racaille – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 11 Apr 2025 20:00:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 5: un bilancio. https://www.carmillaonline.com/2023/06/08/cronache-marsigliesi-5-un-bilancio/ Thu, 08 Jun 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77498 di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

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La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al momento, sulla scia dei materiali raccolti, provare a tracciare un bilancio appare utile. Inevitabilmente il “viaggio marsigliese” si è intersecato con ciò che in questi mesi è andato in scena in Francia in relazione al movimento che ha provato a opporsi alla legge relativa al prolungamento dell’età lavorativa. A partire da ciò proveremo a delineare gli intenti e la “linea di condotta” del comando per, in un secondo momento, parlare degli effetti di questo sul tessuto sociale francese e della composizione di classe, rispetto alla quale abbiamo assunto Marsiglia come elemento paradigmatico, sulla quale abbiamo concentrato i nostri articoli-inchiesta. Infine, ma in un successivo articolo, si proverà a ragionare sulle prospettive, ma anche le contraddizioni, che il “nuovo soggetto operaio” si porta appresso. Delineato l’indice del testo entriamo direttamente nel merito delle questioni.

Cominciamo, quindi, con il parlare del movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni. In piena solitudine abbiamo sostenuto che non fosse proprio “tutto oro ciò che brillava” e che gli abbagli presi in Italia a proposito di quel movimento fossero colossali. I più, catturati dall’imponenza delle manifestazioni e dalle non secondarie scaramucce imbastite da alcune frange di manifestanti con le forze dell’ordine, hanno intravisto in quelle manifestazioni qualcosa di non dissimile da un momento pre–insurrezionale. Certo, vista soprattutto la prevalente apatia che serpeggia in Italia, un numero di manifestanti così ampio e il prodursi di qualche battaglia di strada, comprensibilmente poteva far sorgere più di un entusiasmo tuttavia è sempre il caso di ricordare che le insurrezioni o i suoi tentativi presuppongono la presenza di strutture organizzate predisposte all’attacco. Di tutto ciò non si è avuta alcuna traccia per cui parlare di momento pre–insurrezionale appare, come minimo, una forzatura.

Identico ragionamento si può fare se dall’ipotesi dell’insurrezione passiamo a quella della “spallata”. In questo caso non necessariamente deve comparire, se non in forme minime, il conflitto armato ma, sicuramente, occorre l’esercizio di una “forza” in grado di arrecare danni considerevoli al nemico di classe. Perché si possa parlare di fase insurrezionale occorre che quanto emerge nelle piazze sia una lotta contro lo stato e per il potere mentre, nel caso della “spallata”, più modestamente, e forse anche più realisticamente, l’obiettivo è la caduta del governo. Nessuna delle due ipotesi, oggi lo possiamo dire sulla base di una prosaica constatazione empirica, è stata perseguita e questo, altro aspetto non proprio irrilevante, senza che il governo abbia dovuto intervenire in maniera eccezionale. In altre parole il governo, per far rientrare il tutto, non è stato obbligato a alcuna “forzatura emergenziale” non ha dovuto, cioè, promulgare alcun “stato d’eccezione”, affidare un qualche potere speciale alle forze di polizia, porre in stato dall’erta l’esercito, così come nessun restringimento delle “libertà democratiche” (individuali e collettive), nessuna parvenza di coprifuoco, limitazione della libertà di stampa ecc., sono state messe in campo e neppure ventilate. Il governo si è limitato a agire sicuramente con fermezza, ma dando anche l’impressione di mantenere entro perimetri piuttosto bassi i livelli repressivi. A sguardi minimamente attenti, oltre che consci degli abituali livelli repressivi posti in atto dalle forze di polizia nei confronti della racaille, è apparso subito chiaro come la polizia si sia mossa con il freno a mano tirato. Evidentemente, e non senza ragione, il governo aveva la netta sensazione di trovarsi di fronte al classico: tanto rumore per nulla. Quelle masse non sarebbero andate oltre. Tutto ciò, del resto, non poteva rientrare negli intenti dei settori di classe che sono scesi in piazza.

Come abbiamo, sin da subito evidenziato, la lotta ha interessato esclusivamente il settore pubblico mentre gli operai e i proletari del settore privato, i precari e i disoccupati ne sono rimasti sostanzialmente estranei. La stessa componente studentesca ha visto una spaccatura simile. A fronte della mobilitazione delle università e delle scuole superiori di élite, la componente studentesca maggiormente legata alla condizione operaia e proletaria, il cui orizzonte è esattamente finire tra le schiere dei non garantiti, ne è rimasta fuori. Il motivo di tutto ciò è abbastanza semplice. L’attacco governativo alle pensioni riguardava, principalmente, quei settori operai e proletari del settore pubblico che, per semplificare, possiamo catalogare come “garantiti” o, per usare un lessico un po’ datato ma non del tutto inattuale, come “aristocrazia operaia”. Un ambito che, in Francia, può vantare numeri considerevoli oltre che postazioni di forza e di potere non secondarie. Questo settore può vantare condizioni salariali, lavorative e previdenziali invidiabili e, se paragonate a quelle italiane, addirittura inimmaginabili. Ciò è il frutto di due cose, da un lato l’esercizio e di una forza sindacale costruita con le lotte; dall’altro la possibilità di usufruire di una parte dei profitti che il neocolonialismo francese è in grado di rastrellare, soprattutto in Africa, tramite il Franco CFA o i suoi surrogati. Non è certo una novità il fatto che settori di classe operaia usufruiscano di modeste ma significative parti dei profitti imperialisti e neocoloniali. In Francia, ciò, è quanto mai evidente.

Questi settori di classe hanno provato a difendere, per questo possiamo definirla come una lotta, per quanto corposa, di retroguardia, una condizione che appartiene, sotto il profilo storico, a un’epoca in fase di archiviazione anzi, per essere più precisi, a un’epoca già archiviata dal contemporaneo “piano del capitale” (di ciò l’Italia ne incarna con ogni probabilità il punto più avanzato). Una fase storica segnata in profondità da quel “patto socialdemocratico” il quale, con sfumature diverse, ha fatto da sfondo all’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Un patto sicuramente non esente da conflitti, spesso anche molto accesi, dove, però, l’idea della rottura non animava alcuna delle parti in gioco.

Se escludiamo il falò del Maggio e la “anomalia italiana” degli anni ’70, solo paese dell’Europa occidentale dove l’ipotesi della rottura si è concretamente dato tanto da delineare, pur se di breve intensità, lo spettro della “guerra civile”, nel resto dei paesi europei tutto ciò è rimasto sostanzialmente assente. Sovente, questo conflitto, non è andato molto oltre il “simbolico” dove, per “simbolico”, si intende la messa in scena di un conflitto, anche dai toni minacciosi, ma che non va mai oltre la rappresentazione.

L’epilogo di ciò, insieme alla sua infelice conferma, si è avuto proprio nel corso della battaglia per il ritiro della legge sulle pensioni a riprova di come, nella storia, la farsa segua sempre la tragedia. Il 16 marzo, l’opposizione parlamentare, ha interrotto la porta voce del governo alzandosi in piedi e intonando la Marsigliese. Peccato che, a tutto ciò, non abbia fatto seguito alcuna “marcia su Versailles”, alcuna “presa della Bastiglia” e, soprattutto alcuna “formazione di battaglioni”. Prigioniera di un mondo che non c’è più, l’opposizione parlamentare ha fatto ciò che, con ogni probabilità, nel passato sarebbe stato un atto dimostrativo sufficiente per obbligare il governo a una mediazione. Come tutti sanno, le cose sono andate in maniera decisamente diversa. Con ciò l’opposizione ha dimostrato più che la sua inadeguatezza il suo essere fuori contesto. Il canovaccio attuale predisposto dal comando non prevede che in scena vadano “battute” simili e farle non comporta altro che andare incontro a clamorose gaffe.

Con ogni probabilità, Mélenchon e soci, più che intestardirsi con un marxismo–leninismo d’antan trarrebbero maggiori vantaggi dalla lettura di Goffman!!! Una retorica alla quale, del resto, non si è sottratto neppure quella parte di movimento studentesco sceso in piazza. Chi ha seguito le manifestazioni avrà colto, cosa che probabilmente in un primo momento li avrà riempiti di entusiasmi, le non secondarie assonanze con il Maggio, i suoi slogan e le sue parole d’ordine ben velocemente, però, è diventato chiaro come, a conti fatti, la rievocazione del Maggio fosse del tutto in linea con il fare simbolico dell’opposizione in parlamento. Così come non vi è stata alcuna “marcia su Versailles” e il “Quartiere latino” ha dormito sonni tranquilli.

Ironie a parte un dato, che racconta molto sulla realtà di questo movimento, è la totale assenza della questione guerra nelle manifestazioni. Tutto ciò che concerne la guerra, il conflitto interimperialista in corso e le ricadute di questo anche dentro la Francia non ha trovato alcun spazio e, del resto, neppure poteva trovarlo. Il mondo dei “garantiti” o “aristocrazia operaia” che dir si voglia è, e questo da sempre, legato al carrozzone del “proprio imperialismo”, pertanto il conflitto non può varcare una certa soglia a meno che quella stessa condizione non inizi a incrinarsi. Qualche avvisaglia di ciò si è iniziata a intravedere nel corso delle “giornate francesi”, ma di tutto questo ne parleremo meglio nella seconda parte dedicata alla “soggettività della classe”. Prima di passare a parlare del “piano del capitale”, anche perché così diventa più semplice comprendere il senso di quanto asserito, un passaggio sulla scena italiana appare utile.

Per quanto in maniera sicuramente minimale, ma di segno identico, anche in Italia abbiamo avuto il nostro clamoroso abbaglio. Ci riferiamo a quanto andato in scena attraverso il “Collettivo di fabbrica GKN” e alle retoriche consumatesi intorno a “Insorgiamo”. La lotta della GKN era ed è, tra l’altro, non uno ma cento passi indietro rispetto alla Francia. Se, in Francia, la lotta di retroguardia dei “garantiti” mirava a difendere una postazione di forza e di potere dove a primeggiare era il “diritto a vivere” e non a lavorare, la lotta della GKN era del tutto perimetrata intorno a quel “diritto al lavoro”, che in soldoni significava semplicemente cercare un nuovo padrone, proprio di quella “destra operaia” che, in epoche ormai remote, ambiva a “farsi stato”. Tutto interno alla CGIL, per quanto legato a quella ipotetica sinistra della quale non se ne sono mai capiti contorni, programmi e intenti, il “Collettivo di fabbrica GKN” di questa organizzazione ne assumeva per intero tutte le retoriche. Produttivismo, ideologia del lavoro, concertazione senza dimenticare il legalitarismo, la reiterata manifestazione di fiducia nelle istituzioni e così via. Palesemente, nonostante i non pochi ammiccamenti nei confronti del “movimento”, la sua interlocuzione principale rimaneva Nardella (sindaco di Firenze), piddino di formazione renziana, il quale se sicuramente non è Lenin non è neppure lontano parente di Pietro Nenni. Facendosi forte di una consolidata tradizione “consociativa”, propria della “destra operaia”, il “Collettivo di fabbrica” considerava la mediazione istituzionale un atto pressoché dovuto il che non è stato. Ciò che il “Collettivo di fabbrica” non ha compreso è che, per la forma attuale del comando il “patto” con la “destra operaia” ha perso qualunque valenza strategica e, con questo, anche tutto l’insieme di “rituali” che gli hanno fatto da sfondo. L’epoca degli “atti simbolici” è abbondantemente alle spalle e “insorgere” nel nulla, come ha fatto il “Collettivo di fabbrica GKN” trascinandosi dietro gran parte del cosiddetto movimento antagonista, può essere ben chiosato con Sartre L’essere e il nulla. Di tutto ciò la Francia ne ha dato qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Passiamo così a parlare degli obiettivi che il “governo Macron”, il quale ha ben poco di francese ma è parte di prim’ordine del comando internazionale del capitale, ha voluto perseguire con la sua riforma. Come in molti ricorderanno uno spettro, da tempo, aleggiava tra le classi subalterne francesi: “Non fare la fine degli italiani”. Con non poca ragione, queste masse, identificavano nell’Italia il paese che più di altri sintetizzava la macelleria sociale del nuovo ordine capitalista il che con non poche ragioni. Per quanto anche in Francia, negli ultimi anni, si sia assistito al proliferare di politiche neoliberiste che hanno modificato radicalmente la composizione di classe del paese e a un non secondario ridimensionamento delle politiche di welfare, agli occhi di un visitatore italiano la Francia appariva pur sempre come il paese dei balocchi.

Con la mossa sulle pensioni, che ne prevede già immediatamente un’altra sulla sanità, il “governo Macron” intende por fine a quella che, per molti versi, appare come la grande anomalia europea. Ciò che deve essere battuta, ridimensionata e tendenzialmente estinta è proprio quella notevole porzione di classe operaia e proletariato “garantito” che in Francia, e in parte in Germania, incarna al meglio la tipologia delle relazioni industriali provenienti dal ‘900 e non è certo un caso che proprio in Francia e Germania si siano prodotte, proprio a opera di questi settori operai, le lotte maggiori.

In Francia questo settore di classe è ancora troppo vasto e non può più essere tollerato, ma deve essere allineato a quella condizione nella quale, non da oggi, sono state ascritte quote considerevoli di forza lavoro. Precarietà, lavoro nero e disoccupazione devono diventare i “luoghi comuni” delle masse operaie e proletarie senza che alcuna significativa forma di welfare li attenui. Proprio considerando questo il “cuore” del progetto politico del “governo Macron” abbiamo assunto Marsiglia come possibile paradigma del presente. Come abbiamo ascoltato in molte delle interviste riportate negli articoli precedenti, Marsiglia sembra presentarsi come un vero e proprio laboratorio per il “piano del capitale”. A renderla tale, aspetto che negli articoli pregressi è stato posto poco in evidenza, è la sua composizione “etnica”. Marsiglia è una città sicuramente abitata da francesi ma non bianca in quanto la presenza di una popolazione “postcoloniale” sembra essere maggioritaria.

Perché questa condizione ne farebbe il luogo ideale per la messa a punto delle politiche che stanno a cuore del comando? Perché Marsiglia si presta, si potrebbe dire come autentico modello ideal – tipico”, a essere uno di quei “sud del mondo” sui quali si delineano le attuali politiche del comando e del dominio dove “razzializzazione” e “neocolonialismo” sono i presupposti per l’attuale ciclo di accumulazione. Questo è il passaggio fondamentale attraverso il quale diventa possibile comprendere il senso dell’attacco a tutto tondo portato dal “governo Macron” al mondo dei “garantiti”. Marsiglia, quindi, come vero e proprio specchio del presente. Si tratta di una asserzione probabilmente non semplice e persino in apparenza eccessiva che, pertanto, deve essere argomentata.

Per comprendere il senso di questo passaggio dobbiamo chiederci qual è il modello delle relazioni industriali che il comando sta perseguendo. Lo scarto tra il passato e il presente è colossale in quanto da una relazione simmetrica si è passati a una decisamente asimmetrica. Con ciò, non senza ironia, si può asserire che il comando è andato “oltre Marx” poiché ha esattamente posto in mora quel: “A pari diritti, vince la forza” attraverso cui Marx, se da un lato indicava la “forza” come elemento essenziale del rapporto tra le classi (da qua la funzione dello stato come apparato di classe), dall’altro ne presupponeva l’eguaglianza sotto il profilo giuridico–formale.

Figlio del suo tempo e forzatamente eurocentrico, Marx assumeva le relazioni sociali europee come modello universale ponendo, con ciò, tra parentesi tutta la storia coloniale e, con questo, sia il ruolo svolta da questa nella cosiddetta accumulazione originaria e, in contemporanea, i modelli relazionali sui quali si fondava l’esercizio del dominio nei confronti dei colonizzati. Nasce esattamente dentro questo processo la svalutazione, “antropologica” ancora prima che “politica”, di ciò che le retoriche di senso comune inizieranno a definire come “sud del mondo”. Con ciò il “sud del mondo” diventava l’altro e la relazione con questo, si potrebbe dire per “natura”, non poteva che essere di tipo asimmetrico, ovvero regolata esclusivamente sull’esercizio della forza. Con ciò la storia delle masse subalterne europee e quelle quelle extraeuropee non poteva che essere scritta attraverso due sintassi tanto diverse quanto incommensurabili.

Una storia che ha funzionato sino a quando, attraverso i processi di globalizzazione, i rigidi confini che separavano, a quel punto il mondo occidentale dal resto del pianeta, si sono di fatto azzerati. A quel punto, questa volta per davvero, la condizione subalterna ha iniziato a farsi universale e lo ha fatto assumendo nei nord del mondo le condizioni in uso nel sud. Ciò che dagli articoli d’inchiesta abbiamo appreso è la condizione di esclusione e marginalità sociale nella quale versano coloro che compongono i ranghi della nuova composizione di classe così come, al contempo, abbiamo appreso lo svuotamento della città metropolitana dalle attività industriali, confinate nelle vicine “città satelliti”, a fronte del proliferare delle attività turistiche al suo interno. In questo modo la città viene liberata dall’ingombrante presenza dell’industria e della sua classe operaia, il cui confinamento geografico contribuisce non poco a renderla invisibile, mentre frotte di turisti possono “vivere la città”. Un fenomeno, questo, ben conosciuto in Italia. La nuova classe operaia è stata, per lo più, espulsa dalle città diventate, non a caso, anche queste mete turistiche e dislocata in quegli immensi territori un tempo extraurbani ma oggi, a tutti gli effetti, sterminate periferie delle metropoli oppure confinate, in condizioni servili, negli invisibili comparti agro–alimentari. Ma torniamo a Marsiglia.

Riprendiamo un tema ben affrontato in alcune interviste, affrontando il nesso indissolubile che lega militarizzazione, repressione e ciclo economico. Chiunque abbia visitato Marsiglia solo qualche anno addietro e lo rifaccia oggi noterà come militarizzazione del territorio insieme a repressione e confinamento della racaille abbiano conosciuto una crescita esponenziale soprattutto ultimamente quando, dopo anni di governo cittadino di destra, l’amministrazione è passata nelle mani di una giunta di sinistra. Potrebbe sembrare un non senso ma, in realtà, l’effetto di questa trasformazione ha ben poco a che fare con le possibili “visioni del mondo” delle donne e degli uomini politici che governano la città ma ha invece molto a che vedere con i processi economici che l’hanno investita. Come sempre non è guardando ai mondi celestiali delle idee e della politica ma andando a scavare tra gli inferi della produzione che diventa possibile comprendere i mondi reali.

Marsiglia, negli ultimi anni, ha conosciuto una veloce e repentina impennata in chiave turistica. Su ciò si sta rimodellando e lo sta facendo su più piani, al proposito apriamo un doveroso inciso. Il turismo di cui stiamo parlando è un turismo di massa cioè di quella robusta middle class che rappresenta l’ossatura dei vari nord del mondo ed è proprio la relazione e l’empatia con questa composizione di classe a fare da sfondo ai modelli di trasformazione urbana. Per prima cosa, infatti, la sta rendendo una città sempre più simile e omologata a tutte le città del mondo le quali, come da tempo è stato ben osservato dalla sociologia urbana, stanno assumendo sempre più aspetti omogenei. Ciò è estremamente rassicurante poiché, in ogni contesto, il turista può utilizzare la medesima mappa cognitiva.

Il turista non è alla ricerca del proprio “romanzo di formazione”, dove centrali diventano le diversità alle quali si va incontro, ma di un continuo non–luogo con il quale è abituato ormai da tempo a convivere e con il quale si immedesima. In seconda battuta il turista ha fame di “esotico”. I selfie che faranno da testimoni alla vacanza se da un lato dovranno fissare l’immagine delle cattedrali dei non–luoghi, dall’altro dovranno anche “raccontare” i “misteri del viaggio”. Nascono così i luoghi “caratteristici della città”, frutto di una nuova “invenzione della tradizione”, dove il turista può usufruire di una narrazione dove la storia della città, o meglio di una sua particolare zona (il quartiere del Le Panier tanto per fare un esempio particolarmente significativo), è totalmente reinventata e manipolata.

Tutto ciò, è evidente, per poter funzionare ha bisogno di due cose, la totale messa in sicurezza dei territori, per cui tutti coloro che disturbano, o potrebbero farlo, devono essere espulsi; una forza lavoro invisibile e priva di legittimazione sociale prona a assecondare le richieste del mercato. Una forza lavoro flessibile, precaria e continuamente sotto ricatto la cui condizione, per forza di cose, oscilla tra precarietà, disoccupazione e illegalità. Una forza lavoro che, nel momento in cui è inoccupata, deve essere confinata nei “Quartieri Nord” o nelle altre zone di Marsiglia off limits per i turisti. Questo, in sintesi, ciò che il comando, e a uno stadio piuttosto avanzato, sta realizzando.

Tutto ciò, come abbiamo provato a descrivere negli articoli pregressi, ha comportato il delinearsi di una “nuova composizione di classe” che non ha più nulla a che spartire con ciò che abbiamo definito “relazioni industriali novecentesche”. Se questo è il “piano del capitale” occorre pur sempre che, per essere realizzati, si facciano “i conti con l’oste”. Quanto l’oste sia accondiscendente è ancora tutto da dimostrare. Settori di “aristocrazia operaia”, operai industriali del privato, precari, disoccupati e illegali se, per un verso, non hanno ancora elaborato una loro compiuta sintassi mostrano, se non altro, di avere dalla loro una robusta grammatica. Se per il comando le masse subalterne devono essere relegate a forza nel mondo della voce non pochi indicatori sembrerebbero dire che queste masse si stanno appropriando del linguaggio, il loro linguaggio. Esattamente di ciò proveremo a parlare nel prossimo articolo.

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Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/03/26/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-1/ Sun, 26 Mar 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76414 di Emilio Quadrelli

“La rage d’aller jusqu’au bout et là où veut bien nous mener la vie” ( Keny Arkana – La Rage)

Lo sguardo di un “flâneur”

“Non sei tu che scegli Marsiglia, è Marsiglia che sceglie te”, così i marsigliesi amano parlare della propria città. Da sempre Marsiglia coltiva un fascino dal quale è difficile sottrarsi e che tanto la letteratura quanto la cinematografia hanno non poco contribuito a rendere eterno. Con orgoglio i marsigliesi, o almeno quelli non possidenti, sottolineano che Marsiglia non è la Francia e soprattutto non [...]]]> di Emilio Quadrelli

“La rage d’aller jusqu’au bout et là où veut bien nous mener la vie” ( Keny Arkana – La Rage)

Lo sguardo di un “flâneur”

“Non sei tu che scegli Marsiglia, è Marsiglia che sceglie te”, così i marsigliesi amano parlare della propria città. Da sempre Marsiglia coltiva un fascino dal quale è difficile sottrarsi e che tanto la letteratura quanto la cinematografia hanno non poco contribuito a rendere eterno. Con orgoglio i marsigliesi, o almeno quelli non possidenti, sottolineano che Marsiglia non è la Francia e soprattutto non è Parigi. E con Parigi si intende la “piccola Parigi” ovvero tutto ciò che è estraneo agli sterminati territori nord della capitale con i quali, invece, i rapporti sono piuttosto stretti tanto che, nel periodo estivo, non sono pochi i banlieusards parigini che vengono a trascorrere la vacanze da parenti o amici marsigliesi.

L’antagonismo con Parigi è a dir poco enorme poiché a fronteggiarsi sono due “visioni del mondo” del tutto antitetiche e che nulla hanno a che fare con le pur non secondarie frizioni proprie del “campanilismo” nostrano. Libri come Duri a Marsiglia o la trilogia di Izzo, solo per citarne alcuni, o film come Borsalino e Borsalino &Co, oltre i noir d’autore che hanno visto Marsiglia più come un “luogo dell’anima” e l’esemplificazione di una vera e propria Weltanschauung, piuttosto che un suggestivo paesaggio dove incorniciare delle storie, hanno fatto di questa città qualcosa di speciale. La stessa “cronaca nera” italiana non si è sottratta a ciò: basti pensare ai fiumi di inchiostro, al limite del poema epico, versati per narrare l’epopea del Clan dei marsigliesi e dei suoi principali esponenti, Maffeo Bellicini, Albert Bergamelli e Jacques Berenguer i quali, in fuga da Marsiglia, avevano fatto base a Roma dove diedero prova di quanto meritata fosse la loro fama. Nelle cronache dell’epoca, infatti, i loro nomi primeggiano al fianco di figure di un calibro, solo così per dire, come quello di Francis Turatello1.

La fama di Marsiglia è tale che anticipa di gran lunga i suoi abitanti. Sola città europea capace di competere, per “insicurezza” e “criminalità”, con le più turbolenti città sudamericane, Marsiglia ha sicuramente qualcosa di magico e speciale tanto che il detto: “Marsiglia o la si ama, o la si odia”, contiene più che un grano di verità. Difficile, pertanto, sottrarsi al fascino che, sin dal momento in cui si scende la scalinata di Saint-Charles, la città ti obbliga a respirare. Nello scrivere di e su Marsiglia vi è sempre il rischio di finir catturati dal mitologema che la città si porta appresso, finendo così con l’essere influenzati in ogni tentativo di narrazione. Sicuramente il breve resoconto etnografico che segue potrebbe non risultarne del tutto immune. Tuttavia, con tutte le cautele del caso, chi scrive ha cercato di mantenere una certa sobrietà prona ai dettami dell’ “oggettività” e dell’ “avalutatività”2.

Frutto di un soggiorno di circa un mese (dal 9 gennaio al 4 febbraio 2023) nella città del minstral, la ricerca si proponeva l’obiettivo di descrivere alcuni aspetti della vita sociale delle masse subalterne e il loro rapporto con i movimenti politici antagonisti, tutto ciò in scia a un testo, Rosso banlieue3, il quale, per molti versi, ha aperto un filone di ricerca sulla “marginalità sociale” in aperta controtendenza alle retoriche convenzionali proprie della pubblicistica di buona parte della sinistra e degli stessi movimenti antagonisti. La ricerca si è svolta adoperando le tecniche proprie dell’etnografia sociale, a partire dall’utilizzo di alcuni gatekeeper che hanno consentito l’accesso all’interno di determinati contesti sociali e urbani, oltre alla consolidata pratica della “osservazione partecipante”4. La ricerca ha avuto l’ambito sportivo (una sala boxe) come base operativa il che, essendo chi scrive un ex atleta agonista, ha consentito di stabilire sin da subito una buona dose di empatia e fiducia con un certo numero di attori sociali. La raccolta di “storie di vita” e alcune “interviste in profondità” costituiscono l’io narrante del testo5. Detto ciò, prima di calarci nel racconto degli attori sociali, proviamo a inquadrare il contesto di cui parliamo attraverso tre brevi flash di vita urbana.

Marsiglia, un qualunque pomeriggio infrasettimanale, tram 1, fermata George. Davanti agli occhi di chi non è marsigliese si presenta una scena foriera di facili malintesi. Una trentina di persone in divisa blu, facilmente scambiabili per flics, occupano per intero la fermata e gli spazi a questa adiacenti. La cosa più ovvia da pensare è che sia accaduto qualcosa di piuttosto serio. Una rapina, un conflitto a fuoco, forse un omicidio. Sul tram nessuno mostra un qualche interesse per ciò che accade, solo lo sprovveduto straniero si mette a osservare il tutto con non malcelata curiosità. Pochi attimi e tutto si chiarisce, e quella che, a un primo sguardo, poteva apparire come una maxi operazione di polizia, si rivela per qualcosa di assai più prosaico: gli uomini e le donne in divisa blu non sono flics ma verificatori dei titoli di viaggio. Bloccando e circondando i pochi passeggeri scesi dal tram, controllano che gli stessi non siano “portoghesi”. Uno spiegamento di forze apparentemente sproporzionato ma che, come in seguito mi verrà spiegato, non ha nulla di eccezionale. Quello è il modo abituale in cui operano i “controllori” e lo è a ragion veduta. Agire in gruppi numerosi, non salendo sui mezzi pubblici, ma verificare i titoli di viaggio solo a terra e quando i rapporti di forza si mostrano estremamente favorevoli, rappresenta il solo escamotage per evitare di venire sopraffatti da viaggiatori senza biglietto. Una esposizione dei fatti che, tra gli abitanti di Marsiglia, non suscita particolare apprensione. Come tutte le pratiche sociali consolidate, alla lunga, diventano semplice routine.

Marsiglia, un normale sabato sera nel quartiere La Plaine. Prima di addentrarci nella breve descrizione degli eventi, occorre dire due parole su questo quartiere poiché, in maniera tanto sintetica quanto efficace, è in grado di focalizzare due aspetti della vita di questa città particolarmente significativi: i processi di esclusione e marginalizzazione sociale e, in seconda battuta, la non secondaria aporia tra “movimento” e classe. La Plaine, infatti, non è il classico territorio dove una borghesia benpensante e conservatrice conduce la sua esistenza mantenendo il più possibile le distanze, anche attraverso una rigida sorveglianza armata, dalle classi sociali subalterne, bensì un quartiere di sinistra, progressista, alternativo e assai distante dalle retoriche reazionarie. Una realtà che, per usare un termine à la page, fa tendenza e che, per molti versi, sembra indicare il futuro prossimo di Marsiglia che, negli ultimi tempi, è diventata la principale meta dei bobos, di quel ceto medio mediamente ricco di “capitale culturale” al quale, per lo più, non corrisponde un “capitale economico” di pari valore6. Usando una terminologia forse un po’ datata, questo ceto incarna il volto contemporaneo del riformismo e della socialdemocrazia ed è alla ricerca di un “modello” sociale e urbano in grado di cogliere le opportunità offerte dalle società postmoderne smussandone al contempo le aporie7. La Plaine, di tutto ciò, ne incarna una felice sintesi seppure, a uno sguardo neppure troppo attento, le aporie della postmodernità non sembrano trovare una qualche felice soluzione, semmai il contrario. Nel fine settimana, infatti, i ragazzi dei quartieri Nord piombano come barbari8 nel “quartiere alternativo”, con intenti non proprio pacifici. Benché le cronache focalizzino gli sguardi sui furti e le rapine, che sicuramente accadono ma sono di portata assai limitata, ciò che in questi comportamenti sembra emergere è soprattutto “la sfida”. Si tratta, cioè, di penetrare in un territorio che, per come pensato e organizzato, è deputato a tenerli fuori. Di ciò, la sintetica descrizione che segue offre una buona esemplificazione.

Verso le 23 di venerdì 20 gennaio, accompagnato da due ragazze del Collectif boxe, mi reco sulla spianata del quartiere La Plaine. I locali traboccano di persone che entrano ed escono, molti i giovani che si passano qualche “canna” seduti sui muretti che delimitano il piccolo “parco giochi” dei bambini. Gli ingressi dei locali sono presieduti da “buttafuori” che regolano l’entrata e l’uscita mentre altri ne sorvegliano gli interni. Gruppi di polizia mobile stazionano ai bordi del quartiere operando, di quando in quando, dei fermi e dei controlli. La prima impressione che capita alla mente del casuale “flâneur” è di trovarsi di fronte a una “Disneyland dell’alternativo” dove, all’interno di un perimetro ben delineato, “stili di vita” non convenzionali possono essere consumati in piena tranquillità. Una sorta di “oasi liberata”, ma socialmente e culturalmente perimetrata9, che non presuppone l’irrompere di alcun guastafeste10 ed è esattamente qua che entrano in ballo i “ragazzi dei quartieri Nord”. Un gruppo di questi, una decina, tutti maschi (prevalentemente di “pelle scura” anche se era visibile la presenza di almeno due blanc) è riuscito a intrufolarsi nei perimetri della “Disneyland dell’alternativo”, entrando immediatamente in contatto con la sicurezza. Immancabilmente ne scaturisce una rissa nella quale la piccola gang ha la peggio tanto che, in fretta e furia, è costretta a ripiegare. Nella fuga i ragazzi rovesciano tavoli, si appropriano di ciò che trovano a portata di mano e riescono a dileguarsi. A questo punto la nottata prosegue seguendo tranquillamente i suoi ritmi e i suoi rituali. Verso l’alba, la “Disneyland dell’alternativo” smobilita.

Queste cose, per molti versi e avendo in mente il panorama italiano degli anni Sessanta e Settanta, non sono certo nuove11. Le incursioni delle giovani gang dentro i quartieri borghesi erano pressoché all’ordine del giorno, così come l’irrompere di queste nei locali e nelle discoteche frequentati dai “ragazzi bene” erano una delle tante “sfide” che facevano da sfondo ai loro “rituali”. Una pratica sociale che trovò, almeno per un certo periodo, anche una sua concretizzazione politica attraverso i “Circoli del proletariato giovanile” milanese, il cui apice fu raggiunto con l’ “attacco alla Scala”12. Ciò che distingue quanto accade a La Plaine da quel che abitualmente andava in scena dentro i “quartieri bene” delle metropoli italiane è il blocco sociale con cui le gang contemporanee si scontrano. Nel primo caso era la borghesia in doppio petto e pelliccia a essere l’oggetto delle incursioni barbariche, oggi si tratta di un ceto sociale decisamente casual che sfoggia con un certo compiacimento piercing e tatuaggi13. Si tratta, almeno in apparenza, di episodi del tutto marginali che tuttavia sono in grado di raccontare qualcosa di non secondario sul modello sociale che governa la città. Ad andare in scena, al di là delle volontà degli attori sociali in gioco, è una nitida fotografia delle relazioni di potere che fanno da sfondo alla società contemporanea dove linea di classe e linea del colore si intersecano, ma non solo.

Ciò che a prima vista può apparire come l’eterna reiterazione de I ragazzi della via Pál14 in realtà sottende a qualcosa di ben diverso; da una parte un blocco sociale socialmente legittimato e, in virtù di ciò, detentore a pieno titolo di linguaggio (politico), dall’altra una massa informe, priva di volto e dai tratti barbarici, marginalizzata, socialmente esclusa e in grado di esprimersi solo con e attraverso la semplice voce15. Non per caso, qualche anno addietro, Sarkozy, per definire questa massa senza volto usò il termine racaille, ovvero qualcosa che è fuori dai perimetri della vita civile ed è priva di legittimità politica e sociale16. Una massa prevalentemente in “pelle scura”, dove i retaggi del colonialismo si fondono con la condizione proletaria. Una condizione alla quale non sfuggono, nonostante il loro essere blanc, i giovani “francesi francesi” poiché, come in La Haine è stato molto ben narrato, la condizione di marginale scurisce, di fatto, anche la pelle dei blanc17. Questo lo scenario razzista che fa da sfondo a Marsiglia e che, come vedremo meglio in seguito, è diventato un fronte di lotta non secondario di alcune realtà operaie e proletarie.

Un normale giovedì pomeriggio nei pressi de La Castellane, la banlieue Nord di Marsiglia divenuta famosa nel mondo perché vi è nato e cresciuto Zidane. Ciò che per un abitante di Marsiglia appare come semplice routine, agli occhi di un ospite casuale assume ben altri aspetti. All’improvviso al visitatore sembrerà di essere davanti a un televisore e osservare le abituali immagini di un check point israeliano in prossimità di un “valico palestinese”. L’ingresso in banlieue, infatti, è regolamentato, in entrata e in uscita, da un imprecisato numero di forze di polizia in pieno assetto tattico. Ogni persona, ogni macchina, sono attentamente identificate e perquisite. L’operazione può andare avanti per ore senza che sia accaduto un qualche fatto che potrebbe giustificare un tale spiegamento di forze. Molto di rado, e solo con una notevole supplenza di mezzi, le forze di polizia si azzardano a penetrare all’interno dell’agglomerato urbano, poiché il rischio di andare incontro a conflitti armati di non secondaria intensità non è irrisorio. Il grado di armamento presente tra la popolazione di questi territori è tanto noto quanto ampio. Per questi motivi il controllo del territorio avviene prevalentemente sigillandone i bordi. L’operazione, come mi viene spiegato dalla mia accompagnatrice, non è collegata ad alcuna situazione particolare: ciò a cui si assiste è la normale routine del “lavoro di polizia” nei confronti degli abitanti dei “quartieri Nord” ma che, per chi non vi è abituato, appare come una vera e propria operazione di guerra.

Queste brevi descrizioni ci consentono di dire già qualcosa sulla città e il modello sociale che la caratterizza. A fronte di una retorica mainstream che fa di Marsiglia una città turistica esemplificata dalla cartolina del Vieux port, emerge una metropoli densa di conflitti e per nulla pacificata, nella quale si annida una non secondaria carica esplosiva. Si tratta tuttavia di un potenziale che il più delle volte non va oltre la rage. Attraverso questa ricerca si è provato a raccontare le attività di alcune realtà sociali e politiche che stanno lavorando per dare progettualità politica e forza a la rage.

(1continua)


  1. Al proposito si veda: A. D’Agostino, Francis Faccia d’angelo. La Milano di Turatello, Milieu, Milano 2012  

  2. M. Weber, Il metodo delle scienze storico – sociali, Einaudi, Torino 2014  

  3. A. Bugliari Goggia, “Rosso banlieue”. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi, Ombre Corte, Verona 2022  

  4. Praticamente impossibile, vista la vastità dei testi che la riguardano, stilare un elenco in grado di rendere conto della densità di argomentazioni che questo tipo di ricerca ha e continua a suscitare. Per una buona esemplificazione teorica, suggellata da una non secondaria esemplificazione empirica, si può vedere: A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, Roma – Bari 2006.  

  5. Per molti versi lo “stile di lavoro” qui adottato si colloca sul solco di un testo come La città e le ombre, A. Dal Lago, E. Quadrelli, Feltrinelli, Milano 2003, che ha provato a narrare la storia di una città (Genova) attraverso la voce delle ombre, ovvero di quella quota di popolazione invisibile ma costantemente evocata, in quanto foriera di insicurezza urbana e degrado sociale, dalla teoria politica e sociale ufficiale. Con tutti i suoi limiti, quindi, anche questo lavoro ha provato a dare linguaggio a coloro i quali l’ordine discorsivo dominante obbliga al mutismo.  

  6. Su questo aspetto, per quanto datato, rimane fondamentale un “classico” della sociologia, P. Bourdieue, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001  

  7. Paradigmatico, al proposito, S. Stavrides, Spazio comune. Città come commoning, Agenzia X, Milano 2022  

  8. Sui barbari rimangono del tutto attuali le suggestioni di Foucault e, in particolare, quelle esposte in Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009.  

  9. Cfr., E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969  

  10. Utilizzo il termine di guastafeste facendo riferimento a H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000  

  11. Cfr., E. Quadrelli, Andare ai resti, Derive Approdi, Roma 2004  

  12. Cfr.: G. Martignoni, S. Morandini, Il diritto all’odio, Bertani, Verona 1977  

  13. La “divisa” degli abitanti dei “quartieri Nord” è ampiamente riconoscibile poiché indossano tute, soprattutto Adidas e Puma, completi dell’Olympique de Marseilles o completi mimetici mentre il look degli abituali frequentatori de La Plaine è quello del casual finto trasandato, il termine dégagé lo rende al meglio, oltre a avere tagli di capelli del tutto diversi, corti e rasati quelli dei “quartieri Nord” lunghi o con i dred gli altri, il che rende immediatamente identificabili i due gruppi sociali.  

  14. F. Molnar, I ragazzi della via Pál, Feltrinelli, Milano 2013  

  15. Su questo aspetto rimangono fondamentali le argomentazioni di Agamben in Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Miano 2005.  

  16. Questo l’appellativo utilizzato da Sarkozy nei confronti degli abitanti della banlieue in occasione degli émeutes del 2005. Cfr., A. Bugliari Goggia, “Rosso banlieue”, cit.  

  17. Cfr., A. Bugliari Goggia, Rosso banlieue, cit.  

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