racconto fantastico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:40:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La porta nel bosco https://www.carmillaonline.com/2022/09/12/la-porta-nel-bosco/ Mon, 12 Sep 2022 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73923 di Francesca Fiorentin e Paolo Lago

Quella notte, fuggendo in un bosco sulle montagne del Trentino, Helmut non immaginava davvero che avrebbe incontrato una porta. Era la lignea Porta di Vallavena, nominata già in un documento del 1451; nella Carta di Regola di Romeno, Don ed Amblar, scritta in latino nel 1459 e tradotta in italiano nel 1604, si leggeva poi questa frase alquanto perentoria: “niuno ardisca apprir ossia tuor giù la porta di Vallavena…”. Certo, nessuno aveva osato né aprirla né abbatterla, anche perché su di essa circolavano oscure leggende a cui [...]]]> di Francesca Fiorentin e Paolo Lago

Quella notte, fuggendo in un bosco sulle montagne del Trentino, Helmut non immaginava davvero che avrebbe incontrato una porta. Era la lignea Porta di Vallavena, nominata già in un documento del 1451; nella Carta di Regola di Romeno, Don ed Amblar, scritta in latino nel 1459 e tradotta in italiano nel 1604, si leggeva poi questa frase alquanto perentoria: “niuno ardisca apprir ossia tuor giù la porta di Vallavena…”. Certo, nessuno aveva osato né aprirla né abbatterla, anche perché su di essa circolavano oscure leggende a cui – in quella fine dell’Ottocento in cui Helmut si trovava a fuggire nel bosco – si dava ancora largo credito. La porta era attaccata alla roccia altissima della montagna, a sinistra, e a destra dava su uno strapiombo dove si gettava un ruscello. Il povero malcapitato stava scappando dalle guardie di frontiera poiché il suo mestiere – quello di contrabbandiere di tabacco da pipa con cui regolarmente aveva campato fino ad allora – non era considerato troppo legale. Era una notte particolarmente scura, senza luna, ed Helmut si stava inoltrando nel bosco. Le guardie non dovevano essere troppo lontane, dietro di lui, e sicuramente erano sulle sue tracce. Improvvisamente, il fuggitivo scorse un debole, latteo lucore, all’interno del quale vide distintamente una porta chiusa che gli sbarrava la strada. Si sentì perduto: non c’erano altre vie di passaggio e in breve tempo le guardie lo avrebbero raggiunto. Giunto di fronte alla porta fu colto dalla disperazione ed era ormai deciso a consegnarsi alle guardie. Improvvisamente, però, si accorse che la porta si stava aprendo lentamente quel tanto che bastava a permettergli di passare. Il contrabbandiere ne approfittò subito e, rapidamente, la oltrepassò. Non appena fu dall’altra parte del bosco, la porta si richiuse.

Quando le guardie giunsero di fronte al ligneo ingresso, lo trovarono chiuso e, davvero, non ardirono “apprire o tuor giù la porta”. Se ne tornarono subito indietro, non pensando nemmeno di oltrepassare quella sacra soglia. Per quella volta, rinunciarono ad acciuffare un contrabbandiere, uno dei tanti che si inerpicavano per quelle montagne per poter smerciare pregiati tabacchi che avrebbero rifornito le rivendite del Regno d’Italia. Stanche, insonnolite e affamate, tornarono sui loro passi. E Helmut? Ebbene, avanzava con circospezione e cautela in quella nuova parte di bosco che la misteriosa porta gli aveva dischiuso, un bosco che sembrava diverso da quello che aveva percorso finora. La natura sembrava più incontaminata, nel buio intravedeva alberi e piante più rigogliosi e il sentiero non era segnato dai solchi che lasciano i carri e gli zoccoli dei cavalli. A un certo punto, il povero contrabbandiere si trovò di fronte una gigantesca figura che svettava nell’oscurità; divorato dalla paura, lanciò un urlo e stava per fuggire di nuovo verso la porta quando una voce cavernosa e dolcissima disse queste parole: “Fermati, non avere paura”. Come spinto da una forza superiore, a quel punto Helmut si fermò e si avvicinò lentamente al gigante che teneva nella mano destra un enorme bastone di legno intagliato. “Chiamami pure orco, o uomo selvatico, o Mandricardo, che è il mio nome. Anch’io un tempo ero un fuggitivo come te. Circa centocinquant’anni fa ero un brigante, razziavo i possedimenti dei nobili e dei ricchi sfrontati e superbi che imponevano tasse e gabelle sovrumane e violentavano le donne dei paesi vicini senza pagare alcuna conseguenza. Razziavo, rubavo, saccheggiavo e, dopo aver sperperato una buona parte di quel denaro nel bere e nel mangiare, restituivo alla popolazione quello che gli era stato tolto. Anch’io come te fuggivo di notte dalle guardie, e trovai rifugio dietro la porta. Da allora un incantesimo mi trasformò nel guardiano di questo bosco che apre la sua porta a coloro che sono inseguiti, deboli e in una situazione di minorità e svantaggio. Mi sembra proprio che tu lo sia”. Così terminò il suo discorso Mandricardo ed Helmut non poteva credere alle sue orecchie. Allora disse: “Sono solo nella vita, e stanco di essere un fuggitivo. Se vuoi, potremo vivere insieme. Di cosa ti nutri? Come vedi, sono peloso, ho i canini molto sviluppati, e la luna ha un certo effetto su di me. Odio il consorzio umano e, credo anche tu.”

“E’ davvero un destino che due esseri abnormi siano qui dietro la porta, dove nessun umano entrerebbe” – rispose Mandricardo – “Tutti i giorni mangio radici e frutta ed erba commestibile. Il venerdì sera Saturno mi porta una fame indomabile di sangue, e per non uccidere i miei amici animali, lepri, stambecchi, caprioli, assumo una pozione del frutto dorato Haoma, trovato qui per caso, e prego: ‘Possano le ebbrezze non farmi muovere avanti e indietro come il tremolio di una mucca, dal momento che mi stanno assalendo a loro proprio impulso. A te, Haoma, io consegno questo corpo’. Così rimango immobile finché Saturno non ha percorso il suo giro vicino alla Terra. Mi hanno dipinto come mangiatore di bambini, ma non è così.” “Che somiglianza, il tuo Saturno, con la mia Luna, ogni sera presente, ogni sera mi chiama e le rispondo” – fece Helmut che era un bravo contrabbandiere, abile nel valicare boschi e montagne, rocce e confini, anche in virtù di questa sua sotterranea licantropica natura – “Chiamo il mio branco, volevo dire…la famiglia che non ho. Con i soldi ho sempre pagato pasti alle taverne. Ma dici, potrei vivere anche io di sola natura vegetale? I miei canini grondano del sangue delle bistecche semicrude che prediligo mangiare”.

Cominciò allora un sodalizio fra l’uomo-lupo e l’uomo selvatico all’interno del bosco, passarono gli anni e nessun essere umano varcò mai la porta di Vallavena. La vita dei due era scandita dalla Luna e da Saturno, dal tremolio delle foglie degli alberi mossi dal vento, dai temporali rigeneranti, dal fresco dopo la pioggia, dal freddo degli inverni senza nome e dal caldo dei mezzogiorni estivi. Il frutto dorato Haoma riusciva a sfamare i due esseri, che vivevano in pace ed armonia con gli animali del bosco. Dopo tanti anni, però, nonostante si fosse ormai assuefatto alla sua natura selvaggia, Helmut cominciò a sentire il bisogno di rivedere altri uomini: gli mancavano le sere nelle osterie dei paesi ove osti conniventi gli preparavano montani manicaretti a base di carne e gli offrivano boccali di vino e bicchierini di grappa. Gli mancavano anche, addirittura (lui che non era mai stato un grande amante della compagnia), quelle chiacchierate fatte con qualche avventore, intervallate dal ristoratore fumo di pipe caricate con pizzichi di tabacco forte e aulente sottratto di nascosto dal sacco del contrabbando. Perché il selvaggio e licantropo Helmut, in fin dei conti, nelle fredde serate innevate, apprezzava anche la comodità di una cena al calduccio, vicino al caminetto delle osterie, e di un bel letto morbido.

E fu così che un giorno, allontanandosi da Mandricardo, Helmut aprì la porta ed uscì. Ma cosa vi credete che trovò fuori della porta, quella stessa strada sterrata che percorreva quando era inseguito dalle guardie? Quella parte di bosco intatto e odoroso, pure se fuori dal perimetro incantato delimitato dalla porta di Vallavena? Ebbene, no davvero. Quello che vide fu una strada liscia e perfettamente asfaltata, circondata da palazzi luminescenti che parevano di cristallo, alti anche venti piani, costruiti sulle pendici delle montagne. Avanzò, sperduto, ricoperto dei suoi poveri stracci da montanaro di fine Ottocento, osservato in modo strano dalle molte persone che camminavano per strada. Si sedette su una panchina, al bordo di quella strada solcata anche da veicoli elettrici, finché non incontrò me. E fu proprio a me che lui raccontò questa storia che avete appena letto. Mi disse che proveniva dal bosco dietro la porta di Vallavena; rimase stupito perché, voltandosi, al posto della porta e del bosco, vide l’ingresso del parco pubblico cittadino. D’altra parte, anche io gli dovetti qualche spiegazione. Gli raccontai quindi che adesso ci trovavamo nel 2070 e che per noi, ormai, quella era la realtà. Da una ventina d’anni, infatti, le città a cui un tempo eravamo abituati erano state abbandonate a causa dell’innalzamento delle temperature, dell’inquinamento e dei gas tossici che si respiravano in pianura. Le montagne erano state quasi interamente disboscate per costruire case e palazzi altissimi come quelli che ci circondavano. Le montagne erano ormai gli unici luoghi abitabili, chissà poi per quanto tempo ancora. Comunque gli dissi che anche io avevo sentito parlare della Porta di Vallavena: i miei nonni, Paolo e Francesca, nei primi anni venti del Duemila, venivano qui ogni estate dalle loro città in pianura e amavano passeggiare nel bosco. La porta era ormai un monumento e, al tempo dei miei nonni, stava sempre aperta. Ma non si creda che adesso sia stata distrutta: è stata solo portata nel museo cittadino in modo che tutti la possano vedere.

Per qualche tempo vedevo e incontravo Helmut, che visse per un po’ presso l’ospizio dei poveri. Poi non ne seppi più niente: ai suoi racconti, a Mandricardo, alla Luna e a Saturno, al frutto dorato Haoma, non ho mai creduto più di tanto. Finché un bel giorno non si vide più in città, era sparito nel nulla. Chissà se era tornato nel suo magico bosco, esistente forse in un’altra dimensione, o se aveva affrontato l’ormai invivibile e pericolosa esistenza nelle pianure, fra i ruderi dei vecchi agglomerati urbani, questo non lo seppi mai. Sapevo soltanto che noi, gli abitanti delle nuove città e l’umanità che era sopravvissuta agli sconvolgimenti del clima, stavamo continuando la nostra esistenza quasi disperata fra i nostri alveari di cemento a mille e a duemila metri. Un’esistenza che, di questo passo – pensavo – più di tanto non sarebbe durata.

Solo diverso tempo dopo seppi che Mandricardo, l’orco, il gigante, l’uomo selvatico, era esistito davvero e che, senza il suo compagno, aveva languito di nostalgia sotto un salice, e tuttavia era certo che Helmut sarebbe tornato. In una dolce attesa si addormentò per sempre. Fortunato, a non sapere della nostra morente civiltà.

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Arcadia https://www.carmillaonline.com/2022/01/29/arcadia/ Sat, 29 Jan 2022 22:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70339 di Paolo Lago

Sgattaiolarono fra i vicoli, sfuggendo allo sguardo di un guardiano robot, e si ritrovarono nella piazza. Era il loro passatempo preferito farsi un giro fra le bancarelle di lamiera del mercato vecchio ma dovevano fare molta attenzione. Per muoversi nelle strade, infatti, ci voleva il permesso di circolazione e davvero non si è mai sentito dire che un ragazzino potesse averne uno. Il governo planetario di Dragone II aveva suddiviso tutti i luoghi della Terra ancora abitabili in distretti severamente controllati e solo gli adulti potevano ottenere il permesso di [...]]]> di Paolo Lago

Sgattaiolarono fra i vicoli, sfuggendo allo sguardo di un guardiano robot, e si ritrovarono nella piazza. Era il loro passatempo preferito farsi un giro fra le bancarelle di lamiera del mercato vecchio ma dovevano fare molta attenzione. Per muoversi nelle strade, infatti, ci voleva il permesso di circolazione e davvero non si è mai sentito dire che un ragazzino potesse averne uno. Il governo planetario di Dragone II aveva suddiviso tutti i luoghi della Terra ancora abitabili in distretti severamente controllati e solo gli adulti potevano ottenere il permesso di circolazione. Ma Romero, Dick e Scotty non avevano mai avuto voglia di passare le loro giornate come gli altri ragazzi, chiusi nelle loro stanze climatizzate, immersi nelle lezioni e negli svaghi dispensati dal robot monitor. Volevano respirare quegli ultimi lembi di aria respirabile rimasta. A loro piaceva la piazza del mercato.

Il signor Carpenter gli aveva detto che una volta, nella piazza, c’erano tanti alberi. I ragazzi non ci potevano credere perché non ne avevano mai visto nemmeno uno in vita loro. Tutte le strade della città erano lisce e levigate, talmente perfette da sembrare plastificate. La stessa città era immensa: a parte le strade, non esisteva più un solo spazio, nel mondo abitabile, che non fosse ricoperto da gigantesche costruzioni cubiche. Tutti i negozi erano costituiti da enormi spazi attraversati da scale mobili in tutte le direzioni e in essi si vendeva ogni cosa: qui gli adulti si muovevano in modo meccanico, proprio come i guardiani robot, lentamente, spostandosi a scatti, prestando attenzione unicamente alle lucide merci esposte. Non proprio tutti i negozi, però. La piazza del mercato era l’unica eccezione: lì, le bancarelle erano all’aperto, fatte di vecchia plastica e di lamiera e si potevano percorrere in lungo e in largo come in un vero e proprio labirinto. Le persone che frequentavano le bancarelle della piazza erano diverse da quelle che potevi incontrare negli altri negozi: sembravano più calme e posate, più sorridenti e meno silenziose. Anche i negozianti erano particolari: c’era Tom Pulce che vendeva giochi di pulci ammaestrate e il banchetto di Brad Ray dove, fra gli innumerevoli oggetti esposti, c’era qualcosa di veramente strano: dei blocchi di carta che si potevano sfogliare e che una volta erano chiamati “libri”. C’era anche “La zona morta”, il negozio di Cronny Dave, dove erano venduti dei vecchi apparecchi chiamati “PC” grazie ai quali si potevano recuperare tutte le password dimenticate, dai robot domestici ai monitor di istruzione.

Inutile dire che la bottega preferita di Romero, Dick e Scotty era quella chiamata “La cosa”, ovvero il negozietto gestito dal signor Carpenter. Lì si poteva trovare di tutto un po’ ma soprattutto oggetti metallici vecchi e vecchissimi. C’era un vetusto robot che, collegato ad una batteria, poteva muoversi e compiere alcuni gesti meccanici: certo – ripeteva il signor Carpenter – si trattava di un oggetto costruito anni e anni prima della scoperta della vera Intelligenza Artificiale, che adesso era invece all’ordine del giorno. C’erano delle ceste piene di arcaici giocattoli, pupazzi e robot e fra questi Romero fu attratto soprattutto da un modellino di astronave di colore blu scuro, mezzo rotto. Lo prese in mano e ne rimase affascinato: era strano perché sembrava un marchingegno ibrido, costruito da parti moderne e da altre che sembravano più antiche. Quella – disse il signor Carpenter, sorridendo sotto la spessa barba da marinaio – è l’Arcadia, l’astronave del Capitan Harlock. E chi era questo capitano? – chiese Romero. Un pirata – disse Carpenter con lo sguardo ammiccante di chi la sapeva lunga. Uno che difendeva i poveri e i deboli contro i soprusi dei ricchi e dei potenti. Uno che non avrebbe permesso a Dragone II di non concedere ai ragazzini come voi il permesso di circolazione: per questo lo avrebbe attaccato e avrebbe attaccato tutte le guardie robot. Non avrebbe voluto che i bambini e i ragazzi fossero costretti a non uscire di casa. L’Arcadia solcava i cieli come gli antichi vascelli pirata solcavano i mari. Già, il mare: fu allora che una pesante malinconia calò come un velo sul volto di Carpenter. Egli era stato marinaio, poi pescatore e adesso erano anni e anni che non aveva più visto il mare. Infatti, dopo le innumerevoli sostanze inquinanti che gli uomini vi avevano riversato, era ormai ridotto a una massa putrida e quasi plastificata. Su tutte le coste erano state erette gigantesche barriere per proteggere l’umanità dagli influssi acidi e nocivi che emergevano da ciò che un tempo era stato il mare.

Eppure – diceva il signor Carpenter – la stessa Arcadia era stata un vascello pirata che in tempi remoti solcava i mari, col suo elegante castello di poppa e la bandiera col teschio che impetuosa si muoveva nel vento. Dopo aver abbordato le navi dei ricchi, gli allegri corsari ballavano e bevevano sul ponte fino a notte inoltrata. Il capitano se ne stava da solo nel suo alloggio elegante, a sorseggiare liquori e a perdersi nel sogno di nuove libere scorribande. Ma ora non ci sono più navi, il mare è una massa putrida e morta e dobbiamo starne lontani. Carpenter si ricordava di aver letto in un certo libro, trovato sul banchetto di Brad Ray, che “nelle civiltà senza navi i sogni si inaridiscono”. “Ragazzi, aspettatemi un attimo” – disse a Romero, Dick e Scotty – vado da Brad Ray. Attaccò una rincorsa, per poco non cadde rovinosamente a terra dopo aver inciampato in una gamba del robot, e si diresse verso la bancarella dei libri. Tornò tutto trafelato, tenendo in una mano un libretto di color amaranto e con l’altra grattandosi vistosamente. “Che è successo?” – fece Dick – “perché si gratta signor Carpenter?” “Eh ragazzi, niente di speciale, mi succede sempre quando vado da Brad Ray, vicino c’è la bottega di quel furbacchione di Tom Pulce e passando mi prendo sempre qualcuna delle sue stramaledette pulci, statene lontani, mi raccomando!” I ragazzi soffocarono una risatina e si disposero ad ascoltare ciò che il vecchio Carpenter stava per leggere da quel libro: “Le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”.

“Senza mare e senza navi, i sogni dei bambini e dei ragazzi sono destinati a inaridirsi, controllati da spie e polizia” – disse malinconico Carpenter – “siamo in un mondo senza sogni”. Purtroppo, però, si trattava di un mondo dove, insieme a un pervasivo controllo su ogni azione del quotidiano, esisteva anche lo spionaggio. Nessuno si fidava di nessuno e tutti non aspettavano altro che il momento adatto per denunciare il conoscente o il vicino di casa. Infatti, Tom Pulce, sotto sotto, era una spia del governo e fra i suoi animaletti si trovavano microscopiche ricetrasmittenti che ‘saltarono’ insieme alle pulci sul corpo del povero signor Carpenter. I guardiani robot stavano arrivando nella piazza del mercato e avrebbero catturato i ragazzini. Per chi veniva trovato in giro senza permesso di circolazione la punizione era terribile: stare un mese in una stanza buia a pane e acqua, senza monitor o altri comfort. Ma il signor Carpenter aveva mille risorse e fece nascondere i ragazzi dietro una tenda del suo retrobottega, una vera corte dei miracoli piena di oggetti ancora più vecchi e più strani di quelli che esponeva. “Coraggio ragazzi, muovetevi, non c’è tempo” – disse Carpenter. “Ma ci troveranno subito! Basta sollevare la tenda e guardare nel retrobottega” – fecero all’unisono, tutti e tre. “Eh eh, io non ne sarei troppo sicuro”, rispose Carpenter, aggiungendo: “Forza, non c’è tempo, nascondetevi!”.

Appena passati dall’altra parte della tenda verdolina che delimitava l’ingresso nel retrobottega, i tre ragazzi furono avvolti dal buio più totale. Lo spazio appariva più grande di quello che poteva sembrare visto da fuori, anzi era addirittura enorme. Camminando lentamente giunsero fino a una specie di lanterna che ardeva in lontananza. “Ma dove siamo?” – si domandarono – non senza una discreta quantità di paura. Videro nella penombra una figura alta con un mantello nero che teneva stretto fra le mani quello che sembrava il timone di un antico vascello. Davanti a loro si apriva un vetro enorme attraverso il quale, nel buio cosmico, rilucevano miriadi di stelle. “Non è possibile” – pensò Romero e, subito dopo, cercò di tramutare in realtà la sua fantasia: “Siamo nella sala comandi dell’Arcadia e quello è il capitan Harlock! È bastato attraversare la tenda della bottega del signor Carpenter perché i nostri sogni diventassero realtà!”. Harlock sorrise ai ragazzi e diede loro il benvenuto. “Che ne pensate” – disse – se ci dirigessimo verso la Terra a dare una bella lezione al crudele Dragone II?” I tre ragazzini rimasero in silenzio, incantati ad ascoltare la voce del capitano. Nel frattempo, quest’ultimo diede un ordine a un buffo e piccoletto pirata che si trovava lì vicino e che ancora non avevano visto: “Filibustieri, rotta verso la Terra!” “Rotta verso la Terra” – ripeté il pirata, dando una gozzata a una bottiglia di rum delle Antille.

“Che ne dici Romero” – ora il capitano si rivolgeva solo a lui, strizzandogli l’occhio – “di andare a liberare i bambini e i ragazzi dalle loro prigioni domestiche e a dare una sveglia anche agli adulti, persi come zombie in quegli enormi centri commerciali?” E l’Arcadia volava veloce, con gli stendardi pirateschi, i suoi rostri e i suoi cannoni, col suo sguardo di mostro gentile, tutta blu come lo spazio profondo.

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Birraminta https://www.carmillaonline.com/2021/08/27/birraminta/ Fri, 27 Aug 2021 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67713 di Paolo Lago

La prima volta che vidi Lemuel fu davanti alla sua distilleria di birra artigianale del Monte Aminta. Era un gigante, la sua stazza riempiva quasi completamente il piccolo spazio con i pochi tavolini collocati davanti all’ingresso dell’azienda produttrice della “Birraminta”, sulla strada provinciale di Casteldelforte. Gigante lo era davvero ed era anche un gran bevitore di quel nettare che egli stesso, insieme ad altri audaci monteamintini, produceva. Era una serata particolarmente scura, d’inizio autunno: gli abitanti di Casteldelforte e di Arcicunetta se ne stavano tutti rintanati nelle loro case segaligne [...]]]> di Paolo Lago

La prima volta che vidi Lemuel fu davanti alla sua distilleria di birra artigianale del Monte Aminta. Era un gigante, la sua stazza riempiva quasi completamente il piccolo spazio con i pochi tavolini collocati davanti all’ingresso dell’azienda produttrice della “Birraminta”, sulla strada provinciale di Casteldelforte. Gigante lo era davvero ed era anche un gran bevitore di quel nettare che egli stesso, insieme ad altri audaci monteamintini, produceva. Era una serata particolarmente scura, d’inizio autunno: gli abitanti di Casteldelforte e di Arcicunetta se ne stavano tutti rintanati nelle loro case segaligne e petrose, la strada era semideserta. Il suo eremo, Lemuel lo aveva però quasi a metà monte; all’azienda ci veniva solo per lavoro. Il gigante del bosco, come lo chiamavano i monteamintini, era un gran lavoratore. Tutti i giorni alle cinque, fumando un sigaro toscanaccio, prendeva il suo fuoristrada per recarsi alla distilleria. Ora eravamo lì, in silenzio, lui si fumava il suo sigaro e io assaporavo un tabacco old canin blue, della Jefferson of Ireland, in una pipa oblunga e allungata, che un tempo i secessionisti lucchesi fumavano. A quel punto non avevamo dubbi: la Tinabro dal piglio scuro e potente, wine beer del Nord, era forse la sua migliore produzione. Sorseggiavamo in silenzio schioccando la lingua. Sennonché, verso le ventidue, Lemuel mi disse che doveva partire. E per dove, gli chiesi? Per il tuo eremo meraviglioso e meravigliato della solitudine di quegli uomini segaligni e forzuti? Grandi tagliatori di legna e di scorribande con paste alla carbonara, nel bosco, al calar del sole. No – egli disse austero, dall’alto dei suoi due metri e venti – no, disse – ora debbo recarmi a Citorno.

Che cos’era questa Citorno? Una città – mi spiegò – alquanto lontana, sulla costa ovest, dove possedeva una rivendita del suo nettare monteamintino, la Artigianal Fake. La Artigianal Fake? – dissi – mai sentita nominare. “Come” – scattarono all’unisono i lavoratori della distilleria, che a un tavolo vicino stavano godendosi una birra al faggio – “non la conosci”? Uno di loro, Ginio detto Geronimo (dall’urlo indianesco col quale iniziava la giornata), con l’occhio rapace e la mente pervicace, mi disse che dovevo assolutamente vedere la Artigianal Fake. Ginio si alzò, venne verso di me (debbo dire che un po’ mi inquietai, non era un tipo tranquillo e i vari coltelli neri di cuoio ammantato che portava al cinturone non mi incutevano buona speranza) e alzando un dito contro di me disse che dovevo assolutamente recarmi a Citorno. “Io veramente” – dissi – “carissimo Ginio, domattina debbo alzarmi presto perché alle otto ho lezione nella scuolina di Casteldelforte, ove quest’anno mi hanno sbattuto a insegnare grammatica e insalate di matematica, nonché la storia dell’omo primitivo” – ma niente, niente di niente, non ci fu verso, e allora quasi quasi mi decisi a partire anch’io per Citorno, e mi risolsi ad accompagnare Lemuel.

Lui fu proprio contento di avermi con sé per il viaggio di quella notte: mi terrai compagnia lungo la strada, disse. E così partimmo sul suo camion Macchi del 1970. Un bestione mugolante. Dovevamo portare fusti di birra e sacchi di noccioline all’Artigianal Fake. Ma che sorpresa fu la mia, quando entrammo in cabina: il posto di guida del camion era un vero salotto; non si può dire che Lemuel non avesse pensato a tutto. Era grandissimo e spazioso; il sedile era largo, adatto a un uomo della sua stazza, e tutt’intorno vi erano distributori a rubinetto di almeno sei tipi di birre e contenitori di noccioline e messicani nachos, che Lemuel insaporiva con salsa piccante di pimientos mentre guidava il suo bestione. Anche il posto del passeggero era comodissimo, sembrava di stare in un salotto inglese del Settecento. In questo Lemuel era illuminista.

Finalmente, verso l’una di notte, giungemmo a Citorno. Il vecchio Macchi si infilò in strade che costeggiavano le banchine portuali dalle quali si alzava una fitta nebbia grigio-cenere e si potevano udire distintamente i suoni delle sirene delle navi. Guardando dalla parte del mare si vedevano le murate dei bastimenti ormeggiati che emergevano dalla nebbia e parevano confondersi con i vecchi palazzi del porto. Le strade erano strette e il vecchio bestione, in alcuni punti, passava a fatica. Nonostante fosse tardi, in giro, vi erano ancora diverse persone che camminavano e si accoccolavano alle porte delle taverne. A passo d’uomo attraversammo Desolation Row e Lemuel riconobbe una sua vecchia conoscenza, il capitano d’Arce, appoggiato alla porta della sua vecchia casa, a fumare la sua pipa di legno. Poco più in là si aggirava in oscuri traffici Marcantonia Zoe, la contrabbandiera di sigarette, la nanerottola che nella notte portuale sempre trotterellava nelle tenebre, insieme ai suoi gatti. Abbandonata la zona del porto, Citorno ci avvolse nelle sue strade di cemento e di luce: di fronte a noi, abituati alla montagna e alla solitudine, si aprì uno spettacolo inconsueto. Macchine luminose si incolonnavano davanti e dietro a noi, mentre veicoli a due ruote sfrecciavano volando in lattiginose scie, emettendo bave giallastre di fumi maleodoranti. Palazzi biancastri si ergevano come muri altissimi da una parte all’altra della strada, ma il bianco delle loro facciate era inesorabilmente ricoperto di una patina oscura, abbarbicata sulle lastre e sulle finestre, intrise di essa, una patina che inquietava il nostro occhio abituato alla pietra delle case montane. Quelle strade del centro sembravano non conoscere requie: la città inondava di luce e di movimento incessante ogni suo minimo spazio in qualunque ora del giorno o della notte. I velocipedi rumorosi emettevano anche musiche rimbombanti e le stesse sonorità emergevano dalle cabine dei mezzi a quattro ruote che incespicavano nella luce e nel caos. Striature di lampade oblunghe ne circondavano le fiancate e parevano sollevarsi su una gigantesca nuvola di smog, una cappa che come un mantello avvolgeva ogni muro e palazzo del centro.

Fra palazzi abbacinati e giganteschi, ci infilammo in una strada laterale più stretta e giungemmo davanti alla Artigianal Fake. Era una rivendita di “Birraminta”, la birra del Monte Aminta (e noi venivamo proprio di là!) con delle panche e un tendone. Lemuel scese e si avviò verso il bancone. Salutò i suoi amici gestori, due simpatici citornesi, e mi invitò a sedermi fuori con lui. Era quasi l’orario di chiusura e rimanevano pochi avventori. Fra questi vi era un marinaio antillano che sorseggiava un whisky con ghiaccio, perduto nei suoi lontani amori strazianti. Non ci degnò nemmeno di uno sguardo. E passarono delle cantrici nottune, dagli occhi d’ebano e dai capelli neri. E nella notte brancolante, un manto di velluto sulle nostre teste stanche, non perdeteci vi prego in questa notte, dolci amanti della selva lontana, lasciateci qui a sorseggiare e sognare, iridescenti medusee fronti di alabarde fanciullesche, inani creature di notti passate, desideri di arcobaleni violacei, basta, non tormentateci. Lemuel, in disparte, stanco del viaggio, pensava al suo Monte Aminta così lontano: pensava alla dolcezza del caminetto acceso, del suo sigarazzo che lo attendeva, e dei fusti di Tinabro che conservava per uso personale. Io pensavo che sarei mancato alla lezione di domani, mentre mangiavo una nocciolina dietro l’altra. Pipponte, il mastodontico gestore della Artigianal, scaricava fusti e noccioline dal camion. Un avventore, di nome Heinrich von Am-Burger, stava ora giungendo in sella a un velocipede nero, quasi volando, e si sedette a un tavolo vicino, parlando a spada tratta con l’altro gestore. La notte incombeva, Lemuel era stanco e io, alla fine, forse contento, guardando gli altissimi muri dei palazzi mi addormentai con la voce martellante di Heinrich nelle orecchie.

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Matter Island https://www.carmillaonline.com/2021/08/20/matter-island/ Fri, 20 Aug 2021 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67562 di Paolo Lago

Mi sono recato a Matter Island, uno scoglio circondato da tempeste, in quanto ho avuto un posto di sottoeducatore di categoria Z presso il manicomio criminale che si trova sull’isola. Lì hanno un cane che si chiama Gesualdo, praticamente l’organizzazione della struttura è in mano a lui. Sembra infatti che parli, che emetta una voce dal suono meccanico ogniqualvolta un custode lo porta nel giro di ronda, sotto le torri battute dai libecci e dal salmastro; è veramente impressionante sentirlo parlare in modo meccanico e robotico nelle notti attraversate da vampe di venti incredibili in questi giorni di [...]]]> di Paolo Lago

Mi sono recato a Matter Island, uno scoglio circondato da tempeste, in quanto ho avuto un posto di sottoeducatore di categoria Z presso il manicomio criminale che si trova sull’isola. Lì hanno un cane che si chiama Gesualdo, praticamente l’organizzazione della struttura è in mano a lui. Sembra infatti che parli, che emetta una voce dal suono meccanico ogniqualvolta un custode lo porta nel giro di ronda, sotto le torri battute dai libecci e dal salmastro; è veramente impressionante sentirlo parlare in modo meccanico e robotico nelle notti attraversate da vampe di venti incredibili in questi giorni di fine estate. Come impiegato di categoria Z ho avuto un ben misero alloggio: una stanza lunga, stretta, con un lettuccio che sembra una branda, scarsamente illuminata, con la finestra a nord; uno dei custodi mi ha detto, al mio arrivo, pensando di intimorirmi, che d’inverno la tramontana trasforma i sottili vetri in gelide lastre di ghiaccio. Naturalmente – ha aggiunto – il riscaldamento è irrisorio se non del tutto assente. Poi c’è l’educatore, anzi, gli educatori, ai cui ordini sono sottoposto. Trattasi di energumeni alti 2 metri con un metro di diametro (pare che sgancino delle mazzette particolari al capocuoco che praticamente cucina solo per loro); essi sono rozzi ma, rivolgendosi a me, assumono un’aria colta e professionale, mentre mi ricevono nel loro ufficio con la finestra che dà a sud. Mi hanno spiegato, in modo solerte, che nella struttura di Matter Island vi sono diversi tipi di pazienti: i più pericolosi sono i saggisti, o presunti tali. Insomma quelli che si credono saggisti. Passano il giorno intero a leggere lo stesso volume di critica letteraria e scrivono su di esso – nonché su altri scarni libri o romanzi che può offrire la biblioteca della struttura, che si trova in cantina, perciò è puzzolente e lurida – non so quante pagine al giorno. Scrivono solo a mano, con penne spesso improvvisate. Si lamentano continuamente, emettendo bave e digrignando i denti, di non possedere il materiale bibliografico sufficiente per dar sfogo alla loro monomania. Subito dopo, in quanto a pericolosità, ci sono i critici cinematografici; essi si lamentano tutto il giorno, battendo i pugni sulle sbarre, perché non hanno alcuna possibilità di dare sfogo alla loro mania, in quanto le celle non hanno televisione, né esiste un cinema nella struttura e per di più la biblioteca non possiede neanche un volume sul cinema in generale. Poi vi sono altre categorie di malati, più o meno gravi, capaci anche di uccidere; questo pensiero mi provoca un certo fastidio ma non direi certo paura. Ancora non ho avuto modo di incontrare i miei assistiti. Lo farò oggi pomeriggio. Ora vado nella mia stanzetta a riposare un po’, in attesa del lavoro – temo duro – che oggi mi aspetta. Inizio così il mio libro di memorie, appena arrivato. Tremo al pensiero dell’avvicinarsi della notte, con la voce di Gesualdo che rimbomba ogni dove.

Vorrei adesso raccontare del mio primo giorno sull’isola di Matter Island. Dunque, nel pomeriggio di ieri ho fatto la prima conoscenza con alcuni dei miei assistiti. Fra i saggisti mi è stato assegnato un personaggio curioso di nome Paco: è tranquillo, non è pericoloso. Con lui ho avuto una conversazione piacevole. Afferma di aver letto per quindicimila volte la “Critica della ragion pura” di Kant e di tentare di scrivere un saggio monumentale su tale opera. Paco vuole dimostrare nel suo saggio che l’esperienza empirica di cui parla Kant in realtà non esiste: esiste solo il trascendentale poiché esso, come la birra, emette bollicine in un’essenza vagamente giallastra. Sta scrivendo su questa sua interpretazione dell’opera kantiana un saggio di oltre duemila pagine. Pare che adesso sia arrivato quasi a pagina mille, ma di ciò che ha scritto non ha voluto mostrarmi nulla. Un altro assistito che mi è stato assegnato nel reparto ‘saggisti’ si chiama Tico. Anch’egli è fissato con Kant ma la sua opera di saggista si concentra sui romanzi di Dostoevskij che, però, in biblioteca nell’istituto non ci sono. Tico quindi procede nel suo lavoro ricordando a memoria; dice infatti di aver letto l’opera omnia di Dostoevskij per cinquantadue volte nell’arco di tre giorni e tre notti e tutto ciò che scrive si basa su tali ricordi. Di più non ha voluto dirmi, quindi non conosco l’argomento del saggio che sta febbrilmente scrivendo. Fra i critici cinematografici ho incontrato un tale di nome Beota. Penso che sia uno dei più pericolosi del’istituto, non ho ben capito su cosa stia elucubrando, però sicuramente anche lui scrive e parla (ahimè quanto parla!) basandosi su ricordi anche di molti anni fa. Incontrati gli assistiti, mi sono recato alla mensa dove tutto il cibo era quasi esclusivo appannaggio degli educatori e dei custodi, anch’essi di una stazza esorbitante. Notai che in un angolo era accucciato Gesualdo, il cane: un cameriere in livrea serviva di fronte al suo muso una quantità impressionante di manicaretti in stoviglie argentate e dorate. In quanto a me, per un impiegato di categoria Z, la cena consisteva in un piatto di minestra e in una fetta di pane dell’altro ieri. Mi sono accontentato. La notte, dalla mia branda, ho sentito la voce meccanica di Gesualdo: essa mi ha provocato un terrore indicibile. In preda all’orrore ed alla paura tremenda sono stato costretto a passare gran parte della notte nel bagno che si trova nel corridoio, sporco e puzzolentissimo. La mattina di oggi sono stato libero da impegni mentre nel pomeriggio ho dovuto incontrare il direttore di Matter Island, un personaggio a dir poco bizzarro.

Dunque, come dicevo, mi sono trovato di fronte il direttore che è un personaggio alquanto bizzarro. Innanzitutto è di un’altezza spropositata, che arriva grandemente a superare i 2 metri. Ma, a differenza degli educatori, egli è magrissimo: sembra uno di quegli zombies di alcuni films o un personaggio che assume una specie di droghe perigliose, in interni illuminati da luci verdi e blu, fumando e bevendo intrugli pieni di un color pasticca dorata. Dicevo, egli è magrissimo e il suo diametro sarà un cinque centimetri, non di più. Probabilmente, nemmeno si reca quotidianamente alla sala mensa, esclusivo appannaggio degli educatori e dei custodi, nonché di Gesualdo. Il direttore, che si chiama Stecchetti, si esprime in un linguaggio non sempre molto comprensibile. La sua voce è flebile, quasi ridotta ad un filo e usa una specie di slang derivato dai quartieri della malavita. Infatti, e questo non è un particolare di poco conto, è stato per vent’anni vicedirettore del carcere di Sing Sing; solo da cinque anni, per una sorta di promozione, è divenuto direttore di Matter Island, passando dal carcere al manicomio criminale. Ecco alcuni esempi del suo curioso slang: per salutarmi usa l’espressione “hal” che sarebbe – presumo – una contrazione di “hallo”; per esprimere cordialità dice “hellcam”, una parola anch’essa – come penso – derivata dall’inglese, anzi dall’americano (essendo stato 20 anni in America): una neoformazione da “welcome” che però finisce curiosamente per possedere al suo interno la parola “hell”, “diavolo”, “inferno”, come a dire “benvenuto all’inferno” (ma questo lo penso soltanto io, solo una mia congettura). Per indicare la finestra usa una strana parola – “metz” – che proprio non riesco a decifrare. Insomma, ho avuto una lunga conversazione con Stecchetti ma di quello che ha detto avrò capito il 10 per cento; spero proprio di non commettere qualche errore in futuro, derivato da una misinterpretation delle sue parole. Questo è accaduto ieri mattina. Il pomeriggio ho fatto una passeggiata sulle scogliere di Matter Island; ci ho messo solo mezz’ora per fare il giro di tutta l’isola. La cena, poi, mi ha riservato una minestra insipida, con un filo d’olio invecchiato e una fetta di pane secco. Pranzi luculliani erano apparecchiati per educatori, custodi e per Gesualdo. Oggi ha piovuto tutto il giorno e ho perciò passato la domenica nella mia stanza, in branda, leggendo un libro che mi sono portato dietro, “La critica del giudizio”. Stasera non mi recherò nemmeno alla mensa, presumo. Attendo solo la voce meccanica di Gesualdo che farà tremare sbarre e finestre.

Dopo un’altra notte passata praticamente nel terrore (Gesualdo parlava sempre più forte e per un attimo ho temuto che la sua voce metallica facesse sbriciolare gli scogli dell’isola), terrore che comunque mi ha toccato ben poco (sono bastati pochi giorni qui per rendermi duro ad ogni evenienza) dunque, dicevo… dopo un’altra notte passata nel terrore, stamattina ho avuto di nuovo molto da fare: è stato Beota a creare dei problemi. Dava in escandescenze, urlava, sbavava, emetteva suoni inconsulti tanto che i custodi hanno dovuto trascinarlo a forza nella stanza degli educatori, con indosso una camicia di forza. Io e il capo-educatore lo abbiamo quindi interpellato. Parlava di cose strane utilizzando termini strambi: farfugliava a proposito di inquadrature, di tempo filmico, di sintagmi acronologici e cronologici, di sequenza a episodi, di velocità sintattico- analettica che si lega allo scorrere dei vari sintagmi, poi di acusma, di voce acusmatica, di silenzi, di primi piani e piani americani, di mdp (?) e di tante altre scempiaggini. Ci siamo veramente preoccupati, tanto che l’educatore stava per chiamare l’elisoccorso. Si è improvvisamente calmato non appena l’educatore ha nominato la parola “Ciak”. Il Beota è quindi ammutolito, e senza proferire altra parola si è chiuso in un mutismo insistente. Ha voluto tornare in cella subito. Anch’io l’ho riaccompagnato insieme all’educatore e ai custodi. Non ha più dato problemi per tutto l’arco della giornata. L’educatore mi ha messo in guardia dal Beota, dicendo che a volte potrebbe essere veramente pericoloso. Davvero, mi sono un po’ allarmato. Ho trascorso poi il pomeriggio a studiare il volume di psichiatria criminale che mi ha passato l’educatore, ha detto che è un testo fondamentale. La sera mi sono recato alla mensa, avendo un po’ di fame; per me la solita minestra col pane vecchio. Poi, dopo cena, ho finito di leggere il volume, molto interessante ed istruttivo. Poiché non riuscivo a prendere sonno sono poi uscito per fare quattro chiacchiere con Gesualdo…

Purtroppo, da Matter Island, non ho molta facilità nell’accesso al web, solo ogni tanto nella stanza degli educatori, come sto facendo adesso. Continuo comunque nel narrare le vicende legate al mio impiego di categoria Z che continuerà, almeno, per tutto il prossimo mese, di più non sono riusciti a dirmi, anche noi sottoeducatori siamo fra i precari più destabilizzati. Oggi ho fatto un giro per le celle, Paco, Tico e Beota erano abbastanza tranquilli e ho conosciuto qualche altro ospite della struttura. In un altro settore vi sono coloro che si credono piloti di razzi: sì, avete capito bene. Credono che la cella sia la cabina di pilotaggio di un razzo interplanetario diretto verso nuovi mondi. Nella cella di un tale Brisaldi, ho trovato volumi su volumi sullo spazio e sui viaggi spaziali; sembra un controsenso, infatti nelle celle dei critici letterari non ci sono libri mentre in questa sì. Ma Brisaldi, tutti i volumi che possiede, se li è accumulati negli anni, anche in altre strutture manicomiali dove era più facile comprare materiale dall’esterno. Mentre i critici e i saggisti, invece, sono pochi anni che sono nella struttura e sono stati solo qui, a Matter Island. Insomma, Brisaldi mi ha narrato di un suo viaggio nello spazio: è durato diversi mesi – mi dice – perché la navicella doveva allinearsi ad un altro spazio-tempo, completamente diverso dal nostro. Nei viaggi ha incontrato altre navi spaziali, come quella agli ordini dell’ammiraglio Nemos, una nave gigantesca, che portava aiuti materiali per le colonie di Alfa Centauri. Mi ha anche descritto gli abitatori del pianeta Strinzo: del tutto simili ai terrestri ma con una intelligenza sviluppata miliardi di volte più della nostra. Ho chiesto a Brisaldi come mai non ha mai scritto nulla sui suoi viaggi; in altre celle ci sono critici che, su idee astratte, scrivono migliaia di pagine mentre lui che, almeno a quanto dice, queste vicende le ha vissute veramente, non scrive nulla. Brisaldi mi ha risposto con pacatezza che non vuole scrivere nulla perché ha paura che possano rubare i suoi segreti. Solo quando uscirà confiderà a un suo amico che abita sugli Scali Barbeglio, tale Leopoldo Barboni, tutte le sue avventure e , con l’aiuto del Barboni, ha intenzione di scrivere un libro di memorie. Il Brisaldi mi ha dato l’idea di una persona posata, quasi esente da crisi. L’educatore mi ha confermato la mia idea. Adesso sto scrivendo per gentile concessione dell’educatore, il dott. Smilzi, che mi sta sedendo a fianco. La cena è finita da poco e dopo cena ci siamo recati subito qui, essendo il suo ufficio molto vicino alla mensa (per motivi strategici, come ho già detto). Fra poco mi recherò nella mia stanza. Poco fa ho visto Gesualdo che già dormiva, forse a causa della cena abbondante (io invece ho mangiato solo una scatoletta di tonno e acqua di fonte). Probabilmente, allora, stanotte non sentiremo la sua voce.

Vorrei adesso raccontarvi il mio viaggio di ritorno da Matter Island, poiché è scaduto il mio contratto di aiuto-sottoeducatore di categoria Z. La barca che collega Matter Island alla terraferma (che passa una volta ogni due mesi) è arrivata lo scorso 10 aprile alle 6 di mattina. Alle 5 venni svegliato dalla voce meccanica del cane Gesualdo che già stava gustando la sua succulenta colazione: dolci tipici dell’isola, caffellatte insaporito con crema alla nocciola, biscottini isolani, nonché il famigerato, burroso “pane del mozzo sottopagato”, vanto della panificazione locale (proveniente dall’unico panificio dell’isola gestito da un ex internato di origine greca, Troglos Ditas). Quindi mi svegliai: per me il bar della struttura offriva solo un caffè corto e una scatola di gallette di due mesi fa. Mi preparai al lungo viaggio con questa robusta colazione. Il barcone che faceva la spola bimensile fra Matter e la terraferma era una vecchia, piccola imbarcazione norvegese della fine dell’Ottocento, riadattata con un motore a scoppio e un funzionamento a pedali qualora il motore si fosse guastato. Era comandata dal capitan Barbaccia, un vecchio lupo di mare che ne aveva viste di cotte e di crude. Quel giorno non entrai a visitare i miei assistiti. A tutti avevo detto che mi sarei assentato per un periodo non lungo, per evitare che dessero in escandescenze. Tico, Paco, Beota mi avevano fatto un mucchio di richieste: libri di critica letteraria, videocassette (poiché ignoravano i supporti dvd), manuali di critica cinematografica, nonché trecento televisori. Assurde richieste che non avrei mai potuto esaudire. Il Brisaldi mi diede il suo libro di memorie. Mi disse che dovevo portarlo al suo amico Leopoldo Barboni che abita sugli Scali Barbeglio, nella città di Citorno, lontana meta del mio viaggio. Spero che il Barboni riesca a farlo pubblicare.

Sono salito sulla barca del capitan Barbaccia e ho cominciato la mia avventura. il mare era calmo, quindi il barcone è partito senza problemi. La traversata durò 12 ore durante le quali ho potuto bere solo un bicchiere di acqua riciclata, poiché il Totano II, la barca del capitano, non aveva provviste perché le aveva lasciate tutte a Matter island. Inoltre, durante la traversata, il motore si ruppe e dovetti pedalare per almeno tre ore insieme all’equipaggio composto da marittimi indonesiani. Arrivammo a terra alle 18 dello stesso giorno (per fortuna, con l’avvento della primavera le giornate si erano allungate). Il luogo dove approdò la barca si chiamava Port Metal: vi era un solo barraccio per marinai e sbandati e una stazioncina solitaria. Entrai nel locale e un personaggio del luogo, tale Zoro, mi apostrofò con queste parole: “dove credi di andare, non sai che a Port Metal finisce il mondo? Da qui puoi andare solo a Matter Island”. Spiegai a Zoro che io provenivo proprio da lì e né lui né qualsiasi altro losco figuro di quel localaccio sarebbe riuscito a intimidirmi.

Dopo il massacrante viaggio per mare mi sono ritrovato nell’unica locanda della località denominata Port Metal. Dopo l’incontro con Zoro (un losco figuro con un mantello, che appariva al calar delle tenebre) mi recai nella stazioncina ad aspettare il treno. Zoro, biecamente, da lontano controllava i miei movimenti. Il treno arrivò dopo 45 minuti. I viaggiatori erano proprio pochi: chissà, forse oscuri viandanti che cercavano un varco per l’inospitale Matter Island, magari da raggiungersi con mezzi di fortuna, o forse, semplicemente, per fermarsi a Port Metal e bearsi della sua malinconica inquietudine, per girovagare sotto le strutture metalliche e scure, forse mostri industriali di qualche attività perduta di catena di montaggio postfordista, che ergevansi intorno. Il locomotore che trainava il trenino era infatti un Ford Canivacci del 1956, ed emetteva digrignanti sbafature di grigio da elucubranti ciminiere che si trovavano sopra la sua struttura. Salii in un vagone centrale: i seggiolini erano di legno e i pochi viaggiatori avevano un’aria malandata e stanca, vestiti come lontani cow boys di spaghetti western; ma non mangiavano spaghetti: avevano bensì con sé dei portavivande dove si trovavano succulenti fagioli all’uccelletto. Essi mi guardarono biechi, sfregando le ossute mani sui cinturoni sui quali si celavano forse armi da fuoco. Fra di loro vi era anche il famigerato Tom Eis, al quale Bob il Dritto regalò la sua chitarra per una pizza ed un fucile. Dopo venti minuti il treno giunse al capolinea: una piccola località con tre case e una stazioncina perduta in una campagna sterminata, chiamata Camp Ilias. Gli oscuri personaggi che viaggiavano con me si fermarono in attesa di altri treni, forse verso nord o verso il sud del mondo. Fra i personaggi in attesa del treno notai un fumatore di pipa, una pipa lunga come quelle fumate un tempo dai secessionisti e una giacca di velluto color pisello come se volesse giocare con se stesso al tiro al piattello. Non gli rivolsi parola, anche perché era impegnato a conversare con un lavoratore che puliva escrementi dai binari. Un altro personaggio era chiamato L’Olandese viaggiante ed era proprio inquietante: allampanato, lumperproletarizzato, forse di altezza oltre i due metri; pare che egli si aggirasse quotidianamente sulla linea fra Port Metal e Camp Ilias. Dopo due ore di attesa arrivò un altro treno diretto a nord. Era quello che dovevo prendere io per recarmi a Citorno. Salii e mi sedetti fra i magri cavalieri dell’irreale dagli occhi perforanti di nostalgie feroci. Zigani suonavano mandolini e cetre azzurre mentre praterie e colline di smalto verdastro come il mare il treno attraversava. Dopo due ore giunsi a Citorno e scesi: mi trovai solo, solo con la mia sacca da viaggio, sul binario, all’interno della stazione.

Quest’ultima era gigantesca. Una sorta di gabbia metallica da cui si dipanavano immani braccia di ferro sovrastava i binari che saranno stati oltre cinquanta; a est, perdutamente, si perdeva lo sguardo in una miriade di campi sui quali si vedevano le striature nere dei binari. Nonostante l’ora tarda migliaia di viaggiatori si incontravano e salutavano nei luoghi della stazione, elegantemente costruiti in un liberty primo novecento, stile bombardier, illuminati da diverse lampade a gas. I passeggeri erano vestiti in fogge antiquate, le dame avevano ombrelli e i signori cappelli a tuba lunghissimi e fumavano sigari nostrani dalle etichette dorate. Sulla soglia della stazione si apriva un enorme vialone luminescente, circondato da entrambi i lati da palazzi stile liberty. Nonostante fosse tardi, vi era un via vai incessante di veicoli, anche corriere pubbliche. Mi dissero di prendere la corriera della sera, il 28 barra N. In venti minuti arrivai a destinazione, sugli Scali Barbeglio. Questi ultimi erano bellissimi: un lungo canale correva a fianco della via che dovevo percorrere, una via costellata di palazzi di pregio, illuminata da eleganti lampioni a gas. Uomini con tuba, mantello e pince-nez camminavano avanti e indietro, persi in un’incessante allegria, accompagnati dalle loro elegantissime dame. Cocchi e carrozze sostavano ovunque e vicino al lungo canale degli Scali si intrecciavano altri canali più piccoli, disseminati di eleganti viuzze, mentre un vento primaverile si sollevava dal mare. I cavalli che conducevano i cocchi nitrivano allegramente e io avevo già dimenticato Matter Island. Cercai il palazzo del Barboni, quando ripensai all’odore del mare in primavera; mi ritrovai davanti all’elegante portone e rabbrividii per la frescura di quella sera di primavera e per il suo meraviglioso, gioioso silenzio. Rimasi lì finché non mi guardai intorno. C’era soltanto la mia cameretta di Matter Island, gli appunti per i miei assistiti e un solo rumore: la voce del cane Gesualdo. Non ero mai partito.

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Un viaggio tranquillo https://www.carmillaonline.com/2021/08/06/un-viaggio-tranquillo/ Fri, 06 Aug 2021 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67492 di Paolo Lago

Recentemente mi sono ritrovato a percorrere i corridoi di un Intercity 451 diretto a Milano Segrate. Era appena sorta l’alba e dopo un’abbondante colazione consumata al bar accanto a Martin detto Alga, il boss della stazione, salii sul treno e entrai nello scompartimento: l’unico passeggero era un mago. Egli era torvamente vestito di nero, con un lungo cappello a punta sul quale erano dipinte stelline colorate. Nello scompartimento a fianco c’era una ragazza travestita da Bassotto (uno di quei ladri che vogliono derubare Paperon de Paperoni, n.d.a.) che si stava [...]]]> di Paolo Lago

Recentemente mi sono ritrovato a percorrere i corridoi di un Intercity 451 diretto a Milano Segrate. Era appena sorta l’alba e dopo un’abbondante colazione consumata al bar accanto a Martin detto Alga, il boss della stazione, salii sul treno e entrai nello scompartimento: l’unico passeggero era un mago. Egli era torvamente vestito di nero, con un lungo cappello a punta sul quale erano dipinte stelline colorate. Nello scompartimento a fianco c’era una ragazza travestita da Bassotto (uno di quei ladri che vogliono derubare Paperon de Paperoni, n.d.a.) che si stava recando al carnevale di Mareggio. Il treno, un gigante bianco, lungo come un serpente tranquillo, iniziò la sua lenta marcia. Mi sedetti: il mio unico cruccio era di non poter fumare per almeno cinque ore il mio sigaro cubano aromatizzato al Sassolino (noto liquore labronico, n.d.a.). Il mago aveva capelli lunghi, ricciuti, ed era somigliante a un personaggio televisivo, ma non ricordo più chi.

Il viaggio cominciò così tranquillo che non ebbi nemmeno il coraggio di fiatare. Ero zitto, nel mio cantuccino di ghiaccio, lontan dal finestrino e vicino al corridoio. Alla prima fermata, Pisa Est, salì Johnny detto il Pisano; egli era addobbato come un fuorilegge e aveva un cinturone dal quale pendevano numerose pipe contadine. Non mi degnò di uno sguardo e entrò nello scompartimento. Egli asseriva, parlando col mago, di aver attraversato quindici volte il Meridiano di Greenwich e alla sedicesima riportò una contusione psichica, per cui si guadagnò il nomignolo di “Tardo”. E parlava e parlava, con me che lo stavo a sentire, mentre la pianura pisana non voleva finire. Basta. Cambiai scompartimento. In quello a fianco la Bassotta, col suo numero giallo stampigliato sulla tuta rossa, non faceva altro che strusciare le dita su un cosiddetto “touch screen”. Insomma, finalmente un po’ di pace. Alla stazione di Red Mountain salì un indiano con la chitarra, soprannominato “Ombra Rossa Urlante”: a mie spese capii il motivo del soprannome. Si sedette nello scompartimento con me e la Bassotta. Cominciò a urlare parole sconnesse, in una sorta di canto medianico evocatore di spiriti delle foreste del Dakota Sud e di Berlino Est e di Roma Tiburtina, accompagnandosi con la sua chitarra da ranchero. Evidentemente aveva bevuto troppo sakè. Non capii il perché del sakè (in effetti non importava un granché). Comunque. Insomma. Va bene.

A Genova salì un personaggio silenzioso (solo dopo seppi che era soprannominato Bufalo Pil): ondeggiava sul treno, per i corridoi, avanti e indietro e quando tornava nello scompartimento emetteva parole sconnesse agitando le mani. “Basta. Volevo un viaggio tranquillo e viaggio tranquillo avrò!” – dissi. Perdinci. Cambiai di nuovo scompartimento. Ma, con mio grande orrore, mi resi conto che il treno ora era pienissimo, non vi era più un posto libero. Tornai indietro ma il mio posto era stato già occupato da un solitario viaggiatore antartico. Che paura! Dovevo stare in piedi fino a Segrate! E passarono scorci di mare, e scogliere stupende e palazzi liberty ma non liberi e scaglie di grana e schiocchi di merli dai calvi picchi e anche picchi che rutilanti, con creste color ocra, cantavano, cantavano e dicevano ridendo, io son libero! tu no! tu no! tu non devi andare via! tu no, amore no! disse il picchio ma fu un attimo e il treno corse via, mentre un merlo afferrava ridendo il picchio. E furon gallerie e poi ancora mare e via e via fino a montagne e poi una lunga pianura piena di nebbia. Alla fermata di Tortona salì un pasticcere stalinista con una torta gigante, ma rimase in piedi perché non c’era più posto. Io ero schiacciato tra un Vatusso di nome – mi disse – Alfio, e un australiano venditore di pulci ammaestrate. E via e via e l’indiano Ombra Rossa Urlante faceva fede al suo nome urlando in falsetto canzoni cretine sulla sua chitarra, la Bassotta ignara di tutto continuava a fissare il suo touch screen, Bufalo Pil ora era perso in un lungo, infinito sibilo che finiva puntualmente in una pernacchia prolungata, il mago stava lievitando una pizza che aveva messo in borsa, il Pisano si era messo a fumare le sue otto pipe contemporaneamente e un romano, il controllore, fuggiva nella direzione opposta alla nostra carrozza.

Finalmente una mano mi toccò la schiena e mi riscosse: era il mago che voleva avvertirmi che eravamo giunti a Milano Segrate. E come poteva – chiesi terrorizzato – lei sapere la meta del mio viaggio? “Sono un mago” – disse – e tacque. Finalmente! Scendemmo solo io e il mago. Un po’ di pace, un po’ di silenzio. Mi diressi verso la metropolitana mentre il mago prendeva il volo su una pizza gigante totalmente lievitata. Egli lievitava tranquillo verso Segrate. Mi diressi al metrò e mi apprestai, stavolta davvero, a un viaggio tranquillo per giungere a destinazione. Quando giunse il metrò, di fronte all’entrata, però, si parò il famigerato bandito milanese Ghisolfo Pescherecciglio detto il Buono che, agitando a mezz’aria un sigaro aromatizzato al puffo (gusto di gelato per bambini dal colore blu, n.d.a.), mi sorrideva tremebondo.

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La leggenda di Piperatu https://www.carmillaonline.com/2021/07/30/la-leggenda-di-piperatu/ Fri, 30 Jul 2021 21:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67412 di Paolo Lago

Il trattore del contadino avanzava lentissimo sulla strada in salita. In cima al colle si poteva intravedere una grande costruzione a forma di uovo immersa nella nebbia di caldo, nella serata estiva. Il sole stava tramontando e mi consideravo davvero fortunato ad aver trovato un passaggio su quel trattore nell’ultimo tratto del mio lungo viaggio verso la magione del conte Piperatu. Il contadino, Oreste, era un vecchietto simpatico che, guidando la sua macchina agricola, ogni tanto dava una gozzatina a una bottiglia di Morellino di Pipano che teneva vicino al [...]]]> di Paolo Lago

Il trattore del contadino avanzava lentissimo sulla strada in salita. In cima al colle si poteva intravedere una grande costruzione a forma di uovo immersa nella nebbia di caldo, nella serata estiva. Il sole stava tramontando e mi consideravo davvero fortunato ad aver trovato un passaggio su quel trattore nell’ultimo tratto del mio lungo viaggio verso la magione del conte Piperatu. Il contadino, Oreste, era un vecchietto simpatico che, guidando la sua macchina agricola, ogni tanto dava una gozzatina a una bottiglia di Morellino di Pipano che teneva vicino al posto di guida. Volle sapere dove ero diretto: alla mia risposta che dovevo raggiungere il conte Piperatu per stipulare con lui un contratto immobiliare nella città di Piporno (il conte aveva infatti comprato un elegantissimo palazzo sul Fosso Imperiale), si fece scuro in volto e mi scongiurò di non proseguire. Rimasi un po’ sbalordito dalla reazione di Oreste – “e perché mai?” – dissi preoccupato. “perché la magione di Piperatu è maledetta” – rispose in un sussurro – “circolano strane voci sulla figura del conte; pare sia un essere diabolico che, dopo aver dissanguato le sue vittime, ne fuma il sangue rappreso in una pipetta ricavata da un teschio umano…”. “Ah, tutte storie!” – dissi – “caro Oreste, lei è rimasto ai tempi delle vecchie storie paurose della nonna! Ora siamo nel 2021, non se lo dimentichi!”.

La sera era già scesa e sul trattore di Oreste giunsi fino a una locanda nella valle Maledetta, alle pendici della collina dove avevamo intravisto la strana costruzione. Più in là non volle proseguire: disse che doveva andare a dare da mangiare a Federico, la sua capretta, e se ne andò via rapidamente. Una vecchia insegna sulla porta della locanda recava la scritta “Alla taverna del cinghiale sgozzato” e, vicino all’insegna, una testa di cinghiale impagliata, nel buio, mi fece quasi paura. Mi sedetti a un tavolaccio di legno in un giardino accanto all’entrata e aspettai. Arrivò un cameriere piccolo e gracile, con corti capelli neri e gli dissi che volevo cenare e pernottare per poi partire, il giorno dopo, alla volta della magione del conte Piperatu. La sua reazione fu alquanto scomposta: irruppe in un grido e, dopo aver pronunciato una preghiera in un linguaggio dell’est, mi scongiurò di non partire e mi disse che il castello del conte era maledetto e lo stesso conte era un mostro terribile. Anzi, disse che non dovevo attardarmi molto nel giardino della locanda perché la notte, per la valle, giravano mostri terribili assetati di sangue, i mici mannari, un’orda di gatti selvatici che a notte alta assaltano la locanda. “Orsù” – risposi – “basta con queste stupide storie e portatemi piuttosto i vostri piatti migliori!”. Ciò detto mi riempii il bicchiere con la bottiglia di Morellino che il cameriere mi aveva portato e dopo poco mi ritrovai davanti un gustoso piatto di affettati e formaggi locali e poi un’abbondante porzione di pipardelle al cinghiale seguite da un enorme piatto di cinghiale in salmì. Chiusi la cena con un ottimo Pipamisù, uno squisito dolce locale, e con un bel bicchiere di grappa al mirtillo. Mi recai a dormire quasi subito ma dopo poco sentii bussare alla porta: era la vecchia locandiera che mi portava una cesta d’aglio e un vecchio libro scritto in una strana lingua, che recava come titolo, semplicemente “Piperatu”. Se ne andò subito e, finalmente, riuscii a dormire dopo aver preso un misurino di Trefluxan e un bicchiere di Piposodina, poiché avevo mangiato veramente tanto.

Il giorno dopo, fatta un’abbondante colazione, mi misi in cammino di buon’ora e, in mezzo alle preghiere del cameriere e della locandiera, nonché degli altri avventori, partii alla volta della magione del conte (avevo lasciato in camera l’aglio, perché puzzava troppo, e anche il vecchio libro perché era troppo pesante). Il cammino era veramente lungo: ho attraversato boschi incontaminati e sorgenti di acqua freschissima e le superstizioni dei valligiani e le loro paure sembravano ormai lontane. A un certo punto, a un bivio, era fermo un elegante cocchio. In cassetta era seduto un uomo che reputai fosse altissimo e magrissimo, avvolto in un mantello nero. Disse semplicemente: “Il cuonte vi sta aspettando, gentile signuore, salite in carruozza”. Ringraziai e salii sulla carrozza. Dopo un viaggio di due o tre ore giungemmo finalmente in vista della magione del conte: era quella grande costruzione bianca a forma di palla o di uovo, che avevo intravisto immersa nella nebbia dal trattore di Oreste. Scesi dal cocchio e il grande portone, costituito da una enorme lastra di vetro scuro, si aprì e mi fece entrare. Un grande impianto di luci avveniristiche illuminò d’improvviso il buio fitto mettendo in risalto una figura altissima, ritta in piedi di fronte a me. Aveva un mantello nero luminescente e un viso bianchissimo, sul quale spiccava un naso lungo e affilato e delle orecchie a punta. Il mantello sembrava la tuta spaziale di qualche personaggio di un film di fantascienza.

“Benvenuto in mia puovera magiuone, carissimuo amiko” – disse il conte appena mi vide – “Vi sthavo aspetthando; entrate liberamente, e di vuostra sponthanea volontà”. Mi condusse in un elegante salone con avveniristiche poltrone in vetro color avorio e tavoli che sembravano volteggiare sul pavimento costituito di una materia luminosa e riflettente. Una grande teca in vetro custodiva tante pipe bianche delle più svariate fogge. “Il conte Piperatu, immagino” – dissi non senza una certa inquietudine. “Per servirvi” – rispose quasi in un sussurro. Notai che il conte era estremamente pallido e le sue mani erano magrissime e lunghissime, come se da molti anni non fossero esposte alla luce del sole. Mi invitò a sedermi e volle vedere le foto del palazzo che aveva comprato a Piporno. Sembrava molto contento dell’acquisto e mi trattò con ogni riguardo. “Certamente avrete fame” – disse – e mi portò in una stanza dove si trovava un tavolo riccamente imbandito con succulenti delizie. Il conte si ritirò dicendo che lui non mangiava mai e, scusandosi, sparì dietro una porta a vetri. Il giorno dopo, passeggiando nelle sale della magione, fui colto da una strana sensazione: era come se l’intera costruzione stesse volteggiando nell’aria. Guardai da una finestra e, con orrore, mi accorsi che stavamo veramente volando nello spazio. Dietro una porta scorsi il conte che si trovava in una avveniristica cabina di pilotaggio, piena di luci bianche e gialle. Disse in un ghigno: “Siete cadutho in mia trappola! Vi sto porthando su mio pianeta, Pipa 24 e insieme a miei altri amici vampiri puotremo fumare tutto vostro sangue in pipe fathe di cranio umano, ah ah ah!”. Il conte era un alieno e il suo palazzo un disco volante! E ora mi stava portando incontro a una morte certa!

D’improvviso mi svegliai e mi ritrovai nella stanza della locanda. Era tutto un sogno! Certo frutto del cinghiale in salmì della sera prima. Che angoscia mi aveva preso! Scendendo per la colazione mi tranquillizzai e decisi di non proseguire oltre. Aspettai Oreste che, dopo aver dato da mangiare a Federico, scendeva col trattore e me ne tornai a casa, deciso a non rimettere più piede nella valle Maledetta.

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Il mistero del lupo pannaro https://www.carmillaonline.com/2021/07/23/il-mistero-del-lupo-pannaro/ Fri, 23 Jul 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67356 di Paolo Lago

Era una bellissima serata d’estate. Eravamo nella piazza principale dell’antica cittadina di Trixen, nella Stiria meridionale, e alle nostre spalle si ergeva l’imponente sagoma del duomo, con le sue torri barocche. Il crepuscolo era lunghissimo: sulle montagne che circondavano Trixen si andava spalmando la placida luce di un delicato sole morente. Eravamo in piedi di fronte a un televisore sintonizzato su una importante partita della Coppa dei Campioni della Stiria: la Pannonia stava vincendo 5 a 0 contro la Blumenlandia. Al mio fianco, il professor Krainz aveva uno sguardo serio.

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di Paolo Lago

Era una bellissima serata d’estate. Eravamo nella piazza principale dell’antica cittadina di Trixen, nella Stiria meridionale, e alle nostre spalle si ergeva l’imponente sagoma del duomo, con le sue torri barocche. Il crepuscolo era lunghissimo: sulle montagne che circondavano Trixen si andava spalmando la placida luce di un delicato sole morente. Eravamo in piedi di fronte a un televisore sintonizzato su una importante partita della Coppa dei Campioni della Stiria: la Pannonia stava vincendo 5 a 0 contro la Blumenlandia. Al mio fianco, il professor Krainz aveva uno sguardo serio.

Il professore era il più esimio rappresentante della locale facoltà di Biologia e mi aveva convocato per risolvere una questione delicatissima. Stavamo aspettando il commissario Girolimoni, comandato alla Mobile in quella remota regione lontano dalla sua amata patria. Il commissario arrivò, trafelato, dopo dieci minuti. Decidemmo quindi di spostarci all’interno di un caffè per poter parlare più tranquillamente.

Il problema che ci si poneva di fronte aveva dell’incredibile: un essere misterioso, che l’equipe del professor Krainz aveva definito come “lupo pannaro”, tormentava la vita tranquilla della cittadina. Il professore cominciò il suo racconto: “Tutto ebbe inizio lo scorso inverno. Era una sera di pioggia e me ne stavo tornando a casa dall’Istituto di Scienze Biologiche. Il buio aveva avvolto le strette strade del centro storico e le carezzava col suo mantello di velluto. Una pioggia sottile cadeva sul selciato tenue, lucido e silenzioso, mentre i palazzi antichi erano dei placidi giganti che avvolgevano i vicoli con le loro mani di pietra giallina e rosa. A un certo punto, la strada era circondata ai due lati da giardini boscosi e l’oscurità divenne più fitta. Erano tetri giardini ove statue di demoniche divinità ghignavano nel buio ineluttabile. Improvvisamente, una enorme figura scura balzò dal muro nel vicolo e cominciò a correre di fronte a me. Questo è stato il mio primo incontro con il lupo pannaro, il mostro che poi, purtroppo, avrebbe ancora fatto parlare di sé. Le sue apparizioni si infittirono alla fine dell’inverno. Con l’arrivo della primavera il lupo pannaro cominciò a visitare regolarmente le serate di Trixen. Il nome fu coniato genialmente dal mio fido assistente Karl, poiché ci trovavamo di fronte a una specie terribile di quel mostro che – ahimè – credevamo fantastico ma che poi dovemmo convincerci essere assolutamente reale, il ‘lupo mannaro’. La variante linguistica ‘pannaro’ deriva dalla sua predilezione per la panna montata delle gelaterie di Trixen, che regolarmente saccheggiava. Esso, inoltre, non pareva legato alla presenza della luna piena come il lupo mannaro: poteva infatti apparire tutte le notti”.

Il professore smise di parlare quando all’improvviso entrò Karl insieme a un anziano che fumava una lunga pipa di legno scuro. Era questi Meister Eckart, un vecchio intagliatore di legno, studioso del folklore locale. Eckart disse che il lupo pannaro proveniva dai boschi che circondavano Trixen e soprattutto dal bosco di Rudis, che si estendeva in posizione elevata intorno a una vecchia chiesa. Si vedeva distintamente dal centro di Trixen: era una macchia scura che avvolgeva una vecchia costruzione bianca con un campanile appuntito. Secondo un’antica leggenda, in questo bosco abitava il crudele folletto Rudis, la cui unica ragione di vita era vendicarsi dei cittadini di Trixen per essere stato ingiustamente esiliato.

Il commissario Girolimoni disse: “come si fa a credere a queste antiche leggende, siamo seri, signori!”. Il professor Krainz, nonostante fosse biologo, intendeva invece dare il giusto peso a queste leggende. Uscimmo dal bar e decidemmo di prendere un doppio gelato con panna per vedere se il lupo pannaro si sarebbe fatto vivo. Stavamo passeggiando tutti col nostro bel gelato quando, ad un tratto (la notte, intanto, era già calata), dal muro di un vicolo, balzò un essere mostruoso dalle parvenze di un lupo che, rapidissimamente, sottrasse i nostri gelati. Non facemmo in tempo a renderci conto di quello che era avvenuto che il mostro era già scomparso. Il professore e Karl rimasero di stucco, il commissario si disperava, mentre l’unico ad aver conservato la calma era Eckart. Coraggiosamente, allora, il vecchio intagliatore prese la via del bosco.

Egli, nella notte estiva, imboccò il sentiero che usciva dalla città. Nel silenzio, nella solitudine notturna che mai occhio d’uomo ebbe percorso, là dove gnomi e folletti tramavano le loro insidie segrete, Eckart si avventurò. E il silenzio lo avvolse, e la notte era un dio che gravava con il suo mantello, e la solitudine era una dea misteriosa che ci faceva innamorare. Ombre nere e cupi suoni echeggiarono nell’oscurità del bosco. Eckart, in una strana luminescenza bluastra, si ritrovò di fronte una misteriosa figura, vestita di verde, in pantaloni corti e con un cappello con la piuma, come gli alpini. Aveva uno sguardo cattivo ed emise una risata agghiacciante mentre si stava cucinando delle salsicce con il fornellino a gas maledetto che emanava una sinistra luce blu. Era lui, Rudis. Era lui che aveva creato il lupo pannaro per vendicarsi degli abitanti di Trixen. Eckart, dall’alto della sua saggezza, rassicurò Rudis che sarebbe stato accettato di nuovo dalla comunità se avesse interrotto le sue azioni malvagie. Grazie agli aiuti economici del Comune, avrebbe potuto aprire un negozio di speck e il lupo pannaro avrebbe fatto il gelataio ambulante. Rudis, dopo aver riflettuto, così si rivolse ad Eckart: “Foi cithadini siete stathi krudeli kon me, ani fa! Mi afete esiliato, mi afete caciato da Trixen! Afete fato kiudere mia pasticeria perké dicefate che pana di gelati e thorte era acita! Atesso io mi fendiko: ho kreato lupo panaro per derubare fostre gelaterie e pasticerie di tuta la pana!”. Eckart controbattè dicendo che la panna era veramente acida e lui stesso si sentì male per tre giorni e tre notti. Che cambiasse settore: i salumi erano un ambito veramente interessante e a Trixen, come in tutta la regione, non ci sarebbe mai stata una crisi della loro produzione. Il lupo, ricondizionato, invece di rubare la panna, la avrebbe venduta. Alla fine, Rudis, parve accettare. “Fa pene” – disse – “profiamo”.

Il giorno dopo, Eckart ci riferì il successo della sua missione: tutti tirarono un sospiro di sollievo, soprattutto Girolimoni. Trixen, finalmente, era tornata tranquilla: Rudis sarebbe stato un ottimo venditore di speck e il lupo pannaro un altrettanto ottimo gelataio ambulante. Dopo una settimana, feci una passeggiata per Trixen insieme al professor Krainz e a Karl finché non giungemmo al banchetto del lupo pannaro che era diventato gentile ed affabile. Prendemmo tre gelati e continuammo la nostra passeggiata. Dopo un po’ incontrammo il povero Girolimoni che ci venne incontro trafelato, dicendo: “signori, signori, vi prego, dovete aiutarmi a risolvere un nuovo enigma che sta affliggendo la comunità di Trixen!” Cosa mai era successo adesso? “Da tutte le macellerie e le rivendite è completamente sparito lo speck!” – continuò – “l’unico prodotto di Trixen che viene sempre venduto, nonostante la crisi!”. Un nuovo mistero si profilava all’orizzonte. Il lupo pannaro, probabilmente, stavolta non aveva colpa mentre i sospetti di tutti si concentrarono sul folletto Rudis, notoriamente goloso di speck. Sicuramente, la sapeva lunga, del resto era stato lui ad aizzare il lupo contro gli abitanti di Trixen. Una nuova, misteriosa indagine ci stava lentamente e inesorabilmente avvolgendo.

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Il patto col vampiro https://www.carmillaonline.com/2021/07/16/il-patto-col-vampiro/ Fri, 16 Jul 2021 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67207 di Paolo Lago

Era già quasi una settimana che con i miei amici Gordiano e Betta stavo girando da una spiaggia all’altra della Pallazia quando, dopo l’ennesimo colpo di sole che mi aggredì, nonostante la crema di protezione tedesca con cui quotidianamente mi spalmavo, ci dirigemmo verso il paesino di Palle, in collina, abbastanza lontano dalla affollatissima costa. Eravamo stremati e ci sedemmo al tavolino di un bar all’ingresso del paese. Qui conoscemmo un tipo alquanto singolare: dalla pelle rossa, quasi fluorescente – dal sole che aveva preso, poiché era di carnagione molto chiara – era forse alto un metro e [...]]]> di Paolo Lago

Era già quasi una settimana che con i miei amici Gordiano e Betta stavo girando da una spiaggia all’altra della Pallazia quando, dopo l’ennesimo colpo di sole che mi aggredì, nonostante la crema di protezione tedesca con cui quotidianamente mi spalmavo, ci dirigemmo verso il paesino di Palle, in collina, abbastanza lontano dalla affollatissima costa. Eravamo stremati e ci sedemmo al tavolino di un bar all’ingresso del paese. Qui conoscemmo un tipo alquanto singolare: dalla pelle rossa, quasi fluorescente – dal sole che aveva preso, poiché era di carnagione molto chiara – era forse alto un metro e novanta e gigantesco di stazza. Si avvicinò, incuriosito dal colore della mia pelle, quasi simile alla sua, e facemmo conoscenza. Si trattava dell’esimio studioso e scrittore irlandese Bram Poker, così chiamato dal suo gioco di carte preferito. Egli era altresì un appassionato di occultismo e magia e da anni, ormai, batteva con la sua R4 ogni centimetro quadrato dell’Europa centrale alla ricerca di quello che – diceva – sarebbe stata una vera rivelazione per la scienza dell’occulto.

Dopo due o tre aperitivi Poker era già sbronzo e, praticamente, dal bar ci recammo subito in un ristorante locale la cui specialità erano i famigerati totani fritti della Pallazia. Ci sedemmo all’aperto, sotto una gradevolissima pergola dalla quale pendevano grandi mazzi di aglio; dal nostro tavolo, potevamo vedere il paesino di Palle, arroccato sulla cima di una collina: il colore delle case antiche era di un grigio tetro e, dal suo centro, svettava un campanile acuminato verso lo spazio del cielo. Ma ciò che più colpiva in Palle era la merlatura di un castello che si ergeva, al lato sud del paese, come un quieto signore che offriva protezione ed anche inquietudine. Dopo aver ordinato un doppio whisky come ennesimo aperitivo e acceso la sua lunga pipa di radica scura, Poker si rivolse a noi dicendo: “guardate, luk, tuto qesto allio apeso a pergola de restaurant non du iu tink is strenger?” Noi ci guardammo stupiti e rispondemmo che no, davvero non ci sembrava strano. Anzi, Betta disse che doveva essere un efficace rimedio locale contro le zanzare che infestavano la Pallazia. “No, non per zansare” – disse sottovoce Poker – “ma per vampair, vampirone, come dire voi?” “Lo zampirone!” disse Gordiano, pensando che Bram si riferisse ad uno dei più infestanti rimedi contro le zanzare. “No zampirone!” – disse Poker – “vampirone, vampiro, così voi dite in italiano!” “Vampiro???” dicemmo all’unisono, stupiti, tutti e tre. “Certo, vampiro! Io da ani e ani sto girando centro Iurop per luk for vampiro! E mai pensai di trovare qui in Palazia, vicino a mare! Ho setaciato Transilvenia, Stiria, Cecoslovakia, e i Balkani, i Carpazzi, i monti Tatra, perfino vostre Alpi, Black Forest, zone più selvage di vostro continente! Ma qui, questo allio, garlic, is la prova che cercavo!”. “Perché proprio l’aglio?” dissi allora stupito. “Perché secondo mii stadis, allio è mellio antidoto contro vampiro! In questo paese essere castelo, quindi in castelo può essere vampiro!”.

Io, Gordiano e Betta ci guardammo come per dire che il povero Bram aveva ormai lasciato a sciogliere il proprio cervello al sole della Pallazia, e ordinammo tutti una tripla porzione di totani fritti e abbondante vino bianco. Dopo cena, la locandiera ci offrì una grappa a novanta gradi, ottima per digerire i succulenti totani anche se avevamo sempre con noi, per i casi più disperati, una abbondante scorta di bicarbonato. Bram, sorseggiando la sua grappa, chiese alla locandiera: “perche essere qui allio?” La locandiera, a questa domanda, non rispose, anzi, farfugliò qualcosa dicendo che non dovevamo avvicinarci al castello allo scoccare della mezzanotte.

Uscimmo quindi dal ristorante e ci dirigemmo verso il paese. Non appena varcammo le mura una sensazione piacevole di antichità ci avvolse e ci accompagnò per tutto il tempo che rimanemmo nel centro storico: vicoli antichi e stretti, in salita, fra muri di pietra dietro ai quali si aprivano bellissimi giardini, palazzi vetusti ma non cadenti, abbastanza curati, abitanti silenziosi e piacevoli. Intanto, però, il tempo stava cambiando: dai Balcani stava arrivando un forte temporale, con tuoni e fulmini che si intravedevano in lontananza e che lentamente giunsero esattamente sopra il paese di Palle. Il castello era veramente stupendo: una architettura veneziana forse costruita a suon di eterei violini e una sinuosa struttura con finestre bifore e trifore che sovrastavano il valico delle mura e una svettante torre fregiata di un antico orologio. Esso era nato dal sogno di un folle signore lagunare che, forse intristito per le solitudini acquoree dei sui palagi inorgogliti e incancreniti dai canali assassini di pietra, si era costruito una dimora in Pallazia, all’epoca dominio della Repubblica di Venezia. Inorgoglito e intristito, lì pure era passato il Casanova, gran seduttore e uomo di mondo e di grande ingegno, che sedusse la figlia di quel veneto signore e con sé la condusse nelle corti teutoniche. E vissero insieme in una dolce follia di naufragio d’amore, egli, sempre costretto dalla sua arte amatoria a ricercare il dolce veleno di altri amori, di altre dolcezze inusitate e perdute, nuche di fanciulle dallo sguardo di viola, dagli occhi di ametista e dalla pelle color della luna; ella, bella come la luna, ormai innamorata del Casanova, orgogliosa e mai pentita del suo amore, sedeva superba nella teutonica corte fra damigelle d’onore e giullari giocosi.

All’improvviso – mancava poco alla mezzanotte – un vero e proprio temporale si scatenò su Palle: fulmini come elettriche croci sovrastavano il cielo, lampi di fucine lontane si inorgoglivano sopra il manto di stelle e la luna si coprì, fuggì dal cielo per il dolore del tuono, rimbombo d’Oceano sopra le nostre teste e cupo, evanescente dardo scagliato dalle divinità irate. Tutti gli abitanti e i pochi turisti fuggirono in ogni direzione, dileguandosi in pochi attimi. Rimanemmo sotto un porticato solo noi quattro a guardare cadere la pioggia, desiderosi di refrigerio dopo il caldo asfissiante del mare. Bram Poker era sempre più incuriosito e attratto dal castello. L’orologio batté la mezzanotte e il temporale era al suo culmine: cateratte di acqua si abbattevano ormai sul paese e i fulmini sembravano convergere verso il torrione principale del castello, per celebrare congreghe di demoni atri e di lupi, di streghe dallo sguardo di lancinante malizia e incontenibile astio. Ma quale fu la nostra sorpresa quando vedemmo aprirsi il portone del castello ed uscire, sotto la pioggia, un omuncolo con un lungo mantello nero e un naso appuntito! Egli era forse alto solo un metro e il mantello sembrava lungo almeno due metri, un enorme strascico tetro e funereo sulla pietra bagnata della strada. Si dirigeva triste verso l’uscita del paese, incurante della pioggia. Dopo pochi secondi egli tornò come volando su una scia di fuoco, emettendo un sonoro borborigmo dal suo deretano. Prima di entrare ci vide e, ormai zuppi di pioggia, la quale aveva invaso il portico dove ci eravamo rifugiati, ci invitò a entrare nel suo castello. Non vi era altra scelta, anche Poker disse di accettare l’invito, ed entrammo.

Ci ritrovammo in un salone immenso, dalle lunghe vetrate entrava il bagliore dei lampi e l’omuncolo col mantello accese una torcia al centro della sala. “Entrate liberamente e di vuostra spontanea vuolontà” – disse egli in un sussurro. “Ebbene, sapiate che vi truovate a cospetto di Bembo XXIV, signuore di questa valle, ciò!” Rimanemmo in silenzio ed egli aggiunse: “Ostregheta! Son stato victima di un sortilegio malvagio ordito da Camelia, la strega del paese. Ella mi trasformò in vampiro, condannato in etterno non a cibarsi di sangue ma di totani fricti! Oggni nocte sono condanato a uscire da mio castello per sacheggiare ristoranti di Palle! Essi credono che l’aglio riesca a tenermi lontano, ma non è così, l’aglio non mi fa una cippa! Essi hanno lecto tropi libbri di vampiri!” A queste parole, Poker quasi sveniva per la gioia, finalmente era riuscito a trovare ciò che cercava, anche se alquanto diverso da come se lo immaginava. Bembo XXIV, intanto, proseguì: “io sono il signore fondatore di questo castello: fuggii da Venezia a causa dei reumatismi e costruii qui il castello; mia figlia venne rapita da quel malidetto Casanova e mai più fece ritorno, zio can! E io venni malauguratamente colpito dal crudele sortilegio. Sono trecento anni e più, ormai, che vi son soctoposto”.

Bram, ormai al culmine della gioia, volle fare un patto col vampiro: si impegnava a rifornirlo di totani fritti, così non sarebbe stato più costretto a uscire a mezzanotte per rubarli ai ristoranti; in cambio chiese a Bembo di raccontargli dettagliatamente la sua storia per scrivere un romanzo su di lui. Il povero Bembo accettò di buon grado. Tutti e quattro, quella notte, non rifiutammo certo l’ospitalità al castello e fummo trattati dal signore veneziano con ogni riguardo.

Al mattino, io, Gordiano e Betta salutammo Bembo e Bram e ci rimettemmo in viaggio, decisi, per un po’, a stare lontano dal sole, dalle spiagge affollate e dai totani fritti. Anzi, regalammo a Bembo la nostra preziosa scorta di bicarbonato: egli ne avrebbe avuto sicuramente più bisogno di noi.

 

(nelle immagini, il paese di Valle in Croazia; foto dell’autore)

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Lo sguardo della vampira (2/2) https://www.carmillaonline.com/2021/04/12/lo-sguardo-della-vampira-2-2/ Mon, 12 Apr 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65918 di Paolo Lago

[Qua la prima parte 1/2] Continuava a fissarmi con le luci blu dei suoi occhi e continuava a restare in silenzio. Non so come, trovai il coraggio di chiederle: “Sei una vampira?”. “Sì” – mi rispose – “e non devi avere paura di me”. “Non devi avere paura di me! Queste parole rimbombarono nella mia mente come dei tuoni, quegli strani fenomeni atmosferici che appartenevano al mondo di prima. Come era possibile non avere paura di una vampira? Era uno degli esseri più pericolosi al mondo! Gli [...]]]> di Paolo Lago

[Qua la prima parte 1/2] Continuava a fissarmi con le luci blu dei suoi occhi e continuava a restare in silenzio. Non so come, trovai il coraggio di chiederle: “Sei una vampira?”. “Sì” – mi rispose – “e non devi avere paura di me”. “Non devi avere paura di me! Queste parole rimbombarono nella mia mente come dei tuoni, quegli strani fenomeni atmosferici che appartenevano al mondo di prima. Come era possibile non avere paura di una vampira? Era uno degli esseri più pericolosi al mondo! Gli addetti governativi, nei talk show che dominavano i maxischermi, dicevano continuamente che i vampiri erano i principali nemici dell’umanità! Eppure, adesso avevo davanti a me una vampira che mi diceva che non dovevo avere paura di lei. Azzardai un’altra domanda: “Come ti chiami?” “Mi chiamo Lisa” – fu la risposta.

“Come è possibile che io non debba avere paura di te? Ci dicono continuamente che voi vampiri siete pericolosissimi per gli uomini…” – continuai. “Vedi” – mi disse lei – “quello che dicono è una grande bugia. Le bugie sono fatte per tenere sotto controllo gli esseri umani, per farli stare più tranquilli e, insieme, per creare delle nuove paure. Noi vampiri non siamo assolutamente pericolosi, vorremmo soltanto essere amici degli uomini. Vedi, noi siamo gli unici che potrebbero far tornare il mondo come era prima. Non siamo assolutamente un pericolo per gli uomini, potremmo invece essere la loro salvezza. In tanta disumanità che ci circonda, siamo gli unici, forse, ad avere conservato un po’ di umanità”. Finì di parlare e si mise lentamente a sedere su una vecchia poltrona di pelle del salone che si trovava al piano superiore del mio appartamento. “Scusa, ma sono molto stanca” – disse dopo, più piano. Eppure, quegli occhi che all’inizio mi sembravano completamente disumani, pervasi di una luce bluastra così innaturale, lentamente, diventarono più familiari, si fecero largo nella spessa cortina fumosa della mia memoria. Mi riportarono a un giorno di una primavera lontana, nel cortile di una scuola, ma poi non riuscii a ricordare più nulla. Era davvero strano che, in un mondo senza ricordi come il nostro, l’unico essere che me ne suscitava uno fosse una vampira.

Anch’io mi sedetti su una poltrona vicina a quella dove si era messa Lisa. Volevo saperne di più su quanto mi aveva detto, riguardo al fatto che i vampiri fossero gli unici che avrebbero potuto liberare il mondo dalla attuale situazione. Ma poi – mi chiedevo – perché “liberare”? non stiamo forse bene? Non abbiamo forse il sistema governativo che soddisfa tutti i nostri bisogni? “Ma Alf” – continuò lei, come se mi avesse letto nel pensiero – “non ti rendi conto che il mondo come è adesso è una grande prigione sull’orlo della catastrofe? Tutto è artificiale, tutta la natura è ricreata in laboratorio, a uso e consumo quasi esclusivo delle classi sociali più ricche.” Come parlava, questa vampira? Le sue parole sembravano uscite da vecchissimi trattati di economia politica dei quali mi avevano parlato alcuni dei miei compagni durante il “Grande Internamento”. “Noi siamo gli unici in grado” – continuava – “per mezzo del nostro DNA, di far tornare gli esseri umani e le specie animali e vegetali al mondo di prima…”. Quasi istintivamente, mi alzai e le chiesi di seguirmi. Le volevo mostrare la mia video-cartolina. La condussi fino alla stanza in fondo al mio appartamento, dove mi ritiravo a scrivere. La video-cartolina era lì, sul tavolo. Gliela porsi e, mentre la guardava, dagli occhi azzurri di Lisa – adesso infinitamente più umani – cominciarono a scendere due lacrime d’argento. Anche lei aveva dei ricordi, probabilmente confusi, legati al mondo di prima. Eppure, quanto più la guardavo tanto più aumentava la mia convinzione di averla già vista. E poi, come faceva a sapere che mi chiamo Alf? Non glielo avevo detto. E allora, come in un lampo, mi venne in mente che, forse, era proprio Lisa la fanciulla lontana della mia adolescenza alla quale scrivevo le mie lettere notturne. Lo pensai, ma non le dissi nulla né, tantomeno, le mostrai le lettere. “Ricordati Alf” – mi disse – “solo noi vampiri siamo capaci di salvare il mondo e l’umanità dal suo inferno, un inferno che ormai avete talmente interiorizzato che vi sembra la più normale delle esistenze. Ti sembra una vita la vostra? Uscite solo per recarvi al lavoro, costretti nelle vostre tute antiossidanti e con il volto coperto dalle maschere di ossigeno! Noi vampiri usciamo solo di notte nei luoghi più pericolosi e tetri delle città, ma siamo più liberi di voi”. Ciò detto, Lisa si allontanò rapidamente e se andò.

Il giorno dopo, al lavoro, George mi fissava in modo insolito, infatti non aveva mai dimostrato una grande attenzione nei miei confronti. Mentre me ne stavo tornando a casa, finito il mio turno (che era lo stesso di George, quel giorno), lo incontrai all’angolo di una strada. Senza avvicinarsi troppo, attraverso la maschera di ossigeno, mi disse: “Senti Alf, ieri è venuta a farti visita Lisa, non devi avere paura di lei. Stasera lei tornerà e verrò anche io a casa tua, è importante. Mi confermi il tuo indirizzo? Quartiere Zeta 9, isolato G 24, giusto? Alf Abronsius, giusto?” “Sì” – dissi con un filo di voce – “è tutto giusto”.

Quella sera ero in apprensione. Non riuscivo proprio a fare nulla, a concentrami su niente, perfino i discorsi e le chiacchiere che si avvicendavano sul maxischermo mi sembravano troppo complicati e astrusi per poterci capire qualcosa. Improvvisamente sentii un rumore provenire dalla stanza più lontana dell’appartamento. Drizzai le orecchie. Probabilmente era stata forzata la finestra. Non senza un certo terrore mi incamminai verso la mia stanza della scrittura. Le luci erano accese e, seduti sul lettuccio da bambino, vidi Lisa e George. “Bene George” – dissi – “ormai non mi sorprendo più di fronte a nulla. Scommetto che anche tu sei un vampiro”. “No, non lo sono” – mi rispose il mio collega di lavoro – “sono un essere umano come te. Un essere umano che però ha aperto gli occhi, un essere umano che non vive più succube del maxischermo governativo e della paura”. Mi guardava e sorrideva. Era giusta l’opinione che avevo avuto: George era una brava persona, gentile, affabile e simpatica. “Vedi Alf, io faccio parte di un gruppo segreto di ribelli, un’organizzazione internazionale che si oppone al potere assoluto del Governo. Stiamo cercando da tanti anni un modo per annientare le paure, per debellare il controllo e i loschi esperimenti scientifici che gli scienziati governativi continuano incessantemente a operare sul nostro DNA. Per questo abbiamo cercato un’alleanza con i vampiri. Anche fra di noi ci sono valenti scienziati, che ti credi? Sono proprio loro ad aver scoperto che i vampiri possiedono nel loro DNA delle particelle che possono aiutare gli esseri umani a tornare come prima, più forti, senza la necessità di proteggersi continuamente dai raggi del sole. Che possono far rinascere la vegetazione e ripulire i mari, i laghi e tutti i corsi d’acqua. Ti chiederai perché siamo qui e perché sto dicendo tutte queste cose proprio a te. Ebbene, perché tu sei uno dei pochi esseri umani che possiedono i ricordi. Me lo ha detto Lisa”. “Ehi, un momento” – dissi – come diavolo fa a saperlo, Lisa? Ora i vampiri sanno leggere anche nel pensiero?” “No” – intervenne lei, che finora era stata in silenzio – “lo so perché spesso sono stata qui, nascosta in un angolo buio, dietro un vecchio armadio, seduta su arcaico ballatoio, aggrappata alla finestra del tuo studio in fondo alla casa, e ti guardavo. Ti guardavo scrivere e scrivere nella notte, scrivere senza fine. Una notte, quando sei uscito dalla stanza, mi sono incuriosita e sono andata a leggere le tue lettere. È grazie alle tue lettere che ho capito che tu, ancora, possiedi dei ricordi. Ti rivolgi continuamente a una lontana fanciulla che dici di aver dimenticato, e invece porti impressa nella tua memoria più forte che mai. Lo so perché quella lontana fanciulla sono io. Vuoi sapere il mio nome, Alf? Eccolo, è Lisa, è Lisa, te lo vorrei dire mille volte, in tutte le lingue del mondo. Tu possiedi dei ricordi e i tuoi ricordi possono aiutarci nella lotta. Devi unirti a noi Alf, devi venire a lottare con noi”.

Il giorno dopo e poi per molti giorni ancora non vidi più né Lisa, nelle notti trascorse in solitudine nel mio grande appartamento, né George, al lavoro. Al suo posto vi era un grassone antipatico, dall’improbabile nome di Sam. Eppure, per le strade, qualcosa stava cambiando. Gruppi di persone si trattenevano fuori più del tempo consentito, sfidando gli ordini governativi. Gruppi consistenti di persone cominciavano anche a uscire di notte, durante il coprifuoco, sfidando le pattuglie dei “Vampire Killers” le quali, paradossalmente, invece di dare la caccia ai vampiri, dovevano rivolgersi contro gli uomini. In molti furono arrestati. In molti continuarono a uscire. I “Vampire Killers” a volte reagivano con violenza per cui la gente cominciava a non avere più fiducia in loro: non era vero, allora, che erano i nostri custodi e salvatori. Come potevano trattare degli esseri umani – che, in tutta evidenza, non erano vampiri – in modo così violento? E così, anche molta gente comune, stanca di questi soprusi, cominciò a scendere in piazza contro il governo.

Una notte, dopo un po’ di tempo, rividi Lisa nel salone del mio appartamento. Era vestita di scuro e l’azzurro dei suoi occhi aveva un che di abbagliante ma anche di più umano. Da blu e luminosi si erano fatti di un azzurro intenso, meno fosforescente. Mi disse che lei se lo ricordava, sì, se lo ricordava quel giorno lontano che io rievocavo nelle mie lettere. Eravamo nel cortile della scuola, in un giorno di maggio, e lei si ricordava di me. Anche lei, ragazzina, venne condotta nei silos del “Grande Internamento” ma fece parte del gruppo “cavie” per gli sperimenti degli scienziati. È così che divenne una vampira. I vampiri altro non erano che esseri umani sottoposti a crudeli esperimenti, nel corso del “Grande Internamento”, per cercare di ovviare in qualche modo alla catastrofe ambientale che stava avvolgendo il mondo. “Gli scienziati facevano tutto questo per il nostro bene, ma sulla nostra stessa pelle. Quel bene divenne un male inestirpabile. Per questo, Alf, non ci si vide più dopo quel giorno. Ero ormai diventata una cavia. Ma a noi divenuti vampiri i ricordi non potevano essere estirpati, ecco perché siamo sempre stati considerati pericolosi. Eravamo pericolosi per il potere, non per gli altri esseri umani. Potevamo, con la nostra stessa vicinanza, con le nostre menti piene di ricordi e di verità, far emergere una coscienza nella mente delle persone, una coscienza di verità contro le grandi bugie decantate nell’onnipresente spettacolo dei maxischermi. E ora ho tanta voglia di leggere le tue lettere”.

Così disse Lisa, mentre si apprestava a uscire dal mio appartamento. Era notte fonda ma dalle finestre riuscivo a vedere ormai fiumi di folla che si riversavano nelle strade. “Vieni con me, Alf, la tua capacità di ricordare deve unirsi a noi nella lotta, tu devi unirti a noi nella lotta, per un futuro migliore. Qui sotto, in piazza, ci sono anche George e la sua famiglia, una famiglia vera, come quelle di una volta, fuori dai vincoli istituzionali. Chiunque, se lo vuole, può costituire una famiglia. Una famiglia è chiunque si voglia bene”. Aprii i cassetti della scrivania, presi le lettere e gliele diedi. Uscimmo e scendemmo per strada. Non avevo mai visto tanta gente tutta insieme, e per di più in piena notte. Ma non avevo paura, perché avevo dei ricordi, perché Lisa aveva le mie lettere e le avrebbe lette, perché i suoi ricordi si univano ai miei, ed erano quelli di un mondo in cui c’era ancora qualche residuo di umanità. Non avevo paura, avevo solo voglia di lottare, adesso, in quelle strade e in quelle piazze perché tutto lo sguardo azzurro di Lisa era insieme a me, quella notte, e mi era vicino, tutto lo sguardo di una vampira. La strada non era facile, c’erano ancora mille dolori da affrontare, ma quello sguardo mi diceva che non bisognava smettere di lottare.

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Lo sguardo della vampira (1/2) https://www.carmillaonline.com/2021/04/05/lo-sguardo-della-vampira-1-2/ Mon, 05 Apr 2021 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65695 di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva [...]]]> di Paolo Lago

“Il vento si ingorga e spazza l’erba, la rigonfia, fa danzare in un abbraccio miriadi di pollini profumati ed è una danza sinuosa e gentile, in riquadri di sole e di luce. Turbinii sereni e poi il vento diviene magica brezza che dona carezze, regali di aria ai corpi distesi sull’erba, tra i fiori e il profumo, all’ombra di alberi delicati, e gli antichi paesi lontani, sul dorso della collina, erano soltanto carezze di sguardi ai nostri volti affranti e contenti in un giorno di maggio”. La vecchia video-cartolina aveva emesso queste parole in uno stanco singulto, e poi si era spenta del tutto. Era una testimonianza di come era il mondo almeno venticinque anni fa, prima della catastrofe che aveva cambiato tutto. La posai sul tavolo, e con essa posai anche i miei flebili ricordi, perduti nella nebbia di ere.

Mi ricordavo veramente poco del mondo di prima, dei prati e dei boschi, degli antichi paesi ritratti in quella cartolina. C’era stata una grande epidemia vegetale che aveva distrutto completamente la vegetazione, inquinato i fiumi e le sorgenti. L’inquinamento, sempre più persistente, aveva avvolto il mondo di prima fino a distruggerlo e a devastarlo. Dopo le epidemie, che si erano susseguite a un ritmo vertiginoso nel giro di pochi anni, erano arrivate le povertà e le carestie e poi le guerre civili, sparse in tutto il mondo. Una delle poche volte che sono uscito, prima del “Grande Internamento” imposto dal Governo, ero un ragazzino e mi ricordo scontri terribili a ogni incrocio della mia città: manifestanti e polizia si fronteggiavano nelle strade con ogni tipo di armi e dappertutto c’era l’odore acro dei fumogeni e delle bombe. Anche io, come quelli della mia generazione, avevo passato gran parte della mia adolescenza e giovinezza chiuso negli spazi di aggregazione predisposti dalle autorità: enormi silos di metallo dotati di tutti i comfort dove era stata dislocata la popolazione superstite. Eravamo tutti in attesa della costruzione del nuovo mondo: quello che c’è adesso qui fuori. Gli scienziati avevano previsto proprio tutto, tranne una cosa sola: l’arrivo dei vampiri.

Quella dei vampiri era una nuova specie, creata dai più svariati esperimenti chimici che erano stati messi in atto per cercare di arginare l’epidemia vegetale. Gli scienziati avevano mescolato diversi DNA per creare un antidoto efficace alla continua mutazione genetica del virus che aggrediva le più svariate specie vegetali e animali per contaminare, in alcuni casi, anche l’uomo. Di loro si sapeva poco o nulla, nessuno li aveva mai visti. Si sapeva soltanto che si aggiravano dopo il calar del sole perché erano fatti in gran parte di una sostanza fotosensibile. I governi di tutti i paesi avevano creato delle leggi particolari che imponevano ai cittadini di non uscire non appena sopraggiungevano le tenebre. I vampiri erano pericolosissimi perché potevano uccidere – così si diceva – solo con il loro sguardo. E così l’umanità si era riadattata alla nuova vita dopo il disastro ed era felice, o almeno così sembrava. La scienza era riuscita a ricreare degli habitat a misura d’uomo dove un tempo c’erano le città: le grandi unità abitative, formate da migliaia di palazzi, erano protette da capsule di vetroresina che servivano a proteggere dai raggi diretti del sole, divenuti ormai pericolosissimi a causa delle manipolazioni genetiche attuate sui corpi degli individui. Gli antidoti avevano permesso la sopravvivenza delle piante e dei corsi d’acqua all’interno delle grandi capsule ma avevano mutato irrimediabilmente il DNA umano, creando delle persone più fragili e più esposte alle malattie. Si poteva girare per le strade soltanto muniti di maschere di ossigeno e si poteva rimanere all’esterno solo per un tempo limitato. I più ricchi avevano degli appartamenti spaziosi, nei quali avevano ricostruito diversi ambienti artificiali che ricreavano prati e giardini. I più poveri vivevano in baracche di ferro poste ai limiti della grande capsula, in enormi quartieri fatiscenti dove vigevano la violenza e la prevaricazione.

Io non mi potevo lamentare. Vivevo in un grande e vecchio appartamento, a un piano alto, dal quale vedevo spuntare, come un arcaico fantasma, un vecchio campanile ancora rimasto intatto, in mezzo alle nuove costruzioni in vetroresina. Percorrevo i lunghi corridoi con circospezione, con la paura di incontrare i vampiri che, a quanto dicevano i maxischermi che il governo aveva installato in tutte le abitazioni, potevano penetrare furtivamente nelle case durante la notte. I corridoi del mio appartamento erano attraversati da scale e soppalchi, pieni di mobili provenienti da tempi remoti, poltrone di pelle, lunghi tavoli di legno scuro sui quali posavano candelabri intagliati nel tempo, lampadari penduli da soffitti altissimi, oscuri, nereggianti di intarsi barocchi, vecchi quadri alle pareti, scalinate lignee che portavano a vuoti saloni, pesanti porte che celavano stanze piene di armadi, di mobili oscuri e fatiscenti, di oggetti posati negli angoli, dimenticati da un tempo in cui l’essere umano era davvero un essere umano. A volte mi recavo a scrivere in una stanza lontana, al capo opposto dell’appartamento e raggiungerla era un vero e proprio viaggio attraverso i filamenti polverosi di una coscienza. Era così come l’avevo trovata nel momento in cui ero entrato per la prima volta in quell’appartamento: sembrava la stanza di un bambino o, comunque, di un adolescente. C’era un lettino sormontato da un armadio, un tavolino attaccato alla parete, con una piccola e semplice lampada da lettura. Sui vetri della finestra erano appiccicati degli adesivi che rappresentavano, forse, i personaggi di alcuni fumetti e cartoni animati di ere lontane. Fuori dalla finestra vedevo un fiume che scorreva, in un’ansa verdeggiante, ma sembrava il tetro fiume artificiale di una periferia industriale, emblema della buia realtà che, come un simulacro, riempiva le nostre vite.

Scrivevo, non facevo altro che scrivere lettere a una remota fanciulla della mia adolescenza che forse intravidi in un giorno di sole, nel cortile della scuola, prima che scattasse il “Grande Internamento”. Frequentavamo le scuole medie e, nel corso del primo anno, cominciò il grande divieto: la razza umana non poteva più esporsi all’aria aperta a causa degli esperimenti che gli scienziati stavano compiendo “per il nostro bene”. Seduto al tavolino della stanza in fondo alla casa scrivevo lettere mai spedite che iniziavano sempre con queste parole: “Sono Alf, del quartiere Zeta 9, nell’isolato G 24, nell’oscuro silenzio di una notte al fosforo, ricordo i tuoi occhi di tanto tempo fa, ricordo solo un azzurro intenso e un cielo sereno che forse era sopra di noi e il vento e un odore di fiori nell’aria. Possiedo una video-cartolina di quel tempo, vorrei che anche tu la vedessi, forse abbiamo dei ricordi in comune, vorrei soltanto sapere il tuo nome…”. Erano poche le persone che avevano dei ricordi in comune, dei ricordi degli altri. Per le strade nessuno si riconosceva e nemmeno si conosceva, ognuno era anonimamente perduto dietro la maschera di ossigeno che portava, avvolto nel proprio mantello antiossidante che non lasciava intravedere neanche un lembo del corpo. Lo stesso concetto di “amicizia” non esisteva più. C’erano, sì, le famiglie, simili a quelle di un tempo ma esistevano soltanto a un livello formale: quelle ricche trascorrevano tutto il tempo nei loro spaziosi edifici; quelle povere, spesso, stavano ammassate in una sola stanza nei quartieri fatiscenti.

Io, come tanti altri, ero rimasto fuori dall’inglobamento delle famiglie, avvenuto in un tempo in cui ero ancora “internato”, per cui trascorrevo la mia esistenza da solo, ma andava bene così. Non guardavo quasi mai il maxi-schermo governativo sul quale diversi annunciatori riferivano i dati scientifici sulle potenzialità delle capsule che inglobavano le città. Era infatti necessario che fossero sottoposte a un continuo processo di manutenzione da parte di tecnici e scienziati, perché non si consumassero con il passare del tempo. Ne andava veramente della vita di tutti. Ogni giorno era uno snocciolare di numeri e di dati che indicavano il funzionamento del grande sistema che garantiva la nostra sopravvivenza. Fuori dalle capsule c’era il vuoto, il nulla o, meglio, lande desolate percorse da venti pestilenziali, portatori di malattie che potevano provocare la mutazione in vampiro, la cosa più temuta al mondo, insieme alla morte. Gli annunciatori dei maxischermi affermavano in continuazione che, molto probabilmente, orde di vampiri si erano infiltrate nelle città, forse nei quartieri più malsani e meno controllati, e la notte potevano girare indisturbate per le strade. Di notte, in circolazione, c’erano solo le pattuglie speciali della polizia, i “Vampire Killers”, con le loro vetture blindate dotate di armi di ultimissima generazione. Gli squadroni dei “Vampire Killers”, come diceva la propaganda governativa, erano i custodi delle nostre vite e a loro dovevamo tutto. Ripeto: non guardavo quasi mai il maxischermo. Nei momenti liberi dal lavoro, che svolgevo nell’isolato G 23 (facevo l’addetto di un call center per la manutenzione dei maxischermi), non facevo altro che scrivere le mie lettere.

E poi c’erano i ricordi degli altri. Come ho detto, nessuno possedeva il ricordo degli altri, non esisteva l’altro nella propria coscienza. Non esistevano luoghi di aggregazione, bar, cinema o palestre come nel mondo di prima (e di cui io stesso avevo solo un flebile ricordo): le persone si potevano sfiorare solo nelle grandi strade, camminando senza mai parlarsi, oppure si potevano incontrare nei luoghi di lavoro. Ma i governi mondiali avevano predisposto qualsiasi posto di lavoro in modo che nessuno potesse avere dei contatti con gli altri perché, in definitiva, chiunque potrebbe sviluppare, in qualsiasi momento, il processo di mutazione in vampiro. Questo lo dicevano gli scienziati, lo diceva il maxi-schermo ma nessuno aveva mai visto un vampiro. E, comunque, come dicevano saggiamente gli scienziati che affiancavano i governanti mondiali, ciò non vuol dire che non esistano. Anzi, esistono, e sono pericolosi. Nel mio lavoro al call center c’era George, nella postazione accanto alla mia. Lo vedevo soltanto attraverso il vetro che ci divideva, sapevo che si chiamava George grazie alla targhetta col nome che portava sulla camicia. Allo stesso modo, grazie alla mia targhetta, lui sapeva che mi chiamavo Alf. Ho sempre pensato, chissà perché, che George fosse simpatico, che fosse una brava persona, anche se con lui non ho mai scambiato neanche una parola.

Una sera stavo percorrendo il lungo corridoio del mio appartamento per recarmi a scrivere nella stanza più lontana. Le luci erano fioche, giallastre e riflettevano sulle pareti strane e tetre figure spettrali. Camminavo e, contemporaneamente, stavo all’erta. Come ho detto, ho sempre avuto un certo timore a muovermi, nel buio, nella mia grande casa. L’illuminazione non riusciva a rischiarare ogni cosa, a rendere riconoscibile il lungo corridoio e i saloni che si trovavano al piano superiore. Sentii un rumore. Mi fermai. Proveniva, per l’appunto, dal piano di sopra. Non potevo rischiare: dovevo accertarmi che non ci fosse nessuno. Salii lentamente le scale e mi ritrovai nel salone buio. Accesi la luce. In un angolo, le luci blu di due occhi mi fissavano intensamente. Rimasi pietrificato dalla paura, come di fronte allo sguardo di Medusa. La luce che si andava accendendo, lentamente, rivelò una figura vestita di scuro. Era una ragazza con un lungo vestito nero, con i capelli neri a caschetto e con due occhi di un azzurro intenso. Mi fissava, e restava in silenzio.

(continua)

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