racconti illustrati – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “…Tre cose belle ha il mondo”: Love, Death & Robots. https://www.carmillaonline.com/2021/06/19/tre-cose-belle-ha-il-mondo-love-death-robots/ Fri, 18 Jun 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66778 di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad [...]]]> di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad – ebbe, mai dimenticato quasi due decenni dopo, un meno riuscito e meno fortunato seguito, Heavy Metal 2000 – almeno la colonna sonora restava notevole comprendendo Voivod, Pantera, Bauhaus e affini – che però aveva offuscato l’immagine ancora vivida del predecessore, lasciando un po’ d’amaro in bocca  ai fan e molta voglia di un remake degno.

L’idea solleticava da anni la fertile mente di David Fincher, regista di video di gruppi appropriati come Aerosmith e Nine Inch Nails, passato poi al cinema con il terzo episodio della saga di Alien e il fortunato noir Seven, consacrato nel 1999 da Fight Club, adattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, e confermato autore interessante soprattutto da film personali e provocatori come Zodiac (2007), ispirato alla vera storia del Killer dello Zodiaco, e  L’amore bugiardo – Gone Girl (2014), dal best-seller di Gillian Flynn. A lui si era poi affiancato Tim Miller, regista e sceneggiatore proveniente da un cinema più leggero e disimpegnato come quello dei Marvel Comics con Deadpool (2016) o della saga di Terminator, con l’ultimo episodio Dark Fate (2019). Il progetto, supervisionato da un’esperta di animazione, la Jennifer Yuh Nelson di Kung Fu Panda 2 e 3, e prodotto e distribuito da Netflix, si è trasformato nel 2019 nell’ottima serie, già giunta al momento attuale alla seconda stagione, che prende il titolo di Love, Death & Robots.

Il piccolo miracolo di cui si diceva all’inizio consiste nell’aver saputo – come già fu per l’illustre antecedente – coniugare perizia tecnica, innovazione visuale e consistenza tematica in un percorso grafico attraverso numerosi classici della short-story fantascientifica, spazianti dall’avventuroso-action al riflessivo-sociologico, dallo splatter all’erotico. La serie sa cogliere perfettamente quella dimensione del testo breve e brevissimo che è una piacevole consuetudine della migliore tradizione fantastica, in cui il racconto – esauribile in una singola seduta di lettura – emerge, da Poe in poi, assai maggiormente del romanzo, come espressione più tipica e meglio realizzata del weird&eerie, del sense of wonder, della sospensione dell’incredulità necessaria perché il meccanismo fantastico e speculativo funzioni davvero. L’efficacia di questa formula è confermata da altre recenti e riuscitissime serie antologiche di film a episodi tenute insieme da una coerenza di carattere tematico, come Black Mirror, letterario come Philip K. Dick’s Electric Dreams, o atmosferico-scenografico come Tales from the Loop.

Gli episodi di Love, Death & Robots, dalla durata variabile compresa fra un minimo di sei minuti e un massimo di una ventina, spaziano oltre che attraverso le diverse declinazioni tematiche della fantascienza, anche attraverso tutte le possibilità dell’immaginario visuale dei comics e dei cartoni animati. Dal disegno caricaturale e umoristico, a quello astratto e stilizzato, fino al realistico e all’iperrealistico del live-action, derivato dal full motion video tipico di molti videogiochi, che utilizza foto di attori reali per trasformarle in disegni in movimento. I risultati sono piacevolmente variegati ed efficaci.

I diciotto cortometraggi della prima stagione più gli altri otto della seconda attingono ai testi dei più significativi autori, classici e recenti, della fantascienza angloamericana. Fanno decisamente la parte del leone con numerose short-stories i più prolifici e famosi John Scalzi e Joe R. Lansdale, ma si piazzano bene anche i britannici Alastair Reynolds, autore di Hard SF e di Space opera, e il sodale, anche lui britannico e space operistico, Peter F. Hamilton, il sino-americano Ken Liu, l’ex cyberpunk statunitense Michael Swanwick, l’italo-americano premio Locus e Nebula Paolo Bacigalupi. Si segnalano storie che spaziano dall’umoristico-elegiaco (Three Robots), al surreal-demenziale (When the Yogurt Took Over), al cyberpunk (The Witness), alla parabola femminista più o meno scontata (Sonnie’s Edge o Good Hunting), all’ucronia (Alternate Histories o The Secret War), all’horror erotico (Beyond the Aquila Rift), al dark-fairy-tale natalizio (All Through the House), al SF noir in stile Blade Runner (Pop Squad).

Fra i classici non si staglia particolarmente Harlan Ellison con Life Hutch, racconto del 1956 – come spesso Ellison, piuttosto sadico e iperviolento – su un prevedibile malfunzionamento robotico all’interno di una cabina di salvataggio che crea grossi problemi ad un naufrago aereospaziale su un pianeta alieno. Il problema più che nella storia in sé sta nella realizzazione grafica piuttosto piatta e priva di suspense del regista Alex Beaty. Un vero capolavoro invece l’altro classico, The Drowned Giant, l’episodio in assoluto migliore della serie, diretto dallo stesso Tim Miller e tratto da un assiomatico racconto di uno dei più grandi autori postmoderni che abbiano onorato la fantascienza: James G. Ballard, scrittore spesso, ma non in questo caso, ampiamente sacrificato o edulcorato nella larga maggioranza delle trasposizioni cinematografiche dalle sue opere. Pare che Miller abbia perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard riuscendo finalmente ad ottenere da loro l’autorizzazione all’adattamento del famoso racconto: non se ne saranno certo pentite.

A differenza dei lungometraggi tratti dai suoi principali romanzi, nessuno dei quali rigorosamente fedele allo spirito ballardiano – vuoi il troppo patinato Crash di David Cronenberg (1996), vuoi l’irresoluto High Rise, La rivolta di Ben Wheatley (2015), vuoi il caotico The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss (2000), vuoi, anche al di fuori della fantascienza, il caramellato L’impero del sole (Empire of the sun) di Steven Spielberg (1987) – la trasposizione animata del racconto breve scritto nel 1964 cattura senza infingimenti l’immaginario drastico del Bardo di Shepperton e lo riporta correttamente alle sue radici simboliste e surrealiste con un gusto figurativo, un ritmo letargico e un’atmosfera rarefatta davvero rari.

Tim Miller ha già confermato l’avvio di una terza stagione che vedrà anche il ritorno del trio di simpatici robot apparsi al debutto della serie (Three Robots: l’eredità di Robbie de Il pianeta proibito o della coppia R2-D2 e C3PO dello Star Wars originale sembra infinita…) e che, riprendendo la struttura molto più coesa della seconda stagione rispetto alla prima, sarà ancora composta da otto puntate. Su questo punto la critica non è concorde: chi sostiene che la prima stagione era più innovativa e varia per stile e argomenti e considera la seconda un passo indietro verso un maggiore conformismo visivo e tematico, chi al contrario la accusa di dispersività e di eccessiva disparità fra episodi efficaci e mediocri e preferisce la seconda stagione più sintetica, organica e compatta. In realtà, considerando lo show nel suo complesso, si può affermare con obbiettività che il livello medio di entrambe le stagioni è, come si è già detto, più che soddisfacente e la risonanza acquisita da Love, Death & Robots, con tanto di logo stilizzato divenuto iconico tra i fan, sembrerebbe suffragarlo..

L’unico appunto possibile, almeno rispetto alla gloriosa tradizione da cui la serie deriva, riguarda la colonna sonora che tradisce quasi totalmente quell’Heavy Metal da cui avrebbe dovuto originarsi, attestandosi invece su una neutralità estremamente spuria ed eterogenea (country-blues, elettronica, disco, perfino l’immancabile Walkiria di Wagner, lo Star Spangled Banner e la Kalinka del Coro dell’Armata Rossa): un soundtrack di puro commento intradiegetico quindi, o al massimo di sottofondo atmosferico privo di particolari connotazioni. Questo si che è davvero un passo indietro, almeno per chi, come me, appartiene alla vecchia generazione, assuefatta ad associare l’overdrive delle chitarre distorte con quello dei motori delle astronavi…

 

 

 

 

 

 

 

 

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I fotoromanzi del consenso. Il racconto illustrato nella propaganda del dopoguerra https://www.carmillaonline.com/2019/06/03/i-fotoromanzi-del-consenso-il-racconto-illustrato-nella-propaganda-del-dopoguerra/ Mon, 03 Jun 2019 21:30:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52643 di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel [...]]]> di Gioacchino Toni

Quando si pensa al fotoromanzo si è portati a pensare ad una narrazione incentrata su banali storie d’amore a lieto fine, eppure questo tipo di pubblicazione popolare ha svolto un ruolo non da sottovalutare nell’evoluzione culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Di ciò si occupa il recente volume di Silvana Turzio Il fotoromanzo. Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, 2019). L’autrice, dopo aver ricostruito il panorama nazionale di tale tipo di riviste illustrate ed aver tratteggiando le modalità con cui viene realizzato il fotoromanzo, analizza il trattamento riservato ai racconti illustrati da parte delle grandi compagini sociopolitiche che nel dopoguerra si contendono il consenso popolare. Il capitolo finale del libro è invece dedicato ai “fotoromanzi della controinformazione” degli anni Settanta ed Ottanta. A questa ultima parte sarà dedicato un successivo scritto.

In Italia il fotoromanzo – per diverso tempo definito “fumetto” – è stato a lungo guardato con sospetto tanto dalla sinistra quanto dal mondo cattolico, come se si trattasse di un’intrusione americana nella cultura nazionale, non tenendo conto del fatto che le origini del “romanzo d’amore a fotogrammi” sono in realtà italiane. Nonostante le trincee ideologiche, dimostra il volume, «il fotoromanzo si è insinuato negli interstizi delle barricate comuniste e cattoliche per emergere infine per mano dei suoi stessi detrattori. Le vicende del fotoromanzo politico gettano luce non solo su un periodo congelato dalla Guerra fredda e da una classe politica chiusa alla comunicazione, ma anche sull’emersione impellente delle questioni civili» (pp. 9-10).

Nel dopoguerra, all’interno del Pci ci si interroga sul successo di pubblicazioni come «Grand Hotel» tra le donne e tra le militanti. Se una parte del partito palesa una condanna senza appello nei confronti di tali periodici non mancano però posizioni più sfumate. Enrico Berlinguer tra il 1948 e il 1955 interviene più volte sulla preoccupazione diffusa nel partito di non lasciare i giovani in balia del modello di vita americano mostrando, nei confronti del fotoromanzo, una maggiore comprensione. In particolare nel 1949 scrive: «Non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d’amore. Vorremmo soltanto aiutarle a comprendere che, alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie d’amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, di portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria. Vogliamo, soprattutto, indicare alle ragazze che sono stati scritti altri libri, che esistono altre letture che sanno rispecchiare – anch’essi – i loro sogni e le loro aspirazioni, che sanno essere anch’essi appassionanti, perché parlano della più grande delle avventure, che è la nostra vita di ogni giorno, perché esprimono il più grande dei sogni che è quello di una società giusta di liberi e di uguali, perché infondono fiducia e mostrano, nella lotta, una via che non tradisce, che non delude e che tutti i sogni può trasformare in realtà. Sono le opere dei comunisti, dense di umanità, ricche di una vita vera e vissuta da milioni di uomini e di donne, di una passione che non conosce ostacoli, di una fede grande ed invincibile» (pp. 74-75).

Dopo la sconfitta elettorale del 1948 lo stesso Palmiro Togliatti, inizialmente meno intransigente nei confronti della letteratura popolare, mostra maggiore risolutezza nel condannare quella che viene vista come una pericolosa ingerenza ideologica americana. La commissione culturale del partito, all’epoca diretta da Emilio Sereni, intraprende una vera e propria campagna in favore di una cultura popolare alternativa a quella d’importazione americana sull’onda del cinema neorealista nazionale, osteggiato invece dalla Dc.
In un clima di ostilità diffusa nei confronti delle storie illustrate sia tra le fila della sinistra che tra quelle cattoliche, nel 1951 si arriva ad una proposta di legge democristiana per l’istituzione di una Commissione parlamentare di Vigilanza e Controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza.

La difficoltà che la politica incontra nell’affrontare la narrazione visiva è palese anche sulle pagine di «Rinascita», ove Nilde Iotti muove una condanna senza appello nei confronti del “fumetto” che «non si legge ma si guarda. E questo provoca un grave danno poiché il solo guardare le immagini mina la capacità di riflessione insita nella lettura portando alla brutalità e alla violenza istintive. L’agent provocateur è in questo caso il gruppo editoriale Hearst […] che dagli Stati Uniti – secondo la Iotti “terra di aspetti negativi, repellenti” – invade l’Europa attraverso i “fumetti”» (p. 77). Dunque, secondo la dirigente comunista, l’eventuale controllo attuato tramite la commissione proposta dalle fila democristiane risulterebbe del tutto inutile in quanto questa «sarebbe formata da persone che lascerebbero circolare i “fumetti”, persino quelli realizzati dalle organizzazioni cattoliche». Da interventi come questo emerge, sostiene Silvana Turzio, «quanto le problematiche che sorgono intorno alla questione siano uno strumento per demonizzare sia gli Stati Uniti che le organizzazioni cattoliche, surrettiziamente assimilate ai pericolosi “yankee” nell’utilizzo del “fumetto”» (p. 77).

Gianni Rodari, in una lettera a «Rinascita», pur dicendosi anch’esso contrario alla proposta democristiana, intende differenziarsi dalla Iotti evitando di estendere il giudizio negativo al “fumetto” come genere, sottolineando invece come sia possibile ricorrere a tale modo di espressione per realizzare prodotti differenti da quelli americani per forme, contenuti e spirito. Inoltre, Rodari pone l’accento su come l’avvento del cinema abbia creato un “bisogno di vedere” del tutto assimilabile al “bisogno di cultura”.
Palmiro Togliatti, all’epoca direttore di «Rinascita», condanna le illustrazioni americane ma al tempo stesso mostra maggior disponibilità nei confronti delle immagini popolari di Épinal. Nel ragionamento del leader comunista, sostiene Turzio, si ravvisa come la maggior benevolenza per le immagini di Épinal, antesignane del “fumetto”, derivi in parte dalla loro origine europea. Si tratterebbe dunque, secondo la studiosa, di una difesa della cultura europea minacciata da quella americana: ciò che realmente preoccupa è il fascino esercitato dagli Stati Uniti.

Nell’ambito della discussione che attraversa il Pci attorno alla metà degli anni Cinquanta sul come arrivare a quell’elettorato femminile scarsamente alfabetizzato che frequenta malvolentieri i comizi e fatica a leggere «l’Unità», interviene anche la palermitana Giuliana Saladino, dalle pagine del «Quaderno dell’attivista» sostenendo che di fronte all’incapacità delle donne meno acculturare di affrontare il quotidiano del partito o «Noi Donne», «affinché possano diventare consapevoli della loro ingiusta condizione», sia auspicabile vedere «in mano alle donne siciliane degli albums a fumetti con i celebri romanzi d’amore e di lotte in cui viene esaltata la giustizia e condannata questa società, i suoi mali e i suoi torti, fumetti che trattino problemi attuali, sulla base di una trama semplice, di una storia vera […] che esalti la lotta del popolo per la terra, la lotta contro il costume ancora feudale». Dunque, afferma Saladino, in polemica con Nilde Iotti, «non possiamo noi, in Sicilia, così semplicemente scartare il fumetto, letto da milioni di donne, come mezzo di propaganda» (p. 82) ed a sostegno della sua tesi la palermitana cita l’esempio dei fumetti cinesi che, dal 1949, raccontano a disegni l’epopea di Mao.

Negli anni seguenti il Pci, pur continuando ad osteggiare le produzioni illustrate di tono sentimentale, decide di pubblicare i racconti a disegni sulla vita di Antonio Gramsci (s.d.) e di Giuseppe Di Vittorio (1958). «Espunti dai periodici e dai quotidiani, denigrati sugli organi di stampa ufficiali, una decina di fotoromanzi riescono tuttavia a forzare lo sbarramento ed escono allo scoperto per pochi anni. Stampati prevalentemente in occasione delle campagne elettorali amministrative (1956) e politiche (1953-’58-’63-’68) come pubblicazioni a sé, distribuiti porta a porta, svolgono una funzione di propaganda e rimangono limitati al periodo e ai temi elettorali, sottolineando soprattutto i problemi sociali più urgenti […] Non è una lettura di “svago”, ma una porta che apre prospettive per il raggiungimento di condizioni di vita migliori attraverso l’adesione alla lotta comune. Le storie vertono su temi scottanti, come la presa di coscienza dei diritti civili: la garanzia di un lavoro sicuro in patria, il rispetto della donna lavoratrice, il diritto di sciopero e il diritto alla casa, il predominio maschile sul lavoro e in casa, le difficoltà di progettare un futuro per le giovani coppie, la mancanza di asili nido e la tutela degli anziani. Problematiche impellenti ma sepolte in una nebbiosa inconsapevolezza dei propri diritti e quindi poco condivise dalle persone meno colte e più isolate socialmente e geograficamente. In questa prospettiva il fotoromanzo “politico” si pone come uno specchio fedele della realtà e individua le necessità dei lettori aiutandoli quindi a capirne la portata e la legittimità. Il lieto fine sentimentale è la scusa formale per introdurre il vero finale: l’“invito al voto comunista” che marca il distacco dal melodramma dei fotoromanzi classici. Il protagonista glorioso, sottotraccia sino alla risoluzione finale, è il Partito che interviene per proporre soluzioni concrete ai problemi del singolo inglobandoli e rafforzandoli in quelli collettivi» (p. 86-87).

Non è facile rintracciare tutti i fotoromanzi pubblicati su indicazione delle commissioni culturali dal Pci e diffusi porta a porta dalle militanti, tra questi si possono citare Più forte del destino e La vita cambierà. Il primo esce a disegni nel 1956 ed a fotografie nel 1958. Nella prima versione, realizzata alla vigilia delle amministrative di Bologna, la narrazione, che ruota attorno alle vicende di due fidanzati, si concentra soprattutto sui contratti capestro che regolano il lavoro femminile. Nell’edizione del 1956 «ci sono tutti gli ingredienti narrativi di una vita misera, raccontata secondo gli stilemi del fotoromanzo classico. Nonostante tutto, i due protagonisti resistono alle prove del destino sino a quando un anziano li esorta a votare per il Partito [ed] Il lieto fine annuncia la decisione dei due giovani di “votare per chi ci difende e ci protegge”» (p. 89). Nella versione fotografica, pubblicata alla vigilia delle elezioni politiche del 1958, i protagonisti non appartengono più alla classe operaia ma sono due giovani di buona famiglia che, sottoposti alle angherie del conformismo famigliare, troveranno nel Partito una promessa di un futuro migliore.
Il fotoromanzo La vita cambierà, probabilmente ambientato nell’imminenza delle politiche del 1968, attraverso una trattazione più corale, affronta invece una questione presente anche in molti fotoromanzi meno politicizzati: il problema dell’emigrazione verso la Svizzera e la Germania e le difficoltà delle famiglie che restano in Italia.

«L’utilizzo del fotoromanzo per costruire narrazioni educative non ha però superato l’esame da parte dei quadri, malgrado il successo confermato dalle donne più aperte e attente. Invece di vederne e sfruttarne il potenziale visivo, ci si è fermati alla distribuzione più spicciola e immediata, a mo’ di volantinaggio, limitata nello spazio e nel tempo. È tuttavia innegabile che i fotoromanzi, pur limitati nel tempo e nella quantità, hanno svolto un ruolo importante al momento delle campagne elettorali» (p. 97).
Nonostante il ricorso al fotoromanzo da parte del Pci svolga una funzione educativa politico-sociale e sperimenti un modo nuovo di cercare il consenso soprattutto tra l’elettorato femminile, la componetene più tradizionalista del partito fatica a riconoscere dignità ai racconti per immagini.

Particolare è il caso della rivista «Noi Donne» – dal 1944 pubblicazione ufficiale dell’Unione Donne Italiane – per il suo tentativo di coniugare l’impegno politico con i modelli dei periodici illustrati, soprattutto quelli rivolti alle donne. La rivista dell’Udi deve confrontarsi «sia con il disprezzo per la cultura dei rotocalchi femminili, diffuso tra i quadri dei partiti di sinistra, sia con una misoginia classista presente in alcune lettrici e redattrici» (p. 99).

Nel 1947 su «Noi Donne» viene pubblicato “Il nuovo romanzo d’amore illustrato”, Una donna si ribella, con disegni ad acquerello stampati a mezzatinta ad effetto fotografico di Vittorio Cossio e i testi di Grazia Gini – ispirato al romanzo Portrait of a Rebel (1930) di Netta Syrett – incentrato su una donna che, superati gli ostacoli sociali e famigliari, giunge a conquistare un’identità professionale e la libertà sentimentale. La tematica affrontata deve essere contestualizzata all’interno della campagna elettorale del 1948 che vede il Pci impegnato sul diritto al lavoro per le mogli e le madri. Con la presenza del romanzo illustrato, sotto alla direzione di Dina Rinaldi, la rivista passa dalle 40 mila alle 130-150 mila copie vendute grazie anche al capillare lavoro delle diffonditrici della pubblicazione, attività utile anche per comprendere le preferenze delle lettrici. Insieme al successo nelle vendite, però, arrivano anche le critiche da parte di alcune lettrici che, nel pieno della campagna antiamericana del 1948 contro i “fumetti” portata avanti dai vertici del Pci, si dicono contrarie alla loro pubblicazione sulla rivista dell’Udi.

In una delle prime scene del film Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, Silvana Mangano ha tra le mani una copia particolarmente “vissuta” di «Grand Hotel», probabilmente ad indicarne una lettura smaniosa e ripetuta. Poco prima dell’uscita nelle sale del film su «Noi Donne» Riso amaro compare nella versione a cinefotoromanzo realizzato con fotogrammi e fotografie tratte dal set ottenendo un enorme riscontro di vendite.

La direzione della rivista dell’Udi a partire dal 1950 passa a Maria Antonietta Macciocchi e la linea editoriale cambia: «i cineromanzi assumono un’aria dimessa, impaginati a scomparti fissi di sei fotografie orizzontali per pagina, ridotti a due sole pagine e accompagnati da didascalie redatte in modo neutro. I romanzi illustrati a disegni scompaiono e così le seppur rare vignette a “fumetti” dei mesi precedenti […] Con la nuova direzione il fotoromanzo viene additato come veicolo di un immaginario femminile sconveniente che ammicca pericolosamente dalle fotografie dove la donna “è rappresentata come un essere stupido, ridicolo, insignificante”» (p. 111).

Si apre così una stagione di attacchi diretti contro «Grand Hotel», «Bolero Film», «Luna Park», «Sogno», «Tipo», «Hollywood», pubblicazioni che la rivista dell’Udi «scova nei luoghi meno “colti”: dal parrucchiere, in treno, in tram, alla cassa del droghiere e del farmacista e sempre in mano a giovani donne» (p. 111). La nuova direzione di «Noi Donne» se la prende con quel «pubblico piccolo borghese che “smania” per occhieggiare come un voyeur i grandi alberghi e le donne procaci e discinte esibite in “questa volgare e ridicola illustrazione della sessualità”» (p. 111) ma soprattutto denuncia come le ingenue lettrici vengano, proprio attraverso i fotoromanzi, educate «al razzismo più bieco poiché i negri, i cinesi e gli indiani presenti nei racconti sono sempre ladri, traditori, spie, losche figure in contrasto con il bellimbusto americano e la sua indomita innamorata» (p. 112).

Sul finire del 1951 in un suo intervento pubblicato su «Noi Donne», l’onorevole Camilla Ravera accusa il fotoromanzo di sviare i lettori dai problemi reali e dalla lotta indirizzandoli verso un mondo fittizio. Il fotoromanzo, sostiene Ravera, «è luciferino per i ragazzi: favorisce la pigrizia mentale e ne atrofizza a lungo andare le facoltà intellettive, insegna la tecnica del delitto, alimenta l’odio di razza, indirizza a una concezione falsa della realtà» (p. 112).
Nonostante tutto i i cineromanzi continuano ad essere ospitati sulle pagine della rivista dell’Udi, pur ridotti alla doppia pagina ed accuratamente scelti su basi ideologiche, con un’impaginazione frema ai modelli delle prime pubblicazioni popolari degli anni Venti e Trenta oramai non più al passo coi tempi.

«Noi Donne», sostiene Silvana Turzio, «è un esempio non solo delle diverse e spesso opposte posizioni nei confronti delle dispense popolari a fumetti ma soprattutto della perplessità paralizzante nei confronti delle immagini e, in fondo, anche di una paradossale e poco consapevole misoginia che si manifesta anche nelle fautrici di un nuovo femminismo. Il problema emerge infatti quando le immagini mostrano troppo esplicitamente gli emblemi che scatenano il desiderio – “passioni d’amore, uomini, natiche e seni…” –, immagini pericolose perché offerte all’infanzia, intesa in senso letterale, della donna italiana» (p. 113).

Anche sul fronte cattolico alcune riviste decidono di ospitare fotoromanzi, tra queste «Famiglia Cristiana», pubblicazione che da una tiratura alla nascita nel 1931 di circa 300 mila copie, passa poi alle 750 mila nel 1956, alle 900 mila nel 1959, al milione nel 1961 fino a toccare i 2 milioni di copie a fine 1971 divenendo, nel corso degli anni Settanta, il settimanale più venduto in Italia. Per quanto riguarda la qualità dei servizi fotografici e della stampa, la rivista paolina rivaleggia con i periodici di maggior successo dell’epoca.

Il rapporto della Chiesa con le novità tecnologiche dei mezzi di comunicazione è notoriamente problematico: se da un lato viene incoraggiato il loro uso per «Portare Cristo oggi, con i mezzi di oggi» – si pensi alla produzione di cortometraggi, documentari e film della Sampaolofilm –, dall’altro però si avverte la necessità di istituire sistemi censori volti a preservare il pubblico da eventuali messaggi diseducativi e contrari alla morale cristiana.

Sebbene inizialmente ad essere trattate dai fotoromanzi pubblicati sul periodico cattolico siano storie di santi e religiosi, col passare del tempo prendono piede sia le riduzioni dei classici della letteratura, altrimenti sconosciuti al grande pubblico, che a vicende a sfondo sociale. In tutti i modi si tratta di produzioni votate alla catechizzazione in linea con l’impostazione paolina.
Nel 1959 su «Famiglia Cristiana» viene pubblicato Non posso amarti, la storia a fotoromanzo di Sant’Agnese, mentre l’anno successivo la rivista ricorre al racconto per immagini con didascalie, sulla falsariga dei cineromanzi degli anni Quaranta, per un servizio sul matrimonio e per uno sui grandi miracoli.
Sangue sulla palude (1960) rappresenta invece un tipo di fotoromanzo socio-educativo incentrato sulla vicenda di Maria Goretti. Nel giro di un quarto di secolo i fotoromanzi pubblicati su «Famiglia Cristiana» sono circa una cinquantina e, fino a metà degli anni Sessanta, sono prodotti internamente alla rivista

«Da un punto di vista formale il fotoromanzo cattolico è nei primi anni poco innovativo. Gli attori sono quasi sempre gli stessi, la pagina è densa di immagini collocate secondo la struttura classica del fotoromanzo: sei o otto fotografie per pagina, distribuite in una gabbia a crescere, le piccole in alto, le grandi in basso a sinistra, i testi invece sono collocati ai bordi superiori o inferiori, le vignette si sovrappongono a volte maldestramente alle immagini, che non sembrano essere realizzate in rapporto con il testo. La sequenza narrativa è chiusa sul presente, raramente con flashback o salti temporali» (p. 119). Le storie narrate riguardano soprattutto biografie edificanti di religiosi e figure femminili che hanno saputo compiere scelte coraggiose guidate da cristallini principi cristiani.

Dalla metà degli anni Sessanta le storie illustrate iniziano a preferire l’attualità ai racconti storici e agiografici e le modalità narrative si fanno più accurate, grazie al ricorso a professionisti del genere e soprattutto, segnala Silvana Turzio, si mostrano funzionali «ai cambiamenti dell’ultimo momento che possono essere sollecitati dalle reazioni dei lettori o da eventi di cronaca avvenuti tra una puntata e l’altra, secondo la collaudata tecnica del romanzo d’appendice, successivamente adottata dalle soap opera televisive. A volte emerge il meccanismo contrario: la rivista propone nel fotoromanzo scene o svolgimenti narrativi provocatori per suscitare nei lettori reazioni indignate, il che permette di riprendere il tema in articoli a latere o nelle rubriche dei lettori nei numeri successivi. Le pubblicità sono a loro volta articolate in funzione delle questioni che si vogliono affrontare nel corpo centrale della rivista. Gli interventi collaterali sembrano quindi essere costruiti consapevolmente come apparati di controllo e di deviazione del racconto in funzione di una precisa strategia comunicativa» (p. 120).

Nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, il mondo cattolico è toccato dalle turbolenze che attraversano l’intera società dell’epoca. All’interno del nuovo clima che si respira tra i cattolici, soprattutto tra i più giovani, i fotoromanzi pubblicati dalla rivista paolina «sembrano svolgere il ruolo di “messa in scena” dell’argomento per proporne una soluzione negli articoli o nelle rubriche di cronaca, dimostrando un uso congiunto del fotoromanzo e del paratesto di carattere propedeutico. Lungi dall’essere demonizzato, il fotoromanzo viene invece accolto come un contenitore capace di veicolare informazioni e indicazioni di vita e di pensiero» (p. 121).

Nel volume vengono dettagliatamente presi in esame un paio di fotoromanzi che affrontano il tema del celibato e dell’impegno sociale: La miniera del miracolo (1967) ed Il rifiuto (1967). Nel primo si narra del coinvolgimento di un prete nel mondo dei minatori, con annesse tragedie sul lavoro, e del problema del celibato sacerdotale, mentre nel secondo è di scena la questine dello scontro generazionale, in linea con il tentativo della Chiesa di «proporre un equilibrio tra gli effetti del boom economico e le lotte operaie e sindacali che si profilavano all’orizzonte» (pp. 129-130).

Ad essere affrontate sono anche la procreazione extramatrimoniale, l’identità femminile al di fuori della famiglia e l’imposizione parentale sulla scelta lavorativa o affettiva delle donne, tematiche trattate all’epoca anche dai fotoromanzi delle testate non cattoliche, «Noi Donne» compresa.
Se nelle produzioni “laiche” si assiste ad un evidente miglioramento della qualità fotografica, che adotta il colore, «Famiglia Cristiana» si ostina al bianco e nero evitando di curare l’aspetto fotografico ritenendolo esclusivamente funzionale alla narrazione scritta. La stagione del fotoromanzo sulla rivista cattolica può dirsi terminare attorno alla metà degli anni Settanta.

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