Raoul Vaneigem – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scuola, motori e lavoro a tutti i costi https://www.carmillaonline.com/2024/09/26/scuola-motori-e-lavoro-a-tutti-i-costi/ Thu, 26 Sep 2024 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84644 di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di [...]]]> di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di insegnamento svolto dall’autore, docente di Italiano, in un Istituto Professionale della zona. La scrittura alterna l’immediatezza della presa diretta sugli avvenimenti legati all’universo scolastico (in cui protagoniste sono classi ‘difficili’, composte spesso di soli alunni maschi) a inserti dal taglio più saggistico, dove si infittiscono osservazioni e riflessioni su un tessuto sociale irretito dal produttivismo capitalista che si ingrandisce e si sviluppa sempre di più a scapito della vita delle persone. Il tutto scandito da capitoli che portano nei titoli formati dal verso di una canzone sempre diversa l’ispirazione musicale che li ha mossi.

Il lavoro è un dogma, da quelle parti, e gli stessi alunni del Professionale odiano la scuola e non vedono l’ora di finirla o interromperla per mettersi a lavorare nel settore automotive e cioè per quelle fabbriche e per quelle aziende che si estendono a macchia d’olio provocando un abnorme consumo di suolo e per tutto il grande circo spettacolare che si erge dietro questo apparato, in primis il Motor Show di Bologna che nel 2018 ha visto la sua ultima edizione. Se, come nota l’autore, nel 1976, ai suoi albori, il Motor Show occupava un’area di 5mila metri quadrati, nel 2004 “si arriva a 230 mila facendo da volano all’aumento di consumo di suolo in un territorio che oggi con la sua Zona Fiera raggiunge i 375 mila metri quadrati e ospita iniziative di ogni tipo, grazie al protagonismo del Gruppo BolognaFiere, in grado di allestire settantacinque eventi all’anno tra Bologna, Modena e Ferrara” (p. 34). Lo stesso Motor Show ha rappresentato l’aspetto più spettacolare dell’ideologia che gli esponenti del capitale pretendono di inculcare nei giovani che gravitano attorno al settore, e la progressione dei suoi chilometri quadrati equivale all’aumento esponenziale della densità di auto in Italia, che provoca un ulteriore aumento di suolo nella costruzione di sempre nuove strade (come il progetto del cosiddetto Passante di Bologna), di sempre nuovi svincoli e rotatorie realizzati asfaltando e cementificando innumerevoli aree verdi. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se a ogni nuova pioggia violenta (eventi che ormai non si possono più considerare ‘eccezionali’ nella realtà del cambiamento climatico che ci troviamo a vivere) quel territorio dell’Emilia Romagna (che è terza in Italia per consumo di suolo) viene devastato e allagato: è cronaca, purtroppo, anche di questi giorni.

Il lavoro è un dogma e risuona come un vero e proprio mantra, fin dalla scuola, irretendo gli adolescenti e le adolescenti. Laura, ad esempio, che adesso ha trentadue anni, ha lavorato al Motor Show come ragazza immagine fin da quando stava per compiere diciotto anni e andava ancora a scuola, in un contesto in cui gli atteggiamenti sessisti risultano assolutamente normali e si esplicitano in continui apprezzamenti volgari e viscidi (e il racconto di Laura e di altre ragazze si materializza all’interno di un capitolo intitolato Quante belle figlie da sposar, verso tratto da Ottocento di Fabrizio De André, in un momento in cui la canzone accelera musicalmente commentando in forma iperbolica l’iperproduzione spettacolare dei primi anni Novanta). Certo, è questa l’altra faccia del capitale, è il suo truce spettacolo che ‘macchinizza’ e capitalizza gli stessi corpi, come vediamo nelle sequenze iniziali del film Titane (2021) di Julia Ducurnau, in cui alcune ballerine sexi si esibiscono sui cofani delle automobili in un autosalone di fronte a maschi per i quali non c’è alcuna differenza – sembra – fra l’estetica delle auto e quella delle ragazze.

L’ideologia del lavoro a tutti i costi, come già notato, si insinua anche tra i banchi di scuola, dove si trovano, fra gli altri, gli studenti El J, Cucciolotto, Pablo, Thomas, e allora la scrittura diaristica erompe in volute sintattiche e lessicali che esondano da qualsiasi schema, in un sinuoso pastiche che ricalca il parlato ma soprattutto i gerghi giovanili mentre sullo sfondo, come un magico folletto portatore di pace all’interno di una quotidiana guerra, si aggira fantasmaticamente la Chica, la compianta canina del narratore e professore che scambia con lei uno sguardo nei momenti più difficili, in momenti in cui bisogna dare forse un conforto o una pacca sulle spalle a chi è inserito nella macina di un sistema più grande di lui, come succede a molti di questi giovani, cresciuti fra vita non facile e motori. Il lavoro si fa breccia anche attraverso la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, oggi rappresa nell’acronimo Pcto, largamente diffusa nell’Istituto Professionale in questione. Un percorso che dovrebbe essere formativo ma che ha al suo attivo una scia di morti, giovani studenti vittime di incidenti sul lavoro. E, come scrive La Valle, un’ideologia di questo tipo nella sua classe è introiettata a tal punto che si tende a dare la colpa alla persona incidentata che avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle misure di sicurezza e non, magari, alla quasi totale mancanza di queste ultime o a un sistema che non fa in modo che siano sufficienti e all’altezza.

I messaggi che dall’alto vengono fatti passare, infatti, sono quelli di una contrapposizione muro contro muro fra scuola e mondo del lavoro:

da una parte c’è il mondo della scuola, con le sue materie inutili e le sue fissazioni, mentre dall’altra c’è il mondo che conta, quello del lavoro, quello da cui arrivano i soldi. Il primo mondo impone regole per te incomprensibili, il secondo le ammorbidisce. Quale scegli?
Se nel primo ti inseguono perché stai fumando e nel secondo fingono di non accorgersene? Se nel primo si arrabbiano per un commento che hai fatto a una ragazza, mentre nel secondo scherzi a voce alta su culi e tette? Se nel primo insegnano cose che per te sono inutili e nel secondo ti dicono che l’importante è guadagnare? Con queste opzioni, a sedici anni, le scelte sono facili (p. 201).

Oggi anche la scuola è stata raggiunta dalla longa manus del capitale e si sta trasformando in un’azienda “che vive secondo i criteri delle temporalità formalizzate, della competitività e delle mille categorizzazioni che comprimono le attività spingendole verso l’individualismo. È una modalità repellente e se a questa roba non abbiamo dato il nome di fascismo è perché ancora non gli abbiamo fatto la guerra” (p. 208). Assieme al lavoro, si fanno strada anche la competitività e il meccanismo della valutazione sempre e comunque con l’intento di disciplinare gli individui in una forma mentis economica fin dai banchi di scuola. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, rispetto a quanto aveva scritto nel 1995 Raoul Vaneigem nel suo Avviso agli studenti: “Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo opera per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere fino alla nausea il leitmotiv dei suoi anni giovanili: vinca il migliore!” (R. Vaneigem, Avviso agli studenti – Terrorismo o rivoluzione, trad. it. di S. Ghirardi, piano b edizioni, Prato 2010, p. 34).

L’adolescenza è fatta anche per perdere tempo, per bighellonare, per sbagliare e prendersela con calma, non solo per diventare efficienti e produttivi al più presto. Ecco perché, alla fine, bisognerebbe – citando Gilles Clement insieme all’autore – “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica” (Gilles Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2005, p. 61). Infatti, il capitale che impone produttività, efficienza e competitività nella scuola è lo stesso che costruisce sempre più strade perché ci siano sempre più auto in circolazione, a scapito delle aree naturali, cementificate e distrutte ed è lo stesso che devasta montagne e boschi per creare i tunnel dell’alta velocità; allora sarebbe meglio “pensare alla cura e alla riparazione dei suoli, andando nella direzione opposta rispetto all’asfalto, al cemento e alle camicie di forza con cui ci ostiniamo a perimetrare ogni forma di vita” (p. 224). E anche la produzione dei nuovi veicoli elettrici (che necessitano di onerose materie prime e di un complesso smaltimento), verso cui si lancia la corsa del capitale, rappresenta soltanto un’altra faccia della devastazione di sempre nuovi territori. Infatti, come riflette amaramente Paolo La Valle nella pagina finale del suo libro, l’impressione è “che la progressiva scomparsa del fumo dei gas di scarico stia contribuendo a rinnovare una speranza che potrà pure comportare la fine del motore a scoppio, ma nella logica del sacrificio messianico” (p. 244).

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Rileggere oggi il “Manifesto contro il lavoro” https://www.carmillaonline.com/2024/02/01/rileggere-oggi-il-manifesto-contro-il-lavoro/ Thu, 01 Feb 2024 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81003 di Paolo Lago

Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di M. Maggini, prefazione di A. Jappe, postfazione di N. Trenkle, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 164, euro 16,00.

È sicuramente un’esperienza interessante rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro (Manifest gegen die Arbeit) del Gruppo Krisis, uscito in Germania nel 1999 e tradotto per la prima volta in italiano nel 2003 per DeriveApprodi1. Come ci informa Massimo Maggini nell’introduzione di questa nuova edizione uscita per i tipi di Mimesis, il Manifest [...]]]> di Paolo Lago

Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di M. Maggini, prefazione di A. Jappe, postfazione di N. Trenkle, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 164, euro 16,00.

È sicuramente un’esperienza interessante rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro (Manifest gegen die Arbeit) del Gruppo Krisis, uscito in Germania nel 1999 e tradotto per la prima volta in italiano nel 2003 per DeriveApprodi1. Come ci informa Massimo Maggini nell’introduzione di questa nuova edizione uscita per i tipi di Mimesis, il Manifest ebbe in Germania altre tre edizioni, la seconda già nel settembre del 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel 2019. Le teorie esposte nel Manifest appartengono alla corrente di pensiero chiamata Wertkritik, cioè “Critica del Valore”, secondo la quale la crisi che sta investendo il sistema del capitale è irreversibile ed è determinata proprio dalla crisi del lavoro, provocata a sua volta dalle varie ‘evoluzioni’ che esso stesso ha subito nel tentativo di aumentare e rendere migliori le sue applicazioni tecnico-scientifiche. Ciliegina sulla torta è stata la “rivoluzione micro-elettronica”, che ha espulso e reso inutili enorme masse di forza lavoro umana, ormai improduttive dal punto di vista della valorizzazione capitalistica. Naturalmente, come ricorda anche l’autore dell’introduzione, il lavoro che attaccano gli studiosi della “Critica del Valore” non è tanto l’operare umano in sé quanto invece quello che Marx definisce “lavoro astratto”, non finalizzato al benessere degli individui ma all’aumento del profitto e all’accumulazione monetaria in vista di nuovi investimenti.

Gli autori del Manifesto sono tre fra gli studiosi di spicco del Gruppo Krisis: Robert Kurz, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff. La presente edizione2 ripropone, insieme al Manifesto, dei saggi significativi di questi studiosi (ai quali si aggiunge un saggio di Anselm Jappe) già presenti nella traduzione italiana del 2003. In più, adesso possiamo leggere un nuovo testo di Norbert Trenkle, Il manifesto contro il lavoro vent’anni dopo che fungeva da postfazione alla quarta edizione tedesca, un’intervista a Robert Kurz in occasione dell’uscita del suo importante saggio Libro nero del capitalismo, un altro scritto di Norbert Trenkle dal titolo Rottura qualitativa. Sull’attualità della critica del lavoro, uscito nel 2022, e, infine, Il duplice Marx di Robert Kurz, uscito in occasione dei centocinquanta anni dall’apparizione del Manifesto del Partito Comunista. Come possiamo vedere, l’attuale edizione è corredata di numerosi altri testi che integrano e chiosano in modo sicuramente interessante le teorie espresse nel Manifesto. Ma che senso ha rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro? E, soprattutto – possiamo chiederci – è sempre attuale? La risposta è sì, senza dubbio, nonostante gli anni siano passati e la situazione sia nettamente cambiata rispetto al 1999. Una rilettura del Manifesto, oggi, va indubbiamente caricata di senso nuovo perché le pagine degli studiosi del Gruppo Krisis hanno ancora tanto da dire e possono diventare delle fondamentali chiavi di lettura per comprendere la contemporaneità.

A mio avviso, tra gli snodi fondamentali della società odierna di cui la stesura del 1999 non ha potuto tenere conto, rientrano la sempre più pervasiva digitalizzazione di massa, la diffusione dell’intelligenza artificiale e gli inediti risvolti sociali e lavorativi, con l’affermazione del cosiddetto smart working, che sono emersi dal truce periodo dell’emergenza Covid. Nel primo capitolo del Manifesto, intitolato Il dominio del lavoro morto, il Gruppo Krisis scrive che “proprio nel momento della sua morte, il lavoro getta la maschera e si rivela come una potenza totalitaria, che non tollera nessun altro dio al di fuori di sé. Il lavoro determina il modo di pensare e di agire fin nelle minime pieghe della vita quotidiana e nei più intimi recessi della psiche”. Ebbene, queste osservazioni sono più che mai attuali anche alla luce della contemporaneità più stringente. Più che mai, oggi, con l’affermazione dell’intelligenza artificiale, dei sistemi di controllo digitali e dello smart working, il lavoro è diventato una “potenza totalitaria che non tollera nessun altro dio all’infuori di sé”. Infatti, come nota Gioacchino Toni nel suo saggio Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, a partire dal 2011 si inizia a parlare di “Industria 4.0”, espressione probabilmente introdotta dall’azienda tedesca Bosch, che indica una nuova, iperconnessa, modalità organizzativa della produzione. Come scrive lo studioso, “dalla fusione tra il mondo reale / fisico degli impianti e quello virtuale / digitale dell’informazione scaturisce un sistema misto cyber-fisico finalizzato, ad esempio, a ridurre gli sprechi, a raccogliere informazioni dal processo lavorativo rielaborandole in tempo reale, anticipare errori e malfunzionamenti attraverso la virtualizzazione dell’azienda, sfruttare al massimo la creatività del lavoratore e incorporare le richieste del cliente nel corso del processo produttivo”3. Nelle “smartificazioni” che avvolgono la società contemporanea (e che nel 1999 sarebbero sembrate frutto di una fantascienza distopica), il lavoro emerge veramente come un idolo totalitario e assoluto, in quanto la diffusione della digitalizzazione è spesso finalizzata al miglioramento della produttività capitalistica e al controllo coercitivo dei lavoratori.

Con lo smart working, questa “potenza totalitaria” penetra persino nella sfera domestica e privata degli individui, in quella “sfera astrattamente privata”, come leggiamo nel Manifesto. Quella “sfera separata dalla vita”, quella cioè dedicata al lavoro, dove, secondo il Gruppo Krisis, “il tempo cessa di essere vissuto”, con i processi di digitalizzazione si unisce e si ibrida con i momenti e gli spazi che dovrebbero essere dedicati, invece, alla “cura di sé” in senso foucaultiano, ad un arricchimento interiore. Non esiste più una “sfera astrattamente pubblica”, dedicata al lavoro, e una “sfera astrattamente privata”, dedicata al “tempo libero” (altra faccia del dominio del lavoro): esse finiscono per ibridarsi in un nuovo, teratologico spazio-tempo. L’individuo dell’epoca del Covid, costretto a stare chiuso in casa e a consumare il suo divertimento sulle piattaforme digitali mangiando cibi più o meno esotici consegnati da rider sottopagati, e lavorando in un altro angolo del soggiorno al suo PC, non appare più “scisso” come scrive il Manifesto. È invece un essere ibrido, meccanizzato, totalmente alienato, un ‘mostro’ che non si era mai incontrato prima d’ora nella storia sociale. D’altra parte, in un altro punto, sembra che il Manifesto preconizzi l’arrivo dell’intelligenza artificiale come uno strumento liberatorio dal giogo del lavoro: “Perché passare tante ore, giorno dopo giorno, nei capannoni delle fabbriche e negli uffici, se robot di ogni tipo possono risparmiarci la maggior parte di queste attività? Perché far sudare centinaia di corpi umani, se bastano alcune trebbiatrici? Perché sprecare energie in compiti di routine che un computer può tranquillamente eseguire?”. Potrebbe apparire una visione sostanzialmente ingenua, del tipo “affidiamo a robot e ‘androidi’ i lavori più pesanti, come nei film Metropolis e Blade Runner”; eppure, come scrive Anselm Jappe nella Prefazione, “la prospettiva del Manifesto in generale non è di certo quella di aspettare un paradiso tecnologico dove le macchine lavorano al nostro posto e noi umani ci possiamo limitare a guardarle”.

Risulta assai interessante e denso di echi negli anni più recenti anche il capitolo 9, intitolato La sanguinosa storia dell’affermazione del lavoro, in cui leggiamo che “non furono i pacifici mercanti sulle antiche vie del commercio i precursori della moderna borghesia, che in fin dei conti fu l’erede dell’assolutismo. Furono piuttosto i «condottieri» dei soldati di ventura agli inizi dell’era moderna, i direttori delle case di lavoro, gli esattori, i sorveglianti di schiavi e altri tagliagole a costituire un fertile terreno sociale per l’«imprenditoria» moderna”. Le guerre di oggi che rimbalzano pervasivamente sui media come tragici sfondi della nostra quotidianità, come ferite lancinanti e presenti, sono quelle portate avanti dal capitale e dalla società del lavoro e, al posto dei condottieri di soldati di ventura e di sovrani sanguinari, ci sono truci fantocci della società capitalistica come i vari Biden, Zelensky, Putin e Netanyahu. E, per fare ancora un riferimento all’emergenza Covid del 2020, mentre innumerevoli lavoratori erano costretti a stare chiusi in casa e a lavorare tramite lo smart working, altrettanti erano invece costretti a andare a lavorare in fabbrica rischiando la vita, mentre i rider erano mandati a solcare le strade deserte per portare le vivande a domicilio come i corrieri della serie tv sudcoreana Black Knight, costretti a muoversi in un ambiente distopico devastato e inquinato per non far rallentare la produzione. Come ha notato Sandro Moiso in un articolo scritto ‘a caldo’ in quel periodo, “le aree industriali d’Italia si stanno trasformando in autentici lager che, esattamente come quelli a cielo aperto in Palestina, non hanno nulla da invidiare o da rimproverare a quelli nazisti”4. Il lavoro continua la sua “sanguinosa affermazione” anche nell’epoca dell’Industria 4.0.

Un altro capitolo del Manifesto che possiede una tragica risonanza contemporanea, soprattutto in Italia, è anche quello intitolato Il lavoro è dominio patriarcale. È infatti la società del lavoro a creare e ad accentuare la sfera separata dal lavoro stesso, quella intima e famigliare, alla cui custodia è assegnata la donna: “Non a caso, l’immagine della donna come essere naturale e istintivo, irrazionale ed emotivo è diventata un pregiudizio universale insieme a quello del maschio lavoratore e creatore di cultura, razionale e padrone di sé”. Soprattutto in Italia perché, recentemente, troppo spesso si sono verificati femminicidi, figli di una cultura patriarcale difficilmente sradicabile, una cultura che si perde nei meandri più oscuri della mentalità maschile e maschilista del “Belpaese”. L’Italia appare un paese fondamentalmente patriarcale, in cui non si risparmiano neppure episodi di razzismo. Altro che “primato civile degli italiani” rispetto all’obbligo di lavorare, come scrive Jappe facendo riferimento ad un’immagine macchiettistica del napoletano o al ladro de I soliti ignoti (immagini stereotipate magari filtrate da uno sguardo prettamente tedesco). In Italia, come negli anni Novanta c’era soltanto la scelta fra D’Alema e Berlusconi (come leggiamo nel Manifesto, perché la democrazia impone scelte non libere ma solo “fra la peste e il colera”), adesso c’è soltanto la scelta fra Schlein e Meloni e la maggioranza degli italiani sembra propendere per la seconda e per i suoi accoliti.

Infine, un altro aspetto interessante messo in rilievo dal testo del Gruppo Krisis, pure se fugacemente, riguarda l’educazione e la scuola, ormai totalmente asservite, anche più che nel 1999 e nel 2003, alla società del lavoro e del capitale. La sfera educativa che riguarda il rapporto con bambini e adolescenti viene introiettata nelle dinamiche aziendali più becere e ciniche, a cominciare dalla cosiddetta alternanza scuola-lavoro (ora PCTO), introdotta in Italia dalla riforma Moratti nel 2003. Non è un caso che tutti i recenti governi (Renzi, Draghi ecc. ecc.) abbiano incentivato le scuole tecniche e promosso percorsi di avviamento al mondo del lavoro. Sulla stessa linea – inutile dirlo – si sta muovendo il governo Meloni. Nelle linee guida di questi governi in fatto di educazione si leggono frasi e parole agghiaccianti come “lavoratori qualificati”, “capitale umano”, “crescita economica” mentre schiere di consulenti digitali del Miur invitavano a “stalkerare gli studenti” che erano restii a seguire la famigerata didattica a distanza durante l’emergenza Covid. Il Manifesto, rifiutando la sfera alienata ed alienante del valore capitalistico, persegue quindi rapporti più autentici fra gli esseri umani, sia in fatto di educazione che di interazione sociale, ponendosi abbastanza vicino, in questo, a certe istanze portate avanti dai situazionisti (pensiamo all’Avviso agli studenti di Raoul Vaneigem). Come scrive Norbert Trenkle in Rottura qualitativa, “vogliamo riappropriarci del tempo di vita e delle risorse che il capitale ci sottrae in modo permanente e che trasforma in mezzi di distruzione del mondo. Solo così potremo riuscire ad aprire gli spazi per un modo di produzione e di vita che si basi sull’attività libera e autodeterminata, sulla cooperazione e sulla solidarietà”. Probabilmente, una pecca che possiamo imputare al nostro testo è quella di non chiarire fino in fondo come si delineerà questa “vita che si basi sull’attività libera e autodeterminata” ma le basi critiche restano in ogni caso solide e interessanti.

E comunque, anche da questo necessariamente rapido excursus possiamo comprendere che rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro può offrirci – come già notato – tante chiavi di lettura per capire più a fondo la contemporaneità, per creare inediti ed inaspettati cortocircuiti. Ecco che allora il testo del Gruppo Krisis si può trasformare in una sorprendente “cassetta degli attrezzi” per muoverci criticamente nel nostro tempo. Da quel 1999, lembo estremo d’un altro millennio, grazie alla sua capacità già allora di guardare lontano, il Manifesto oggi ha ancora molto da dire.


  1. Cfr. Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, trad. it. di S. Cerea, DeriveApprodi, Roma, 2003. 

  2. Con le traduzioni dal tedesco di G. Rossi, S. Cerea, A. Jappe e M. Maggini. 

  3. G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma, 2022, p. 137. 

  4. S. Moiso, Le città verranno distrutte all’alba, in L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, a cura di J. Orlando e S. Moiso, Il Galeone, Roma, 2020, p. 40. 

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Dal situazionismo di Agaragar alla teoria della complessità. Intervista a Mario De Paoli https://www.carmillaonline.com/2023/05/30/dal-situazionismo-di-agaragar-alla-teoria-della-complessita-intervista-a-mario-de-paoli/ Tue, 30 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77233 di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia [...]]]> di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia le tesi del movimento situazionista proprio su Agaragar. Il pensiero che Perniola elabora in quegli anni resterà nelle sue riflessioni con l’attenzione a rilevare le contraddizioni e la complessità della società dello spettacolo. Co-fondatore di Agaragar, assieme a Perniola, fu Mario De Paoli che, dopo la fine della rivista, ha continuato la sua ricerca sviluppando – in una serie di pubblicazioni – una originale teoria della complessità che tiene assieme l’analisi dell’evoluzione dei processi sociali e l’analisi della dinamica dei processi psichici. La sua ricerca merita di essere conosciuta, per questo siamo andati a intervistarlo. De Paoli, nato a Dolo, Venezia, nel 1940, vive a Padova, città dove si è laureato prima in chimica e poi in fisica e dove ha insegnato al liceo scientifico Eugenio Curiel.

Ci racconta innanzitutto come ha conosciuto Mario Perniola e come è nata la rivista Agaragar?
Ci conoscemmo durante il servizio militare, a Padova, fine anni ’60. Avevamo da poco terminato gli studi universitari, scientifici io e filosofici lui, nonostante le diverse formazioni c’era una sensibilità culturale in comune e dopo aver letto un mio studio (che sarà pubblicato sul terzo numero della rivista con il titolo: “Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos”), mi propose di partecipare all’elaborazione di Agaragar. Lui in quegli anni stava elaborando gli studi che confluiranno poi in L’alienazione artistica, che ritengo sia ancora uno dei suoi libri migliori. Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, lui si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. Con Perniola avevo punti in comune e alcune diversità. Lui partiva dalla questione dell’alienazione artistica, in cui considera la separazione di una realtà senza significato nell’economia politica e di un significato senza realtà nell’arte. Questa separazione si è accentuata nel Rinascimento con la separazione tra arte e artigianato. Separazione che è significativa per l’inizio della frattura tra produzione materiale e produzione immateriale. Separazione decisiva per capire che il capitalismo ha agito non solo a livello della produzione materiale, ma anche a livello linguistico/immateriale. Era importante considerare lo sviluppo del capitalismo a livello di controllo della produzione materiale ma anche nella produzione immateriale: nella letteratura, nei processi psichici, nella scienza. Bisogna ricordare che Perniola su Agaragar porta anche una critica al situazionismo. I situazionisti consideravano solo un lato della separazione tra realtà e significato, non riconducevano alla realtà il significato dei processi linguistici, bisognava invece ricomporre questi due aspetti.

Perniola, in Del terrorismo come una delle belle arti (Mimesis, 2014), uno dei suoi ultimi libri, dedica un capitolo all’avventura di Agaragar, e racconta anche di un vostro incontro con Debord. Aveva già letto i situazionisti prima di conoscere Perniola?
No. Conoscevo bene il pensiero della Scuola di Francoforte. Nelle mie riflessioni sul nesso fra capitalismo commerciale e linguaggio razionale avevo in mente Adorno e Horkheimer che, in Dialettica dell’illuminismo, descrivono Ulisse come il primo ‘Illuminista’ che usa il linguaggio per avere un vantaggio.
Andammo a Bruxelles a conoscere Guy Debord e Raoul Vaneigem. Debord non ci accolse in modo molto affabile. Ci portò a giocare a calcetto. Graziella, la simpaticissima moglie di Perniola, di nascosto continuava a fare degli sberleffi a Debord, sostenendo che era antipatico e borioso. Molto meglio andarono le cose con Vaneigem, molto simpatico. Ricordo in particolare una discussione in una birreria in cui gli feci notare che “l’immaginazione al potere” era quella del capitalismo che controllava la produzione di informazione.

Negli anni in cui progettavate la rivista, c’erano almeno altre due persone in Italia che seguivano da vicino il situazionismo, si tratta di Giorgio Agamben e Gianni-Emilio Simonetti. Avevate rapporti con loro?
Simonetti non l’ho mai conosciuto. Agamben era amico di Perniola, ricordo che andammo a fargli visita in una sua tenuta, vicino a Roma. Agamben insistette perché provassi a montare un cavallo che diceva mansueto e che invece mi coinvolse in un galoppo sfrenato. Durante il mio soggiorno nella casa romana dei Perniola, in occasione del mio scritto L’educazione come processo produttivo, appesi un poster che raffigurava la Lupa Capitolina con uno dei gemelli che sputava il latte, e vi apposi sotto la scritta “bambini di tutto il mondo unitevi”. Una mattina Graziella, la simpaticissima moglie di Mario, mi fece credere che il Perniola aveva sognato che lui era Marx e io ero Engels. Racconto questi aneddoti perché evidenziano i détournement giocosi del gruppo.
Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, Perniola si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. La collaborazione tra di noi non è continuata oltre i primi anni ’70 ma, ma nonostante i nostri percorsi culturali abbiano avuto una divergenza di interessi, filosofici lui, scientifici io, questo non ha intaccato la nostra amicizia e nel corso degli anni, abbiamo continuato a sentirci, scambiandoci alcuni dei libri che pubblicavamo.

Come venne accolta Agaragar nel dibattito ideologico di quegli anni? Suscitò discussioni?
Il dibattito culturale, il confronto e la critica erano molto serrati negli anni ’70 perché proprio in quelli anni si profilava un cambiamento di paradigma nel modo di produzione del capitale (la transizione dal fordismo al toyotismo iniziò nel 1976). Ma, mentre il capitale finanziario combinava in una nuova sintesi produzione materiale e produzione immateriale, i vari movimenti di sinistra rimanevano divisi fra loro, oscillando fra gli estremi dell’operaismo e del situazionismo. Agaragar proponeva una ‘sintesi sociale’ alternativa a quella proposta dal capitale. La rivista fu accolta con un certo entusiasmo, ma fu anche fraintesa. Per fare un esempio: Giuseppe Sertoli, redattore di Nuova Corrente (che in quegli anni era un’importante rivista di letteratura e filosofia. n.d.r.), mentre si dichiarava in perfetto accordo con gli scritti di Perniola, criticava aspramente i miei scritti sul primo numero della rivista. Perniola ed io gli rispondemmo con una lettera di quattro pagine in cui affermavamo l’importanza della nostra ricerca di una nuova sintesi sociale. Ritenevamo, inoltre, che fosse necessaria un’analisi storico-critica del rapporto fra scienza e capitale. Nel 1972 (all’epoca della guerra del Vietnam) partecipai ad un convegno internazionale di storia della scienza in cui diversi fisici, fra i quali Paul Dirac, prendevano atto di ‘una massiccia soggezione della scienza al capitale’, iniziata con il Progetto Manhattan per la costruzione della bomba nucleare.

In Agagar lei ha impostato la critica del materialismo dialettico di Marx, che non considera il carattere genetico-strutturale dei processi psico-linguistici e la sintesi sociale costituita dall’evoluzione parallela di strutture economiche e strutture linguistiche.
Si. In L’educazione come processo produttivo (Agaragar n.2, 1970) mi sono posto il problema della genesi sociale. Data la forte dipendenza dalle cure parentali e una rimarchevole capacità di apprendere tramite l’esperienza, l’evoluzione biologica della specie uomo si estende in un’evoluzione sociale mediata da un processo educativo. Un sistema di segni che media socialmente la relazione uomo – natura diviene così un ‘codice genetico’ di specifiche società umane intese come ‘specie semiotiche’. Un’ ipotesi simile, del prolungamento dell’evoluzione biologica nell’evoluzione sociale, veniva poi formulata dal biologo evoluzionista Stephen Jay Gould nel saggio Ontogeny and Phylogeny (Belknap Press of Harvard University Press, 1977). In Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos (Agaragar n.3, 1971) mi sono poi posto il problema della sintesi sociale considerando l’evoluzione parallela ‘isomorfa’ di determinazioni formali della politica economica e del linguaggio razionale nella società greca classica. Una correlazione simile fra linguaggio ed economia nella polis greca era stata evidenziata dal filosofo Sohn-Rethel In Lavoro intellettuale e lavoro manuale: per la teoria della sintesi sociale (Feltrinelli, 1977), ma allora non conoscevo le sue ricerche, non erano ancora state tradotte.

Dopo aver collaborato con Perniola, come è continuata la sua ricerca?
Dal 1973 al 2005 ho insegnato matematica e fisica al Liceo scientifico Eugenio Curiel di Padova, dove sono stato promotore dell’introduzione della storia della scienza nella didattica e fra gli organizzatori e i relatori del Progetto Ipazia per la promozione della cultura scientifica nei licei. In quel periodo ho scritto i saggi Rivoluzioni parallele isomorfe. Copernico, Ariosto e Josquin de Prez (pubblicato poi da Aracne nel 2015), in cui evidenzio la sintesi sociale fra gli ambiti economico, cosmologico, letterario e musicale all’ epoca della costituzione dello Stato politico moderno e Modelli dinamici dell’evoluzione della civiltà urbana (pubblicato poi da Aracne nel 2022), in cui considero la genesi sociale del capitalismo. Nel 2018 ho scritto poi un saggio conclusivo dal titolo Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale (Aracne, 2020), in cui considero l’evoluzione parallela di economia politica e scienza nelle tre fasi fondamentali dell’evoluzione del capitale. 

Parallelamente, assieme allo psichiatra e psicoanalista Alessandro Pesavento, ha sviluppato una teoria dei modelli di processi psicolinguistici.
Sì, dal 1987 al 2001 ho collaborato con Pesavento allo studio delle successioni di ‘stati dell’Io’ nelle narrazioni oniriche di un paziente in analisi. Abbiamo pubblicato assieme Un modello probabilistico del processo onirico e la sua applicazione ai sogni prodotti in analisi (Bollati Boringhieri, 1992), poi La signora del piano di sopra. Struttura semantica di un percorso narrativo onirico (Aracne, 2013). Una prima formulazione del secondo saggio era stata proposta ad un convegno di psicoanalisi tenutosi a Trieste nel 1999. Dal 2001 al 2020 mi sono dedicato allo studio delle neuroscienze e all’ applicazione alle reti neurali della teoria della biforcazione dei punti critici di sistemi non-lineari aperti in non-equilibrio. Ho elaborato un modello delle reti neurali corticali coinvolte nella dinamica del Sé: Self’s Splitting and Self-Other Identification. A phase transition model, che ho esteso poi ad un modello pubblicato in un saggio dal titolo Brain Dynamics for Goal-Directed Social Navigation. A non-linear statistical model of consciousness (Aracne, 2021).

Mi piacerebbe che ci approfondisse la presentazione delle tesi articolate in Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale.
Questo saggio si propone una riconsiderazione critica delle fasi dell’evoluzione del capitalismo, e della scienza ad esso associata, nell’ epoca in cui questo sembra ormai giunto ad una fase ‘terminale’ della sua evoluzione, con il predominio sull’intero ciclo dell’economia e con uno sfruttamento esaustivo delle risorse naturali, oltre che umane, difficilmente sostenibile a livello di ecosistema. Verso la fine del XX secolo, è avvenuta una transizione dal modo di produzione fordista del capitale monopolistico al modo di produzione toyotista del capitale finanziario delle multinazionali. Due classi di fenomeni sono associate a tale transizione.

Quali sono queste due classi?
Una prima classe, evidenziata da Marco Revelli nel saggio Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri, 1995), comprende: una forte competizione fra capitalisti, dovuta all’ esaurimento delle risorse naturali e alla saturazione dei mercati, cui consegue una permanente imprevedibilità dei mercati; il predominio della speculazione del capitale finanziario (liquido) sull’ investimento del capitale industriale (fisso) e di un’economia multinazionale sulla politica nazionale, con conseguente crisi della politica; e infine l’asservimento della scienza al capitale e un uso di tecnologie sofisticate per il controllo globale dell’informazione cui corrisponde la parcellizzazione e precarizzazione delle capacità produttive umane (e un aumento delle diseguaglianze sociali). Una seconda classe, solo in parte evidenziata da Byung-Chul Han, in Psicopolitica (Nottetempo, 2014), comprende: la disgregazione dei vincoli sociali tradizionali e lo sfruttamento intensivo della libertà di scelta individuale allo scopo di aumentare la produzione e lo scambio di informazione a livello globale; un’estensione dalla produzione materiale alla produzione immateriale con conseguente alienazione nell’informazione del significato delle merci; e infine la costituzione di un nuovo asse delle opposizioni [populismo – neoliberalismo] che si combina con il vecchio asse [destra – sinistra] dei poli politici nel comporre il quadrato delle opposizioni di un nuova logica in cui, più che il valore di verità degli enunciati, è essenziale l’informazione comunicata da questi. Inoltre, nella prima parte del saggio, oltre ad analizzare il nesso fra queste due importanti classi di fenomeni psico-sociali, propongo: un modello matematico che evidenzia una transizione al caos nel caso della valorizzazione del capitale in ambiente con risorse limitate e un modello logico che evidenzia il carattere informazionale del quadrato delle opposizioni dei poli politici.

Nella seconda parte del saggio viene proposto un superamento della critica marxiana dell’economia politica.
Questa è adeguata all’analisi della produzione materiale del capitale industriale, ma non all’analisi della produzione immateriale del capitale finanziario, che sfrutta le capacità umane di comunicazione e di consumo oltre che di produzione. Marx non considera tale sintesi sociale e il fatto che l’alienazione nell’ informazione del significato connesso al valore d’ uso richiede una ridefinizione del valore di scambio. Per far ciò è necessario integrare il rovesciamento della dialettica hegeliana con una critica della teoria kantiana della conoscenza e risalire all’origine storica della politica e delle determinazioni formali dell’economia.

Lei formula l’ipotesi che la logica della politica e le determinazioni formali di valore d’ uso e di valore di scambio si siano formate all’ interno di una confederazione di città-stato greche, con lo sviluppo della proprietà privata della terra e con lo scambio commerciale, mediato dalla moneta di conio, dei prodotti in eccedenza ottenuti con la divisione del lavoro agricolo.
Sì, scopo della politica nella costituzione della polis era garantire per legge (logos), l’incorruttibilità della moneta di conio e l’inalienabilità della proprietà privata e stabilire con un’argomentazione logica la verità della proposizione “il soggetto gode / non gode di una certa proprietà” in base a un principio di non contraddizione. Ma compito della politica era anche, secondo Aristotele, fare in modo che il ciclo Merce-Denaro-Merce, i cui limiti sono fissati dal nesso fra produzione e consumo, prevalga sul rovesciamento nel ciclo Denaro-Merce-Denaro’ del capitale commerciale, in cui l’accumulazione di plusvalore consiste nel comperare merci nei luoghi in cui sono comuni per venderle a prezzo più alto nei luoghi in cui sono rare. Ciò dimostra che Aristotele aveva chiara la distinzione fra il valore d’uso di una merce per il consumatore e il valore di scambio di una merce per il mercante.

In questo libro sostiene anche che nell’ evoluzione del capitalismo si possono distinguere tre fasi.
Sì. Nella fase della proprietà privata fondiaria e del capitalismo commerciale, si ha il predominio della politica sull’economia, la separazione del consumatore dal produttore con la divisione del lavoro agricolo e il predominio del consumatore che definisce il valore d’ uso della merce (mentre il valore di scambio è dato dalla sua rarità). Con lo sviluppo del capitalismo industriale si ha un equilibrio fra potere politico e potere economico, la divisione del lavoro nella fabbrica e la determinazione del valore di scambio come lavoro accumulato. Invece nella fase del capitalismo finanziario si ha il predominio dell’economia sulla politica, una produzione insieme immateriale e materiale, la connessione fra significato e valore d’uso della merce e la determinazione del valore di scambio come informazione accumulata. Claude Shannon introdusse nel 1949 una misura probabilistica dell’informazione contenuta in un messaggio sulla base del numero di scelte fra alternative necessarie ad eliminarne l’incertezza: essendo la formula dell’incertezza eguale a quella dell’entropia, la determinazione soggettiva di incertezza e quella oggettiva di entropia vennero equiparate fra loro. Nel lavoro si ha, in particolare, un trasferimento di energia a bassa entropia con la produzione materiale di informazione. L’informazione è quindi un’estensione del lavoro alla produzione immateriale.

In un passaggio finale parla dell’entropia ambientale e dell’incertezza sociale che caratterizzano questo momento storico…
L’evoluzione della civiltà urbana consiste nell’auto-organizzazione di sistemi sociali sempre più complessi con lo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Tale evoluzione è caratterizzata, da un lato, da un aumento progressivo dell’informazione incorporata da un ristretto gruppo sociale che domina l’intera società, dall’ altro da un aumento progressivo dell’entropia e dell’incertezza diffuse, rispettivamente, nell’ambiente e nel resto della società, dato lo sfruttamento sempre più intensivo sia delle risorse naturali che delle capacità umane. Nell’ evoluzione della civiltà urbana si possono distinguere tre grandi ere in cui si alternano, con un periodo di circa 900 anni, il predominio delle civiltà occidentali e quello delle civiltà orientali. Lo sviluppo del capitalismo e della scienza, che caratterizza l’evoluzione della civiltà occidentale, è alla base del suo predominio a partire dal XVI secolo. Nella seconda parte del saggio viene evidenziata la corrispondenza biunivoca di determinazioni formali dell’economia politica e della scienza, nelle tre fasi di evoluzione parallela del capitalismo e della scienza, evidenziando il progressivo asservimento della scienza al capitale.

L’analisi di queste forme di potere l’ha portata anche a individuare e/o proporre nuove possibilità di confronto, conflitto, cambiamento?
Penso che la concezione di una decrescita felice e l’opposizione del sovranismo della destra populista al globalismo neoliberale – come l’opposizione politica dei proprietari fondiari della polis greca al capitalismo commerciale – siano reazionarie in quanto pongono un limite allo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Nel Rinascimento Pico della Mirandola affermava che l’uomo ha la straordinaria capacità di produrre le più grandi innovazioni e le peggiori efferatezze. Purtroppo l’evoluzione del capitalismo ha preso una brutta piega. Si tratta di cambiare indirizzo e, da un lato, ridurre al minimo l’aumento di incertezza distribuendo all’ intera comunità la ricchezza di informazione accumulata da un ristretto gruppo dominante, dall’ altro ridurre al minimo l’aumento di entropia dell’ambiente. I movimenti artistico-letterari della sinistra che, come il situazionismo, ‘narrano’ di mondi possibili alternativi, non considerano il fatto che un asservimento della scienza è alla base del potere del capitale. “L’immaginazione al potere” è possibile solo con il détournement della produzione scientifico-tecnologica per metterla al sevizio dell’intera comunità e con una nuova sintesi sociale fra narrazione e produzione che realizzi mondi possibili alternativi a quelli proposti dal capitale.

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Simenon: la maschera e il vuoto https://www.carmillaonline.com/2023/03/08/la-maschera-del-vuoto/ Wed, 08 Mar 2023 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76239 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare per generi e sottogeneri, è stato ricordato e/o celebrato soltanto per i 75 romanzi e i 28 racconti (scritti e pubblicati tra il 1931 e il 1972) che vedono come protagonista il celebre commissario Jules Maigret.

In realtà Simenon, autore tra i più prolifici, ha scritto, spesso utilizzando numerosi e svariati pseudonimi per poter pubblicare in contemporanea presso differenti editori, centinaia di romanzi e racconti che fuoriescono dal ciclo del commissario francese. Romanzi che spaziano tra storie d’ambiente piccolo borghese, se non proletario, e altre ambientate tra la ricca borghesia, sia della ville lumière che della provincia profonda della Francia del XX secolo. Con qualche deviazione spaziale verso il Belgio, in cui Simenon era nato, e altre parti del mondo.

Storie che, come vedremo anche a proposito del romanzo qui recensito, sono ascrivibili nella maggioranza dei casi al noir più classico, senza per forza con ciò voler definire un genere specifico di appartenenza. Piuttosto l’uso del termine serve, in questo caso, a delineare un ambiente psicologico e morale, prima ancora che sociale.

Tanto si è dibattuto nel corso degli ultimi decenni sulla sostituzione del romanzo realistico e sociale avvenuta per mezzo dei romanzi noir, ma anche se ciò è sicuramente vero, è vero altrettanto che non per questo i romanzi dall’anima nera debbano per forza descrivere ambienti sociali degradati economicamente (le periferie delle metropoli o la Marsiglia di Jean-Claude Izzo ad esempio) o le perverse trame del potere politico ed economico (come avviene nei romanzi di Dominique Manotti o Massimo Carlotto) oppure, ancora, gli ambienti e gli affari della “mala” (descritti puntualmente da André Héléna, Léo Malet o Auguste Le Breton).

Simenon ci guida a comprendere che il male del noir pur essendo, come del resto tutto, un prodotto sociale, può annidarsi ovunque. Come capita in questo romanzo, pubblicato originariamente nel 1960, che narra le vicende e l’inverno dello scontento di Jean Chabot: ginecologo di fama, comproprietario di una clinica per puerpere benestanti e responsabile della Maternità di Port-Royal, un appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne, una moglie, tre figli e una segretaria-amante, Viviane, che si è assunta il compito di «evitargli ogni minima seccatura».

Eppure, eppure…
Lo scontento e l’amarezza sono filtrati nella sua vita. Un goccio alla volta oppure per vaste crepe che sono andate aprendosi sempre più nel suo animo, soprattutto dopo l’aver appreso della morte per suicidio di una giovanissima inserviente della clinica, “l’orsacchiotto” del titolo, di cui lui aveva approfittato sessualmente diverse volte durante i lunghi turni di notte nella stessa, tra l’urgenza di un parto e quello successivo.

Ma non è un rimestamento morale legato al senso di colpa quello che accompagnerà il protagonista fino alle ultime, drammatiche pagine delle vicende narrate. No, sarebbe troppo semplice, soprattutto per un autore come Simenon, attento osservatore dei vizi privati e pubblici, altrui e propri.
Al massimo la scomparsa della giovane affogatasi nella Senna, dopo aver saputo di essere incinta e dopo esser stata cacciata dalla stessa clinica rimanendo senza lavoro, può costituire per Chabot una lieve riverniciatura di moralità e un blando senso di colpa destinati a mascherare il ben più profondo malessere che si annida nell’animo di un uomo che pur si è autenticamente fatto da sé.

E non costituisce un vero problema nemmeno l’enigmatica figura di un giovane, probabilmente coetaneo, fratello o amante, della giovane suicida, che perseguita il professore lasciando sul parabrezza della sua automobile dei biglietti sgrammaticati su cui sono scritte, solo e sempre, tre parole: «Io ti uciderò».
No, la vendetta dal basso non può preoccupare e non può spaventare un uomo che si sente morto da tempo. In cui anche i rapporti sessuali sono vissuti come compulsivi, destinati soltanto a riempire un vuoto esistenziale incolmabile.

Aveva preso dei farmaci. Li aveva provati tutti. Aveva persino cercato di distrarsi facendo sesso in modo compulsivo, e per un certo periodo non aveva fatto che andare a donne, approfittando di infermiere compiacenti, e due o tre volte di pazienti che si offrivano, il che gli aveva complicato l’esistenza. Questo era durato fino a Viviane e ogni tanto, se andava in crisi, ci ricascava1.

Vi è indubbiamente molto dell’autore, come per ogni scrittore che meriti davvero questo appellativo, nella figura di Chabot e, forse, proprio per questo Simenon riesce a portarci al cuore di ogni scontento, di ogni male, alla causa ultima di ogni azione registrata in un noir. Il vuoto dell’alienazione che scorre sul fondo della psiche, in maniera conscia o non conscia non importa ai fini dell’analisi ultima, di ogni individuo, maschio o femmina che sia. Insomma, parafrasando insieme Hannah Arendt e Raoul Vaneigem, “la quotidianità e la banalità del male”.

Alienazione che è sicuramente sociale e che è più profonda di qualsiasi semplice causa economica o politica. Nelle pagine dell’autore belga, così come in tutto questo romanzo, la separazione dell’individuo da se stesso e dalla sua vita, o da quella che egli riterrebbe dover esser tale, è totale.
Ed è totale proprio perché il protagonista, ma insieme a lui qualsiasi altro membro, grande o piccolo, del milieu cui appartiene, tutto sommato non sa con sicurezza cosa sia la sua “vera” vita e, soprattutto, cosa davvero vorrebbe al posto di ciò che già ha, o non ha.

Chabot stava dunque fingendo? Il proprio viso lo affascinava. Continuando a guardarsi, levò il bicchiere e lo vuotò d’un fiato, con una smorfia sulle labbra.
Poi, tanto per vedere, per rendersi conto, lentamente tirò fuori di tasca la pistola, più lentamente ancora ne portò la canna alla tempia, l’appoggiò come si appoggia la lingua su un dente che duole.
Evitò di toccare il grilletto. Non aveva intenzione di sparare. Voleva solo fare una prova e, adesso che aveva fatto il gesto, credeva di sapere. Meglio non continuare, non indugiare lì nello studio; l’immagine successiva era il «dopo», con il suo corpo sul pavimento.
Rimise l’arma in tasca, la bottiglia nell’armadio e andò a prendere cappello e cappotto nel guardaroba. In boulevard de Courcelles non si cenava prima delle nove. Per il caffè, non occorreva arrivare prima delle dieci2.

Come teorizzava Anton Čechov a proposito del teatro, se un’arma compare nel corso delle vicende prima o poi sparerà e starà soltanto al lettore scoprire dove, quando e contro chi o cosa.
E’ «l’uomo nudo» quello di cui ci parla Simenon nei suoi romanzi. Nudo davanti a se stesso, prima di tutto, poiché, pirandellianamente, tutto sommato la società gli fornisce un’abbondanza di maschere dietro cui nascondere l’alienazione che lo pervade completamente.

Funziona la scrittura di Simenon, sia sul piano narrativo, secca e spogliata di qualsiasi banalità o parola non necessaria, ma soprattutto come “guida” al noir, di cui rivela implacabilmente come il male, che può nascondersi in ognuno e in ogni vicenda umana, non ha bisogno di complicate trame e complotti per esplodere e manifestarsi. E neppure ha bisogno di esser compreso attraverso descrizioni minuziose di ambienti degradati che finiscono col giustificarne le azioni e le esplosioni.

No, per Simenon basta la vita di ogni giorno.
E questa è la sua lezione più importante, dai romanzi di Maigret a tutti gli altri.
Compreso, naturalmente, quest’ultimo.


  1. G. Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, p. 83  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 85  

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Liberare la specie, realizzare la vita https://www.carmillaonline.com/2019/07/10/autogestione-e-auto-organizzazione-per-liberare-la-vita/ Tue, 09 Jul 2019 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53400 di Sandro Moiso

Raoul Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana. Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 140, Euro 12,00

Quel che è in atto sotto i nostri occhi non è nient’altro che un cambio di civiltà

Raoul Vaneigem, classe 1934, ultimo e forse più significativo rappresentante (dopo Guy Debord, assente però dal mondo dei viventi fin dal 1994) dell’esperienza dell’Internazionale Situazionista (da cui pur si allontanò volontariamente nel 1970), dimostra ancora una volta, nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi, come non sia solo l’età anagrafica [...]]]> di Sandro Moiso

Raoul Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana. Contributo all’emergenza dei territori liberati dall’impresa statale e mercantile, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 140, Euro 12,00

Quel che è in atto sotto i nostri occhi
non è nient’altro che un cambio di civiltà

Raoul Vaneigem, classe 1934, ultimo e forse più significativo rappresentante (dopo Guy Debord, assente però dal mondo dei viventi fin dal 1994) dell’esperienza dell’Internazionale Situazionista (da cui pur si allontanò volontariamente nel 1970), dimostra ancora una volta, nel testo appena pubblicato da DeriveApprodi, come non sia solo l’età anagrafica a definire la giovinezza e l’attualità di un pensiero, ma anche come la critica radicale sia ancora un valido ed irrinunciabile strumento per comprendere le tendenze implicite nei movimenti reali attuali e per definire un autentico percorso di liberazione della specie dalle pastoie e dai vincoli imposti dal modo di produzione dominante.

Tale giovinezza e validità delle formulazioni contenute nell’opera (infinita e difficilmente elencabile in una bibliografia che dovrebbe comprendere anche un numero enorme di scritti lasciati anonimi oppure attribuiti ad autori ed autrici dai nome inventati dallo stesso) del militante, pensatore e studioso anarco-situazionista (non sono però del tutto sicuro però che questa definizione piacerebbe all’autore) è rivelata immediatamente dalla continuità tra questo ultimo scritto e quell’Avis aux civilisés relativement à l’autogestion généralisée, contenuto nel numero 12 del 1969 dell’ “Internationale Situationniste”.

Cinquant’anni esatti sono passati e l’attualità delle riflessioni di Vaneigem non è data dalla volontà di difendere e di ripetere come mantra le affermazioni di una stagione passata da tempo (come purtroppo accade ancora troppo spesso per molte formulazioni enunciate talmudicamente dalle svariate sette marxiste e libertarie, distanti dal presente e poco coscienti dello svolgersi implacabile di una Storia che si dimostra sempre tutt’altro che lineare), ma proprio dall’utilità delle stesse per comprendere e analizzare i percorsi di liberazione già in atto nella società. Soprattutto quelli meno riconducibili al più vecchio e canonico immaginario di sinistra e sindacale.

D’altra parte il fatto che tali movimenti, quasi mai direttamente citati ma evidentemente riassunti in quel territori liberati compreso nel titolo, siano in qualche modo la rappresentazione fisica e viva della vivacità di quel pensiero conferma anche che è stata l’azione pratica dei viventi ad andare nella direzione indicata da tempo dal militante e teorico di origine belga e non sia affatto dovuta invece a qualche escamotage dello stesso per riadattarsi o riadattarlo ai tempi.

Basterebbe la dedica contenuta in esergo a riassumere il principio ispiratore di tutto il testo e di tutta l’opera di Vaneigem: A tutti quelli che preferiscono lottare per vivere piuttosto che battersi per sopravvivere.
La lotta non può mai essere per un obiettivo posticipato e lontano.
La lotta non può essere un obiettivo in sé. Tanto meno sul piano prettamente politico-militare.

Ma nell’immediato della lotta, soprattutto quando questa si pone il compito di liberare classi e specie dal lavoro subordinato e dalla subordinazione sociale agli obiettivi dell’impresa statale e mercantile, ovvero del Capitale, già si devono realizzare gli obiettivi principali della stessa: la felicità individuale e collettiva e la liberazione del singolo soggetto e dei soggetti collettivi dai rimasugli di una società patriarcale, consumistica e repressiva che è ormai destinata ad estinguersi, ma che da perfetto zombie continua a nutrirsi dei corpi e dei cervelli delle sue vittime.

Mi sembra infine utile riportare, qui di seguito, una lunga citazione tratta dal testo che riassume perfettamente l’orientamento fin qui enunciato.

Io non concepisco altro movente alla lotta rivoluzionaria che l’istituzione di una felicità universale.
Esiste un godimento inerente alla ricerca del vivente. Quel che lo qualifica con diritto come un godimento insurrezionale è l’incompatibilità assoluta della sua gratuità con un sistema fondato sul profitto. Non lo diremo mai abbastanza: l’economia mercantile è un crimine contro la vita.
Il godimento degli esseri e delle cose revoca la loro appropriazione. La ricerca del vivente è l’arte di essere conquistati dai doni del cuore e della terra. L’aberrazione che ha consegnato le concezioni di Marx all’ideologia (di cui diffidava, del resto), è stata quella di non aver visto nel lavoro di sfruttamento della natura la causa della nostra alienazione; più drammaticamente ancora, di aver identificato il lavoro con un processo di umanizzazione dell’uomo e della donna.

[…] Succede che lo Stato faccia l’elemosina di una riforma, che abroghi una legge, si mostri conciliante con i movimenti di contestazione ostinati. Tuttavia, le sue apparenti marce indietro sono solo furbizie ed esitazioni. Quando temporeggia, il suo affanno prelude a nuove offensive. Lascia che il militantismo si esalti per un’apparente vittoria militare perché per lo Stato ogni campo di battaglia è un terreno di conquista.
Il militante potrebbe cogliere l’occasione per distinguere dentro di sé la frontiera che separa il gioco per vivere da quello in cui la morte conduce la sua partita a scacchi. Non gli suggerisco di lanciarsi nell’introspezione per chiarire come la pulsione di vita sia soggetta a dei voltafaccia inopinati. Auspico soltanto una riflessione sul tema: la militarizzazione non s’iscrive forse in una prospettiva di morte?
Dall’istante in cui la solidarietà revoca lo spirito di sacrificio, una radicalità si fa giorno. Essa si manifesta nei militanti in lotta contro l’esclusione degli immigrati, contro l’espulsione degli occupanti di una zona da difendere (ZAD), contro la devastazione dei paesaggi, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, dei cibi. Anche se molti di questi impegni sono recuperati dal gauchismo, dal radicalismo dei pretesi libertari, dall’umanesimo politico e dal mercato della carità, essi conservano il fermento di una radicalità capace di spargere i suoi semi ben oltre il gesto e il movente iniziale.
Ogni collettività animata dalla volontà di far prevalere l’umano sull’economia inaugura una terra in cui la barbarie è bandita, una terra che fertilizza la gioia di vivere.
Anche se è destinata ad affievolirsi, a calmarsi, la collera ha in sé di che superare l’appagamento di uno sfogo, di un risentimento eiaculato precocemente. L’hubris emana da una pulsione di vita impaziente di frantumare gli ostacoli. Sotto la stupidità del cittadino che crede in uno Stato più giusto e più compassionevole spunta la voglia segreta di farla finita con tutte le forme di governance e di potere.
Lo Stato agisce attraverso la politica del fatto compiuto. È una prerogativa dei principi incoronati democraticamente. Quando il militante è per di più un elettore, accorda la sua cauzione a quel che combatte e accondiscende a farsi menare per il naso due volte.

[…] Fare dei buchi nella tela di ragno nella quale il capitalismo parassitario ci intrappola, non basta. Per sradicarne la nocività, non c’è che la poesia fatta da tutti, la coscienza e la passione di elaborare una società in cui la vita revochi ogni forma di oppressione.1


  1. R. Vaneigem, Sull’autogestione della vita quotidiana, pp. 50-53  

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Henri Lefebvre e lo spazio/vita https://www.carmillaonline.com/2019/03/21/henri-lefebvre-e-lo-spazio-vita/ Wed, 20 Mar 2019 23:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51421 di Gianfranco Marelli

Francesco Biagi, Henri Lefebvre. Una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano 2019, pp. 252, € 20

Non si abita lo spazio, si è abitati. Chi lo decide e perché? Quali le conseguenze? Quali le opportunità e le possibilità di ritornare padroni del proprio spazio/destino? Francesco Biagi, nel suo ponderoso studio su Henri Lefebvre, affronta queste e altre problematiche di strettissima attualità ricostruendo il pensiero del filosofo-sociologo francese da sempre impegnato a rinverdire il pensiero e la pratica marxista a partire innanzitutto dalla critica della vita quotidiana per la [...]]]> di Gianfranco Marelli

Francesco Biagi, Henri Lefebvre. Una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano 2019, pp. 252, € 20

Non si abita lo spazio, si è abitati. Chi lo decide e perché? Quali le conseguenze? Quali le opportunità e le possibilità di ritornare padroni del proprio spazio/destino?
Francesco Biagi, nel suo ponderoso studio su Henri Lefebvre, affronta queste e altre problematiche di strettissima attualità ricostruendo il pensiero del filosofo-sociologo francese da sempre impegnato a rinverdire il pensiero e la pratica marxista a partire innanzitutto dalla critica della vita quotidiana per la sua intrinseca capacità di essere l’espressione più compiuta della modernità capitalista, vera e propria cartina di tornasole che al contempo «contiene simultaneamente le conseguenze nefaste dello sviluppo del capitale e, anche, le possibilità utopiche per ribaltarne il corso. Tale ambivalenza è la cifra entro cui recepire il pensiero di Lefebvre, il quale salda indissolubilmente teoria politica e prassi sociale» [p. 19].

Ed è proprio all’interno di questa griglia di lettura che Biagi espone il percorso teorico e metodologico di Lefebvre; percorso sviluppatosi all’interno del “secolo breve” e vissuto intensamente – dallo scoppio della rivoluzione russa, quando aveva 16 anni, fino alla sua dipartita all’età di novant’anni, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino e qualche mese prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica – con l’obiettivo di fare i conti con l’esperienza comunista. Infatti, sarà proprio la critica della vita quotidiana ad essere la lente di ingrandimento grazie alla quale Lefebvre leggerà e analizzerà la complessità del mondo moderno, in modo da poter individuare il punto archimedico in grado di trasformarlo, ad iniziare da una rivisitazione della prassi rivoluzionaria marxista, definitivamente sganciata da interpretazioni strutturaliste che ne avevano limitato e impedito l’afflato utopico e costretta entro le maglie di un determinismo economico-materialista di matrice althusseriana, oppure rimaneggiata in chiave umano-esistenzialista da Sartre, al punto da vanificarne la prassi sociale nonché l’incipiente lotta di classe.

Sì, perché la grandezza del filosofo di Hagetmau è stata quella di sbarazzarsi delle filosofie interpretative più seducenti e à la page del pensiero di Marx, tanto in voga nella Francia del secolo scorso, per affrontare un percorso di ricerca teorica tesa a confutare la presunta scientificità marxista al fine di coglierne concretamente la sua praxis di ribellione. Convinto, soprattutto, che lo sfruttamento cui è sottoposto il proletariato non è un concetto teorico da elaborare all’interno di un pensiero strutturato e definito, quanto una condizione concreta vissuta quotidianamente, necessaria a comprendere i modi, i luoghi e i tempi dello sfruttamento non soltanto circoscritto nel mondo della produzione, ma esteso e ampliato ad ogni aspetto della produzione di un mondo che ne determina la proletarizzazione della propria vita. Un simile approccio ha pertanto permesso a Lefebvre di ripensare e riflettere sui reali fattori che il sistema capitalista impiega per sfruttare il proletariato nella fabbrica/mondo, al punto da ripercuotersi anche al di fuori di essa, attraverso la produzione di un mondo/fabbrica contraddistinta da una vita quotidiana soffocata dalla merce e dai suoi falsi bisogni indotti dallo spettacolo consumistico di beni, generatrice del perbenismo borghese, che – a detta di molti sociologi e intellettuali engagées del secondo dopoguerra – aveva determinato la scomparsa della classe operaia in quanto classe rivoluzionaria.

Come sappiamo, la questione se ritenere il proletariato ormai soddisfatto del benessere raggiunto nel 2º dopoguerra, oppure considerarlo ancora l’agente rivoluzionario in grado di cambiare la società capitalista, è stato al centro del dibattito sviluppatosi all’interno della gauche, soprattutto in ragione del fatto che lo sviluppo economico aveva garantito un progresso sociale tale da consentire anche ai lavoratori un tenore di vita più consono alla disponibilità del consumo del proprio tempo libero, ben oltre il consumo del proprio tempo di lavoro. Tutto ciò aveva determinato la necessità di riconsiderare fino a che punto la qualità della vita dei lavoratori fosse cambiata in rapporto alla maggiore disponibilità di tempo da dedicare alla cura di sé e in che modo questa attenzione alla “vita privata” avesse contribuito a riconsiderare il proprio ruolo di lavoratore in una società sempre più urbanizzata e dedita al consumismo di massa.

Fu proprio durante i corsi di sociologia tenuti da Lefebvre nel 1961 all’Università di Strasburgo che l’analisi e la critica dei concetti riguardanti la quotidianità, l’urbano, lo spazio/tempo sociale, divennero il terreno sul quale furono poste le basi per ripensare la rivoluzione in un regime sociale in cui l’abbondanza delle merci – caratterizzante la società francese ed europea agli inizi de gli anni ‘60 – non poteva non nascondere la povertà, lo sfruttamento e la marginalizzazione subite dalle frange più deboli e reiette ammassate nelle grandi periferie urbane; infatti queste, assieme al significativo numero di studenti aumentati a seguito della scolarizzazione di massa, rappresentarono il nuovo soggetto proletariato in grado di opporsi al processo concentrazionario determinato dall’affermazione dell’ideologia funzionalista applicata all’organizzazione dello spazio urbano, così come l’architettura lecorbusiana andava diffondendo in tutte le metropoli mondiali.

Non a caso, fra i partecipanti di quei corsi di sociologia, figurarono personaggi come i situazionisti Debord e Vaneigem, nonché Jean Baudrillard – allora assistente di Lefebvre – e il giovane studente Daniel Cohn-Bendit che rappresentarono la punta più avanzata nel processo contestatario di lì a breve innescato durante il maggio francese nel 1968. Di tutto ciò Francesco Biagi nel suo lavoro ne offre un ampio resoconto, ravvedendo un importante crocevia dello sviluppo del pensiero di Lefebvre, in quanto permise al filosofo di temprare la propria ricerca sociologica, risalente ad una iniziale analisi delle trasformazioni avvenute durante il processo di urbanizzazione delle campagne francesi nell’immediato dopoguerra, con le trasformazioni conseguenti all’implodere delle città e il formarsi delle periferie, luoghi dove la marginalità urbana viene eletta come prospettiva per « svelare l’autentica realtà sociale, oltre e contro l’immagine di sogno promossa dai dispositivi spettacolari ed edonistici della città a matrice fordista».

Tale punto di vista, oltre a rispecchiare un’interpretazione situazionista della città come spettacolo della merce, avanza l’ipotesi di un’epistemologia sociologica della marginalità, che secondo Biagi, consente di osservare l’intera società a partire dalla periferia, ridefinendo radicalmente l’osservazione sul resto dello spazio urbano in modo da consentirci di «assumere uno sguardo più preciso sulla complessità delle situazioni sociali che ci ritroviamo di fronte. È il particolare punto di vista di chi è oppresso e più debole, di chi vive ai margini come scarto, che ci rende intellettualmente tangibile il concreto stato di salute della vita urbana della città » [p. 96]. Ecco dunque compresa l’attenzione che Lefebvre dedica allo studio della città e al suo farsi territorio urbano complesso e indistinto, in quanto vi intravvede la proiezione della società sul suolo: «una società nella sua interezza, una totalità sociale o una società considerata come totalità, compresa la sua cultura, le sue istituzioni, la sua etica, i suoi valori, in breve le sue sovrastrutture, compresa la sua base economica e i rapporti sociali che costituiscono la sua struttura propriamente detta» [p. 99].

Proprio nel considerare la città quale sineddoche della società, Lefebvre può essere considerato un pensatore della “crisi” della città proiettata sull’intera società; pertanto la sua osservazione sociologica sull’organizzazione dello spazio urbano non è altro che una riflessione sui tempi storici che hanno consentito al sistema capitalistico di affermarsi compiutamente nel tessuto della società attraverso il processo dialettico e conflittuale fra città e campagna, determinando l’obesità dell’urbanizzazione a scapito del dimagrimento dello spazio rurale. Un fenomeno lebbroso che ha infettato l’intero spazio sociale a partire dagli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, trasformando l’ambiente rurale e urbano in un “habitat” standardizzato, massificato su larga scala e funzionale alla produzione capitalista globalizzata, al punto da cancellare quasi completamente l’originalità che contraddistingueva la pratica relazionale fra l’uomo e il mondo nelle differenti forme di vita espresse nel modo di “abitare” il luogo attraverso la partecipazione alla vita sociale, il sentirsi parte di una comunità, la possibilità di una vita quotidiana attiva, felice, armonica, per opporsi alla tanto pubblicizzata “vita privata”. Sì … privata di fare in prima persona la propria la storia, perché resa omologa e indistinta in ogni suo ruolo assegnatoli – di lavoratore, di cittadino, di turista, di consumatore del proprio tempo libero – al punto da essere riprodotta in ogni luogo come e più di qualsiasi altra merce in commercio, in quanto “bene” così prezioso da sfruttare e vendere ad libitum.

Concorde con Debord nel considerare proletari coloro che non hanno alcuna possibilità di modificare lo spazio-tempo sociale che la società concede loro di consumare, Lefebvre si chiede assieme al situazionista parigino se una simile realtà, diretta conseguenza dell’incapacità di “saper abitare” – in quanto «il nostro abitare odierno è ossessionato dal lavoro, reso instabile dalla ricerca del vantaggio e del successo, succube dell’industria del tempo libero e dei divertimenti» – , non possa trovare proprio nella critica della vita quotidiana la possibilità di riformulare il progetto rivoluzionario a partire dalla necessità di changer la vie che le avanguardie artistiche del ‘900 avevano manifestato compiutamente e che l’esperienza del proletariato, durante i tre mesi della Comune di Parigi, aveva provato a praticare proprio a partire dalla presa della città e dalla sua riorganizzazione in senso autogestionario e federalista dello spazio sociale.

Anche di questa nuova fase del pensiero del filosofo di Hagetmau, il libro di Francesco Biagi ne dà ampia documentazione, evidenziando puntualmente quanto «nella scena della vita quotidiana, Lefebvre registra una dialettica permanente fra piattezza e straordinarietà dell’esistenza»; una dualità che contrapponendo alla serialità capitalista l’originalità di ogni vita umana, determina un’eccedenza che «non è mai pienamente sussunta e trova espressione in alcuni “momenti” delle pratiche di vita quali l’arte, l’amore e il gioco. In Lefebvre, infatti, è determinante il riferimento alla poiesis del quotidiano, alla riappropriazione utopica di una dimensione estetica caratterizzata da una cifra profondamente rivoluzionaria e indomabile dalla matrice capitalistica; si tratta dell’ipotesi di un’arte di vivere che mira a consolidarsi non solo come mezzo ma come fine» [ p. 181].

Appare del tutto trasparente la simbiosi tra l’analisi lefebvriana e il pensiero situazionista che riceve e offre un’ulteriore radicalità alla critica della vita quotidiana, grazie alla propria esperienza nell’ambito artistico, sottoposto proprio in quegli stessi anni ad una feroce e aggressiva contestazione, con l’obiettivo di liberarlo dalla mordacchia dell’arte per l’arte in cui la società borghese l’aveva costretto e utilizzato al pari di un rossetto per le labbra da porre all’allora funzionalismo architettonico, al fine di ritrovarvi il suo primitivo significato sociale, teso a prefigurare la possibilità di superare l’arte realizzandola nella “costruzione di situazioni”, proprio attraverso la critica dell’urbanistica, la psicogegrafia, il gioco, il détournement. E quale miglior luogo di confronto/scontro con i situazionisti se non l’analisi della Comune di Parigi del 1871, interpretata da entrambi come la prima realizzazione della critica all’urbanistica del prefetto Haussmann da parte del proletariato insorto, finalmente padrone della città e del proprio destino.

Naturalmente, in sintonia con Biagi, lasciamo agli esegeti stabilire chi fra i situazionisti e Henri Lefebvre sia stato il primo a teorizzare il fatto che la Comune fosse stata “il tempo di una festa”, la “sospensione del tempo storico”, l’istante di un’interrotta battaglia che ha consentito ai comunardi di svelare le modalità oppressive del potere, realizzando la critica dello spazio sociale quale pratica dell’utopia concreta a partire dalla conquista della città e la riappropriazione della propria vita. Ci importa invece continuare il percorso che condusse Lefebvre a teorizzare il “diritto alla città” come conseguenza logica del conflitto in atto fra gli emarginati della città/mondo e chi governa il mondo/città in modo concentrazionario; conflitto maturato nella fase dello sviluppo economico fordista – quando l’esigenza di costruire alloggi per una popolazione urbana costantemente in crescita aveva trovato nel funzionalismo architettonico di Le Corbusier il corrispettivo ideologico di un urbanismo finalizzato alla creazione di macchine per abitare – e in seguito imploso con l’affermarsi della globalizzazione neoliberista, in cui le conurbazioni mondiali si sono trasformate in domicili da abitare come macchine, con i suoi abitanti/passeggeri considerati optional smart da poter interscambiare secondo le esigenze connesse al percorso produttivo della merce e riproduttivo della vita delle persone.

A fronte di questo repentino cambiamento dell’assetto urbano, sempre più macchina/dispositivo di controllo e sempre meno luogo abitabile/socializzabile di convivenza partecipativa, il concetto lefebvriano di “diritto alla città” non può e non deve essere inteso come uno dei tanti diritti da aggiungere alla lista dei “diritti universali”. Al contrario deve divenire una pratica in grado di aprire una “breccia” sui possibili modi per intaccare e rodere la produzione dello spazio capitalista; o – per dirla con i situazionisti – un “buco positivo” che lacera lo spazio occupato dal potere e contemporaneamente intraprende la costruzione di situazioni con l’obiettivo di dètourner l’habitat da parte degli insorti, così da poter realizzare l’urbanesimo unitario mediante l’edificazione, non certo di uno “spazio alternativo” e neppure di una “eterotopia” da contrapporre in parallelo all’isotopia imperante, ma il totale rovesciamento della spazialità che segrega il proletariato, lo sfrutta e lo aliena all’interno di città funzionali allo spettacolo della merce. In tal senso il “diritto alla città” – precisa Biagi – è «essenzialmente un esercizio pratico dell’agire politico, è un ambito dell’umano che riguarda la prassi politica radicale indirizzata al raggiungimento di un’autentica democrazia, anche nella sua dimensione spaziale. È il rovesciamento della città come “merce” da parte di chi è escluso, oppresso, e la dialettica ricostruzione di un essere-in-comune della polis come “opera” di coloro i quali la abitano. […]Trasformare il proprio spazio di vita, renderlo utile ai bisogni di tutti è l’autentica via per praticare quell’ideale utopico-pratico che Lefebvre ha chiamato “diritto alla città”. La città come prodotto, come merce è così rovesciata in favore di una città come opera autentica, al servizio – all’uso – di chi la abita.» [pp.203-204].

Certo, Lefebvre era ben consapevole della possibilità che il “diritto alla città” potesse essere recuperato, riciclato e riconquistato dal sistema capitalistico, svuotandone il contenuto sovversivo e riadattandolo ad una visione riformista, allo stesso modo di quanto è stato fatto con il concetto changer la vie, arrivando «a cambiare l’immagine della vita, invece di aver cambiato la vita stessa». Del resto questa è la lettura più comune che viene offerta ogni qualvolta è ripreso il concetto lefebvriano all’interno di una politica urbanistica protesa a migliorare, abbellire lo spazio urbano in modo da renderlo più accogliente, più vivibile, ma soprattutto meno conflittuale. Pure, sono le condizioni stesse dell’habitat urbano – sottoposto ad un processo di implosione delle città, trasformate in luoghi anonimi e al contempo identici per l’effetto dell’espulsione dal centro dei suoi abitanti, dispersi nelle periferie senza soluzione di continuità con la campagna urbanizzata, e la loro sostituzione in abitati per turisti – che individuano nello spazio urbano la posta in gioco di una «contesa fra chi può essere visibile e avere voce e chi invece deve rimanere invisibile e senza possibilità di proferire parola». Contesa che avrà le conseguenze di un Armageddon fra l’apocalisse di un capitalismo predatore delle risorse umane e ambientali, e l’utopia concreta del “diritto alla città”: gesto eroico di chi – come i comunardi parigini del marzo 1871 e i rivoltosi del Maggio 1968 – fino all’ultimo istante saprà coraggiosamente tenere aperta «la piccola breccia utopica contro il tempo della sottomissione».

Per ritornare ad essere abitatori del proprio spazio/destino, in nome della vita contro la sopravvivenza.

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Divenire ciò che non siamo stati ancora https://www.carmillaonline.com/2018/10/24/divenire-cio-che-non-siamo-stati-ancora/ Wed, 24 Oct 2018 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49208 Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano [...]]]> Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano (qui). S.M.]

Un aspetto focale del lavoro di Neil Novello consiste nel dar voce all’aforisma pindariano – Γένοιο οἷος ἔσσι, Diventa ciò che sei! – al fine di trovare un minimo comune denominatore all’intera opera cesaraniana e al contempo tracciare il profilo umano dell’autore stesso, deciso da sempre a condurre la “vera guerra” contro la sopravvivenza degli uomini mercificati dal sistema capitalistico per diventare ciò che si è, così da «emanciparsi non dal sistema, ma emanciparsi nel sistema per emanciparsi dal sé o dall’io ancora ignoto, tradurre la non-vita in vissuto reale, fare della vissutezza oltre la preistoria la storia di una ritrovata compiutezza ontologica, qualcosa che sia il compimento di un riconquistato “diritto alla vita”». Progetto, però, che può realmente concretizzarsi se concepiamo la necessità di «smarrire le tracce del sentiero finora battuto, deviare in direzione di un altrove individuale rinunciando, obliando l’essere-per nel nome dell’essere-sé, la persona ritornata individuo. Non è però uno slancio metafisico questo di Cesarano – puntualizza Novello – il momento individuale è tale in quanto piattaforma di un reale movimento collettivo, il viatico «verso una comunità umana». Già, perché il concetto di “comunità umana” diverrà fondamentale negli ultimi studi di Cesarano, debitore in parte delle riflessioni condotte in quegli stessi anni da Jacques Camatte, direttore della rivista «Invariance», sull’importanza in Marx della Gemeinwesen, quale adempimento storico del comunismo non nello Stato attraverso la presa del potere, ma nella liberazione dell’individuo comunitario; così come fu stimolato dalle riflessioni di Raul Vaneigem e di Guy Debord sulla necessità di ripensare i termini di rivoluzione e lotta di classe riferendosi alla critica della vita quotidiana, al desiderio quale principio trasformatore della realtà, al rifiuto di tutte le costrizione per la liberazione totale della creatività spontanea del “proletariato”.
Non essendoci, pertanto, più in palio la conquista del potere per mezzo della lotta di classe, la rivoluzione non potrà che essere condotta attraverso una lotta biologica volta alla conquista di sé come comunità umana; rivoluzione che permetterà di passare dalla preistoria del non vissuto alla storia della vera natura umana, la totalità organica naturante [Gemeinwesen], attraverso la completa realizzazione di sé nella società degli individui. Giustamente, Neil Novello in tal circostanza non può non notare le tracce seguite da Cesarano nel ripercorrere a modo suo il pensiero di Debord e di Vaneigem. Infatti, così come ne «La società dello spettacolo» si afferma che “il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia”, nel pensiero di Cesarano «è abolita l’idea di oggettivazione della conquista storica, non però la più autenticamente rivoluzionaria conquista di sé a sé e alla storia, una conquista della soggettività de-capitalizzata»; allo stesso modo nella sensazione manifestata da Cesarano di trovarsi ormai «in un luogo dell’anima tra il non più del mondo-capitale e il non ancora del mondo-soggettività» riecheggia il concetto di intermondo espresso da Vaneigem nel “Trattato di saper vivere”, quando afferma che “l’intermondo è il terreno incolto della soggettività, il luogo in cui i residui del potere e la sua erosione si mescolano alla volontà di vivere”. Assonanza di analisi che inducono Cesarano a scavare in profondità per portare alla luce la radice del problema gnoseologico: il perché ci sono? Domanda che l’analisi di Novello sostiene invece sia un’affermazione, anzi la constatazione crudele «dell’esserci come prodotto: l’inorganicità senza essere della specie umana»; di sicuro una riflessione sulle condizioni esistenziali di una mancanza di senso che il “dover essere” persona sociale risveglia nel desiderio di “saper essere” altro: un individuo indiviso, non dimidiato dalla langue della cultura del potere.
Stabilito dunque che non si può essere, poiché il capitale obbliga alla sopravvivenza, ad una vita ridotta alla mera funzione di autoaffermazione di sé come persona/merce, il “programma” rivoluzionario non può che lottare per un ritorno ad essere in quanto corpo dotato di senso che si riappropria del senso del corpo non più assoggettato alla produzione/riproduzione del capitale. Un rompere lo specchio che riflette la non-vita, o come poeticamente Cesarano scriverà in «Manuale di sopravvivenza» (l’ultimo saggio pubblicato dalla Dedalo nella primavera del 1974) un vedersi introspettivamente per confortarsi in uno “sguardo che non accetterà in eterno di riflettersi” nella persona sociale in cui l’Io [l’Io che pensa] è “l’ego quale centro economico” [l’Io che si pensa]. Del resto, non certo accidentalmente l’incipit della «Critica dell’utopia capitale», pubblicata postuma nel 1978 e nella sua forma di appunti programmatici, pone subito al centro della riflessione l’Io, affermando che “Il pensiero che si pensa è il riflesso del ripiegamento dell’essere, […] il primo istante della valorizzazione dell’io come ente astratto dell’essere quale attività”. Si evince così predisposta la volontà radicale di riportare la passione, il desiderio di amarsi, al fuoco propulsore della rivoluzione biologica che brucia l’orgasmo di un’“insurrezione erotica” della vita contro l’oppressione che cristallizza la sopravvivenza in un’unica possibilità di esistere nella totalità reificata della non-vita. La volontà del desiderio diviene dunque una passione radicale che non può essere riassorbita dal bisogno compulsivo di possedere l’oggetto che la pubblicità invita a consumare come un bene indispensabile, in quanto la passione «non è desiderio di oggettivarsi in un oggetto materiale, non è neppure la cosalità del soggettivo. È ciò che resta dopo la cancellazione della totalità reificata». Solo in questo modo il desiderio non si degrada in bisogno (appagandosi degli oggetti posti da capitale), ma si trasforma in passione desiderante di essere l’uomo che non è mai stato ancora. Ne consegue che l’uomo è da farsi, dal momento che – scrive Cesarano nel «Manuale di sopravvivenza» – “l’origine dell’uomo non è alle spalle, ma dinnanzi agli uomini. L’origine della specie è il fine della rivoluzione biologica”.

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Pagine di indolenza e di rifiuto del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/10/31/41194/ Mon, 30 Oct 2017 23:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41194 di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati [...]]]> di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati a tornare» (p. 176).

Federico Bellini nel suo saggio analizza pagine di resistenza all’egemonia dell’azione scritte da autori come Herman Melville (Bartleby, 1853), Joseph Conrad (The Nigger of the “Narcissus”, 1897) e Samuel Beckett (Murphy, 1938). Ad accomunare i personaggi attorno ai quali i tre grandi scrittori costruiscono le loro opere – Bartleby, James Wait e Murphy – è, seppure in modalità differenti, il non lavoro. Il mite impiegato Bartleby di cui racconta Melville inizia improvvisamente a rifiutarsi di assolvere alle mansioni d’ufficio: di punto in bianco “preferirei di no” diviene la sua risposta automatica alle richieste che gli vengono fatte. Il marinaio James Wait, originario delle Indie Occidentali, di cui ci racconta Conrad, è reso pigro dalla malattia che lo condurrà alla morte prima di sbarcare dopo un lungo viaggio in cui l’intera ciurma si prodiga per sostenerlo. Il giovane perdigiorno Murphy di origini irlandesi che vive nel sud ovest londinese narrato da Beckett, è alle prese con una serie di nevrosi che gli impediscono l’azione e lo isolano dal resto della società. Attraverso tali personaggi letterari che si rifiutano di lavorare i tre scrittori riescono a dare corpo a uno sguardo alternativo sulla loro epoca, su quella fetta di modernità, che grossomodo copre la seconda metà dell’Ottocento, costruita sull’egemonia dell’azione, del fare e del trasformare.

Scrive Giovanna Borradori nella Prefazione del volume che intrecciando l’analisi dei personaggi creati dai tre grandi scrittori, La saggezza dei pigri invita il lettore a «immaginare tre distinte possibilità di quello che potrebbe succedere se ci lasciassimo alle spalle l’ansia di plasmare il nostro circostante, per usarlo e trasformarlo» (p. 14). Bellini «ci fa scoprire […] come il livello simbolico che innerva e accomuna le narrazioni di Melville, Conrad e Beckett catapulti ciascuno dei loro eroi fuori dal solco della modernità: ovvero fuori dallo spazio in cui l’umano, attraverso quell’azione orientata alla produzione che è il lavoro, non solo stabilisce la propria funzionalità sociale ed economica, ma afferma il proprio senso della vita» (p. 14). Dunque, Borradori invita a leggere La saggezza dei pigri «a partire da una riflessione su almeno tre domande chiave dell’orizzonte neoliberalista che ci forza a interrogarci sul senso del fare anche al di là del lavoro, almeno come l’abbiamo concepito a partire dalle rivoluzioni industriali che hanno contraddistinto la modernità: in che senso l’essere umano è capitalizzabile? Che cosa sta dietro all’incessante esortazione di investire su noi stessi? E da ultimo, è possibile disinvestire nel capitale umano, soprattutto quando si tratta del proprio? » (p. 17). In effetti, a ben guardare, le pagine passate in rassegna da Bellini sembrano esplorare «un aspetto importante della condizione contemporanea della precarietà, che è il non-lavoro» (p. 17).

Seppure, per dirla con le parole di Marcel Mauss, il lavoro è il «fatto sociale totale» della civiltà moderna occidentale, l’idea di lavoro ed il suo statuto, ricorda Bellini, sono variati nel corso della storia. Ricostruendo sommariamente le tappe principali di tali trasformazioni, l’autore riprende quanto sostenuto da Dominique Méda (Le travail: une valeur en voie de desparition?, 2010) circa il far coincidere l’inizio del concetto moderno di lavoro con la pubblicazione nel 1776 di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations di Adam Smith, in cui il lavoro viene pensato come astratto e come unità di misura del valore economico. Al secolo successivo spetta il compito di elevare il lavoro a valore etico rendendolo criterio di giudizio dell’umanità dell’uomo. In Georg Wilhelm Friedrich Hegel il lavoro viene inteso come processo attraverso cui l’essere umano si appropria della natura e realizza la propria essenza. «Lavoro, Arbeit, diventa allora il nome dell’attività dello Spirito stesso, il processo attraverso il quale esso si esplica nel reale e nella storia. Il lavoro trapassa dunque dall’essere unità di misura del valore a essere valore in sé, forma essenziale e generica di sviluppo della coscienza» (p. 20).

Successivamente Karl Marx riporta il lavoro al piano concreto della struttura economica del suo tempo. «Così facendo Marx distingue l’essenza del lavoro come essa si configurava nel pensiero hegeliano […] dallo stato reale del lavoro come si offriva storicamente. La conformazione del lavoro sotto il dominio del capitale conduce infatti agli occhi di Marx a uno stato antitetico rispetto a quello del lavoro considerato secondo la propria verità: al posto di consegnare all’uomo la sua essenza esso gliela nasconde. Nello spazio che si apre fra l’essere e il dover essere del lavoro si colloca la dimensione dell’azione politica cui Marx affida la possibilità di condurre il lavoro verso la propria essenza. Così facendo, anche nella critica alle forme storiche e concrete del lavoro, diventa ancora più cogente l’identificazione che si afferma fra lavoro ed essenza dell’uomo» (pp. 20-21). Michel Foucaut spiega invece come la concezione moderna della malattia mentale sia legata all’etica del lavoro dalle sue origini. Nel corso dell’Ottocento il lavoro finisce per identificarsi con la normalità, dunque con la salute, tanto che esso diventa la cura privilegiata di parecchie malattie. Dunque, «il lavoro nel corso dell’Ottocento viene a identificarsi anche come più alto valore morale, principio antropologico, garante della norma sociale e della salute individuale e fonte di ispirazione estetica» (p. 23).

A fianco di tutto ciò, tuttavia, scrive Bellini, si sviluppa un’altra storia che vede nel lavoro un valore negativo. «Come l’etimo della parola esprime in tutte le principali lingue indoeuropee una dimensione di fatica e sofferenza, così i miti sulla sua origine – dalla cacciata dal Paradiso Terrestre ai vari racconti dell’Età dell’Oro – mostrano il lavoro come una caduta da un primitivo e perduto stato di beatitudine» (p. 23). Si tratta di una lettura negativa del lavoro radicata e diffusa quanto quella positiva e, anche in questo caso, si tratta di un’ostilità storicamente variabile; al variare delle forme, del ruolo e del senso del lavoro, variano altrettanto le forme e i significati del suo rifiuto. «La passività di Diogene il cinico non coincide con l’otium della latinità classica; l’isolamento dell’eremita medievale non ha molto da spartire con il ritiro finalizzato allo studio del De Vita Solitaria del Petrarca; i malinconici rinascimentali hanno poco in comune con i flâneurs che passeggiano per la Parigi “capitale del XIX secolo”» (p. 23).

Se la storia dell’affermazione del lavoro come valore egemonico della cultura occidentale ha una qualche unità, sottolinea Bellini, le voci letterarie, artistiche e filosofiche che hanno reagito ad esso risultano frammentate e disparate. «Diverse e anche opposte intenzioni possono infatti supportare il rifiuto del lavoro: la rivendicazione di privilegi aristocratici, l’edonismo individualistico romantico, l’esaltazione utopica della tecnologia come liberatrice dell’umanità dalla fatica, la nostalgia per la società preindustriale compongono una varietà che non si lascia includere sotto un solo indice o in un’unica genealogia» (pp. 23-24).

Il “diritto alla pigrizia” di Paul Lafargue è ben altra cosa rispetto, ad esempio, dall’esaltazione del rien faire del dandismo; se nel primo caso si auspica un proletariato emancipato dalla logica borghese capitalista nell’indirizzarsi al rifiuto e non al “diritto al lavoro”, nel secondo caso il rifiuto del lavoro ha a che fare con «un altezzoso atteggiamento individualista e nichilista, alieno alle dinamiche di classe e privo di ogni rivendicazione progressista» (p. 24). Altrettanto diverse sono le argomentazioni espresse da Giuseppe Rensi (L’irrazionale. Il lavoro. L’amore, 1923) volte a «dimostrare l’impossibilità di superare il lavoro sebbene “in una vita degna del nome di umana […] non c’è tempo e posto per esso”» da quelle espresse, ad esempio, da Guy Debord e Raoul Vaneigem che si scagliano contro il lavoro considerandolo «un valore borghese e funereo». Se nel caso di Rensi non vi è traccia di un possibile superamento del lavoro, ciò è invece centrale nel «discorso dei situazionisti, i quali ritenevano che una volta liberatisi dalla perversione del lavoro, “l’inversione della creatività”, si sarebbe infine prodotta la rivoluzione che avrebbe condotto la créativité au pouvoir» (p. 25).

Da parte nostra ricordiamo come sull’onda della conflittualità di classe dispiegatasi nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento si siano sviluppate modalità di rifiuto del lavoro a partire dal suo esplicito e strategico alludere al diritto all’ozio, derivanti dal riconoscersi della forza-lavoro come variabile indipendente dalla logica del profitto e dai meccanismi del mercato capitalistico. In quella lunga stagione conflittuale il proletariato ha saputo collocarsi ed esprimersi in opposizione al capitale esercitando un ruolo attivo e autonomo nello scontro di classe nella consapevolezza che il conflitto andava giocato attorno al lavoro, sul terreno dei rapporti sociali di produzione e riproduzione.

Il lavoro è il fine stesso (ed è il fine a se stesso) del capitale: lavoro, dunque, in quanto lavoro astratto, valore e capitale, come imposizione illimitata di lavoro e lotta contro di essa […] In quanto lavoro astratto, in quanto lavoro senza qualità e limiti, l’imposizione capitalistica di lavoro abbraccia una dimensione sincronica ed una diacronica. Nel primo caso si parla di valorizzazione del capitale, movimento senza limiti intrinseci della triade denaro-merci-più denaro e, quindi, accumulazione del proletariato ed espansione del rapporto di classe. Nel secondo caso si parla di lavoro che tende a sussumere tutti gli aspetti della vita, sia di quella produttiva che di quella riproduttiva. È chiaro che queste dimensioni prendono forma con caratteri determinati, come risultato di strategie capitalistiche particolari […] L’antagonismo può esprimersi, dunque, sia fra i salariati che fra i non salariati, fra i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche high-tech del Nord, come fra quelli/e dei sweatshops delle zone di esportazione del Sud, fra le lavoratrici della riproduzione della forza-lavoro in un milione di condizioni lavorative diverse, nella fabbrica globale della forza-lavoro, così come fra gli indios od i contadini del Sud del mondo, forzati alla miseria per la produzione di prodotti per l’esportazione, ecc. Checché se ne dica, il lavoro in quanto lavoro capitalistico nelle sue molteplici forme è oggi tutt’altro che marginale. Esso è invece centrale al ciclo complessivo del capitale. Il problema teorico e politico non è tanto quello di optare per una delle due ipotesi sinora delineatesi in merito ad una presunzione di attuale centralità di uno specifico comparto di classe, l’operaio-massa dell’operaismo italiano degli anni ’60 od il lavoratore immateriale degli anni ’90 […] il problema è quello della pluralità dei soggetti antagonistici, è quello della loro reciprocità, all’interno della scala gerarchica sociale, e della/e forma/e della loro generale ricomposizione politica. Lo scontro di classe si gioca a livello mondiale ed investe tutti i rami del lavoro di produzione di merci e di riproduzione della forza-lavoro («Vis-à-vis», n. 1, 1993).

In tale impostazione la categoria del lavoro risulta pertanto centrale nella comprensione del capitalismo e nella formulazione di ipotesi di suo superamento ed è in tale contesto che deve essere intesa quella particolare stagione di rifiuto del lavoro diffuso che ha indubbiamente sue peculiarità che la differenziano da altri rifiuti del lavoro.

Detto di quanto il concetto di lavoro e il suo rifiuto siano storicamente variabili, venendo al campo letterario le rappresentazioni della negazione del lavoro risultano sicuramente assai variegate. «Tuttavia, al fine di proporre una tipologia a maglia larga all’interno della quale tracciare il territorio d’indagine, si può muovere da una generica definizione del lavoro per poi, negandola, definire il suo opposto. Il lavoro, nel senso più generico, è costituito da “ogni attività, manuale o spirituale, con cui l’uomo produce un risultato utile” e quindi dall’instaurarsi di una relazione fra un soggetto e una parte di realtà – fisica o meno – che viene, per mezzo di questa relazione, trasformata. Tale trasformazione, affinché sia prodotto di lavoro e non di un semplice sforzo (come quello compiuto giocando o facendo sport), deve venire riconosciuta dal soggetto stesso e dalla comunità come il frutto della volontà di accrescere di valore il segmento di realtà coinvolto» (pp. 27-28).

A partire da tali presupposti basilari, sostiene Bellini, si possono individuare tre elementi in gioco: «una realtà che viene trasformata; una soggettività cosciente che vi interviene; un’altra soggettività collettiva che riconosce la trasformazione. Nel lavoro il soggetto si rivolge contemporaneamente in due direzioni: verso il reale su cui interviene e verso la collettività alla quale richiede il riconoscimento dell’attività medesima. Ridotto a questi minimi termini, il lavoro si dimostra simile al linguaggio: il luogo in cui l’individuo è messo in relazione contemporaneamente con il mondo e con gli altri uomini per mezzo di segni che attivano una relazione triplice fra realtà, società e soggetto. A ciascuno di questi aspetti corrisponde una funzione della significazione: quella di indicare il mondo e gli oggetti che lo costituiscono; quella di sviluppare un’interazione con gli altri soggetti; quella di permettere al soggetto di esprimersi. Ugualmente il lavoro articola l’esistenza del singolo da un lato in rapporto con il mondo che viene modificato, da un altro in rapporto alla società cui prende parte e in ultimo con se stesso. Eliminando a turno gli elementi che compongono il lavoro sarà ora possibile ottenere una tipologia del non-lavoro» (p. 28).

Interrompendo la relazione con il mondo sociale si ha un soggetto che vuole e può agire sul mondo ma che rifiuta di mettere il proprio sforzo al servizio della società. In tal caso il conflitto si esercita nei confronti della realtà sociale come nel caso dello sciopero. Se ad interrompersi è il lato del mondo condiviso, allora viene meno la necessità di intervenire sulla realtà e si entra in un modello di non lavoro proprio di una supposta “Età dell’Oro” ove si vive senza necessità di faticare. Quando invece è il soggetto a sottrarsi dalla relazione col mondo e la società, continua Bellini, «questo rimane come sospeso al di sopra dei flussi delle forze sociali e materiali» (p. 29). Ed è proprio di questa modalità che si occupa La saggezza dei pigri, dunque di «forme di rifiuto del lavoro che hanno la loro origine non in una protesta nei confronti della società o in una negazione del bisogno di trasformare la realtà, ma nel gesto di un soggetto che si sottrae a entrambe queste dimensioni» (p. 29).

Bartleby di Melville, Il Negro del “Narciso” di Conrad e Murphy di Beckett ruotano attorno a figure che, seppure in modi diversi, rifiutano il lavoro in un momento storico ben preciso, il secondo Ottocento, in cui «come reazione all’affermarsi del lavoro come valore e alle trasformazioni prodotte dalla seconda rivoluzione industriale, le rappresentazioni letterarie di rifiuto del lavoro si moltiplicano e assumono un ruolo sempre più importante e non più limitato a esempio morale negativo o macchietta comica». Ed allora Bartleby di Melville diviene lo specchio di quel mondo caratterizzato dalle grandi e repentine trasformazioni che conducono all’inurbamento e al diffondersi del lavoro burocratico impiegatizio, trasformazioni che «catalizzano l’evoluzione di un ethos nel quale si combinano laboriosità e parsimonia con un atteggiamento di compiaciuto sentimentalismo caritatevole» (p. 30). Nell’opera di Conrad, invece, si ritrovano «le ansie di un’epoca nella quale le rivendicazioni dei lavoratori, l’affermarsi di stili di vita considerati decadenti e i primi segni della crisi del discorso imperialista producono da un lato il vagheggiamento per un ipotetico passato in cui la società era unita nella comunione del lavoro, dall’altro il tentativo di rilanciare per una nuova epoca l’etica vittoriana» (p. 30). In Murphy di Beckett si rintraccia «la moderna scissione della soggettività, lacerata fra un’ingiunzione alla socialità e alla produttività e l’attrazione per gli abissi dell’interiorità» (p. 30). Le tre opere prese in esame da Bellini presentano al contempo «un punto di vista radicalmente individuale e la testimonianza dell’esperienza di un’epoca che, in certa misura, è la nostra» (p. 32).

Questi personaggi non lavoratori si pongono nei confronti della loro epoca come figure enigmatiche irriducibili all’ordine della grande macchina produttiva, come “oggetti inutilizzabili”, per dirla heideggerianamente, e soltanto l’abilità dei grandi scrittori permette di costruire una narrazione ruotante attorno all’inerzia dei personaggi ma, sottolinea lo studioso, occorre anche il contributo del lettore a cui è richiesto un lavoro di interpretazione, tanto che si potrebbe dire che la fatica evitata dal protagonista dell’opera finisce per essere addossata al lettore.

Le figure del rifiuto del lavoro si contrappongono alla moderna visione del mondo per la quale il lavoro, o in senso più essenziale l’azione […], è alla radice del senso dell’esistenza. Contro tale visione esse presentano realtà umane ricondotte per mezzo della negazione dell’agire alla loro dimensione minimale, al loro grado zero […] Lo stato elementare che si annuncia nella passività del non lavoratore è una riduzione della soggettività moderna ai suoi minimi termini, in cui contemporaneamente si manifesta la forma essenziale di tale soggetto e un’istanza di resistenza a esso. Allontanandosi dal lavoro si crea una distanza da cui valutarlo e questo arretrare non è un’opposizione, ma l’apertura di uno spazio di possibilità, di un diverso modo di relazionarsi col mondo. Nel non lavoratore emerge una dimensione primitiva dell’essere umano che è la sua dimensione infantile, nella quale si coniugano strettamente l’essere “in potenza” e l’essere “im-potenza”, la più ampia possibilità e la più radicale fragilità: a partire da questo nodo paradossale si può valutare in che senso i nostri eroi realizzino il loro essere “soggetti rotti” (p. 167).

Con la passività di Bartleby saltano le certezze in favore di una “logica della preferenza” che si presenta come apertura a un indistinto possibile e che finisce col rovesciarsi in una statica impossibilità. «Così, il non preferire di Bartleby, puro conato di una possibilità che mai si realizza, si rovescia e finisce per coincidere con il suo contrario, con la possibilità consumata, col tentativo fallito, con l’occasione sprecata» (p. 168).
In Murphy il «silenzio della potenzialità corrisponde al rinchiudersi nello spazio autistico e mortifero dell’impossibilità, dell’incapacità, dell’inattività del corpo morto» (p. 168). In Wait «è l’impotenza esibita del marinaio la fonte del suo potere di seduzione nei confronti del resto della ciurma e il catalizzatore delle potenzialità di rivolta e messa in discussione dei rapporti di potere. Allo stesso tempo, questa esibizione di impotenza viene attratta in un doppio meccanismo di simulazione, di finzione della simulazione o di finzione al quadrato, nel quale la potenzialità inganna se stessa in un gioco di specchi» (pp. 168-169).
Pertanto, alle diverse modalità con cui questi personaggi del non lavoro «attraversano la dimensione del possibile, dunque – la logica della preferenza di Bartleby, la chiusura nel piccolo mondo di Murphy, la finzione al quadrato di Wait – corrispondono tre modi del suo decadere in impotenza: l’irrigidimento minerale, la dispersione magmatica, la dissoluzione in simulacri» (p. 169).

Dalle rappresentazioni di individui caratterizzati dal calo o dalla perdita delle loro funzionalità sembra emergere una dimensione dell’umano solitamente repressa nella cultura moderna «fondata sull’utilizzabilità e sull’utile», sulla «razionalità funzionale». Questi esseri umani non lavoratori, non funzionali, finiscono per essere trascinati all’interno di quel magma di oggetti dismessi nella letteratura moderna di cui si è occupato Francesco Orlando (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura: Rovine, reliquie, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, 1993).

Se questo represso “antifunzionale” viene a galla attraverso l’infittirsi di riferimenti alle molteplici forme del decadimento e del disuso nella letteratura, altrettanto potrà dirsi delle rappresentazioni del non lavoro. Il non lavoratore infatti assorbe e soggettivizza quanto nell’oggetto desueto si dà in forma oggettiva e oggettuale; il gesto con il quale schiva il lavoro rende non funzionale tutto quanto lo circonda, spogliando ogni cosa del suo essere mezzo in vista di un fine e considerandola, per tornare al gergo heideggeriano, nella sua “semplice-presenza”. Lasciando così che gli oggetti si svuotino della loro funzionalità e si perdano in un’universale decrepitezza, il rifiuto del lavoro trascina fra essi il soggetto, che rinuncia a ravvivarli con la propria attività: è quindi il non lavoratore stesso che si configura come “oggetto desueto”, uomo che ha cessato di servire la grande macchina del lavoro e della sua ideologia (pp. 169-170).

Bellini si sofferma anche sul rapporto tra scrittura e non lavoro a partire dalle possibili analogie tra le modalità con cui gli scrittori si specchiano nei loro personaggi e la tendenza romantica di cui parla Jean Starobinski (Portrait de l’artiste en saltimbanque, 2004) di vedere l’artista come un saltimbanco. Seguendo la linea tracciata da Georges Bataille, che vuole lo scrivere come opposto del lavorare, emergerebbe fra scrittori e non lavoratori «un’affinità profonda, una solidarietà radicale, che consiste in uno stesso modo di venerare e celebrare la vita in ciò che ha di più umile e prezioso, nel suo esporsi come esistenza nuda al di fuori di ogni produzione e produttività» (p. 189).

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Romanticismo e comunità umana https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/romanticismo-comunita-umana/ Wed, 18 Oct 2017 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41067 di Sandro Moiso

Michael Löwy – Robert Sayre, RIVOLTA E MALINCONIA. Il Romanticismo contro la modernità, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017, pp. 350, € 25,00

“E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” (Amadeo Bordiga)

Tra i tanti autori citati ed utilizzati da Löwy e Sayre nel testo, recentemente [...]]]> di Sandro Moiso

Michael Löwy – Robert Sayre, RIVOLTA E MALINCONIA. Il Romanticismo contro la modernità, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017, pp. 350, € 25,00

“E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” (Amadeo Bordiga)

Tra i tanti autori citati ed utilizzati da Löwy e Sayre nel testo, recentemente pubblicato da Neri Pozza, volto a ricostruire, in chiave dinamica ancor più che storiografica, le vicende e le contraddizioni del pensiero e della cultura romantica dal suo apparire fino all’alba del XXI secolo, Amadeo Bordiga non appare. Eppure la frase appena citata, tratta da uno scritto del 1965, potrebbe ben riassumere quella che si può a ragione ritenere la tesi centrale espressa nel loro lavoro.

Sintetizzandola all’estremo si potrebbe infatti così riassumere: i rivoluzionari moderni, compresi quelli di tendenza marxista, a partire dalla metà dell’Ottocento e fino a tutto il XX secolo si sono ispirati al Romanticismo più radicale nella critica della modernità capitalistica e nel fare ciò hanno riscoperto la comunità umana che caratterizzava la specie nell’antichità. Un’affermazione forte che coinvolge personaggi del calibro di Karl Marx. Friedrich Engels, Rosa Luxemburg, Ernst Bloch, Raoul Vaneigem. Solo per citarne alcuni.

Michael Löwy , sociologo e filosofo francese di ispirazione marxista , e Robert Sayre (1933 – 2014), sociologo e professore emerito di Inglese presso l’Università dello Iowa, affrontano nel testo, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1992, le contraddizioni e la vitalità del Romanticismo dando soprattutto risalto a quelle componenti filosofiche, artistiche e politiche che ne sottolinearono fortemente la componete di rivolta contro la modernità.

Rivolta contro la modernità che se da un lato fini col caratterizzarne anche gli aspetti più retrogradi e di maggior rimpianto nei confronti di società feudali ferreamente divise in caste e caratterizzate da un peso insopportabile della religione cristiana e delle sue gerarchie ecclesiastiche, dall’altro servì a contenere e ridimensionare una concezione illuministica del progresso tesa ad esaltare il razionalismo borghese, soprattutto nei suoi aspetti economici, e l’individualismo egoistico che ne derivava.

Non è certo un caso dunque che, all’interno del libro, il capitolo dedicato all’excursus su Marxismo e Romanticismo sia centrale e che, allo stesso tempo, nel capitolo intitolato “Il fuoco arde ancora: il Romanticismo dopo il 1900” uno spazio non secondario sia dedicato al Maggio ’68.
D’altra parte nel suo lungo percorso di studioso Michael Löwy, discendente di ebrei viennesi e nato in Brasile, si stabilì definitivamente a Parigi dopo un periodo trascorso a Tel Aviv dove le sue idee politiche gli causarono non poche difficoltà con il mondo accademico.

Tra le sue opere vanno infatti segnalati diversi testi dedicati all’indagine sul giovane Marx e su altri rivoluzionari e movimenti di opposizione al modo di produzione capitalistico, 1 mentre Robert Sayre si è distinto durante la sua vita sia per l’azione a favore dell’inclusione nella letteratura americana degli scritti dei Nativi Americani e della relazione esistente tra gli scrittori del canone letterario nord-americano e la cultura dei Nativi, sia per la sua azione pubblica contro la guerra in Vietnam nel corso degli anni Sessanta e Settanta e successivamente per quella ecologista e in difesa dell’ambiente.

Con percorsi intellettuali di questo tipo, era dunque impossibile che i due autori non cogliessero nel discorso romantico sulla Natura e nel rimpianto della comunità perduta2 un fattore straordinario di rottura con il modo di pensare e di interpretare il mondo del moderno capitalismo, della sua cultura e dei suoi rappresentanti intellettuali.
Discorso che vale la pena di riscoprire ancor di più oggi, nel momento in cui ogni forma di resistenza alla distruttività dell’ordine economico e sociale basato sulla produzione di merci e sull’estrazione di plusvalore viene definito antiquato, superato, ignorante e passatista.3

“Apparentemente Marx non aveva nulla in comune con il romanticismo […] Nel Manifesto del Partito comunista (1848) rifiuta come «reazionario» qualunque sogno di tornare all’artigianato o ad altri modi di produzione precapitalistici e celebra il ruolo storicamente progressista del capitalismo industriale […] Elogia il capitalismo anche perché ha lacerato i veli che nascondevano lo sfruttamento nelle società precapitalistiche, ma è un elogio che comporta una punta di ironia […] Marx non ignora il rovescio di questa medaglia «civilizzatrice»; con un procedimento tipicamente dialettico considera il capitalismo un sistema che «trasforma ogni progresso economico in una pubblica calamità». E’ appunto nell’analisi delle calamità sociali causate dalla civiltà capitalistica – nonché nell’interesse per le comunità precapitalistiche – che Marx si ricollega, almeno in una certa misura, alla tradizione romantica”.4

A parte l’apprezzamento per autori come Balzac, Dickens, Charlotte Brontë ed Elizabeth Gaskell, di cui Marx giungerà a dire nel 1854:

“La splendida confraternita degli attuali romanzieri inglesi, le cui pagine vivide ed eloquenti hanno consegnato al mondo più verità politiche e sociali di quante non ne abbiano pronunciate i politici i professione, i pubblicisti e i moralisti messi insieme”.5

I due autori furono particolarmente attratti dai primi studi etnologici, sulle comunità antiche o primitive, fatti da autori come Morgan e Maurer.

In particolare Engels trasse dagli studi di Maurer sulla comunità rurale germanica (Mark) spunti per il suo scritto sulla Marca che avrebbe dovuto funzionare come proposta per il programma socialista per le campagne. Andando oltre Maurer che gli sembrava ancora troppo influenzato dall’evoluzionismo di stampo illuministico.

“In una lettera a Marx del 1882 lamenta che in Maurer persista il «pregiudizio illuministico che dopo l’oscuro Medioevo debba ver avuto luogo un costante progresso al meglio.Ciò gli impedisce di vedere il carattere antagonistico del progresso reale, ma anche le singole ripercussioni». Questo passo ci sembra una sintesi alquanto precisa della posizione fondamentale di Engels e Marx su tale problematica: 1. rifiuto del «progressismo» lineare e ingenuo, quando non apologetico, che considera la società borghese universalmente superiore alle forme sociali precedenti; 2. insistenza sul carattere contraddittorio del progresso che il capitalismo ha indiscutibilmente comportato; 3. giudizio critico sulla civiltà industriale-capitalistica in quanto rappresenta per certi versi un passo indietro, dal punto di vista umano, rispetto alle comunità del passato […] Engels insiste sul regresso che la «civiltà» rappresenta, in una certa misura, rispetto alla comunità primitiva”.6

Marx in particolare non avrebbe smesso, fino alla fine dei suoi giorni, di occuparsi sia delle società indigene pre-coloniali (soprattutto in India) sia della comunità contadina in Russia (obščina), mettendole sempre a confronto con i disastri causati dal colonialismo e dall’avanzare del modo di produzione capitalistico in quelle aree e augurandosi, addirittura, nel caso dell’obščina che questa potesse sopravvivere a seguito di una rivoluzione in Occidente.

Sarà soltanto

“nella lotta contro il populismo russo che nascerà, verso la fine del XIX secolo, in particolare con gli scritti di Georgij Valentinovič Plechanov, un marxismo radicalmente antiromantico, modernizzatore, evoluzionista e pieno di incondizionata ammirazione per il progresso capitalistico-industriale”.7

Che vedrà poi il suo pieno sviluppo nelle socialdemocrazie della Seconda Internazionale e dello stalinismo.

Anche in Rosa Luxemburg è possibile trova la stessa passione per le comunità primitive, che non esita a definire società comuniste primitive, e per la loro contrapposizione alla società mercantile capitalistica.

“Da una parte appare chiaro che Rosa Luxemburg vede nell’esistenza di queste antiche società comuniste un modo per mettere in crisi e addirittura distruggere «la vecchia concezione del carattere eterno della proprietà privata e della sua esistenza dall’inizio del mondo». E’ per incapacità di concepire la proprietà comune e per incapacità di comprendere tutto ciò che non assomiglia alla civiltà capitalistica che gli economisti borghesi hanno rifiutato con ostinazione di riconoscere il fatto storico della comunità. D’altra parte il comunismo primitivo è ai suoi occhi un punto di riferimento storico prezioso per criticare il capitalismo, svelare il suo carattere irrazionale, reificato, anarchico ed evidenziare la contrapposizione radicale fra valore d’uso e valore di scambio. Si tratta quindi di trovare e «salvare», del passato primitivo, tutto ciò che può, almeno fino ad un certo punto, prefigurare il socialismo moderno: un atteggiamento tipico della visione romantica (rivoluzionaria).”8

Nella sua interpretazione, ispirata dagli scritti di Lewis Morgan che già avevano affascinato Marx ed Engels,

“la civiltà attuale «con la sua proprietà privata,la sua dominazione di classe, la sua dominazione maschile, il suo Stato e il suo matrimonio obbligatorio» appare come una semplice parentesi, una transizione fra la società comunista primitiva e la società comunista del futuro […] In questa prospettiva la colonizzazione europea dei popoli del terzo Mondo le sembra per essenza un’impresa socialmente distruttiva e disumana […] «Per tutti i popoli primitivi dei paesi coloniali il passaggio dallo stato comunista primitivo al capitalismo moderno è intervenuto come una catastrofe improvvisa, come una sventura indicibile piena delle più spaventose sofferenze». A suo avviso, la lotta indigena nelle colonie contro la madrepatria imperiale è una resistenza tenace e degna di ammirazione, di vecchie tradizioni comuniste contro la ricerca del profitto e l’«europeizzazione» capitalistica”.9

Riflessione che sarà poi sintetizzata da Amadeo Bordiga quando affermerà che per tutto quanto riguarda la questione coloniale i rivoluzionari devono sempre schierarsi dalla parte della «zagaglia barbara».

L’ultimo autore, tra i tanti trattati nel testo di Löwy e Sayre, a svolgere una funzione importante per comprendere le sopravvivenze del Romanticismo all’interno delle teorie rivoluzionarie moderne è Ernst Bloch.

“L’opera di Bloch illustra in modo significativo un paradosso che sta al cuore di tutto il romanticismo rivoluzionario: come può un pensiero che si vuole totalmente orientato verso il futuro utopico attingere dal passato il nocciolo della sua ispirazione? […] Bloch non guarda in via prioritaria ai modi di vita e alle condizioni sociali premoderni; i punti di riferimento del suo progetto utopistico sono soprattutto i sogni ad occhi aperti, le aspirazioni anticipatrici e le promesse non realizzate trasmesse dalle culture del passato”.10

E nel fare ciò si spinge molto avanti nella critica dell’immaginario moderno e dell’uso che ne è stato fatto dalla sinistra degenerata e dalla destra fascista e nazista. La critica di Bloch al «marxismo volgare» del KPD (Kommunistische Partei Deutschlands) e, implicitamente ai sovietici, parte dal presupposto che :

“«Il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza è andato troppo lontano» abbandonando al nemico il mondo dell’immaginazione. Troppo astratti, di un razionalismo troppo angusto e volgarmente libero pensatore, fautori di un materialismo non abbastanza distante dal miserabile «materialismo» degli imprenditori capitalisti, la sinistra tedesca e il KPD in particolare non sono stati in grado di sconfiggere il fascismo nella lotta per la conquista politica e culturale dei ceti «non contemporanei». Il loro economicismo ha permesso al romanticismo retrogrado di far accettare da queste classi l’«assurdità di non vedere nel liberalismo e nel marxismo se non «le due facce della stessa medaglia» […] Così il millenarismo, dimensione autentica di numerose utopie rivoluzionarie – poiché «il desiderio di felicità non si è mai ritratto,in un futuro vuoto e totalmente nuovo», ma implica spesso il sogno di un paradiso perduto (costruito con i ricordi della comunità primitiva) ritrovato nel futuro millenario – non può essere confuso con la miserabile caricatura del «Terzo Reich» hitleriano”.11

Una visione, quella di Bloch, che si oppone non solo all’idea di ordine dell’estrema destra, ma anche

“al produttivismo burocratico dissennato, al culto dell’industria pesante e al materialismo volgare che caratterizzano tanto la pratica quanto l’ideologia del regime sovietico”.12

Visione produttivistica e modernista che sarà ripresa invece, come ben dimostra l’ultima parte del libro, da molti intellettuali di sinistra che scoprono

“molto dopo gli ideologi americani della Guerra Fredda, che il paradiso esiste già, hic et nunc, e cominciano a cantare le lodi della modernità in tutti i suoi aspetti, il liberalismo, comprese le sue forme più «avanzate» (il tatcherismo-reaganismo), la logica del diritto e della politica dei paesi occidentali, l’industrialismo, il postindustrialismo (il regno dell’alta tecnologia), la società dei consumi ecc.”13

Motivo per cui questo testo, per quanto concepito e scritto ormai da un quarto di secolo, si rivela ancora estremamente utile per la comprensione e la critica radicale delle contraddizioni del presente.


  1. Solo per citarne alcuni, con relative traduzioni in lingua italiana cfr:
    La Pensée de «Che» Guevara, 1970 (Feltrinelli 1969)
    La théorie de la révolution chez le jeune Marx, 1970 (Massari 2001)
    Dialectique et révolution: essais de sociologie et d’histoire du marxisme, 1974
    Pour une sociologie des intellectuels révolutionnaires: l’évolution politique de György Lukacs, 1909-1929, 1976 (Salamandra 1978)
    Marxisme et romantisme révolutionnaire, 1979
    Rédemption et utopie: le judaïsme libertaire en Europe centrale: une étude d’affinité élective, 1986 ( Bollati Boringhieri 1992)
    L’insurrection des “Misérables”: révolution et romantisme en juin 1832, (con Robert Sayre), 1992
    Patries ou Planète? Nationalismes et internationalismes de Marx à nos jours, Lausanne, 1997
    L’Étoile du matin: surréalisme et marxisme, 2000 ( Massari 2001)
    Walter Benjamin: avertissement d’incendie. Une lecture des thèses sur le concept d’histoire, 2001 ( Bollati Boringhieri 2004)
    Franz Kafka, rêveur insoumis, 2004 (Eleuthera 2007)  

  2. Si pensi, anche se non viene esplicitamente citato nel testo, il discorso leopardiano, contenuto nell’ultima poesia dell’autore di Recanati La ginestra o il fiore del deserto, sulla necessità per gli uomini del secolo superbo e sciocco (l’Ottocento) di tornare ad unirsi in social catena come erano stati costretti a fare i loro antenati preistorici  

  3. Basti pensare ai termini in cui, ancora troppo spesso, viene trattata dai media la resistenza No Tav oppure di chi difende la coltura “tradizionale” degli ulivi in Puglia  

  4. pp.141-143  

  5. pp. 144-145  

  6. pp. 147-148  

  7. pag. 148  

  8. pag. 157  

  9. pp. 159-161  

  10. pp.293-294  

  11. pp. 305-306  

  12. pag. 317  

  13. pag. 325  

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L’Internazionale Situazionista: merce, desiderio e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2017/07/17/linternazionale-situazionista-merce-desiderio-rivoluzione/ Mon, 17 Jul 2017 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39328 di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo [...]]]> di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.

Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
Nel corso degli anni Marelli ha pubblicato sull’argomento “L’ultima internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica” (Bollati Boringhieri 2000) e “Una bibita mescolata alla sete” (BFS Edizioni 2015). Inoltre ha curato, per il secondo volume de “L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico” (Jaca Book 2011), la voce “L’Internazionale Situazionista” ed ha sviluppato la sua riflessione sulla stessa attraverso una grande varietà di saggi e contributi pubblicati in volumi collettanei e su riviste, sia cartacee che online.

A darci la cifra della passione dell’autore per l’argomento basterebbero le poche parole poste al termine del Prologo, quando ricordando lo smarrimento provato in seguito alla notizia del suicidio di Guy Debord, che del movimento era stato il profeta e il leader indiscusso, mentre si trovava a Parigi con la speranza (vana?) di incontrarlo, scrive: “Improvvisamente il tempo, a Parigi, era cambiato. Faceva freddo e da allora non smise più”.

Ma la passione di Marelli si lega pure ad una grande lucidità che, a differenza di altri tardivi o antichi estimatori dell’Internationale Situationniste, gli permette di analizzare quanto è rimasto di vivo e quanto invece è stato riassorbito dalle logiche del potere e dalla società capitalistica di quella, pur vivacissima, esperienza. Come lui stesso ha affermato; “L’amara sconfitta del situazionismo e il bisogno di evitare la noia di un REFRAIN pro-situazionista sono concetti tutt’ora validi. Si tratta di ANDARE OLTRE. Come, del resto, avrebbe voluto lo stesso Guy Debord.

L’esperienza situazionista era nata dai fermenti dell’arte d’avanguardia successiva al secondo conflitto mondiale e dalle teorie critiche che, già dalla seconda metà degli anni ’40 del Novecento, avevano aggredito violentemente sia le passate esperienze surrealiste e dadaiste che l’urbanistica razionalizzante di Le Corbusier e la banalità della vita quotidiana, ridotta a sopravvivenza e a trionfo dell’ordine economico e sociale borghese, che i riti del consumo e le stesse strutture urbanistiche finivano con l’esaltare.

Un percorso che dal Lettrismo di Isidore Isou passerà, tramite rotture, separazioni ed espulsioni che ne caratterizzeranno sempre il cammino fino alla dissoluzione formale, attraverso la successiva Internazionale Lettrista (in cui sarà già preminente la figura di Debord), il movimento COBRA e il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista. Sarebbero stati questi tre movimenti, inizialmente separati, ad incontrarsi con altri artisti nel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi, tenutosi ad Alba dal 2 all’8 settembre 1956, e a porre le basi per la Conferenza del 1957 da in cui l’Internationale Situationniste sarebbe poi nata.

E’ una storia di correnti artistiche e urbanistiche radicali e di uomini, spesso di singoli individui, quella che caratterizza le origini del Situazionismo. E questo aspetto viene sottolineato dall’autore che, al contempo però, rifiuta di ricostruire le singole vicende individuali per dare più spazio invece alle formulazioni teoriche prodotte e ai risultati raggiunti dall’insieme dei suoi componenti (spesso momentanei).

Certo non mancano le figure di rilievo nella ricostruzione di Marelli. Dallo stesso e onnipresente Debord a Pinot Gallizio, dall’olandese Constant, a Raoul Vaneigem, Asger Jorn, Gianfranco Sanguineti e molti altri che occuperebbero qui, in una recensione, troppo spazio se fossero tutti elencati. Ma come ha scritto Marelli in altro contesto: ”La tendenza a raccontare non più LE PERSONE CHE FANNO STORIA (ce ne sono, fidatevi) ma LA STORIA DELLE PERSONE, ha impresso alla memorialista un carattere confidenziale, da fotoromanzo, che esaspera l’intimità personale fino a farla USCIRE DA SÉ IN UN’ESTASI ESPLICATIVA DEL TUTTO COLLETTIVO, così da “finalmente comprendere come i fatti andarono per davvero”. La problematica va trattata GENTILMENTE, sostenendone l’importanza, evidenziandone la particolarità, cogliendone le ambiguità, ma senza mai scadere nell’OLEZZO DI LENZUOLA STROPICCIATE”.1

Il personalismo delle vicende narrate conta per quanto ha potuto influire sul percorso e le rotture in seno al movimento e non certo per stuzzicare il voyeurismo del lettore. In fin dei conti l’”ultima” Internazionale era nata in un ambiente artistico ed intellettuale ristretto in cui le mire e le aspirazioni personali, anche se travestite in alcuni casi da critica radicale, finirono spesso col determinare quelle rotture e dimissioni di cui si è precedentemente parlato ancor più che le vicende del contesto socio-politiche circostante.

Vicende storiche e politiche che, però, non furono mai estranee alle vicende del Movimento. Basti pensare che le tre fasi più significative della storia dello stesso incrociarono fatti e vicende estremamente significative per il successivo sviluppo dei movimenti rivoluzionari.

Il 1956 con la rivolta d’Ungheria e la crisi “formale” dello Stalinismo corrispose a quel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi che vide i partecipanti esprimersi, in alcuni casi, contro gli apparati burocratici e senescenti dei partiti presunti proletari e a favore di una visione consiliarista della lotta politica.

Il 1968 con l’insurrezione generalizzata degli studenti e dei giovani prima e di una parte significativa del mondo operaio poi, che vide il trionfo delle teorie situazioniste sulla necessità di fare la rivoluzione a partire dal rovesciamento delle strutture della vita quotidiana e dal rifiuto della mercificazione di ogni attività umana.

Gli anni compresi tra l’inizio dei Settanta e il 1977, periodo in cui il Situazionismo si sgretolò organizzativamente proprio nel momento in cui le sue idee sembravano diffondersi sempre più attraverso i mille rivoli e le mille formulazioni dei movimenti di rivolta che avevano, in alcuni casi, superato le divisioni causate dalle camarille politiche e sindacali falsamente di sinistra. Troppo spesso falsamente estremiste.

E’ un ben strano destino quello che vede il Situazionismo agonizzare proprio nel periodo in cui le sue critiche più audaci agli ambienti “militanti” dell’estremismo parolaio sembravano aver maggiormente attecchito a livello di massa . Ma anche quello fu solo un momento nel lungo cammino della liberazione della specie visto il rapido riformarsi delle sette e delle burocrazie (spesso clandestine) proprio all’apice di quei movimenti. Il quotidiano tornava in cantina e le “organizzazioni” in quanto partiti o gruppi armati riprendevano il sopravvento.

Ora, anche se nel testo l’attenzione per il “fallimento” degli ideali situazionisti e dei loro rappresentanti occupa un discreto spazio (si pensi soltanto all’aggettivo “amara” che accompagna la parola “vittoria” nel titolo), vale forse la pena qui di sottolineare almeno alcuni degli elementi che caratterizzano ciò che l’autore definisce come L’oro situazionista, ovvero l’eredità che Vaneigem sintetizzò così ironicamente: “tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo [che] si trova ripreso ovunque, tranne l’essenziale”.2

In mezzo ai tanti credo valga la pena di riprenderne almeno quattro, i primi due già presenti nel Rapport sur la construction des situations e sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste internationale, scritto da Debord nel maggio del ’57 e stampato a Bruxelles nel giugno, in vista della Conferenza di unificazione del luglio successivo.

1) La Borghesia in fase di liquidazione

All’epoca una critica delle difficoltà della borghesia e del capitalismo di mantenere in vita i propri valori attraverso una cultura, un’arte e scelte politiche ormai superate, anche e proprio quando volevano presentarsi come “moderne”. Un concetto che superava in qualche modo e allo stesso tempo arricchiva la concezione marxista della crisi del capitalismo inteso come mero fatto economico e che coinvolgeva nella sua critica sia i paesi del “capitalismo avanzato” che quelli del “socialismo reale”. Una concezione che oggi, a sessant’anni di distanza, non mostra solo la sua utilità sul piano della critica culturale ma, e soprattutto, nel momento in cui gli strumenti di rappresentanza del potere politico borghese (i parlamenti, i governi e gli stati nazionali) sembrano aver perso qualsiasi valore effettivo. Trasformandosi soltanto in mere ed appassite funzioni del capitale finanziario sovranazionale. Liquidati definitivamente non dalla rivoluzione proletaria, ma dalla globalizzazione che ha dimostrato l’inutilità dei confini e delle separazioni nazionalistiche.

2) Far retrocedere dappertutto l’infelicità

Contro l’idea di felicità borghese, fin dagli inizi il situazionismo rivendicò l’enorme potenziale di scoperta di nuovi desideri e reali motivi di felicità insita nelle lotte e nelle rivolte. Nel détournement dei significati e nella costruzione di situazioni soggettive, e molto meglio se collettive, tese a ribaltare e ad utilizzare differentemente gli spazi della vita quotidiana, architettonici, urbani e psichici. La felicità connessa agli ideali borghesi e piccolo-borghesi non può rappresentare altro che la base reale dell’infelicità collettiva, soprattutto laddove l’alienazione umana legata al lavoro e al consumo (in tutti i suoi multiformi aspetti) viene mascherata da normalità o ancor peggio da “realizzazione soggettiva”. E’ chiaro quindi che la felicità vera può realizzasi soltanto nel momento in cui la lotta contro il modo di produzione capitalistico non si limita al mero fatto o rivendicazione di carattere economico-riformistico, ma trasforma l’ambiente sociale e le mentalità che ne sono il prodotto, rifiutandone in primo luogo la mercificazione. Una rivoluzione in permanenza dello stile di vita e dell’organizzazione culturale (intendendo qui il termine cultura nel suo senso più ampio di norme, conoscenze, abitudini, etiche ed estetiche) più che una monolitica rivoluzione politica è quella che si può intravedere nella proposta situazionista fin dalle origini. Proposta messa collettivamente ed inconsciamente in atto da tutti movimenti autenticamente rivoluzionari (dalla Comune a quelli del maggio ’68 e degli anni successivi). Una rivoluzione che vive e cresce nelle lotte, ma che è soffocata dai partiti e dagli Stati, anche quando si definiscono proletari o indipendenti.

3) La proletarizzazione del mondo

Secondo la concezione situazionista “la società del benessere, nel cercare di integrare il proletariato ai valori dominanti, aveva ampliato il proprio dominio sulla vita trasferendo all’esterno dei rapporti di produzione le condizioni di alienazione/separazione che la produzione della merce aveva da tempo sussunto nel lavoro, e che ora il consumo della merce prodotta replicava fedelmente nel tempo libero. Per i situazionisti, quindi, la stessa definizione di proletariato, non era più delimitata dall’attività lavorativa compiuta nel sistema produttivo capitalistico, ma riguardava ormai l’intera vita degli individui che era espropriata e sfruttata (al fine di riprodurla come merce) all’interno dei processi di valorizzazione e scambio della merce; ogni individuo espropriato della propria vita – vale a dire, ormai privo della possibilità di controllarla e guidarla oltre gli imperativi economici dettati dalla produzione e dal consumo capitalistico – era dunque un proletario, e la cosiddetta società del benessere non solo (come invece sostenevano i sociologi di «Arguments») non aveva migliorato, superandola, la condizione proletaria dei ceti subalterni, ma addirittura aveva proletarizzato l’intera società.[…] l’Internationale Situationniste osservava che il processo di proletarizzazione della società concerneva non soltanto il diffondersi di questa divisione nel mondo produttivo, ma ben più l’affermarsi di un sistema economico che creava condizioni di alienazione/separazione del vissuto quotidiano, quali fattori di dominio totalizzante compiuto dalla merce nel mondo.3 La proletarizzazione completa dei paesi a capitalismo avanzata passa dunque attraverso il consumo (di merce, tempo libero, spettacolo) più che attraverso il bisogno e torna a trasformare il proletariato in classe deprivata (oggi anche del potere di consumare) pronta a lavorare in qualsiasi condizione e per qualsiasi salario.

4) La società dello spettacolo

Resta per molti questo l’assunto fondamentale della teoria situazionista, magistralmente esposta nel testo di Guy Debord dallo stesso titolo. Ciò che più conta in esso, e che spesso non è colto a fondo, è il fatto che tale spettacolarizzazione della realtà sociale non tocca soltanto la fascinazione esercitata dalla merce o l’azione giaculatoria ed ossessiva esercitata dai media in tutti i campi ma, e soprattutto, l’immagine e il ruolo del proletariato all’interno della società.
La nozione di spettacolo – adottata dai situazionisti per definire la società contemporanea e il suo sistema di dominio diffuso (nei regimi capitalisti), e concentrato (nei regimi totalitari) – concretizzò il concetto per cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»; di modo che l’alienazione/separazione degli individui dalla propria vita quotidiana espresse nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione della merce nel mondo, divenuto il mondo della merce. Lo spettacolo – vale a dire «il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori» – divenne quindi la chiave interpretativa della realtà contemporanea che consentì ai situazionisti di elaborare una teoria critica della vita quotidiana quale cartina di tornasole per rilevare la necessità del proletariato di assurgere a classe della coscienza; classe della coscienza delle proprie condizioni di alienazione, separazione, prodotte dalla società dello spettacolo e perpetuate grazie – soprattutto – ai suoi rappresentanti di classe, il partito e il sindacato. Il processo di estraniazione rifletteva così la condizione proletaria sia nei confronti del sistema di dominio, sia nei confronti del sistema ad esso antagonista, rappresentato dalle istanze “rivoluzionarie” dell’ideologia marx-leninista, che specularmente separavano il proletariato dalla propria coscienza per divenirne i padroni della sua coscienza; rappresentato dal partito-guida, il proletariato era così alla mercé dei “rivoluzionari di professione”, il cui compito non era l’abolizione del proletariato in quanto classe del capitale, ma l’affermazione del proprio potere di classe burocratica sul proletariato. Ecco perché, a parere dei situazionisti, la critica ai regimi comunisti non poteva essere una critica che si limitava a correggere gli errori compiuti dal partito nella gestione dello stato, ma doveva essere una critica che individuava nel partito, nello stato i medesimi processi di alienazione/separazione che il proletariato subiva nella società capitalista, perché speculari – anche se in negativo – alla stessa rappresentazione spettacolare del proletariato che doveva essere combattuta sia nei paesi capitalisti, sia nei paesi «socialisti».4

Alla fine i fili si riannodano tutti: critica del quotidiano, dell’estraniazione, del lavoro coatto, della merce e della reificazione dell’esistenza, in un quadro in cui “La necessità di «reinventare la rivoluzione» divenne per l’Internationale Situationniste il criterio prioritario per riconoscere le forze agenti che avrebbero trasformato il mondo, riconoscendosi, di conseguenza, nella pratica radicale delle loro azioni. I fenomeni che nelle società industrialmente avanzate raffiguravano il rifiuto ai valori della produzione e del consumo, così come la disaffezione nei confronti delle forme rappresentative della politica (il partito, il sindacato, lo stato) furono assunti dai situazionisti come conferma delle proprie ipotesi teoriche, anzi come realizzazioni pratiche delle idee elaborate. Il «rifiuto del lavoro», che gli strati marginali e giovanili nella metà degli anni ’60 – soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni – manifestavano come forma di contestazione radicale al sistema, catturò l’interesse dei situazionisti al punto che essi vi videro una conferma parziale (in quanto non ancora organizzata) delle possibilità di superamento rivoluzionario delle condizioni economiche attuali.5.

Forse alcuni di questi assunti sembrerebbero giovare al capitalismo odierno, eppure, eppure…
Nonostante i transfughi, nonostante i fallimenti, nonostante tutto ciò che ha potuto essere riassorbito e riciclato dal modo di produzione dominante, e che Marelli segnala con lucidità a tratti spietata, un po’ di oro è rimasto e proprio questo libro può aiutarci a riscoprirlo per trarne l’essenziale.

Il recensore si scusa in anticipo per i limiti imposti dallo spazio di una recensione, ma il testo di Marelli resta indispensabile ancora oggi e sarà anche compito del lettore individuare e magari utilizzare ancora nel presente, apparentemente così lontano e contemporaneamente così simile al mondo in cui l’Internationale Situationniste ebbe modo di sparare le proprie bordate e di affermarsi come strumento fondamentale della critica radicale, oltre a quelli fin qui accennati, molti altri temi ancora utili per demolire le mitologie più perniciose e stridenti dell’esistente e della sua pretesa e fasulla modernità.


  1. Valga come esempio, per tutti, il recente testo di Donatella Alfonso, Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione nasce il Situazionismo, il melangolo, Genova 2017. Un libro che sembra considerare la fondazione dell’I.S. un incidente casuale durante un’allegra bisboccia, il cui capo era solito fin dal mattino bersi almeno un litro di vino. Narrando così che, in uno sperduto e spopolato paesino dell’entroterra savonese, improvvisamente le cantine furono prese d’assalto da uno sparuto manipolo di situazionisti. Magari sbagliando anche la data e fissando la Conferenza nel luglio del 1958 invece che del 1957!  

  2. cit. in Marelli, pp.423-424  

  3. Marelli, pp. 404–405  

  4. Marelli, pp. 404-405  

  5. Marelli, pag. 405  

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