Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.
Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito [...]]]>
Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.
Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito gli elementi distintivi e ricorrenti caratterizzanti l’immaginario emigrazionistico nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, elementi successivamente ripresi e inaspriti dal fascismo con l’intenzione di esprimere una decisa contrarietà nei confronti di tutti quegli italiani che abbandonavano la patria. Tra le opere letterarie che maggiormente hanno contribuito a costruire tale immaginario relativo alle migrazioni si possono indicare gli scritti di Edmondo De Amicis quali la poesia Gli emigranti (1881), il racconto Dagli Appennini alle Ande – contenuto nel romanzo Cuore (1886) – ed il reportage giornalistico romanzato Sull’Oceano (1889), i poemetti pascoliani Italy. Sacro all’Italia raminga (1904) e Pietole (1909), oltre alla novella pirandelliana L’altro figlio (1923).
Edmondo De Amicis, autore che ha affrontato l’epopea dell’emigrazione italiana di fine Ottocento verso le Americhe attraverso registri che vanno dal reportage di viaggio, al romanzo popolare fino alla poesia, in Sull’Oceano racconta l’attraversata transoceanica, compiuta alcuni anni prima, che gli ha consentito sia di osservare gli italiani a bordo di una grande nave durante il lungo viaggio sia di raccogliere testimonianze circa i loro stati d’animo di migranti che si allontanano dalla terra d’origine.
Lo scrittore descrive l’imbarco degli emigranti nel porto di Genova tratteggiando le differenze sociali dei passeggeri, la miseria dei più, la commozione e l’angoscia al momento della partenza.
Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo [il piroscafo], congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. […] Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. […] Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano […] Finalmente s’udiron gridare i marinai a poppa e a prua ad un tempo: – Chi non è passeggiere, a terra! Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro del Galileo. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, la scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si cominciò a movere. Allora delle donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. A questa commozione contrastava stranamente la pacatezza dei saluti che scambiavano i marinai e gli ufficiali con gli amici e i parenti raccolti sulla calata, come se si partisse per la Spezia
Nel descrivere “L’Italia a bordo” De Amicis, oltre a soffermarsi su come la promiscuità forzata a cui sono sottoposte le famiglie funzioni da acceleratore di tutte quelle dinamiche conflittuali determinate dalla difficile convivenza, si dilunga anche sulla specifica composizione sociale delle diverse classi di viaggio.
Per effetto dell’agglomerazione in cui erano costretti a vivere […] quella moltitudine di emigranti dava luogo, nel corso di pochi giorni, a una molteplicità e varietà di casi psicologici e di fatti, quale appena suol darla a terra, nello spazio di un anno, una popolazione quattro volte maggiore […] Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe […]. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] Della Liguria il contingente solito […] diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. […] Nella terza classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia
Dal racconto emergono anche notizie circa le incombenze burocratiche e le particolari tipologie contrattuali con cui sono sfruttati gli emigranti dagli stati in cui approdano.
tutta la popolazione del Galileo si dava moto, perché se il tempo durava bello, si sarebbe arrivati in America la sera dopo, forse ancora in tempo per isbarcare, e bisognava preparar le robe con comodo, e intendersi un po’ tra amici e conoscenti intorno al da farsi. L’affare più grave era l’iscrizione per lo sbarco, il decidere, cioè, se convenisse di andare o no dal Commissario a farsi notare fra coloro che intendevan di valersi delle offerte del Governo argentino, il quale pagava le spese dello sbarco agli immigranti che lo chiedessero, e dava loro vitto e ricovero per cinque giorni, e a quelli che si recavano nelle provincie dell’interno, il viaggio gratuito. Quell’atto di farsi o non farsi iscrivere era chiamato dagli emigranti “dichiarar di voler essere o no con l’emigrazione”. Certo, i vantaggi erano grandi; ma eran grandi anche le diffidenze, poiché quella generosità del Governo (era un Governo!) dava a sospettare che vi si celasse qualche tranello, e che l’accettarla, fra l’altre cose, fosse un vincolare fin d’allora la propria libertà riguardo alla scelta dei luoghi e alle condizioni dei contratti. Ciò nonostante, i più accettavano
Raccontando l’imminente arrivo nel Nuovo mondo De Amicis trova modo di insistere su alcuni aspetti del carattere dei propri connazionali soffermandosi sul senso di dignità che, nonostante la miseria, caratterizza questa gente volenterosa di presentarsi in terra straniera con il necessario decoro e sulla tendenza ad ironizzare sull’italico pressapochismo. La parte finale è invece contraddistinta da un crescendo di retorica patriottica.
Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, che volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici […] tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo […] Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. E molti già s’indispettivano e si lagnavano. Come mai non si vedeva nulla? Gli ufficiali avevan dunque sbagliato i calcoli? La terra si sarebbe già dovuta vedere. Oramai non saremmo più arrivati in giornata. E Dio sa quando si sarebbe arrivati. — Piroscafi italiani! — era tutto detto: fortuna quando s’arrivava entro l’anno. E facevan delle allusioni maligne, quando passava un ufficiale, guardandolo di mal occhio […] — L’America! Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia […] al primo tumulto era seguito un grande silenzio. Tutti stavano con gli occhi fissi su quella striscia di terra nuda, dove non vedevano nulla, immobili e assorti […] come se al di là di quella macchia rossastra apparissero già al loro sguardo le vaste pianure su cui avrebbero curvato la fronte e lasciato le ossa. Pochi parlavano. Il piroscafo volava, la striscia di terra s’alzava e s’allungava. Era la costa dell’Uruguay. Non si vedeva né vegetazione né abitato. Parecchi che s’aspettavano di scoprire una terra maravigliosa, parevan delusi; dicevano: — Ma è tale quale come i paesi nostri […] cessato il primo effetto dell’apparizione […] scoppiò a prua un’allegrezza smodata […] Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là […] si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi (da E. De Amicis, Sull’Oceano, 1889).
Per quanto riguarda Giovanni Pascoli, il suo interesse per il fenomeno dell’emigrazione è testimoniato dal poemetto in due canti Italy. Sacro all’Italia raminga riprendente le vicende realmente accadute a due fratelli emigrati dalla Garfagnana in America che fanno ritorno in patria con la piccola Molly ammalata di tisi. I due fratelli sperano che l’aria di casa e le cure della nonna possano curare la bambina. Nonostante i problemi linguistici, che rendono difficoltosa la comunicazione tra Molly, che non conosce la lingua italiana, e la nonna, si crea tra le due un forte affetto. Tragicamente alla guarigione della piccola corrisponde l’ammalarsi, fino alla morte, della nonna ed a questo punto gli emigranti ripartono alla volta dell’America. Le difficoltà di comunicazione tra la nonna e la bambina permettono a Pascoli di sperimentare nel testo un curioso intreccio di parole ed espressioni inglesi, italo-americane e lucchesi. Nel Canto secondo, dove alla guarigione della bambina fa seguito la malattia mortale della nonna, Pascoli tratta del dramma di chi, trovandosi costretto a lasciare la propria terra, finisce per rifarsi un nido altrove. L’immagine del nido abbandonato dalla rondine-madre, ricorrente nelle opere pascoliane, viene qui utilizzata per rappresentare il dramma dell’emigrazione. Nell’opera viene stabilito un parallelismo tra la madre che desidera riunire a tavola i propri figli e la patria italiana – madre ancestrale – che con un suo grande ululo ai quattro venti richiamerà a casa il sui figli dispersi in terre lontane.
Il cinema muto attinge, dunque, da tali modelli letterari, enfatizzando gli elementi melodrammatici che presentano l’emigrazione come fenomeno di distacco traumatico dalla famiglia e del paese, come viaggio verso l’ignoto in cui è possibile perdersi per strada. Nella cinematografia italiana dei primi decenni del Novecento l’emigrazione appare decisamente contrassegnata da paura, lutto, fatalità e senso di colpa.
Al fine di ricostruite le modalità principali con cui il cinema italiano ha raccontato nel corso del tempo i fenomeni migratori risulta decisamente prezioso lo studio di Massimiliano Coviello curatore del lemma “Emigrazione” nel volume curato da Roberto De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Vol. 1, (Mimesis, 2014) [su Carmilla]. Sarà proprio all’analisi di Coivello che qui si farà costantemente riferimento.
Un’idea delle modalità di rappresentazione degli emigranti italiani nel cinema muto dei primi decenni del Novecento è data dai film L’emigrante (1915) di Febo Mari e Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi. L’opera di Mari, primo film italiano senza sottotitoli, narra il fallimento di un emigrante che, recatosi in Argentina per garantire un futuro migliore alla famiglia, si trova costretto a far rientro a casa, dopo essersi trovato a svolgere lavori dequalificati e malpagati e dopo essere incorso in un infortunio. Il film di Paradisi, che riprende palesemente l’opera deamicisana, viene realizzato con finalità educative e celebrative del sacrificio compiuto per la Patria e la famiglia. Il viaggio del protagonista verso l’Argentina alla ricerca della madre, che ha abbandonato la famiglia ed il paese in cerca di lavoro, è connotato da sentimenti quali lo sconforto e il senso di solitudine. Una volta giunto nel lontano paese, il giovane riesce a cavarsela di fronte alle tante avversità incontrate grazie a qualche intervento della provvidenza. Dopo tante peripezie il protagonista ritrova la madre gravemente malata in balia dei rimorsi provocati dalla scelta di abbandonare la famiglia.
Circa la rappresentazione degli emigranti italiani tra gli anni ’30 e primi anni ’40, secondo l’analisi di Coviello
il cinema di regime addosserà alla figura dell’emigrante non solo i rimorsi per aver abbandonato gli affetti familiari ma anche l’imprudenza di aver minato la coesione nazionale e aver tralasciato gli obblighi verso la patria, colpe che potranno essere espiate solo attraverso un ritorno dai tratti epici. Nel riportare gli emigranti in patria, il cinema del periodo fascista ha sfruttato meccanismi melodrammatici per costruire l’immagine di un Paese finalmente coeso in cui diventava possibile riscattarsi e progettare il proprio futuro (p. 320).
In tali narrazioni i soggetti che fanno ritorno al paese d’origine dimenticano i motivi per cui sono emigrati e si ritrovano nel loro spazio di partenza senza alcun problema di riadattamento e consapevoli delle grandi migliorie portate dal regime durante la loro assenza. «I film del periodo fascista che raccontano storie di emigrazione sono innanzitutto una risposta alla sua causa principale, ossia la mancanza di terre coltivabili. Prima attraverso le bonifiche e poi con l’impresa coloniale, il cinema contribuisce alla costruzione di un mito della terra nel quale trovare la soluzione ai drammi dell’emigrazione» (p. 321).
Il film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano viene girato per celebrare il decennale della Marcia su Roma ed affronta il periodo che intercorre tra il 1914 e il 1932, tentando di esaltare tanto il progresso industriale promosso dal regime quanto il mito contadino. La narrazione si sviluppa attorno alle vicende di una famiglia dell’Agro Pontino che passa dalla miseria nelle paludi insalubri alle bonifiche delle terre effettuate dal regime, dalla Prima guerra mondiale alla “vittoria mutilata” e dalla crisi economica di fine anni ’20 sino alla fondazione di Littoria, che consente agli emigranti di trovare un posto di lavoro ed un’abitazione. Forzano miscela materiale documentario e finzionale con intenti palesemente propagandistici e la narrazione tende ad essere scandita da alcuni elementi simbolici ricorrenti, come la bandiera italiana al cui cospetto avvengono le separazioni e le riunificazioni familiari. Come in altri film del periodo, la pellicola di Forzano insiste molto sul rapporto tra generazioni, al fine di mostrare il più possibile la continuità storica rispetto al passato.
Nel periodo coloniale, il fascismo, anche grazie al cinema, tende a riferirsi ai nuovi territori annessi come a lontane propaggini dell’Italia; il trasferimento in quelle terre remote viene pertanto presentato in maniera molto diversa rispetto agli spostamenti migratori verso altri paesi. Ad esempio, nel film Bengasi (1942) di Augusto Genina i coloni italiani che si oppongono alle truppe inglesi vengono presentati come difensori della madrepatria, della sua estensione coloniale.
Passaporto Rosso (1935) di Guido Brignone viene realizzato praticamente in concomitanza con l’inizio della campagna d’Etiopia. La pellicola è invece ambientata tra il 1890 ed il 1922 ed il titolo si riferisce proprio al documento di espatrio rilasciato dalle autorità agli emigranti. Il film è costruito su una serie di parallelismi tra gli eventi narrati e l’attualità coloniale, in modo da suggerire al pubblico una lettura dell’emigrazione come tappa necessaria, per quanto sofferta, in attesa del colonialismo fascista.
Il film narra le vicende di una coppia di emigranti italiani trasferirtisi in Argentina che si prodigano, insieme ad altri connazionali, nella fondazione della colonia Nueva Italia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il figlio dei due, che non ha mai messo piede in Italia, pur non intendendo mobilitarsi in favore della madrepatria, partirà per il fronte soltanto per sostituirsi al padre, invece intenzionato a partire nonostante l’età avanzata. Sarà la vita al fronte, sul Carso, a rivelare al giovane il significato ed il valore dell’essere italiano: «Mio padre aveva ragione, la patria l’abbiamo nel sangue». Caduto in combattimento, la medaglia al valore viene ritirata dal figlio che non ha fatto in tempo a conoscere. Ancora una volta nel cinema di epoca fascista si insiste sul passaggio di testimone tra le diverse generazioni.
Massimo Coviello, nella sua analisi, dedica spazio anche al film Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, in cui l’Africa Orientale diventa luogo d’incontro tra un padre emigrato per necessità, dopo aver servito la patria come aviatore nella Prima guerra mondiale, di cui si sono perse le tracce e suo figlio, anch’egli aviatore delle truppe fasciste e partito volontario in AOI. La guerra, nuovamente, diviene terreno di ricongiungimento generazionale. Per certi versi questa pellicola anticipa una serie di opere realizzate tra gli anni ’30 e ’40 che narrano storie sospese tra l’Italia e il continente latinoamericano, come La grande luce – Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Harlem (1943) di Carmine Gallone e Catene (1949) di Raffaello Matarazzo. «In tutti e tre i film, nel pieno rispetto della struttura melodrammatica, l’emigrazione è uno spazio intermedio, più o meno temporaneo, in cui i personaggi attraversano vari stadi di trasformazione, nell’attesa che la tragedia ceda il passo al lieto fine» (p. 327).
Secondo lo studioso i melodrammi e le commedie degli anni ’30 e ’40, più che narrare di veri e propri fenomeni di emigrazione, tendono a sfruttare episodi di migrazione circoscritti nel tempo e utili all’evoluzione del racconto fino alla risoluzione dei conflitti iniziali.
Dagli anni del muto al cinema del periodo fascista, dallo sguardo deamicisiano all’obbligo morale del ritorno, sino al melodramma migratorio: l’emigrante è rappresentato come un soggetto incapace di emanciparsi e di ricollocarsi nei contesti di arrivo. I suoi drammi non si esauriscono con l’arrivo e, al contrario, si amplificano attraverso la colpa dell’abbandono (dei propri familiari, della terra d’origine). Si dovrà attendere la fine degli anni quaranta e l’avvio dei flussi migratori verso i paesi dell’Europa del Nord, l’Australia e l’America Latina perché il cinema rimoduli i sentimenti connessi allo spostamento, rivendichi la loro dimensione politica e si apra ad un cammino della speranza (p. 330).
Con il cinema neorealista cambiano diverse cose, sia dal punto di vista delle finalità che intende darsi il cinema, sia da quello delle estetiche scelte per perseguirle. A proposito di ciò scrive Coviello:
Nel regime estetico inaugurato dal neorealismo si attua una simbiosi tra la macchina da presa e il personaggio: i confini tra mostrare e vedere, tra la cattura passiva da parte di un occhio meccanico e la capacità immaginativa che si insedia nell’atto della visione, tendono a confondersi e a sovrapporsi. A partire da uno sguardo erratico ma mai inconsapevole, le logiche narrative riproducono sullo schermo il vagabondaggio, la deambulazione e lo spaesamento dei soggetti all’interno di ambienti che, deformati dalla guerra, restano ancora da decifrare (pp. 332-333).
È una realtà spaesata, quella uscita dalla guerra, quella che si trova a presentare il cinema neorealista, dunque una realtà erratica e fluttuante che fatica ad essere, che non può essere, più di tanto orienta. I personaggi di queste pellicole sono per forza di cose deboli, spaesati, erranti; sono spesso spettatori delle trasformazioni in corso e tendono ad agire in base a ciò che si trovano di fronte senza un fine consapevole.
All’illusoria riscrittura della storia, alla strumentale edificazione di un’epopea capace di coniugare le grandi opere di bonifica e l’urbanizzazione all’interno del Paese con la spinta coloniale con cui il fascismo ha tentato di estirpare le radici dell’emigrazione all’estero, il cinema neorealista contrappone una configurazione narrativa che individua nell’atto del migrare – inteso come movimento dominato dall’incertezza del soggetto che lo compie, ricerca di nuovi spazi vitali, negoziazione e riconfigurazione delle identità in rapporto ai mutamenti sociali – una delle principali forze trasformatrici, dentro e fuori i confini italiani (p. 333).
Secondo la studiosa Stefania Parigi
Tutto il cinema del dopoguerra è un cinema della migrazione, intesa come riconquista del Paese e, allo stesso tempo, come perdita delle radici, come esperienza di spaesamento, come vertigine di un’identità dispersa o esplosa. Da una parte gli spazi urbani avvolgono i protagonisti in spirali di spersonalizzazione, di squilibri e di mancanze; dall’altra il territorio fisico e culturale dell’intera Italia mostra, insieme alle sue diversità, tutta la propria natura conflittuale (S. Parigi, “L’emigrante neorealista”, in: Italy In&Out. Migrazioni nel/del cinema italiano, Quaderni del CSCI – Rivista annuale del cinema italiano, n. 8, 2012, p. 56).
In film come Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati e Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, il fenomeno migratorio viene affrontato ricorrendo all’epopea del viaggio che rivela i grandi cambiamenti geografici e sociali che costellano i percorsi. Nei due film siamo di fronte ad emigranti irregolari, privi dei requisiti richiesti per l’espatrio, a testimonianza di un fenomeno di migrazione clandestina in crescita a partire dal secondo dopoguerra nonostante le politiche ufficiali di sostegno all’emigrazione basate su accordi tra le nazioni che prevedono l’invio di manodopera italiana in cambio di materie prime.
In Fuga in Francia, seguiamo il viaggio di un gruppo di individui verso il confine e tra questi, oltre a chi è in cerca di lavoro, non manca chi intende abbandonare il paese al fine di lasciarsi alle spalle un passato in cui si è macchiato di atrocità in seno al fascismo. Nel corso del viaggio un ex gerarca viene individuato dai compagni di viaggio e da quel momento entrano in conflitto la volontà di chi intende consegnarlo alla giustizia ed il cinismo del fuggiasco pronto, di nuovo, a qualsiasi nefandezza pur di assicurarsi la libertà a scapito degli altri. Sarà il figlio di questo fascista a rompere i rapporti col padre e a facilitare la sua cattura in Francia. Siamo così messi di fronte ad una rottura generazionale in cui i figli devono essere pronti a rompere i legami coi padri quando questi si sono macchiati di colpe indelebili. La nuova Italia deve saper recidere nettamente i legami col Ventennio fascista: è questo il messaggio che si palesa nell’opera di Soldati.
Nel film di Germi, Il cammino della speranza, la chiusura delle miniere nell’agrigentino obbliga intere famiglie ad intraprendere il viaggio verso la Francia, un cammino della speranza, appunto, che li costringe ad attraversare un’Italia del tutto ignota ed il film ci mostra come ad ogni tappa di questo interminabile viaggio gli emigranti si trovino a dover riconfigurare la loro identità. I personaggi del film di Germi rappresentano un popolo in cammino che prova a rinascere dopo la tragedia della guerra. «Se Paisà (Rossellini, 1946) ripercorreva da Sud a Nord il Paese per seguirne e testimoniarne la liberazione, nel film di Germi l’attraversamento coincide con una fuga verso uno spazio poco più che sognato» (p. 335). Secondo David Forgacs in entrambe le pellicole l’attraversamento del Paese diventa l’occasione per mettere a contatto le diversità regionali in una visione globale della nazione che rinasce (D. Forgacs, “Neorealismo, identità nazionale, modernità” in: L. Venzi, a cura di, Incontro al Neorealismo. Luoghi e visoni di un cinema pensato al presente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2007).
In Stromboli, terra di Dio (1950) di Roberto Rossellini compaiono diverse soggettività migranti. La profuga lituana Karin, interpretata da Ingrid Bergman, che vive “da straniera” il territorio e le regole sociali in cui è proiettata, trovandosi di fronte al rifiuto del visto per emigrare in Argentina, finisce con lo sposare un militare italiano che la conduce alla propria terra natale, l’isola di Stromboli. La coppia si trova a doversi confrontare con un tessuto sociale deformato dai processi migratori: una terra che ha visto da una parte i giovani emigrare in Australia e gli anziani fare ritorno sull’isola dopo essere stati emigranti all’estero.
In Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi, qui all’esordio come regista, si racconta di una famiglia romana costretta dalla povertà a imbarcarsi verso il Sudamerica. Dopo la partenza da Roma e le trafile burocratiche presso il Consolato argentino a Genova, i protagonisti del film si imbarcano su una nave affollata per raggiungere l’Argentina ove, tra mille peripezie, riescono a sistemarsi. Scrive a tal proposito Coviello: «Il film di Fabrizi è una minuziosa ricostruzione delle fatiche dell’emigrante al quale non manca il lieto fine con tanto di matrimonio annunciato tra nazionalità e classi sociali differenti, tra la figlia del manovale italiano e l’ingegnere edile argentino» (p. 337).
Sempre attingendo dal prezioso studio di Massimiliano Coviello “Emigrazione” si tratta ora di vedere quanto accaduto a partire dalla seconda metà del Novecento iniziando dalla rappresentazione degli emigranti italiani proposta dalle commedie realizzate tra gli anni ’50 ed i ’70, periodo caratterizzato, oltre che dalla prosecuzione dell’emigrazione verso l’estero, dalla “grande migrazione interna”, cioè da un massiccio spostamento dalle zone rurali del Sud verso le città industriali del Nord e dal cosiddetto “miracolo economico”.
Scrive a tal proposito Coviello: «Industrializzazione, esodo, inurbamento di massa, modernizzazione, miracolo economico: mentre questa successione causale di fenomeni sociali ed economici pone gli italiani di fronte a grandi cambiamenti, il cinema […] scandaglia e svela i meccanismi tragicomici, grotteschi, alla base del progresso e della conquista “forzata” del benessere» (p. 339). A titolo esemplificativo si possono citare film come I vitelloni (1953) e La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, Il boom (1963) di Vittorio De Sica.
Molti personaggi che popolano le pellicole di questo periodo incentrate sulla questione migratoria soffrono di nostalgia ma, sottolinea Coviello, con gli anni ’60, la commedia inizia a mettere in scena la deflagrazione della società negli anni del boom economico.
La soggettività introflessa su cui si fonda la chiusura nostalgica è alla base della disseminazione degli stereotipi comportamentali che caratterizzano le forme di rappresentazione commediche, grottesche e quindi in bilico tra il comico e il patetico, dell’emigrante. La riconoscibilità dell’italiano all’estero, come del meridionale emigrato al Nord, è contrassegnata da una spessa patina di cliché, ma questi ultimi, al pari di una presunta capacità di adattamento (“l’arte di arrangiarsi”), lungi dal costruire quello spazio discorsivo necessario alla negoziazione di norme e valori, sono la causa di un volontario e fin troppo esplicito disadattamento o, all’estremo opposto, di un’integrazione subita o delegata (p. 342).
Numerosi emigranti messi in scena dalle commedie degli anni ’60 e ’70, si pensi, ad esempio, a diversi personaggi interpretati da Alberto Sordi, «indossano maschere della prestazione (l’immagine del sé proposta in pubblico) attraverso un eccesso di dissonanza» (p. 342). Si tratta sovente di personaggi impostori sia con gli altri sia con se stessi, veri e propri millantatori, «caricature afflitte dal peso delle origini nei confronti delle quali non riescono a creare uno scarto, chiusi all’interno di stereotipi che li rendono estranei rispetto ai contesti di arrivo» (p. 343).
Ne Il diavolo (1963) di Gian Luigi Polidoro
la trasferta di lavoro verso la Svezia viene “deformata” già a partire dal viaggio in treno, dove il finestrino dello scompartimento si trasforma in uno schermo sul quale la voce di Sordi proietta le sue attese e lascia trasparire bellezze nordiche. Il personaggio interpretato da Sordi è un catalizzatore di pulsioni plasmate dall’immaginario massmediatico – è una guida turistica acquistata prima della partenza a orientarlo nei comportamenti – che vanno alla ricerca di soddisfacimento. Ancora una volta, non si tratta di compiere degli aggiustamenti alla propria identità, ma di imporre una differenza e di subire gli scacchi dell’estraneità. Invece, quando il desiderio è di assomigliare all’altro, Sordi lo asseconda sfruttando modelli precostituiti, “indossando” stereotipi che risulteranno fallimentari (p. 343).
Coviello sottolinea come ne Il gaucho (1964) di Dino Risi si possano individuare due diversi modelli d’integrazione fallimentare dell’emigrante. Al primo modello è riconducibile il personaggio interpretato da Amedeo Nazzari, un esempio di nostalgia patologica per l’Italia, esplicitata come anacronistica. Il secondo modello, di cui veste i panni Nino Manfredi, è quello di chi, avendo fallito nel far fortuna, si torva a dover vivere nell’ombra, tentando di celare il più possibile il suo essere straniero e povero.
La commedia è un potente strumento per esasperare e deformare molti dei temi e dei correlati passionali legati all’emigrazione. Bloccato nei cliché, all’emigrante non resta che un destino parodico. L’orizzonte commedico non garantisce alcuna negoziazione ma solo il modellamento o lo scontro grottesco con un mondo ostile. Se la colpa aveva marchiato la figura dell’emigrante durante il fascismo e imposto una dinamica narrativa fondata sul riscatto attraverso il ritorno, nel modello sentimentale della commedia l’eccesso nostalgico si manifesta anche attraverso l’impossibilità del rimpatrio. Chiusura nel sé, incapacità di comunicare con l’altro o, al contrario, conformazione, assuefazione: le forme della commedia scandagliano i tratti patologici della nostalgia attraverso maschere consonanti o dissonanti rispetto a modelli sociali già infermi (p. 346).
In film come Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Tutto a posto e niente in ordine (1974), entrambi di Lina Wertmüller, il mondo operaio di chi ha lasciato il Sud per stabilirsi al Nord è presentato come esasperato dalle conflittualità tanto politiche quanto amorose. In Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola, attraverso la parabola di un pugile fallito che diviene minatore in Alaska, si racconta il desiderio di chi, intendendo riscattarsi socialmente, finisce travolto dalla frenesia consumistica lungo le strade di Chicago.
Coviello si sofferma anche su un paio di commedie dei primi anni ’80 in cui ravvisa il tentativo di abbandonare o di denunciare i cliché, dopo averli subiti: Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone e Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi. Uno degli episodi che strutturano il primo dei due film, incentrato su personaggi che attraversano l’Italia per recarsi a votare, ha come protagonista Ametrano, un emigrante lucano trasferitosi a Monaco di Baviera che fa ritorno in Italia proprio per recarsi alle urne al paese natale. Il tragitto compiuto da questo emigrante si rivela un incubo costellato da una serie interminabile di angherie: l’Italia si rivela del tutto inospitale nei confronti di chi vi fa ritorno, seppur momentaneamente, dopo essersi trasferito all’estero. Nella commedia di Troisi, invece, il protagonista tenta di opporsi allo stereotipo che identifica per forza di cose nel napoletano presente al nord un emigrante. Ad essere rivendicato dal protagonista è il “diritto al viaggio”, «la possibilità di trasformare la sua identità, senza per questo doversi allontanare dalle sue origini culturali» (p. 347).
Nell’ambito delle migrazioni comprese tra gli anni ’50 e ’70, le difficoltà di integrazione sono al centro di diverse pellicole che adottando prevalentemente il tono drammatico. Nel cortometraggio Il bar di Gigi (1961) di Gian Vittorio Baldi, ad esempio, vengono documentai gli incontri in un bar che funge da punto di ritrovo a Torino per molti emigranti, mentre in Fata Morgana (1962) di Lino Del Fra ad essere documentate sono le storie degli emigranti in viaggio sul treno che dal Sud li porta a Milano.
In Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti si mostrano le vicissitudini di una famiglia costretta a lasciare il Sud, dopo la morte del padre, in cerca di lavoro nella Milano industriale. A proposito di tale pellicola scrive Coviello: «Man mano che la trasformazione identitaria, le prospettive di integrazione e l’assorbimento nella vita urbana si manifestano […], l’integrità del nucleo originario, l’iniziale coesione familiare si disgrega» (p. 349). Se il contatto col nuovo spazio urbano settentrionale in cui viene a trovarsi a vivere segna il disfacimento della famiglia meridionale, nel film Così ridevano (1998) di Gianni Amelio c’è chi opta per una volontaria autoesclusione dalla città e dalla società in cui si trova proiettato e l’unico contatto che ha con esse è dato dal luogo di lavoro, mentre il resto delle giornate è trascorso frequentando solo gli scantinati fatiscenti abitati dai suoi pari. L’emigrante catapultato all’interno dei cancelli della grande industria del Nord, costretto a fare i conti con la catena di montaggio, è invece raccontato da Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat Nam (1973) di Ettore Scola, film che ricorre anche ad alcune immagini documentarie.
Se ne Il posto (1961) di Ermanno Olmi si narra il trasferimento dalla campagna brianzola alla metropoli milanese, nel film I fidanzati (1963) il medesimo regista focalizza invece l’attenzione su un individuo che si trova a dover affrontare una trasferta lavorativa in una Sicilia rurale, passando le sue giornate tra la desolazione dei caseggiati industriali ed un mondo contadino a lui del tutto sconosciuto.
Non mancano nemmeno film che fanno riferimenti a tragici episodi reali che hanno toccato gli emigranti italiani all’estero. Nel film La ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer, ad esempio, la lunga sequenza che mostra i minatori intrappolati rimanda palesemente al disastro consumatosi soltanto qualche anno prima, nel 1957, nelle miniere di Marcinelle, in Belgio, ove hanno lasciato la vita tanti emigranti italiani.
Nel cortometraggio Emigranti (1963) di Franco Piavoli viene mostrato lo spaesamento generato dalla grande stazione ferroviaria di Milano negli emigranti che
manifestano la loro incapacità di adeguamento, l’impossibilità di acquisire punti di riferimento. Lo spaesamento indica quella condizione di radicale incapacità di gestione dell’ambiente circostante, a cui si accompagna la consapevolezza di essere fuori posto. D’altra parte, la condizione di spaesamento contraddistingue anche il viaggio di ritorno e il reinserimento del migrante. A partire dall’interazione tra i ricordi personali e l’ambiente considerato familiare, il soggetto ha bisogno di rintracciare, attraverso quelle forme di interazione quali il discorso o la memoria collettiva, gli elementi che suturino il divario, temporale e culturale, accumulato. Il rischio è la percezione di un sentimento di duplice estraneità, all’interno e all’esterno della propria dimora (p. 352).
A partire dagli anni ’90 l’immigrazione verso l’Italia inizia a divenire un fenomeno importante, vissuto ed affrontato dal mondo politico, non senza una nutrita dose di demagogia, soprattutto come “emergenza da arginare”. Il cinema italiano nell’affrontare la questione di questo diverso e nuovo tipo di immigrazione ha spesso elaborato particolari modalità di rappresentazione, come ad esempio il miscelare fiction ed immagini documentarie di repertorio.
I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come vengono rappresentati gli zombie in molti film e serie televisive, come folla indistinta, come orda trasandata che avanza mettendo in pericolo la vita delle comunità civili. Si tratta di un vero e proprio processo di deindividualizzazione quello operato dai media nel rappresentare i nuovi arrivati che finisce con l’agire in profondità nell’immaginario collettivo.
Dai cinegiornali di epoca fascista al racconto cinematografico delle migrazioni, l’inquadratura oggettiva, il totale, è espressione del controllo sul territorio e sui corpi compressi nello spazio inquadrato. Il totale delle navi sovraccariche di migranti – inquadratura che esclude il punto di vista soggettivo – collabora alla costruzione della massa migrante, insieme compatto in cui le singolarità si annullano. I mass media nazionali mostrano, spesso attraverso le immagini prodotte dagli stessi apparati legalizzati di cattura ed espulsione, i profughi che da alcuni decenni sbarcano sulle coste italiane come un insieme ammassato su imbarcazioni di fortuna. Attraverso questo registro stilistico – esemplificato dal totale dall’alto che esprime un punto di vista estraneo alla diegesi (oggettiva irreale) – si realizza un processo di fusione che degrada e dissolve le identità in una massa (p. 356).
Si può individuare una data precisa in cui i media italiani hanno iniziato a trattare i fenomeni migratori: l’8 agosto 1991, quando il mercantile Vlora approda al porto di Bari con a bordo ventimila albanesi in fuga dalla miseria ed attratti dall’immagine dell’Italia offerta dai canali televisivi italiani captati in Albania. A quell’evento si ispira il film Lamerica (1994) di Gianni Amelio, il cui incipit propone un parallelismo tra le immagini dei cinegiornali di epoca fascista che raccontano l’annessione “civilizzatrice” dell’Albania al Regno d’Italia (1939-1943) e l’arrivo degli albanesi lungo le coste pugliesi nei primi anni Novanta. In questo intreccio di immagini del passato e del presente, immagini documentarie ed immagini di fiction, si ha una moltiplicazione dei piani temporali utile a ricomporre i legami tra i fenomeni migratori. All’intreccio tra passato coloniale ed immigrazione albanese, si aggiunge la storia del protagonista del film, un militare italiano che alla fine della Seconda guerra mondiale non riesce a far rientro in Italia e resta in Albania sotto falso nome per evitare guai. Restato senza identità, il protagonista perde totalmente la nozione del tempo tanto che, pensando di trovarsi ancora negli anni ’40, s’imbarca su una nave stipata di albanesi in fuga dal paese immaginando di emigrare in America. Sul finale del lungometraggio Amelio inserisce un palese riferimento alle immagini televisive del mercantile Vlora preoccupandosi però di scomporre nelle sue singolarità la massa di emigranti sull’imbarcazione attraverso primi piani dei volti dei passeggeri e sguardi in macchina rivolti allo spettatore. L’autore si oppone così a quel processo di deindividualizzazione operato dai media nel mostre l’arrivo dei migranti.
Lo scritto di Coviello, a proposito dell’arrivo del mercantile Vlora al porto di Bari, cita anche La nave dolce (2012) di Daniele Vicari e Anija (2013) di Roland Sejko, due produzioni documentarie che ricorrono ad immagini di archivio rimontate e rielaborate attraverso zoom, rallentamenti e modifiche cromatiche per farle dialogare con racconti di alcuni protagonisti di quel viaggio verso l’Italia. «Queste interviste costituiscono il controcampo delle immagini di repertorio e se ne discostano non solo perché girate nel presente ma anche perché danno un volto e una voce agli individui prima compressi nella massa anonima, in quell’orda che i media dell’epoca hanno commentato e rappresentato come una minaccia» (p. 359).
Paolo Lago, nel libro La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis, 2016), nel capitolo dedicato alle “Navi emigranti e dell’esilio”, si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. A tal proposito scrive lo studioso: «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione” si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea Lago, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti.
Tornando ai migranti che giungono sulle coste italiane, Paolo Lago si sofferma invece su Terraferma (2011) di Emanuele Crialese. All’arrivo in Italia i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello subito un secolo prima dai migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi. Nel film viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).
A proposito di Terraferma Coviello, nel suo studio, sottolinea come la figurazione dell’indistinto raggiunga i suoi estremi:
Mentre all’inizio del film il peschereccio sul quale lavorano alcuni dei protagonisti avvista in mare un gommone e porta in salvo un gruppo di migranti, nella seconda parte questi ultimi riappaiono nella notte, alla stregua di un banco di pesci. Eliminato il mezzo di trasporto, i naufraghi nuotano all’unisono nel mare buio non appena intravedono una fonte luminosa, per poi essere brutalmente allontanati a bastonate. La sequenza è speculare a una precedente in cui i turisti in villeggiatura affollano un’intera barca e, al ritmo di Maracaibo, ballano in attesa di tuffarsi. Senza soluzioni di continuità sembra possibile passare dalle navi che salpavano per il “nuovo mondo” [come nel film Nuovomondo] ai gommoni che approdano lungo le coste pugliesi e siciliane. Ciò che si sottopone al processo di indistinzione risulta facilmente assimilabile, “digeribile” oppure, proprio perché reso irriconoscibile, espulso. Pur producendo effetti opposti – nel primo caso il superamento del confine, l’esclusione nel secondo –, le due procedure non hanno conseguenze molto differenti. Infatti, in entrambi i casi, il processo di traduzione e negoziazione delle soglie tra le culture viene ostacolato e, nel caso dell’espulsione, annullato (pp. 360-361).
Con la globalizzazione non sono spariti i confini:
Pur mantenendo il suo statuto di tecnologia giuridico-politica utile a regolare il regime della legalità attraverso la dicotomia accesso/espulsione, il confine si è deterritorializzato, separando le sue funzioni di controllo dallo spazio cartografico, e diventando condizione esistenziale, dispositivo biopolitico in grado di determinare le possibilità di vita o di morte per coloro che tentano di raggiungere l’Europa. Il dispositivo di assoggettamento del confine implica meccanismi di soggettivazione che costringono il migrante a rendersi invisibile […], bruciando i documenti […] o nascondendosi nelle navi cargo e nei traghetti. I confini “virtuali”, deterritorializzati, sono le stesse imbarcazioni che trasportano i migranti nel Mediterraneo e che vengono monitorate e spesso respinte dagli organismi di sorveglianza delle frontiere (pp. 361-362).
Nel documentario A Sud di Lampedusa (2006), di Andrea Segre, Stefano Liberti e Ferruccio Pastore, si racconta l’attraversamento del deserto del Sahara da parte di tanti migranti attraverso camion di trafficanti senza scrupoli. In Come un uomo sulla terra (2008), di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Yimer, la migrazione libica è invece raccontata direttamente da Yimer che partecipa all’opera sia come testimone-narratore sia come regista che, con la sua videocamera, registra storie per poi compararle con i documenti televisivi.
In Mare chiuso (2012), di Andrea Segre e Stefano Liberti, si raccolgono le immagini e le voci registrate direttamente dai migranti con l’intento di mostrare punti di vista diversi da quelli messi in onda dalla televisione italiana a proposito dei flussi migratori. Il punto di vista dei migranti raccolto attraverso i loro smartphone documenta la disumanità dei respingimenti in mare. Dei CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, presenti in molte città italiane, si occupano alcuni documentari come, ad esempio, In nome del popolo italiano (2012) di Gabriele Del Grande e Stefano Liberti, La vita che non Cie (2012) di Alexandra D’Onofrio ed EU 013. L’ultima frontiera (2013) di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese.
Una serie di opere documentano gli ambienti degradati in cui si trovano a vivere i migranti ed il loro venire a contatto con gli ambienti benestanti delle città. Appartengono a tale filone opere come Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi, Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, Terra di mezzo (1996) ed Ospiti (1998) di Matteo Garrone, Civico 0 (2007) di Francesco Maselli, Good morning Aman (2009) di Claudio Noce. Storie di solidarietà sono narrate da Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi, ove si racconta di una chiesa ormai chiusa al culto in attesa di essere sconsacrata che diviene rifugio per un gruppo di individui definiti “clandestini” dalla legge italiana ed “ospiti del Signore” dall’anziano parroco locale, ed in Isole (2011) di Stefano Chiantini.
Una parte della recente cinematografia italiana ha provato a raccontare l’attraversamento della penisola da parte degli immigrati, i loro sentimenti dello spostamento, scegliendo di restituire allo spettatore l’azione di uno sguardo “altro” che prova a collocarsi all’interno di un paesaggio spesso deturpato dall’azione umana, nella precarietà dei luoghi di lavoro, tra i pregiudizi della socialità (p. 366).
Pummarò (1990) di Michele Placido racconta di un immigrato ghanese che, intenzionato a raggiungere il Canada, decide di far visita al fratello in Italia. Durante l’attraversamento della penisola alla ricerca del fratello, il protagonista incontra le varie forme di sfruttamento a cui sono sottoposti i migranti. Una storia analoga è raccontata dall’opera documentaria Lettere dal Sahara (2005) di Vittorio De Seta ma, in questo caso, il protagonista, dopo aver subito le angherie riservate ai migranti, decide volontariamente di far ritorno in Senegal, ove racconta la sua tragica esperienza italiana ad altri suoi compaesani. Il resto è storia dei nostri giorni tutta da scrivere, filmare, raccontare e, soprattutto, determianre.
Ricapitolando
Il cinema italiano da inizio Novecento ai nostri giorni ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Nei film in cui la migrazione è considerata una colpa ed un rimorso doloroso, il ritorno si propone come via obbligata per la redenzione. Il cinema fascista e quello coloniale tendono a nascondere le cause politiche ed economiche del fenomeno dell’emigrazione italiana, mentre invece esaltano la figura del colono in quanto artefice del progetto espansionistico. Tra gli anni ’30 e ’40, la cinematografia nazionale riduce l’emigrazione ad un fatto individuale, senza mai mettere in luce le dinamiche che determinano migrazioni di massa. Al termine della Seconda guerra mondiale, il cinema neorealista ha affrontato il fenomeno ponendo l’accento sul riscatto sociale cercato attraverso l’emigrazione. La commedia, dagli anni ’60 agli anni ’80, ha dato immagine ad una figura dell’emigrante schiacciata tra la nostalgia delle origini e l’integrazione forzata e ha dato vita ad una galleria di personaggi spesso grotteschi costruiti sui cliché dell’italiano all’estero e del meridionale al Nord. Negli anni ’90, il cinema nazionale ha iniziato ad affrontare le migrazioni verso l’Italia ed il confronto con l’altro ha spesso fatto ricorso a soluzioni espressive in cui immagini documentarie e finzione si sono spesso intersecate al fine di «costruire un immaginario con cui disinnescare le retoriche massmediatiche, le barriere culturali e i dispositivi biopolitici che relegano i migranti nella condizione esistenziale di confinati […] Attraversando la storia delle migrazioni e dei fili che le intrecciano sino al presente, il nostro cinema si affaccia sul contemporaneo e ci offre immagini in cui scoprire l’altro e ripensare la nostra identità» (p. 370).
Lunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.
Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film? Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: [...]]]>
Lunedì prossimo Morando Morandini, decano della critica cinematografica italiana, compie novant’anni. Questa intervista inedita – concessami nell’estate del 1998 – è l’omaggio di Carmilla a un maestro discreto e illuminante.
Quando nasce la sua passione per il cinema? E con quali film?
Sono stato uno spettatore precoce. Avevo dodici anni nel 1936 quando cominciai a ritagliare le recensioni di Filippo Sacchi sul “Corriere della Sera”, e le corrispondenze dai festival di Venezia. Le incollavo su un quadernone che purtroppo s’è perso nei traslochi di guerra. Insomma, cominciai presto ad andare al cinema in un certo modo: possiamo chiamarlo “critico”? Meravigliavo le signore, amiche di mia madre, snocciolando i nomi di attori e attrici, e a poco a poco cominciai a distinguere un regista dall’altro. Da molti anni ho un sogno che non realizzerò mai: un saggio sulla critica italiana di cinema, suddivisa in generazioni. Sono convinto che in ciascun critico conti la sua infanzia cinematografica, cioè i film con cui “è nato al cinema”, quelli che cominciato a vedere in un certo modo. Parlo di film, ma il discorso si potrebbe estendere ad altri settori: libri, quadri, musica. C’è anzitutto una generazione, ormai quasi scomparsa, che nacque al cinema negli ultimi anni del muto, a cavallo tra gli anni ‘20 e ‘30. Venne poi quella degli anni ’30 sonori, quando, poiché il cinema italiano contava poco, si nutriva di film americani e francesi. Clair, Carné, Duvivier e un po’ meno Renoir che per ragioni politiche era poco importato. Seguirono la generazione del neorealismo, che scoprì il cinema a partire dal ’45 con Rossellini, De Sica, Visconti e quella della Nouvelle Vague a cavallo tra i ’50 e i ’60. In termini anagrafici dovrei appartenere a questa generazione, ma, essendo stato un precoce (ride), faccio parte della precedente. Venne poi la squadra degli anni ’70, quella che rivalutò Matarazzo, Mattoli, Totò e gli altri, insomma quel cinema commerciale, artigianale, non d’autore che le generazioni precedenti avevano ignorato, snobbato, spregiato. L’ultima generazione è quella che ha tettato il cinema sul televisore, ha l’inconscio colonizzato dai film hollywoodiani e scrive saggi pensosi e interminabili sul trash e sul gore. Ma per dirla secca, sono nato al cinema con i film francesi degli ultimi anni ’30. I miei idoli erano Jean Gabin, Arletty, Michèle Morgan. E Gary Cooper tra gli attori americani. Tra le attrici la Davis, la Hepburn, Carole Lombard. E Dorothy Lamour di cui mi innamorai col tramite di John Ford in Uragano (1937). Ford e Hawks erano i miei director preferiti, ma ricordo che mi lasciai incantare da Winterset (Sotto i ponti di New York, 1936) di Al Santell e rimasi sconvolto da Delitto senza passione (1934) di Ben Hecht. Riuscivo già ad andare fuori dai sentieri battuti. A dodici anni, come ho già detto, leggevo Filippo Sacchi, poi passai al settimanale “Film” di Doletti (era un lenzuolo, come il primo “Espresso”) e, infine, al liceo approdai alla rivista “Cinema” e a qualche numero di “Bianco e nero”.
E quand’è che questa passione diventa un mestiere?
C’è un intervallo bellico, diciamo il biennio 1944-45, in cui ho visto pochissimi film. Un buco nero. A guerra finita mi trovai iscritto al quarto anno di Lettere alla Statale di Milano senza aver dato nemmeno un esame. Qui comincio a fare il giornalista in un quotidiano cattolico di Como. Si chiamava “L’Ordine”. Sono un milanese che ha passato vent’anni, tra i 5 e i 25, sulle rive del Lario, dunque in provincia, il sale d’Italia. Il I° luglio del ’47 ero già giornalista professionista. Nella primavera di quest’anno una medaglietta dell’ordine per i 50 anni di professionismo, e ti assicuro che tra gli altri colleghi medagliati e cinquantenari ero tra i più arzilli. Non capitava spesso nemmeno allora di entrare in giornalismo a ventun anni. All’“Ordine” eravamo in quattro, e facevo un po’ di tutto, ovviamente, soprattutto cronaca nera e bianca. Anche un po’ di recensioni di film, ogni tanto. Recensì Paisà, parlandone bene (ride). Succede che nel ’49 mi licenziano. Passo nove mesi da disoccupato o, meglio, senza stipendio poiché collaboravo all’altro quotidiano comasco, “La Provincia”: teatro, cinema, libri, mostre d’arte, qualche articolo di cronaca locale. Nel ’50 trovo un posto a Milano, in un altro quotidiano cattolico: “L’Italia”, dove lavoro per due anni come redattore alle pagine provinciali. Raramente, approfittando delle vacanze o delle distrazioni del titolare della critica cinematografica, riesco a fare anche qualche recensione: Cronaca di un amore (1950) dell’esordiente Antonioni, per esempio. Finché alla fine del ’52 esce un nuovo quotidiano del pomeriggio, “La Notte”: fui promosso sul campo, sin dal primo giorno, critico del teatro di rivista. Si giocava a tutto campo, allora. A fare il successo della “Notte” contribuirono molto la pagina degli spettacoli e quella complementare del “Dove andiamo stasera?” dove per la prima volta su un quotidiano apparvero le famigerate “stellette” della critica, presto accompagnate dai “pallini” del successo di pubblico. Per nove mesi feci anche il vice di Biagi (e così mi firmavo) per il cinema. Recensivo più film io come vice che lui come titolare, ma in quel momento Enzo Biagi aveva il suo daffare come redattore capo del settimanale “Epoca”, appena uscito. Al festival di Venezia 1953 andai io, e da quel momento divenni titolare. Da ragazzo avevo due passioni: la letteratura e il cinema. Se mi guardo indietro, posso dire di essere un uomo fortunato: ho fatto coincidere presto uno di quei due amori col lavoro.
Il piacere della visione: doversi porre davanti a un film con un atteggiamento critico l’ha mai privata di qualcosa?
Sono cresciuto in provincia, a Como, città che non è mai stata culturalmente vivace come Bergamo, Pavia, Parma. Nel ’49 a Como fondai un Circolo del cinema. C’erano molte ragioni per farlo, non ultima quella che volevo vedere i film del passato. Il piacere della visione… è un discorso complesso. Parto da un esempio. Negli anni ’50 a Milano ci si incontrava spesso, tra colleghi, alla prima proiezione pomeridiana dei film nuovi. Incontravo Ugo Casiraghi dell’“Unità”, amico carissimo con cui poi lavorai nella supervisione del primo cinema d’essai italiano. Mi capitava di vedere con lui un film di Jerry Lewis o con Jerry Lewis (il suo primo film di regia è del 1960). A certe gag Ugo rideva come un matto, mentre io rimanevo in silenzio. Non che non mi divertissi anch’io, ma è una questione fisiologica: posso divertirmi moltissimo, ma non rido. Mi capita raramente. Poi, però, leggevo la sua recensione del film con Jerry Lewis, e non si capiva che s’era divertito. È soltanto un esempio, s’intende, ma fin d’allora mi ero posto il problema: come superare i filtri ideologici? Fino a che punto un critico ha il dovere di controllare la propria soggettività? È giusto rimuovere il piacere della visione? D’accordo: Casiraghi era comunista, un marxista di quelli veri, mentre io non lo ero. Di sinistra, è vero, ma di difficile collocazione. Qualche volta penso di essere un liberalsocialista un po’ anarchico: oggi, che si sposta tutto a destra, faccio figura di estremista perché non mi sono mosso! Ebbene, come critico, almeno nella misura in cui ne ero consapevole, mi sono sempre posto il problemi dei filtri ideologici. Facciamo un altro esempio: Samuel Fuller. Da quando alla mostra di Venezia del ’53 arrivò Mano pericolosa, Fuller era stato presentato come un regista di destra, reazionario, muscolare e un po’ fascista. Nel 1961 lascio “La Notte” per “Stasera”, altro quotidiano del pomeriggio, ma di sinistra, pendant del romano “Paese Sera”. Esce a Milano quel che per me ancor oggi rimane uno dei film migliori di Fuller: L’urlo della battaglia (1962). Lo recensisco in modo molto, molto positivo. E su “Cinema nuovo” di Aristarco, baluardo della critica marxista, si scandalizzarono. Già non avevano probabilmente digerito il fatto che su un quotidiano di sinistra avessero preso me, critico di “La Notte”. Per giunta elogiavo apertamente un film di Fuller. Uno scandalo. Mi bacchettarono con un corsivo anonimo al quale risposi con una letterina troppo ironica perché potessero capirla. L’umorismo non era il loro forte.
È possibile giudicare serenamente un cinema ideologicizzato? O semplicemente distinguere destra da sinistra?
Forse per ragioni d’età, ma, nonostante la confusione che regna oggi, so ancora distinguere tra destra e sinistra, almeno in certi campi. Dipende dai livelli, però. Sopra un certo livello mi rifiuto di discutere in termini di destra e sinistra. Nel cinema hollywoodiano che conta, per esempio: che m’importa di stabilire se Ford o Hawks siano o no di destra? È di destra o di sinistra Kubrick? E Altman, Coppola, Abel Ferrara, Scorsese dove li mettiamo? Passiamo in Francia. Resnais è sempre stato un uomo di sinistra: Notte e nebbia (1956), Hiroshima mon amour (1959), La guerra è finita (1966). Ma ha diretto anche L’anno scorso a Marienbad (1961) e Smokin – No smoking (1993). Sono film di sinistra? Godard cominciò con film anarchici di destra (Le petit soldat, 1960, per esempio) e dieci anni dopo diventò maoista. Come la mettiamo con Truffaut? L’alternativa destra-sinistra si riferisce ai contenuti o anche alla forma? Comunque credo nella distanza critica, non ideologica.
Va al cinema con amici? Discute con loro dei film visti?
Al cinema vado solo o in coppia, quasi sempre con mia moglie, raramente in gruppo. Certo che discuto con gli amici, ma quasi sempre a botta fredda. Non ho mai fatto presse parlé, anche perché non sono tanto bravo a parlare. Anche ai festival raramente scambio opinioni con i miei colleghi all’uscita da un film. Non voglio farmi influenzare né influenzare gli altri, soprattutto quando si esce da un film che mi ha intrigato, colpito, sorpreso. In quei casi ho bisogno di una fase di riflessione, e voglio farla in solitudine prima di scrivere. Negli altri casi posso limitarmi a un sí o un no, mi piace o non mi piace. Per quel che ricordo, una volta sola sentii il bisogno di scambiare impressioni e idee, e trovai la persona adatta come interlocutore. Fu nel 1959 quando a Cannes si vide Hiroshima mon amour. E l’interlocutore era Casiraghi. Un critico di una generazione successiva non può immaginare l’impressione che a molti fece quel Resnais che, dieci anni dopo, rivedendolo per la terza o quarta volta, mi sembrò di una semplicità straordinaria. Non in quel giorno di maggio del ’59. Non fui sconvolto da À bout de souffle, ma da Hiroshima mon amour che mi sembrò un film libero come può esserlo un romanzo. Dieci anni dopo era un film trasparente, ma in mezzo c’erano stati gli incontri con i film nuovi degli anni ’60.
Guardando a ritroso, riconosce errori di valutazione su certi registi e sui loro film?
Secondo me sono più gravi le sottovalutazioni che le sopravvalutazioni. Ritengo più grave – nel mio mestiere ma anche nella vita di ogni giorno – sbagliare per difetto che per eccesso, per avarizia che per generosità. Ovviamente anch’io ho commesso errori di questo tipo. Qui bisognerebbe parlare dei rapporti tra espressione e comunicazione. Forse dipende dal fatto che, tirate le somme, sono un giornalista prima di essere un critico. Il primo dovere di un giornalista è saper comunicare, no? Se poi riesce a esprimersi, tanto meglio. In termini diversi, il problema si pone anche per l’artista. Il suo primo dovere è esprimersi, ma non può trascurare la comunicazione, ossia il rapporto col pubblico, con lo spettatore. Diffido dei film che sono “contro” il pubblico, per principio. O forse sono soltanto più esigente. Fossi costretto al gioco della torre, tra Truffaut e Godard, butterei giù Godard. Estremizzo, è chiaro, ma , secondo me, il problema critico dell’ultimo decennio è la svalutazione eccessiva dei film ben costruiti. So anch’io che è una vecchia storia, si ripete in letteratura da duecento anni: classici contro romantici. Se si va contro il pubblico, o si è a un livello molto alto – come Tarkovskij, per esempio – o è meglio lasciar perdere. So benissimo che Lo specchio (1974) è un film per pochi, e io faccio parte di quei felici pochi! Il mio compito di critico è di far aumentare il numero di quei pochi.
Avrà delle antipatie…
Ne ho tante, e non le nascondo. Tinto Brass o Zeffirelli, tanto per fare dei nomi, per non scendere al livello dei Vanzina. Anche in questi casi, però, seguivo un criterio etico: mi astenevo. Dopo due o tre stroncature consecutive, lasciavo il compito di recensire il nuovo film al mio socio Silvio Danese. Insomma, evitavo quel che poteva sembrare un accanimento critico. E risparmiavo il mio tempo. Oltre alle antipatie esistono le ottusità. C’è un regista che ho amato subito, sin dall’inizio: Marco Ferreri. Eppure, di fronte al suo Diario di un vizio (1993), io, ferreriano della prima ora, sono rimasto chiuso. Non mi è piaciuto, non l’ho capito. Le chiamo ottusità provvisorie. Vai a vedere un film e per ragioni tue private (fisiologiche?), lo vedi “male”. Magari sei costretto a scriverne subito, non hai il tempo di rivederlo, ma sai che l’hai visto male. Il guaio è quando non lo sai.
Come si comporta con i film degli amici o dei registi che conosce?
Occorre fare una distinzione tra i critici romani (intesi come critici che abitano a Roma) e gli altri. Io sono un critico di frontiera, per esempio. Abito a 50 km. da Chiasso, (ride), dunque ho meno occasione di frequentare la gente del cinema: produttori, sceneggiatori, registi, attori ecc. Detto questo, considero l’ambiente del cinema italiano romanocentrico un cortile di merda. Puoi scriverlo: un cortile di merda, per intrallazzi, ruberie, omertà mafiosa, raccomandazioni di partito o di corrente, meschinità, gelosie, invidie, politica per bande. È di una corruzione almeno pari a quella di tutto il resto dell’Italia. Il guaio è che, pur vivendo a Milano, questa corruzione mi è più evidente. Sono pochi, pochissimi i registi che posso definire come amici: Bertolucci (tutti e due), Luigi Faccini, Nichetti a Milano, Olmi, Vincenzo Cerami tra gli sceneggiatori. Potrei aggiungere Valerio Zurlini e Gianni Amico, ma se ne sono andati. Per altri può esserci stima e una certa confidenza. Per Gianni Amelio, per esempio, ho una stima grandissima, anche a livello personale, come per De Seta, così come ho stima e confidenza con Marco Tullio Giordana, Emidio Greco, lo stesso Benigni, Bellocchio. Nel 1997 a Venezia diedero a Bertolucci il premio Pietro Bianchi. Poiché di Bianchi sono il successore sul “Giorno” e di Bernardo sono amico, il Sindacato Giornalisti Cinematografici mi chiese di fare un discorsino prima della consegna del premio. Parlai anche del problema che si pone al critico quando deve giudicare il film di un autore amico. Può capitare che si scrivano sul film riserve, qualche dissenso. I casi sono due: se i due sono veramente amici, continuano a esserlo, magari dopo un periodo di silenzio da parte del ferito; se rompono i rapporti, non erano veri amici. Nel primo caso, però, può rimanere un’ombra, paragonabile a quella di un tradimento tra marito e moglie. Appartiene al passato, può essere stata metabolizzato, il tradimento, ma l’ombra resta. Non è un gran problema, comunque. Se ho riserve da fare sul lavoro di un amico, cerco di scriverle in maniera più gentile. Tutto qui. C’è un altro rischio, invece. Se si conosce bene un regista, e gli si vuol bene, il rischio, per il critico è di scambiare le intenzioni per risultati.
Questi erano gli amici. E, invece, le polemiche con occasionali “nemici”?
Polemiche? Le ho avute più a voce che per iscritto, ma molte le ho dimenticate. Magari non so perdonare, ma dimentico spesso. Ebbi una polemica scritta con Alberto Bevilacqua, strascico di un duro attacco che gli feci da Venezia nel 1985 quando fu messo in concorso La donna delle meraviglie. Non replicò subito. Aspettò un’altra occasione per mandarmi una lettera oltraggiosa. Non aveva tutti i torti, però: la mia era stata un’invettiva. Ebbi una polemichetta in pubblico con Tinto Brass. A proposito di un suo film scrissi sul “Giorno” che mi aveva fatto venire la tentazione – come si ha voglia ogni tanto di fare con certi bambini – di mettere il regista nella condizione di non nuocere. Apriti cielo! Brass mandò una lettera al giornale accusandomi di voler limitare la sua libertà d’espressione e di avere auspicato la sua messa al bando. Gli risposi che avevo commesso uno sbaglio nel ricorrere all’ironia sebbene mi meravigliasse il fatto che non fosse stata capita da chi, come Brass, si dava tante arie di trasgressivo, ironico, caustico. Eppure conoscevo la regola: non usare mai l’ironia quando si scrive sui giornali perché c’è il rischio che un lettore su due prenda alla lettera quanto hai scritto. Se scrivessi per iperbole antifrastica e ironica, che Pieraccioni è più grande di Chaplin, sicuramente qualche lettore si scandalizzerebbe.
Ha scritto che le piace essere invaso dai film, non evadere grazie ai film… cosa rende buono un film?
Al più alto grado, come per certi libri, un film dovrebbe cambiare lo spettatore. Uno vede un film e ne esce cambiato nel senso che ha ricevuto tanto che non è più la stessa persona. È un po’ un paradosso letterario, ma ha un suo fondo di verità. Sai, mi tengo sempre sul paragone con la letteratura o con la poesia: i film per il 99% sono in prosa però ci sono anche quelli di poesia. Per cui un film ti può emozionare, ti può dar da pensare, porti delle domande, anche perché credo che l’arte in generale ponga delle domande, non dia delle risposte. Anzi, sono i film che danno delle risposte che sono discutibili. Significa che sono “a tesi”, in fondo in funzione di un programma, politico, civile… o un programma pornografico (ride). Insomma, film che subordinano la loro autonomia di prodotto artistico a qualche cosa d’altro.
Non ha mai provato la tentazione di passare dall’altra parte della barricata?
La questione va divisa in due parti, una autobiografica ed una più generale. Il primo libro di cinema che ho posseduto, mi fu regalato da mia madre quando avevo quattordici quindici anni e purtroppo è un libro che è andato perso negli anni di guerra. Un libro pubblicato da Bompiani, l’autore era Seton Margrave, ma non ricordo più il titolo. Fu un regalo di compleanno di mia madre e mi ricordo ancora la dedica: “a Morando che vuole diventare regista”. C’è stato anche un momento a guerra finita, credo nel ’47, in cui andai a sostenere un esame di iscrizione al Centro Sperimentale – facevo già il giornalista – e non fui ammesso. Ho avuto l’occasione di collaborare alla sceneggiatura di un altro, ma sono sfumate. Una volta è stato quando il mio amico Gianfranco Bettetini m’invitò ad andare ad Alba per conoscere Beppe Fenoglio perché c’era in ballo il progetto di un film su soggetto suo, tra l’altro non sulla guerra partigiana, ma ambientato nelle Langhe del dopoguerra. Andai due volte almeno ad Alba e conobbi Fenoglio. Passammo delle bellissime ore assieme. Si parlò pochissimo del film da fare (ride). Si parlò molto delle Langhe, del vino e poi sei mesi dopo Fenoglio s’ammalo.
E ci sono film che avrebbe comunque voluto fare?
Ogni tanto, una volta ogni due o tre anni, mi succede o di leggere un libro o di vedere un film che mi piace tanto e mi piace in un modo particolare che mi dico che questo è un film che avrei voluto fare io. Non chiedermi titoli perché non me li ricordo più! È un pensiero che hanno in molti, credo. Non è molto profondo!
(Milano, 24/7/98 e Levanto, 4/8/98)