava che “il lavoro è un dovere sociale e che il suo fine è assicurare, assai più che la giustizia, la potenza della Nazione“.

Giovanni Gentile, nel commentarla sulla rivista mensile “Educazione fascista”, avrebbe così avuto modo di affermare: “Nessun documento ufficiale ha mai affermato così chiaramente questa natura etica dello Stato in generale ed in specie rispetto all’attività economica, come la Carta del Lavoro nelle sue premesse fondamentali e in tutto lo spirito che la governa. La Nazione è una unità morale, politica ed economica […]. Noi crediamo di poter liberamente commentare aggiungendo: Unità politica ed economica, in quanto unità morale” (…). Così si integra e si illumina il concetto dello Stato…; così pure si integra e si illumina la figura del cittadino… che non è più una entità statica e uniforme…, ma agisce.. e nel lavoro trova la sua concreta funzione e il suo posto nella vita, l’uomo è cittadino: al cospetto di quello stesso valore morale in cui consiste la sua unità10

Si dimostra così come uno dei cardini del fascismo consista proprio nell’integrazione dell’ideologia lavorista con il nazionalismo e che ciò costituisce un aspetto fondamentale di quell’esigenza di superamento del concetto di lotta di classe che sia il fascismo che il liberalismo “democratico” hanno in comune. Con la differenza che, mentre nell’ideologia e nella pratica fascista lo Stato aspira ad essere percepito come supremo regolatore di una “serena convivenza” degli interessi, nel liberalismo/liberismo questi sono lasciati fluttuare sulla base degli interessi del capitale finanziario. In entrambi i casi, comunque, il tutto funziona soltanto a seguito di una totale rimozione o repressione delle espressioni autonome della classe o delle classi antagoniste al capitale.

Secondo il Casini, su Gerarchia del 1927, i punti fondamentali e più innovativi della Carta del Lavoro erano tre. Innanzitutto il riconoscimento delle Corporazioni, della proprietà privata e il contratto collettivo di lavoro reso obbligatorio. Mentre per Giuseppe Bottai la conquista delle ferie pagate e delle indennità in caso di morte o di licenziamento erano da considerare come: “pratici benefici che i lavoratori non erano mai riusciti a raggiungere attraverso i cartelloni demagogici della democrazia e che invece allora essi realizzavano, nella perfetta soddisfazione dei datori di lavoro”.11

der spiegel trump 4 Formalmente la differenza non era poca, ma in entrambi i casi non si usciva (e si continua a non uscire) da una logica che metteva, e mette tutt’ora, il profitto privato e nazionale innanzi a tutto. Una logica che ha costretto così la lotta antifascista di carattere democratico, e non rivoluzionaria, a parteggiare per una delle due parti in lotta a discapito dell’interesse della maggioranza dell’umanità che sarebbe stato, e rimane, quello di uscire dalle spire di un modo di produzione iniquo, devastante, soffocante, inquinante qualsiasi sia la forma che tende ad assumere nella sua rappresentazione. Soprattutto oggi, in un mondo in cui lo slogan “Siamo il 99%” si avvicina sempre di più a rappresentare efficacemente una realtà socio-economica in cui i primi otto miliardari del pianeta posseggono esattamente la stessa quantità di ricchezza degli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e uomini. Mentre anche solo qui in Italia i primi sette hanno una ricchezza corrispondente a quella del 30% della popolazione.12

In questo senso dunque il diffuso cordoglio e la grande agitazione anti-Trump che manifestano i media liberal dalla Repubblica all’Huffington Post, passando per L’Unità e la CNN, solo per citarne alcuni, oppure il mondo incanaglito di Hollywood e la stampa europea alla Der Spiegel ,13 altro non fanno che chiamare a una lotta patinata, in cui ogni espressione di Melania Trump sembra valere più di qualsiasi considerazione di carattere socio-economico, un pubblico che spesso non li ascolta o li ignora, per una battaglia che in quei termini proprio non gli appartiene. Mentre lo scontro vero tra due fazioni capitalistiche altrettanto assassine e assetate di sfruttamento procede intanto a livello di intelligence e Federal Bureau of Investigation.14

Con buona pace di chi si è lasciato troppo irretire dalle sirene dei diritti (di genere, civili, di cittadinanza) senza capire che, quando il discorso che li riguarda resta separato da una critica più generale del modo di produzione capitalistico ed ancorato ad una visione esclusivamente legalitaria e statalista, tale battaglia finisce spesso con il dividere, indebolire e creare nuove contrapposizioni più che contribuire ad un reale progresso.15

Born in the usa Creando talvolta autentici cortocircuiti e paradossi culturali; come nel caso di Bruce Springsteen che con tutto il suo strillare contro Trump sembra voler ignorare che una delle sue canzoni più famose, Born In The USA, potrebbe costituire davvero un inno dell’America di Donal Trump e dei suoi elettori, con il suo rimpianto per il lavoro perso e la chiusura delle fabbriche nelle centinaia di small town di cui parla spesso nei suoi versi, tanto quanto il lamento sugli stessi argomenti contenuto nel disco Endagered Species, con la sua copertina di rovine industriali, dei pur repubblicanissimi Lynyrd Skynyrd.16

Skynyrd_species Ma se l’esempio discografico/musicale appena riportato potrebbe apparire ad alcuni come frivolo e insignificante, ben altra rilevanza dovrebbe avere il fatto che tutte le politiche laburiste della Sinistra istituzionale europea, dal secondo dopoguerra in poi, abbiano di fatto insistito sull’intima connessione esistente tra lavoro salariato e benessere nazionale, trasformando così le contraddizioni di classe in un semplice accidente del e per il PIL. A guardarle bene, però, ci si accorge che tale discorso non è stato portato avanti e difeso soltanto da chi un tempo era definito come socialdemocratico, ma anche da quelli che fino a qualche decennio fa si definivano ancora come partiti comunisti.

La malattia, se così si può definire, ebbe infatti origine, oltre che nell’Italia fascista, nella Russia della controrivoluzione staliniana dove non solo i dirigenti fascisti andarono ad apprendere le forme di organizzazione del lavoro e a contrattare l’apertura di nuovi stabilimenti,17 ma in cui l’operaio produttore divenne oggetto di culto con lo stakanovismo.18 Non c’è da stupirsi quindi se, anche negli Stati Uniti dell’ultima campagna elettorale, l’unico avversario di Trump che avrebbe potuto attingere allo stesso bacino elettorale è stato Bernie Sanders, il cui programma economico e protezionistico aveva molti punti in comune con quello del vincitore.19

Marx ed Engels affermavano che la classe operaia o lotta o non è e che nel negare il capitalismo avrebbe dovuto dialetticamente negare se stessa (Negazione della negazione). Discorsi lontani anni luce oramai da una concezione operaista e lavorista che, nel fondare la propria protesta soltanto sulla richiesta di lavoro (e non sulla sua negazione o almeno riduzione in termini di tempo) e di interventi dello Stato in sua difesa, altro non fa che rafforzare l’idea della collaborazione tra capitale e lavoro e il sempre più evidente fascino esercitato dalle destre su ampi strati di lavoratori. Ben al di là delle convinzioni religiose e del tradizionalismo cui spesso questo effetto viene spesso principalmente imputato.

Come se questo non bastasse gran parte delle “lotte” attuali, estremamente settorializzate, rischiano di corporativizzare le dinamiche dello scontro sociale, allontanandosi le une dalle altre e troppo spesso dai bisogni più generali dei lavoratori, occupati o meno che siano; attenendosi ad un discorso liberal/liberista soltanto apparentemente inclusivo ma che, in realtà, persegue implacabilmente una sempre maggiore proletarizzazione della società. Il fatto di non cogliere ciò può soltanto portare ad un aumento, invece di una riduzione, dell’influenza di una mentalità intrinsecamente fascista nelle lotte per il lavoro.

( 1 – continua)


  1. Pierluigi Battista, Il consenso dei leader alieni, Corriere della sera, 11 febbraio 2017  

  2. Si veda in proposito, come possibile esempio tra i tanti che si potrebbero fare, l’articolo di Mario Platero, Nel mirino i grandi competitor economici, Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2017, dove si cita un’intervista a Donald Trump in cui egli afferma: “«L’Europa unita è stata formata per battere l’America sul piano commerciale» […] Poi aggiunge che l’Europa è stata formata in modo germanocentrico per favorire commercialmente la Germania”  

  3. Si veda https://it.businessinsider.com/dazi-e-addio-al-wto-trump-va-alla-guerra-commerciale-globale/  

  4. Si vedano, per esempio, le affermazioni di Trump sulle responsabilità americane e russe nelle ultime guerre: “«Vladimir Putin non è un killer?», chiede Bill O’Reilly, il conduttore più famoso della tv conservatrice Fox News. Sono le 16 di domenica: gli americani si preparano a vivere il Super Bowl, la partita di football e lo show di contorno più seguiti dell’anno. L’intervista a Donald Trump fa parte della grande attesa. Questa la risposta del presidente degli Stati Uniti: «Pensi che l’America sia così innocente? Anche da noi ci sono molti assassini». «Sì, ma qui stiamo parlando di un leader», replica il giornalista. Trump non arretra: «Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla guerra dell’Iraq. Quanta gente è morta». Ecco fatto: in due minuti Trump ha messo insieme un’equazione esplosiva. Le responsabilità di Putin sono, di fatto, accostabili a quelle di George W. Bush, il presidente che ordinò l’invasione dell’Iraq.” in http://www.corriere.it/esteri/17_febbraio_05/trump-attacca-giudici-difende-putin-anche-noi-usa-siamo-assassini-706c90da-ebed-11e6-91eb-31433eb4de41.shtml  

  5. Lev Trochij in una lettera a Joan London, figlia dello scrittore, dell’ottobre del 1937  

  6. Si veda, in tal senso, Wolfgang Schivelbusch, Tre New Deal. Parallelismi fra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939, Marco Tropea Editore2008  

  7. 147 per la precisione. Si veda Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del duce, Laterza 2008  

  8. fonte https://www.inps.it/portale/default.aspx?iMenu=11  

  9. fonte https://www.inail.it/cs/internet/istituto/chi-siamo/la-storia.html  

  10. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Carta_del_Lavoro  

  11. idem  

  12. fonte Rapporto annuale 2016 Oxfam, una delle più antiche società di beneficenza con sede a Londra citato in Barbara Ardù, Disuguaglianze in aumento, otto super Paperoni hanno la stessa ricchezza di metà dell’umanità, 16 gennaio 2017  

  13. Le cui copertine rendono efficacemente l’idea di quale sia ormai il livello di tensione raggiunto tra Stati Uniti e Germania. Trump viene definito gentilmente come “La fine del mondo” in una , come terrorista anti-liberale in un’altra e come “una completa follia” in un’altra ancora: Wahnsinn  

  14. Impossibile non notare la profondità dello scontro a cui il novello presidente è arrivato con l’FBI e le rivelazioni fatte da settori dell’intelligence americana e dello stesso Partito Repubblicano sull’affaire Putin al fine di indebolire l’attuale compagine governativa  

  15. Si veda in proposito https://www.carmillaonline.com/2016/12/14/cosa-resta-dei-diritti-umani/  

  16. Si veda John C. Hulsman, Gli eroi di Bruce Springsteen si vendicano. Addio pax americana, in Limes n° 11/2016, L’agenda di Trump, pp. 111-116  

  17. Si veda in proposito il sempre utile Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  18. Che poi l’autonomia operaia si manifestasse colà con l’impiccagione degli operai stakanovisti alle travi delle fabbriche è una storia che si può leggere in Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970, Milano 2016  

  19. Si veda https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

]]>