Quentin Tarantino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. La magia del cinema-menzogna https://www.carmillaonline.com/2024/04/23/il-reale-delle-nelle-immagini-la-magia-del-cinema-menzogna/ Tue, 23 Apr 2024 20:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80713 di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale [...]]]> di Gioacchino Toni

Il cinema è menzogna, quanto del resto lo sono la fotografia e tutte le arti visive, come, con estrema consapevolezza, ha messo in luce il pittore René Magritte e, prima di lui, per certi versi, lo stesso Diego Velázquez nel suo Las Meninas (1656). Detto ciò, ci si può domandare con Massimo Donà, Cinematocrazia (Mimesis 2021), se alla menzogna cinematografica occorra attribuire una qualche irriducibile specificità.

Già, perché il cinema, come argomenta lo studioso, «finge di non costituirsi come semplice finzione; come pura parvenza di vita » dissimulando la propria fantasmagoricità conferendo alle sue realizzazioni una veridicità tale da farci provare le emozioni dei protagonisti messi in scena.

A differenza della fotografia e della pittura, il cinema «non separa un frammento (inesistente) del reale», esso consente allo spettatore di vivere «davvero come nella vita di ogni giorno» pur trattandosi di un’altra vita, per quanto pur sempre “vita”, facendo dimenticare, al tempo stesso, «che questa vita non è vita». Il cinema, insomma, esige che si guardi al frammento di vita catturata dall’inquadratura dimenticandosi della sua esibita artificiosità.

Nonostante l’artificio al cinema sia palese, pur simulando il contrario, «è proprio la vita che in esso finisce per specchiarsi» trasfigurandosi in inganno, ed è proprio quest’ultimo a rendere il cinema attraente. Al cinema, sostiene Donà, ci si reca per «un indistinto bisogno di vivere la vita, di viverla vivendola» senza giudicare e scegliere, senza tentare di distinguere la sua natura menzognera dal “vero”, sentendo di «esser altri da quel che siamo; pur essendolo (quel che siamo). Essendolo, insomma, senza esserlo».

Il cinema sembra funzionare «come una finestra che, pur aprendosi sul mondo, non si spalanca mai sull’esterno… non apre cioè a improbabili vie di fuga. Ma si spalanca piuttosto sul mondo che, sulla sua trasparenza, finisce in qualche modo per riflettersi come sulla superficie di uno specchio – in cui, a riflettersi, sarà dunque, da ultimo, nient’altro che l’interno della casa. Il quale, proprio nell’attraversare l’apertura della finestra, è destinato a manifestarsi come “altro-da-sé”, negando in primis di essere quel che, della casa (di cui quella finestra è un elemento) dice appunto il semplice “interno”».

Se c’è un film che, secondo Donà, più di altri, è in grado di palesare la paradossale natura dell’esperienza cinematografica, questi è Melò, (1986) di Alain Resnais, nel suo rivelarsi, dietro a una storia di amore e tradimento, un film sulla menzogna, «sull’epifania dell’impossibilità del “vero”», un film «in cui, a tradirci, sono invero sempre e solamente la credibilità e la veridicità di quel che accade».

Riprendendo invece Blade Runner (1982) di Ridley Scott e The Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, Donà ragiona su come al cinema il corpo dello spettatore venga destrutturato, su come il suo personale punto di vista si eclissi negandogli l’identificazione con uno specifico personaggio della narrazione, inducendolo ad attraversarli tutti senza scegliere “con chi stare”. Al cinema il corpo dello spettatore subisce un processo di trasfigurazione nei corpi proiettati sullo schermo ed il tempo della narrazione che lungi dall’essere il suo, vine da questo vissuto da questo come dall’esterno.

Analizzando Prénom Carmen (1983) di Jean-Luc Godard, scelto come esempio dell’intera opera del regista, Donà si sofferma su quanto la storia del film “non dica”, su quanto non possa raccontare, ossia su quello che Gilles Deleuze (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), riprendendo Michel Foucault (Le jeu de Michel Foucault, 1977), definisce il “dispositivo cinema”.

Se, come afferma Deleuze, «ogni dispositivo si definisce per il suo contenuto di novità e creatività che indica contemporaneamente la sua capacità di trasformarsi o già di incrinarsi a favore di un dispositivo futuro» (Qu’est-ce qu’un dispositif?, 1988), «il cinema di Godard, proprio presentando l’irresolubilità di tale antinomia – quella tra arte e vita, per l’appunto –, ed esibendola in tutta la sua irriducibile “separatezza”, nonché tragica incomponibilità, crea un vero e proprio “dispositivo”». «Godard riesce a restituire il cinema a quel sottosuolo che ogni opera invero custodisce, e che tanto Foucault quanto Deleuze cercarono di ricondurre alla specifica nozione di “dispositivo”; che ha, come propria primaria caratteristica, quella di determinarsi nella forma di un radicale “rifiuto degli universali”».

Riprendendo le riflessioni di Deleuze sul cinema, Donà sottolinea come a condurre il filosofo alla classificazione delle immagini e dei segni cinematografici nei suoi Cinéma 1. L’Image-mouvement (1983) e Cinéma 2. L’Image-temps (1985) sia la convinzione che «l’immagine non sia un evento della mente o della coscienza, e ancor meno una sorta di più o meno attendibile riproduzione del reale, ma stia nelle cose stesse, nel mondo, incisa nel reale più di qualsiasi altra sua (sempre del reale) possibile caratterizzazione».

Il cinema, secondo Deleuze, produrrebbe una vera e propria finzione di realtà negando di essere finzione così come di essere immagine della realtà, di esserne una copia. Il cinema metterebbe in scena «quel flusso indistinto che mai potremmo “permetterci” di esperire nella nostra quotidianità. Il cinema, cioè, libera il movimento della vita; senza ricondurlo (il movimento) alla vita; alla vita di questo o di quello. Il cinema rende equivalenti i buoni e i cattivi, i gangster e i poliziotti, gli omicidi e i benefattori». È attorno a tali snodi che Donà intesse le sue riflessioni sul modi di concepire il cinema da parte del filosofo francese.

Lo studioso si sofferma anche sulle riflessioni di Foucault sulle “eterotopie” – da questi considerate interessanti anzitutto per il loro fungere da contestazione di tutti gli altri spazi – e su come tali riflessioni si riverberino sul cinema alla luce del fatto che in esso «incontriamo un mondo altro che, nello stesso tempo, non è affatto altro da quello che continueremo a incontrare fuori dalla sala di proiezione». Il cinema «ci consente di vedere (theorein) in qualità di semplici “spettatori”; sì, di vedere lo stesso mondo che vediamo ogni santo giorno […], un mondo fatto anche di individui, certo… come quelli che incontriamo ogni giorno, ma che ogni giorno finiamo per trattare come significazioni meramente universali». Sull’onda dei ragionamenti del filoso francese, Donà si domanda se nel cinema sia possibile vedere «una forma di eterotopia ancor più ricca e completa di quella resa attraversabile ed esperibile dalla grande filosofia… se non altro, là dove quest’ultima abbia saputo farsi teoretica».

Donà riprende anche le riflessioni di Foucault riportate in apertura di Le mots et le choses (1966) in merito al dipinto Las Meninas di Velázquez in cui il filosofo francese giunge a prospettare che ad essere messa in scena dal dipinto «sia innanzitutto la questione della possibilità di rappresentare l’atto stesso della rappresentazione. O anche, di far vedere gli scarti e le pieghe da cui sarebbe intimamente costituita, in verità, ogni visione, ossia ogni rappresentazione. E per ciò stesso ogni immagine». Il celebre dipinto farebbe riferimento dunque a «qualcosa che rimane costitutivamente “invisibile”, e che rimane tale in quanto valevole come semplice “fuori” rispetto alla scena cui tutti gli occhi, nello spazio scenico della rappresentazione, si rivolgono quasi incantati».

L’analisi di un film come King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack permette a Donà di sottolineare come l’antropomorfizzazione cinematografica dell’animalità permetta la resa di un sentimento puro, non calcolato o giudicato e «la realissima illusione di un patimento finalmente libero da costrizioni o sofferenze di sorta, anche in quanto capace di percepirsi e riconoscersi come tale in virtù di una semplice e per ciò stesso immediata esperienza di libertà».

Le pellicole sul cibo e sull’atto del mangiare Babettes gæstebud (1987) di Gabriel Axel e La grande bouffe (1973) di Marco Ferreri, per quanto muovano da prospettive differenti, permettono a Donà di strutturare una riflessione su quanto come spettatori – partecipi di una collettività eppure al tempo stesso soli in sala – ci si “rifugi” al cinema in uno spazio “separato” al pari dei personaggi del film di Axel (abitanti un paesino isolato) e quello di Ferreri (rinchiusi in una villa). «Ma ci separiamo dal mondo, per fare, sempre del medesimo mondo, qualcos’altro, e per fare di noi stessi altro da quel che siamo. Per ‘divorare’ la soglia che ci separa e distingue dal mondo».

Analizzando invece Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni, lo studioso argomenta come ad essere messo in scena dal regista sia in definitiva l’atto del fotografare come risposta all’insoddisfazione per quanto offre la vita. Nel ricorrere allo scatto il protagonista ignora cosa esso possa far emergere; la sua, in fin dei conti, sostiene Donà, è una fotografia che «non “rappresenta” e non “ripete” alcunché; ma “presenta”… sola mente». Il protagonista, al termine di quello che si struttura come un viaggio iniziatico, capisce che «malata non è tanto la realtà in ragione della sua insensatezza, quanto piuttosto la nostra pretesa di sostituire questa negatività (o insensatezza) con un altro positivo – che sarebbe solo da scoprire e mettere finalmente a fuoco… per liberarsi da quello che appare come un sempre meno sopportabile mal di vivere».

In conclusione, lo studioso argomenta come nella messa in scena dell’individuo di fronte alla Storia di violenza e di sopraffazione subita dai neri negli Stati Uniti, Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino in definitiva mostri come «l’assolutamente altro può anche presentarsi con un volto simile al nostro, mettendo in crisi il nostro esserci collocati da una parte ben precisa dell’opposizione assoluta; in genere quella dell’essere, ossia del bene», ed ogni volta che ci scagliamo contro un “altro”, lo scambiamo per un “altro assoluto”. «Mentre si tratta solamente di un altro “essere”». La forza icastica di questo film, sostiene Donà, è tale da farci capire che «parla di un reietto che non solo si libera dalla condizione di schiavitù e mostra a tutti noi spettatori come ci si possa liberare da una schiavitù che è sempre schiavitù anzitutto nei confronti della grande illusione, o dal grande fraintendimento che governa le nostre vite».

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Il reale delle/nelle immagini. Il cinema e la rottura del nesso fra visione e conoscenza https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-e-la-rottura-del-nesso-fra-visione-e-conoscenza/ Tue, 23 Aug 2022 20:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73248 di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di [...]]]>

di Gioacchino Toni

Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.

Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di produzione, fruizione e condivisione degli audiovisivi, da un’immagine cinematografica che, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del primo e la percezione di trovarsi il secondo presente davanti agli occhi1, da testi filmici strutturalmente cambiati rispetto all’epoca in/su cui venne steso il volume, le riflessioni da esso proposte su ciò che allora si definiva “contemporaneo” e che non è evidentemente più tale oggi, restano assolutamente utili e non solo come testimonianza di un importante passaggio epocale avvenuto e, per certi versi, oltrepassato, ma anche perché del contemporaneo in cui si è immersi rappresentano l’alba.

Vale la pena dedicare alle riflessioni sviluppate da tale volume due distinti scritti; il primo incentrato sulla rottura del nesso tra visione e conoscenza ed il secondo sulla questione identitaria ed il suo rapporto con l’alterità nel cinema che testimonia la crisi del visivo.

Al fine di evitare fraintendimenti circa il ricorso al temine “contemporaneo” utilizzato nel libro di Canova per definire quanto era tale due decenni fa, all’epoca della sua prima stesura, si eviterà il più possibile di farvi ricorso, sostitutendolo con una più neutra indicazione di perido.

Le analisi presenti in L’alieno e il pipistrello – in cui, rispetto alla sua prima uscita, è stato aggiunto in coda un breve capitolo dedicato a Joker come «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7) – restano di estrema utilità visto che, come scrive l’autore nella prefazione alla nuova edizione, «il cinema è rimasto uno dei pochi sismografi emozionali e cognitivi capaci di ricordarci che il semplice gesto del guardare un’immagine non significa anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato (o pretende di essere mostrato, o finge di esserlo)» (p. 6), inoltre, le «figure archetipe come Batman e Alien (il protettore mostruoso e il mostro protettivo) si confermano – anche a distanza di un ventennio – come imprescindibili icone dell’immaginario collettivo» (p. 6).

Il volume si apre facendo riferimento a Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997) di Andrew Niccol, film che narra di uno scenario in cui il corpo umano si è ormai consegnato alla dittatura dell’artificio e del simulacro e «le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà» (p. 11), ma al contempo racconta anche di una insopprimibile nostalgia della vista e del desiderio in forma scopica. «In un mondo completamente desensorializzato (asettico-lucido-inodore-insapore) la vista esprime la nostalgia del corpo, il suo eterno ritorno» (p. 11).

Le tematiche trattate dal film introducono dunque alcune questioni indagate dal libro: «la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile» (p. 12).

La sequenza di Entrapment (1999) di Jon Amiel, in cui si mostra il meticoloso allenamento con cui la protagonista, preparandosi a un furto, si esercita a muoversi facendo a meno dello sguardo, viene indicata da Canova come «sintomo di un destino epocale che sembra interessare tutto il cinema di fine millennio: la consapevolezza del progressivo declino della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente importanza che vanno assumendo, per converso, l’udito e il tatto» (p. 52). Costruito attorno al tema dell’eclissi dello sguardo, il film non manca di esprimere «la nostalgia per la civiltà dello sguardo nel momento stesso in cui prende atto, sul piano pragmatico-funzionale, del suo declino» (p. 52) .

Il cinema degli ultimi decenni del secolo scorso, di cui si occupa il volume, tende in diversi casi a palesare come l’occhio sia divenuto un simulacro di quel che è stato e lo fa insistendo su storie in cui i personaggi si trovano a – o decidono di – fare a meno degli occhi, suggerendo il sopraggiungere di una sostanziale perdita di fiducia nella vista.

Sono diversi i film che sottolineano lo scarto che si è venuto a creare fra visione e conoscenza, dunque dell’inaffidabilità dell’immagine. La messa in discussione dello statuto di quest’ultima è già presente nel cinema di fine degli anni Cinquanta, ma quel cinema «era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano» (p. 55), mentre invece quello di fine millennio «non ci crede più. Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Per lo meno: non crede più che il semplice gesto del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato» (p. 56).

Canova invita a cogliere tale scarto nella distanza che separa i protagonisti di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni e I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) di Peter Greenaway, rispettivamente un fotografo ed un disegnatore di vedute dal vero.

I due registi, consapevoli dell’incolmabile distanza che separa l’immagine dal reale, nel mettere in scena situazioni tutto sommato simili – indizi di un delitto presenti nelle riproduzioni sfuggiti ai rispettivi autori – optano per protagonisti che si pongono di fronte al rapporto tra immagini e reale in maniera decisamente diversa. Se il personaggio-fotografo, fiducioso nella possibilità che l’immagine sveli il reale, scopre l’accaduto «osservando attentamente non la realtà ma la sua riproduzione fotografica» ricorrendo all’ingrandimento per svelare quanto l’occhio umano non può cogliere, palesa la coincidenza di visione e conoscenza, nella sua ossessione riproduttiva, il disegnatore non coglie ciò che riproduce, non lo capisce, non lo conosce. Visione e riproduzione non garantiscono conoscenza.

Il cinema di fine Novecento, come può suggerire il film di Greenaway, tende a palesare «la rottura fra visione e conoscenza come una dolorosa menomazione. E talora reagisce al trauma offendendo l’occhio, cioè accanendosi proprio contro l’organo che ritiene responsabile della perdita» (p. 58). Un cinema che dunque rinuncia a vedere, che, di fronte alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, decide di non rapportarsi più al mondo attraverso lo sguardo. Un cinema che, consapevolmente, opta per la cecità.

Il film Occhi nelle tenebre (Blink, 1994) di Michael Apted racconta di una giovane violinista che ha perso la vista da bambina a causa di una violenta punizione inflittale dalla madre per il suo ostinarsi ad imitarla allo specchio. Un trapianto di cornea permette alla protagonista di riguadagnare parzialmente la vista ma la lascia incapace di capire se il suo sguardo sia “in diretta” o “in differita”; se ciò che intravede è quanto sta accadendo o se si tratta di un residuo visivo di un fatto accaduto nel passato. La cecità della violinista deriva dunque da

una colpa di tipo narcisistico-imitativo: non vede più perché, al contempo, si è illusa di poter essere come la madre e ha contemplato un po’ troppo se stessa davanti a uno specchio. Anche il cinema ha seguito un percorso analogo: si è illuso di saper imitare la realtà, di poterla riprodurre fino a confondervisi, e si è trastullato a lungo davanti alla propria immagine riflessa, guardandosi (pp. 61-62).

L’accecamento presente in numerosi film di fine millennio, secondo Canova, potrebbe essere letto come metafora di un’autopunizione per l’eccesso di fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale e per l’illusione di poter mettere in scena il suo essere linguaggio senza comprometterne il funzionamento. Un non voler vedere derivato dalla caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo che ha finito per ripiegare nella simulazione e nella virtualità abbandonando pretese ontologiche.

La metafora dell’accecamento coinvolge tanto il rapporto del cinema con il visibile, a favore dell’acustico e del tattile, quanto con il visivo, inceppando processi a cui era solito ricorrere come produttore di senso.

La dialettica tra visibile e non visibile è stata al centro della riflessione “moderna” sul cinema in autori come André Bazin, Noël Burch e Pascal Bonitzer per i quali «l’irrappresentabile o il non visibile si danno come tali solo a uno spettatore esterno (a un interpretante) che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire» (p. 67). Nel cinema di fine millennio, invece, è «lo stesso film a enunciare i propri limiti e a scandagliare i territori dell’irrappresentabile, confessando apertamente la propria incapacità di renderli visibili». Si tratta di un cinema «che tematizza la non visibilità. Che racconta di mondi che non sa visualizzare. O di tecnologie ipersofisticate che servono solo a visualizzare il mondo che noi già conosciamo (e che il cinema da sempre mette in scena)» (p. 68).

Il cinema che palesa la sua crisi, sostiene Canova, risulta decisamente più interessante di quello che la esorcizzava «inseguendo la produzione della “bella forma”»; è invece nell’infrazione di quest’ultima, nella sua lacerazione che, si dice convinto l’autore del saggio, il cinema sembra suggerire «qualcosa circa il proprio destino» (p. 68).

A partire da queste premesse, lo studioso affronta la messinscena della crisi del visibile nel cinema di fine Novecento proponendo tre livelli di riflessione: la rappresentazione del limite del filmabile attraverso il film Contact (1997) di Robert Zemeckis; la rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato nel film Psycho (1999) di Gus Van Sant; la rappresentazione del limite del virtuale nel film Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski.

Si viene così ad avere una nuova esperienza del sublime che non ha a che fare né con la grandiosità incommensurabile della natura, né con la sua straordinaria potenza, bensì, nei tre esempi, rispettivamente con la scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (sublime gnoseologico), dell’Identico (sublime intertestuale) e del Virtuale (sublime tecnologico).

«Contact (1997) è prima di tutto un film sull’altrove. Sul bisogno di altrove. Sulla necessità di portare lo sguardo oltre i confini del visibile e del filmabile per farlo approdare ad altri tempi e ad altri spazi» (p. 69). Allo stesso tempo, continua Canova, si tratta di «un film sull’impossibilità di tutto questo, sull’inadeguatezza della nostra strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) al fine di rendere visibile (e, quindi, di trasformare in cinema) questa necessità» (p. 69). Dunque, Contact si presenta come un «film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. Di queste immagini, quelle che finora hanno dato vita al cinema e ai film» (p. 70), tanto da proporsi come esempio di cinema sinestetico, soprattutto acustico.

«Ancora una volta: vedere non basta. Non è sufficiente per comprendere e capire; il tema della conoscenza mediante le apparenze, che impregna di sé tutta la storia del cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile, è anche il tema di Contact. Che entra direttamente nella crepa epistemologica apertasi fra visione e conoscenza, e ci lavora dentro» (p. 71). Non a caso la protagonista percepisce le cose con l’udito prima che con la vista.

Psycho di Gus Van Sant sembra amare talmente tanto il suo modello di partenza da produrne la morte.

C’è una strana coincidenza fra il gesto linguistico di Van Sant e il testo che egli rimette in scena. Psyco di Hitchcock narra di un figlio che uccide la madre, conserva il suo cadavere imbalsamato, assume le sue sembianze e prende il posto di lei. Il film di Van Sant fa la stessa cosa con la sua madre-matrice: la “uccide” e prova a prendere il suo posto. Ne conserva lo scheletro (lo storyboard), ne imita la voce (le musiche di Bernard Herrmann), ne mima le apparenze e le fattezze (i titoli di testa di Saul Bass), assume sul proprio corpo i segni di riconoscimento “materni” e fa di sé il simulacro della propria “genitrice” (pp. 76-77).

Un cinema che “imbalsama se stesso” come ultima possibile prerogativa dello sguardo: «di fronte alla perfezione inattingibile del già visto e del già mostrato, cerca di esprimere la propria “sublime” ammirazione con la produzione dell’identico e con l’esplicitazione del non-filmato, ma poi si rende conto che non è incrementando il visibile che può sperare di accrescere la tensione scopica dello spettatore e che, anzi, finisce per produrre proprio l’effetto contrario» (p. 77) .

Concentrandosi su Matrix, Canova sottolinea come spesso, guardando ad esso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un videogioco sia visivamente che narrativamente, tanto da rendere inopportuno affrontarlo ricorrendo ai canoni del cinema.

In perfetta sintonia con lo scenario della postmodernità, l’immagine di Matrix non è mai né “bella” né “vera”, tutt’al più è intensa, elegante o eccitante. Troppo piena (di segni, di pallottole, di corpi), troppo vuota (di senso?). Allo spettatore non è chiesto di “interpretare” alcunché, ma di prendersi tutto il piacere che riesce a catturare transitando dentro un gigantesco luna-park emotivo che funziona, in ogni istante, come uno stimolatore dei sensi (p. 80).

Eppure, sottolinea Canova, «Matrix è ancora cinema» a partire dai numerosi riferimenti al cinema che contiene. Lo è a modo suo, ribaltando la classica pretesa del cinema di simularsi reale, qua l’artificiosità è dichiarata, palesata.

Ma proprio qui sta il punto: per denunciare l’avvenuto dominio della simulazione, Matrix non può che essere a sua volta totalmente artificiale. Cioè finto, truccato, simulativo. E in ciò – in questa contraddizione, in questa doppiezza – sta al contempo la sua grandezza e la sua condanna. Assieme all’impressione che qui si sfiori davvero l’unica forma di sublime consentita al cinema di fronte alla visione della potenza e dell’inattingibilità delle tecnologie virtuali. Perché anche Matrix è, a suo modo, un film sulla crisi del visibile e sul tramonto dello sguardo. “Nessuno di noi può spiegare Matrix con le parole, bisogna vederla con i propri occhi” dice Morpheus a Neo. Appunto: che le parole fossero impotenti lo si sapeva già da tempo, ma il film delle sorelle Wachowski ci dice che anche lo sguardo non lo è da meno (pp. 81-82).

Dunque, il volume passa ad analizzare alcune crisi che si palesano in questo cinema di fine millennio: quella del diegetico, dell’iconico e delle forme filmiche.

A proposito della prima, lo studioso analizza in dettaglio Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nella cui struttura diegetica si intrecciano/alternano elementi di narrazione forte, debole e persino antinarrativa, tanto da rendere «indecidibile e indecifrabile il modello diegetico a cui effettivamente si ispira» (p. 85). La metanarratività su cui è costruito il film «si dà come forma ibrida, cioè come luogo di fuoriuscita dal canone e come punto di crisi delle forme narrative precedenti» (p. 89).

Per quanto riguarda la crisi dell’iconico, lo studioso si sofferma su Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) di John Woo, segnalando come i personaggi secondari, accontentandosi di osservare superficialmente la “maschera” dei due protagonisti, si limitino a credere a quello che vedono finendo per non vedere: «il modo di “guardare” e di operare identificazioni scopiche da parte dei personaggi di Face/Off rivela l’inadeguatezza di quei codici di riconoscimento iconico a cui essi stessi conferiscono la massima fiducia. Meglio: è lo sguardo di John Woo su di essi che rivela a noi spettatori la loro incapacità (o impossibilità) di riconoscere con gli occhi» (pp. 93-94).

Infine, per quanto concerne la crisi delle forme filmiche, Canova portata esempi riguardanti la soggettiva, la dissolvenza incrociata, il flashback ed il piano sequenza.

Nel primo caso lo studioso individua in Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow «il punto di crisi e di messa in discussione più radicale dello statuto della soggettiva» (p. 102) del cinema dei decenni terminali del secolo. Il film sembra suggerire che ad eccitare «l’umanità di fine millennio – secondo l’eterotopia scopica di Kathryn Bigelow – non è lo sguardo, ma la cosa vista. È la possibilità di vedere con l’occhio del protagonista il coito e la morte: […] ciò di cui i personaggi di Strange Days sembrano aver bisogno (e nostalgia) è l’ovvia banalità del nostro sguardo originario. Di ciò che esso era (e poteva) già prima dell’invenzione dei fratelli Lumière» (pp. 103-104). Insomma, film come questo si/ci interrogano a proposito del «rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto [della] relazione fra visione, emozione e conoscenza» (p. 106).

Per quanto riguarda l’uso “anomalo”, rispetto alla tradizione, della dissolvenza incrociata, Canova si concentra su Blackout (The Blackout, 1997) di Abel Ferrara, film che, nel suo insistito e reiterato utilizzo la annulla come figura di significazione. Blackout sembra suggerire che

in un universo scopico in cui la realtà non solo è registrabile e falsificabile, ma è quasi annullata dalla bramosia di sostituirla con i simulacri mentali e visuali ininterrottamente prodotti dai personaggi […], il rischio è che a un certo punto – come sperimenta in prima persona il protagonista del film – le immagini comincino a generarsi da sole, a prescindere dalla nostra volontà e intenzionalità, e si riproducano spontaneamente in modo impazzito, quasi in una sorta di metastasi scopica (p. 110).

Ecco allora il sopraggiungere del “blackout”, inteso come perdita del controllo sulla riproduzione tecnica del visibile, crollo definitivo dell’illusione riproduttiva dell’immagine, ma anche possibile ultima via di fuga percorribile. «È il battito di ciglia, la palpebra che si abbassa. È, ancora una volta, il rifiuto di vedere così; lo stacco nero, la nuotata verso il nulla su cui Ferrara chiude il suo film» (p. 111). La dissolvenza incrociata, anziché esibire l’avanzamento testuale del film, si propone dunque come una figura di paralisi.

Circa il flashback, trasformatasi nel corso del tempo da articolazione del racconto a nucleo tematico della storia, nel cinema che palesa le sue crisi finisce per perdere la sua funzione chiarificatrice

per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione. Più che un’opportunità, diventa spesso una condanna: segnala l’impossibilità di liberarsi dalle immagini del passato, che premono sul presente diegetico come una massa di ricordi mnemonico-visuali di cui i personaggi farebbero volentieri a meno. Da elemento di illuminazione diegetica, il flashback tende a diventare insomma un elemento di confusione; da figura di produzione del senso (o di messa in scena della sua pluralità e ambiguità: Welles e Kurosawa) si fa sempre più figura dell’implosione (o del collasso) di ogni senso possibile (p. 113).

Uno dei registi ad essersi spinto maggiormente in tale direzione è Abel Ferrara che infatti

fa del flashback la figura-chiave della memoria: individuale e filmica, ma anche storica, sociale e collettiva. Si veda, ad esempio, la trilogia formata da The Addiction (1995), da Fratelli (The Funeral, 1996) e dal già citato Blackout» (p. 113). Attaccare il flashback per Ferrara significa distrugge l’illusione, renderla impraticabile, obbligandoci «ad assumere il nostro atto di visione come unico oggetto ancora possibile per il nostro inappagabile desiderio di guardare (p. 116).

Per quanto concerne il piano sequenza, questo è storicamente passato dal presentarsi come forma filmica per eccellenza del realismo cinematografico a manifestarsi come manieristico segno linguistico autoriale di messa in scena e, ancora, nel cinema di fine millennio, «come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere» (p. 118).

In questo caso l’esempio su cui si sofferma il volume è quello del celebre incipit di Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma in cui

il piano sequenza non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra, piuttosto, l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo – fino al punto di rottura – le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, anche il suo non aver più idea di cosa guardare. O lo scarto fra ciò che si è scelto di vedere (di far vedere) e ciò che sarebbe stato giusto guardare (p. 119).

Snake Eyes, dunque. Occhi di serpente. Sguardo tentatore e al tempo stesso tentato, come quello «della “macchina” che desiderò il mondo agli albori del cinema, e che oggi si ritrova drammaticamente senza mondo, legato alle figure sfigurate di quel che è stata la visione filmica da un rapporto di struggente ma disincantata nostalgia» (p. 121).

 


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa

 


  1. Cfr. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Sul volume di vedano: Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale, “Carmilla”, 15 marzo 2016; Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale, in “Carmilla”, 22 marzo 2016. 

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Divine Divane Visioni (Novissime) – 81 https://www.carmillaonline.com/2022/01/21/le-novissime-divine-divane-visioni-2021-22/ Fri, 21 Jan 2022 00:25:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70126 di Dziga Cacace

Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema.Tutti parlate di CINEMA! TUTTI! Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io? (Nanni Moretti, Sogni d’oro)

1888 – Giochiamo all’inesorabile Squid Game di Hwang Dong Hyuk, Corea del Sud, 2021 La conta sui social è cominciata non appena Netflix ha messo a disposizione la serie: qualcuno ha timidamente ammesso “m’è piaciuta”, ma perlopiù nella mia bolla ho letto tanti “m’ha fatto schifo, i coreani hanno rotto, è copiata, è infantile, è troppo [...]]]> di Dziga Cacace

Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema.
Tutti parlate di cinema.Tutti parlate di CINEMA! TUTTI!
Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io?
(Nanni Moretti,
Sogni d’oro)

1888 – Giochiamo all’inesorabile Squid Game di Hwang Dong Hyuk, Corea del Sud, 2021
La conta sui social è cominciata non appena Netflix ha messo a disposizione la serie: qualcuno ha timidamente ammesso “m’è piaciuta”, ma perlopiù nella mia bolla ho letto tanti “m’ha fatto schifo, i coreani hanno rotto, è copiata, è infantile, è troppo violenta, non sono capaci” etc. etc. La tentazione di rispondere FALLO TU ALLORA e infilarmi in discussioni insensate è stata molto forte ma avessi trovato uno che mi citava il Battle Royale di Kinji Fukasaku come nobile ascendenza di Squid Game per combattere almeno ad armi pari… macché. Ma in fondo, è importante? Saltavano più agli occhi le ambientazioni alla Mai dire Banzai (che, di nuovo, pochi sanno essere una creatura di Kitano: Takeshi’s Castle), con colori esasperati alla Teletubbies e architetture assurde alla Escher. Ma esaurito il citazionismo in cui mi sono anch’io appena esibito, arrivava la stroncatura irritata. Perché Squid Game mette così in crisi? Perché è una distopia brutale (che poi tanto distopia non è), crudele nella messa in scena e con una stilizzazione iperreale, contraltare pop/gameficato della realtà altrettanto violenta che viviamo ogni giorno, solo che della seconda non ce ne rendiamo mai conto abbastanza e vederla in scena innesca il rifiuto. È la stessa conclusione della serie a dirci che non c’è grande differenza tra la nostra vita e la rappresentazione ludica e mortale che si tiene su un’isola, dove si gioca volontariamente e l’eventuale eliminazione è totale e comporta la morte. L’annullamento dell’individuo nel lavoro, stritolato dai meccanismi del Capitale e sommerso di debiti più o meno occulti, e consolato dall’ossessione per il gioco in tutte le sue forme, è il tema evidente, un tema perlopiù rifuggito dal cinema occidentale mainstream, non so se per acquiescenza, calcolo o proprio obnubilamento. Ad ogni modo, com’è questo Squid Game? Merita di stare al gioco? Beh, fatta la tara alla recitazione talvolta esasperata dei coreani (con una curiosissima cadenza vocalica che assomiglia a dei miagolii) e ad alcune lungaggini, a degli sviluppi e dei meccanismi talvolta prevedibili, a diversi luoghi comuni emotivi e tutto quello che volete… si fa vedere molto piacevolmente, altroché. Possiede un rigore formale ineccepibile, un uso straniante e sinistro della musica e una buona dinamica che alterna azione (su almeno due piani) e intreccio psicologico. E se ci sono dei difetti – come detto sopra – comincio anche a credere che siano semplicemente i sintomi del nuovo linguaggio seriale, come una convenzione a cui ci stiamo sempre più abituando. Ah, solo in Italia si poteva far polemica sulla visione della serie da parte dei bambini: è esplicitamente indicata per un pubblico sopra i 14 anni e mi pare incredibile che nel 2021 si sposti ancora sull’apparecchio televisivo l’onere dell’educazione e non sui genitori. E vabbeh: siamo un paese dove si cerca sempre un colpevole altro per non guardarci allo specchio e riconoscerci. (Netflix, ottobre 2021)

1893 – Evitabili Imprevisti digitali di due cialtroni, Francia/Belgio 2020
Orso d’argento a Berlino a Benoît Delépine e Gustave Kervern, due registi considerati arguti e provocatori, una trafila di riconoscimenti e recensioni entusiastiche (si veda l’imbarazzante pagina francese di Wiki), voti medio alti su tutti i siti specializzati. Dove però evidentemente scrivono dei ventenni brufolosi che non sanno di cosa cazzo stiano parlando. Perché questo film è una porcata come non credevo fosse possibile realizzare, uno dei peggiori film che io abbia mai visto in sala (e ne ho visti diversi che facevano cacare a spruzzo). Insomma: peggio non potevo scegliere per il mio ritorno al cinema un anno e mezzo dopo la peste, in una sala parrocchiale con non poche persone tutte immote e silenti (salvo che per l’unica trovata del film, con un tizio che si appiccica un telefono sborrato alla guancia). Per il resto la commedia che non fa ridere MAI vorrebbe raccontarci la dittatura della tecnologia digitale e lo fa attraverso le disavventure di tre coglioni che dimostrano che in mano a degli imbecilli la tecnologia è effettivamente pericolosa. Ma perché si tratta di imbecilli. Tutte le tre vicende che li riguardano banalizzano in modo atroce veri problemi (cyberbullismo, ricatti sessuali, gig economy sfrenata) ma non c’è mai uno sguardo acuto, anzi, siamo dalle parti di un boomerismo ottuso e conservatore che canta le lodi della vecchia antica vita col telefono senza fili. Non c’è grazia, intelligenza, simpatia: i protagonisti hanno tre facce da cazzo che è raro trovare assieme in una pellicola. Lo sviluppo narrativo è irricevibile e offensivo, il copione satirizza la Rete e la vita digitale ma le battute sono al livello del Bagaglino ma con in più la spocchia di chi la sa lunga. C’è inoltre un vago accenno ai gilet arancioni e alle mode ecologiste ma tutta la critica sociale è fasulla e reazionaria, così come l’affetto per questi deficienti patentati per i quali non puoi provare neanche un po’ di pena o compassione. Mettiamoci inoltre che la fotografia sembra quella di un Super8 conservato male senza neanche il beneficio della messa a fuoco, in un mondo che ormai della qualità fotografica ha fatto un primo discrimine, e il quadro è completo: un disastro totale, un film disgraziato come intenzioni e come esiti. Dopo 5 minuti di visione ha cominciato a crescermi il terzo coglione perché è dalla prima scena che si capisce di aver pestato una merda grossa come l’Australia. L’Orso d’argento a Berlino suggella la morte del buon senso e del buon gusto cinematografico. Amen, andate in pace. (Cinema Orizzonte, Milano; 22/10/21)

1898 – L’evasione (evasiva?) di Freaks Out di Gabriele Mainetti, Italia/Belgio 2021
Film curioso per tanti motivi, pieno di invenzioni visive e di rimandi a grandi classici pop USA (Il mago di Oz, Guerre stellari, le saghe dei supereroi) e non solo (Roma città aperta). Ho sofferto un po’ il frenone con la lunghissima scena della battaglia finale e anche la complicazione del secondo tempo ma soprattutto ho avvertito una mancanza di vero senso finale. Ma ci arriviamo. Qual è il nucleo centrale del film? Un banale scontro tra Bene e Male, teatralizzato nella rappresentazione dei nazisti? Non lo so, anche perché l’avventura di questi freak si conclude in gloria, mentre c’è un conflitto mondiale che va avanti e mica si capisce cosa abbiano conquistato i nostri eroi, se non aver salvato la pellaccia. Hanno ottenuto dignità nella loro diversità? Un ruolo futuro? Boh, è tutto sfumato e un po’ buttato lì, con il sospetto che si sia voluto giocare con dei supereroi in un’epoca diversa dal presente/futuro e per vederli alle prese col male assoluto. Che poi la cosa valga anche come inno all’inclusività può anche sembrare un accessorio: tutti i supereroi hanno sempre avuto – più o meno sfumati – degli handicap. Qui siamo tra il Tarantino che riscrive la storia di Inglourious Basterds e il Garrone che vola di fantasia nel Racconto dei racconti ma ho un po’ il sospetto che ci si accontenti del piacere della vicenda messa in scena. Che poi è un traguardo mica da poco, eh? Perché Freaks Out è divertente e coraggioso e per fortuna è un film post ideologico che evita l’impantanarsi in schematismi politici. Il fascismo è quasi un fantasma (ricordato solo da due frasi e qualche scritta dipinta sui muri) e la rappresentazione stilizzata ed eroica dei partigiani è efficace: qui sono brutti, sporchi, cattivi e pressoché tutti mutilati. È azzeccato anche il fascino ambiguo del nazismo e della abilità scenica del personaggio Franz e funziona far convivere fianco a fianco la tragedia immane (il bombardamento o le uccisioni sempre crude, per nulla cartoonesche) a momenti di clownerie e comicità. Ma tornando alla perplessità iniziale forse alla fine quello che mi manca è proprio un senso leggibile più alto (che peraltro sarebbe stato a forte rischio moralistico) ma sono anche un vecchio novecentesco che deve trovare una lezione in ogni creazione artistica e forse qui la lezione non la intravedo io per miopia: l’immaginazione del regista ci regala una storia sorprendente e un mondo inaspettato e tanto può e deve bastare. Forse. (Anteo CityLife, Milano, 13/11/21)

1901 – Il Minculpop di Spy Game di Tony Scott, Usa 2001
Spy Game uscì un mese dopo l’11 settembre e fa impressione vedere oggi un film così spiccatamente di propaganda (tanto quanto Black Hawk Down del fratello Ridley, uscito a fine dicembre). Film tecnicamente clamorosi, ben costruiti e molto godibili, con un sottofondo politico oggi evidentissimo e concepiti ben prima delle Torri e poi perfettamente funzionali a quello che accadde con l’attacco all’Afghanistan e poi con la guerra in Iraq, dicendo al mondo la solita tiritera: the greater good, la democrazia più grande della terra, esportiamo libertà e bla bla bla. E niente, ho ripensato a come prima del 1991 vedevamo chiaramente dov’era la propaganda (anche facilona e smaccata, vedi Rocky IV, Rambo II, Top Gun, Il sole a mezzanotte etc. per dire i primi casi che mi vengono in mente). Dopo è diventato tutto più sottile, subliminale e accettabile, quasi naturale: sconfitti i sovietici, il mondo è diventato un posto minacciato da cinesi infidi e arabi straccioni e vigliacchi (come in Spy Game) e gli USA sono gli unici che possono portare libertà e prosperità al mondo derelitto. I nemici non hanno nome e i loro volti spesso si confondono, non sono importanti, sono l’Avversario, il Male. Che potrebbe anche essere una rappresentazione archetipica se non fosse che dietro ci sono nazioni vere con cui si è in conflitto latente: qui la Cina (con cui si era già in guerra, senza che lo sapessimo noi o un Rampini qualunque) è rappresentata solo attraverso un carcere, non c’è altro, e tanto sembra che basti. Redford, da sempre volto dell’America democratica, interpreta un agente della CIA che in nome della realpolitik ha accettato in carriera qualunque guerra sporca. L’unica cosa che il buon Robert non accetta è – l’ultimo giorno di lavoro – di lasciare in mano ai musi gialli il suo allievo Brad Pitt. Qui la fedeltà alla bandiera vacilla perché Redford vede nel giovane una purezza che lui ha perso da quel dì: tutto l’inghippo nasce da Pitt andato da solo a liberare una idealista bombarola di cui era infatuato e che Redford aveva consegnato ai cinesi. Ovviamente lo pigliano e Langley decide di far finta di nulla e qui la nostra amata faccia di cuoio non ci sta. La ricostruzione storica, l’intreccio e tutto l’apparato tecnico sono clamorosi e si vede che il film trasuda fantastilioni. Certo, nei flashback Pitt e Redford sono poco credibili, per quanto i truccatori facciano miracoli, ma in generale il ritmo e la dinamica della vicenda funzionano e Spy Game è oltremodo sollazzevole. Peccato che sia un po’ fascistone. (12/9/21)

1903 – È stata la mano di Dio, più o meno, di Paolo Sorrentino, Italia 2021
È come se Sorrentino si aprisse e ci raccontasse non solo cosa ha vissuto ma anche come è diventato il regista che conosciamo. Il desiderio di fuggire la realtà scadente e deludente (che proviene da Fellini e si conferma davanti al regista Capuano) l’abbiamo visto in scena nei suoi film precedenti, in quella visionarietà fuori dal comune. Qui invece, la realtà la si mette in scena per superarla e ne viene fuori il film più intimo e diretto del regista. Napoli è bella e terribile, una città dove convivono con naturalezza alto e basso, delinquenza e legalità, civiltà e disagio, splendore e miseria. C’è una prima parte con la Napoli degli anni Ottanta, gli interni borghesi, le strade affollate, piazza del Plebiscito invasa (proprio come in un film di Fellini). E c’è il ritratto umano e tenerissimo dell’amore dei genitori di Fabietto, alter ego del regista: un amore con qualche spigolosità ma anche sincero, tra pranzi, scherzi e scorribande in Vespa. E c’è la famiglia di contorno, iperbolica, com’è tutto a Napoli (e come l’ho conosciuta e amata io): i colori degli abiti, le unghie delle donne, i cortili fatiscenti, i sentimenti espressi, l’esibita fisicità prorompente. Quando arriva la frattura del film – la morte dei genitori di Fabietto a causa di un incidente – comincia la vera venuta al mondo del protagonista. Capisce cosa vorrà fare grazie a diversi maestri (Maradona, la baronessa Focale, la zia zinnona Patrizia, l’amico contrabbandiere, Capuano). Il mondo di prima, quello reale, viene superato e il passaggio finale vedendo il monacello – col treno diretto a Roma verso il Cinema – è l’abbraccio finale al mondo della fantasia (quello della sorella fantasmatica chiusa in bagno, quello di San Gennaro che si aggira per la città come un gagà): un mondo (più) felice. Perlomeno io la leggo così. Poi c’è l’amico caro che mi dice, come tanti: “La liasion con la zia sembra venir fuori da una commedia scollacciata anni Settanta. Ci sono troppo finali. Macché poesia”. Eh, e chi sono io per contraddirvi tutti? Io prendo volentieri questo Sorrentino, compresi eventuali ipotetici errori o scivoloni, perché qui leggo un sapore di verità: m’è piaciuto che il regista abbia rielaborato tutti i suoi cliché per risultare invece più personale anche a costo di risultare un po’ slabbrato com’è in fondo Napoli, sporca e viva, lietamente imperfetta. Il fellinismo poi… mah, a me è sempre sembrata una scorciatoia critica. È vero, e Sorrentino l’ha dichiarato pure, ma sotto c’è un immaginario completamente diverso e nelle svisate strambe che anche qui non mancano leggi altro: la loro origine partenopea, l’esasperazione di tutto in un abbraccio passionale all’esistenza. La musica è praticamente assente: è rinchiusa in quelle cuffiette del walkman che accompagnano sempre Fabietto. Nell’ultima scena scopriamo anche noi cosa ascoltava: una liberatoria Napule è, scelta apparentemente banale ma che qui, in questo contesto e con questo significato, diventa in qualche maniera assolutamente imprescindibile, perché c’è tutto quello che abbiamo visto. Buon film, non facile, non compiacente ma molto intenso. (Cinema Ducale, Milano, 3/12/21)

1904 – Rich and Famous di George Cukor, USA 1981
Ricche e famose è uno straordinario puzzapiedone (© di non ricordo chi!) del grande George Cukor. È la storia di un’amicizia conflittuale tra due donne, scrittrici di diverso successo e che si palleggiano alcuni amori. Il costante confronto passa attraverso epocali scazzi e poi, per magia, la volta dopo, stima e amore incondizionati, perdoni, abbracci, pianti e bicchierate alcoliche che stroncherebbero un vichingo. Si sente l’ascendenza teatrale del film e ogni scena vuole essere un apice drammatico ma con un gusto molto démodé e se la storia ogni tanto intriga, più spesso imbarazza, ma di quell’imbarazzo di cui godi tipo le sensazioni che provo per Ufficiale e gentiluomo, film che ho amato odiare e che ora odio amare e al quale, non c’è nulla da fare, torno sempre con l’affetto che si prova per il parente picchiatello. Ricche e famose è un inno al kitsch, con una volontà artistica che risulta clamorosamente datata, una supposta profondità che invece suona superficialissima e una ricchezza visiva che si vorrebbe artistica e invece è accumulo di cattivo gusto. Non siamo dalle parti del camp che presupporrebbe una consapevolezza ma a 40 anni di distanza dal film forse l’effetto è più questo (ma dovrei ristudiarmi tutto dalla Susan Sontag in giù, confesso). Ad ogni modo il rapporto fondante la vicenda è schematico, per frasi che vorrebbero dire tutto e sono in realtà molto generiche e ti becchi questa amicizia femminile che fin dall’inizio non ti sembra credibile per nulla. Ma stai al gioco. Loro sono due bellone straordinarie chiamate a fare gli straordinari drammatici, talvolta con esiti discutibili se non proprio drammatici ma in diversa accezione. Mi sembra più misurata Jacqueline Bissett (che ha un capoccione incredibile: se non l’aiuta l’acconciatura rischia di sembrare un’aliena di Mars Attacks, seppure con gli occhi più belli del cinema di sempre). Candice Bergen invece pare sull’orlo dell’ictus: bellissima ma costantemente con gli occhi sgranati e la bocca e il collo tesi. M’è passato piacevolmente: è un inevitabile guilty pleasure, c’è poco da fare. (5/12/21)

1905 – Il reality migliore di sempre: The Beatles: Get Back di Peter Jackson, USA/UK/New Zealand 2021
S’è cominciato a parlare di questa serie l’estate scorsa, quando hanno cominciato a circolare i primi trailer. I soliti cialtroni che devono subito dire la loro avevano gridato alla mistificazione: stava arrivando un documentario mistificatorio, dove tutte le tensioni della band erano state nascoste in nome di un falso ritrovato entusiasmo marchiato Disney. Beh, nulla di più lontano dal vero: Get Back non è per niente revisionistico rispetto al Let It Be originale: la sofferenza è ancora tutta lì, leggibilissima, solo ammorbidita dalla completezza del racconto e dalla parabola che porta a un finale in qualche maniera provvisoriamente lieto. Questo documentario su un documentario (il Let It Be di Michael Lindsay-Hogg) è il tentativo di raccontare un gruppo che lotta strenuamente per provare a divertirsi di nuovo, è la cronaca di un divorzio che aleggia, è uno scontro di ego e di aspirazione all’ombra di quel mostro ingombrante che erano stati – ed erano ancora – i Beatles, quattro ragazzi che tra il 1963 e il 1969 sono stati tra le personalità più importanti del pianeta, senza una vita privata, sempre assieme, riveriti e perseguitati, a ragione o meno. La serie documentaria è interessantissima e non solo per motivi musicali: potrebbe essere un saggio di psicologia per osservare azioni e reazioni di quattro individui in un luogo chiuso, in una situazione di stress emotivo e con un compito creativo da portare a termine. Tutto ci racconta questo processo: la prossemica, l’entusiasmo reale o esibito, l’evidente fatica fisica e mentale. Certo: con oltre 60 ore di girato a disposizione bisogna essere ingenui a pensare che questa non sia che una delle letture possibili scelta da Jackson, che avrebbe potuto montare altri documentari, tutti con piena dignità, ma forse con storie diverse e altri sentimenti prevalenti. Io credo che il regista neozelandese abbia scelto la strada più autentica, quella della complessità, senza una visione prestabilita. Ma chissà. Da spettatore osservo che Jackson riesce dove Lindsay-Hogg ha fallito (se avete mai visto il film Let It Be originale, parecchio depressing) e ci riesce con gli stessi materiali a disposizione perché capisce che ha davanti una storia universale, con un arco narrativo perfetto (e il tempo per poterla sviluppare): quattro eroi e una missione da compiere che inizia con mille difficoltà in un posto inospitale, il teatro di posa di Twickenham. Inoltre uno dei protagonisti, George Harrison, è riluttante. Poi si arriva a un chiarimento e a uno spostamento di location e nello studio approntato a Savile Row (sede allora della Apple beatlesiana) la band comincia a funzionare, a trovare una chimica condivisa e il piacere antico del fare musica assieme. Infine arriva l’organista Billy Preston, una sorta di catalizzatore musicale che stempera le tensioni: si ha un ulteriore mutamento d’atmosfera in positivo. E diventa anche evidente che uno dei problemi è stato proprio il regista: quando non c’è Lindsay-Hogg e si pensa solo a suonare e non a produrre uno special per la Tv, allora le cose filano lisce, non si perde tempo a fare filosofia o a porre questioni in quel momento irrisolvibili. Nella sala di Savile Row ci sono solo due cineprese, gli operatori e il direttore della fotografia. Lindsay Hogg si limita solo a qualche comparsata in cabina di registrazione, con l’immancabile sigaro (come Orson Welles, di cui pretendeva di essere figlio illegittimo). Alla fine ha l’intuizione di fare un concerto sul tetto e, anche se si tratta di un furto con scasso di quanto aveva fatto Jean-Luc Godard con i Jefferson Airplane a New York due mesi prima, l’idea è buona e lo tiene ancora per un po’ lontano dalle prove. Fino al giorno prima dell’esibizione prevista, quando torna e riemergono i dubbi dei quattro Beatles: siamo qui per fare un concerto, un TV show, un album o cosa? E il film c’è? E Lindsay-Hogg riesce a dire che non c’è la storia, quando ce l’ha esattamente tra le mani da ormai 20 giorni. Dichiara che manca il finale che invece è precisamente quello che sta organizzando, ma è troppo miope per rendersene conto. McCartney palesa tutti i suoi dubbi, forse perché ha perso il controllo delle cose, forse perché il manager Allen Klein è il pericolo che incombe sulla band, forse perché è semplicemente insoddisfatto di quanto hanno prodotto (e Let It Be sarà un grande album disordinato, con pietre preziose e qualche pataccone). Harrison torna alla cocciutaggine iniziale: ribadisce la volontà di incidere un suo album solista e preferirebbe non far nulla dal vivo. Ma è in minoranza e accetta la decisione comune. Alla fine la soluzione per arrivare musicalmente a un risultato è disinteressarsi del benedetto concerto e del maledetto film: che ci pensi il regista. C’è del nervosismo ma per il gran finale sembra che tutto s’incastri al posto giusto e si trovi ancora una scintilla d’entusiasmo. Lindsay-Hogg piazza dieci cineprese (l’importanza di avere i soldi quando non hai le idee chiare…) e le divide tra il tetto del palazzo in Savile Row e la strada e poi, seppure nel caos, si scrive la Storia con un finale che riesce a passare dal drammatico all’esaltante al comico, con i Bobbies che fanno interrompere l’esibizione che disturba la pubblica quiete. Alla fine la miniserie dura oltre 7 ore e abbiamo visto nascere alcuni capolavori (in modo banale, come nascono le canzoni, sia belle che brutte) e il momento del concepimento porta con sé qualcosa di emozionante e pornografico. Vediamo anche delle dinamiche interpersonali potenti e intuiamo cose significasse e quale peso comportasse essere un Beatles (e con quanta insofferenza ormai vivessero il ruolo sia John Lennon che George Harrison). Peter Jackson mette in esergo, nei primi 10 minuti del documentario, un riassuntone della storia della band e anche qualche indizio dei caratteri dei protagonisti. John è quello estremo, McCartney quello mediano, Ringo il jolly, George quello in disparte, meditativo. Poi si racconta semplicemente quale fosse il piano di quel gennaio del 1969: realizzare un ipotetico speciale TV, con un’agenda che prevedeva prove per 3 settimane e poi la registrazione di un live show il 19 e il 20 gennaio. Dal 2 gennaio comincia il circo nello studio cinematografico di Twickenham, in una situazione oggettivamente respingente, con il quartetto al centro di uno spazio bianco, asettico, con intorno i cameramen a riprendere tutto, senza alcuna privacy. Inoltre tra le balle c’è Lindsay-Hogg che blandisce i nostri eroi in modo infantile e continua a proporre cose irrealizzabili. In tanti, oggi, ancora preda del retaggio vagamente razzistico di allora, sono rimasti inquietati dalla presenza di Yoko Ono che però è tranquilla e silente e funziona come ammortizzatore sociale per John. Al terzo giorno c’è il famoso scazzo tra George e Paul, col primo indisponente nella sua passività aggressiva e il secondo disperatamente impegnato a tenere a galla una band sull’orlo del divorzio. Sotto l’occhio delle cineprese non parte neanche un vaffanculo, è tutto trattenuto. La cosa paradossale è che sei il re del mondo, puoi fare il cazzo che vuoi e finisci in questa situazione assurda da reality con le camere accese e il compito impossibile di tirare giù 14 canzoni in 12 giorni, impararle, inciderle e poi fare un concerto. Da qualche parte. Lindsay-Hogg insiste: facciamolo in Libia, nel teatro romano di Sabratha. Oppure in crociera. O in un orfanotrofio. Diventa una macchietta cui nessuno dà retta. Negli anni Novanta ho visto un suo film, Guy, ed era una cosa di una povertà intellettuale drammatica (vedi qui). Voleva essere un’opera altissima sui concetti di visione, libertà e controllo e franava clamorosamente. Più o meno come rischia di accadere qui: in fondo questo Get Back c’è grazie a lui ma per me soprattutto nonostante lui. La ricostruzione di Jackson non ci nega nulla e, per scelta di tempi narrativi e visione d’insieme, assistiamo a nervosismo, momenti di serenità improvvisa, scintille creative, fastidio, noia. Quando si parla di allestimento dello studio Tv, lo scenografo propone dei bozzetti a Paul che lo manda via e aggiunge con feroce ironia: “Parlane a John e Yoko. Loro sono artisti”. Scopriamo anche che la versione iniziale della canzone Get Back era interpretata come se la stesse cantando un seguace razzista di Enoch Powell, un Salvini senza bidet dell’epoca, per capirci, tentativo per fortuna presto accantonato. Al settimo giorno avviene la frattura più grave: mentre c’è grande chimica tra John e Paul, George è estraniato e distante e al termine della sessione mattutina abbandona laconicamente il gruppo. Dopo pranzo la situazione è strana. I tre rimasti si scatenano in tante prove confuse e Yoko urla nel microfono, come a coprire il momento di imbarazzo. Servono tre giorni per suturare la ferita e quando si riparte il feeling è finalmente diverso e sarà tutto un crescendo fino al 31 gennaio, guadagnando una settimana, in un’atmosfera agrodolce, con la soddisfazione di aver portato a termine la missione, l’entusiasmo dell’esibizione e l’evidente sensazione liberatoria di fine lavori. In definitiva, cosa posso dire? Jackson ha realizzato una serie incredibile, che sfida ogni convenzione e fa anche tesoro degli ultimi vent’anni di reality show. Esibisce l’attesa, qualcosa che 50 anni fa era troppo distante dal gusto del pubblico. E c’è di mezzo anche l’ulteriore mitizzazione del gruppo, la nostalgia divenuta valore così come la distanza critica per comprendere meglio cosa stesse accadendo. Non so quanti realmente abbiano visto tutte le puntate ma la costruzione narrativa funziona egregiamente e immagini e musica sono realmente eccezionali. Alla fine, bravi tutti, anche quel cialtrone di Lindsay-Hogg. (Disney+, dicembre 2021)

1918 – Problematico, Don’t Look Up di Adam McKay, USA 2021
Di questo film ho letto pressoché solo commenti entusiastici e, no, non riesco a essere d’accordo: Don’t Look Up è sicuramente un film interessante e con un senso. Ma capolavoro no, non ci sto, come uno Scalfaro qualunque. L’ho trovato un po’ velleitario e soffocato dal suo gigantismo. E compiacente con lo spettatore. Il film satirizza comunicazione, media, potere, interessi etc. e mi sembra l’esatto frutto di questo clima dove tutto è buttato in burla. Ma veramente vi è piaciuto? O ha soltanto solleticato i brandelli rimasti della vostra coscienza? Adam McKay è un ottimo regista e direi che sappia anche come si fa ridere ma ho sempre il sospetto che quando sceglie storie edificanti pensi troppo a montarci su il baraccone, a fare sciato, come diciamo a Genova. Ma la partecipazione e la passione è come se non venissero fuori. Sia La grande scommessa (dei suoi film che ho visto, il migliore) che Vice mi sono sembrati tecnicamente e attorialmente ineccepibili ma alla fine freddi, senza coinvolgimento palpabile. Oh, sto leggendo con piacere Contro l’impegno di Walter Siti e assolutamente non voglio l’indignazione a tutti i costi o il funesto cinema didattico – da lui, poi! – ma se mi fai il pippotto apocalittico devo pur sentire un po’ più di tensione civile sotto, eh, se no è solo pura messa in scena e strizzarsi l’occhio e darsi di gomito. Inoltre qui in Don’t Look Up ho trovato confusione, troppi registri, troppa carne al fuoco, troppi colpevoli. E questo mondo è lo stesso che produce un film così, che accusa e allo stesso tempo si autoassolve dando anche la patente di bontà a chi lo apprezza. Ora, è evidente che sono un cacacazzo ottuso e se non riesco a vivere serenamente il film il problema probabilmente attiene più al gusto mio che all’effettiva bontà del lavoro di McKay. Però, detto questo, qui ci sono attori bravissimi, ma sulla carta, perché sprecati in macchiette e caricature con dialoghi implausibili. Poi non sento grande finezza o una coerenza formale. La metafora della catastrofe climatica in atto è leggibile ma è anche travisata e persa nella confusione: uno dei pochi momenti di verità è quando DiCaprio dice “per soldi ci portate all’autodistruzione”. Però questa cosa fondamentale mi sembra la sparata per avere l’apice drammatico, non per significare veramente che il capitalismo è il tumore del mondo e ci sta portando all’olocausto. Mi sembra tutto pura rappresentazione, così come la citazione di Zabriskie Point in coda. Molti hanno fatto paragoni con Il dottor Stranamore (peraltro nuovamente citato) ma quello era uno stracazzo di capolavoro inarrivabile, qui io non vedo la classe, coglionazzo, ecco. È una grande idea realizzata con troppa fiducia nella propria abilità e non avverto mai un cambio di passo autentico. McKay satirizza tutto: Trump, i movimenti, l’attivismo da poltrona, i social, il linguaggio giovanile e l’apatia ottusa della società, ma lo fa appoggiando tutto lì e facendo carta carbone della realtà, senza nessuno scatto che non sia la deformazione grottesca che banalizza al posto di problematizzare. Questo è un film timballo, con ingredienti ottimi ma poco equilibrati: si riscatta nel finale salvo poi metterci la scena del nuovo pianeta che aspetta le élite che il nostro lo hanno distrutto. Ed è subito cinepanettone, Vacanze su Marte. Non so. C’è un altro momento in cui DiCaprio – il migliore di tutto il cast, il più controllato – scazza in diretta tivù e dice: “La volete smettere con tutte queste battutine?”. Ecco, troppe battutine. Il magnate guru della Bash è un pagliaccetto, Meryl Streep è senza freni, come del resto l’altrimenti adorabile Jonah Hill. Timothée Chamelet poi è uno di quegli incomprensibili misteri gaudiosi (e non dimentico come ha trattato Woody Allen, il pezzente). Quella con un registro drammatico più congruente potrebbe essere Jennifer Lawrence ma anche lì si alterna la rabbia incontrollata (poco credibile nei contesti in cui esce) a gag deprimenti (che il generale faccia pagare gli snack alla Casa Bianca vuole dirci che è tutto per denaro? Ma davvero ce la passi così questa grande rivelazione?). Vabbeh. Qualcosa mi sarà pure piaciuto, no? Ma certo. L’ho detto: sono io il problema. Perché la fotografia è notevole, diverse singole scene funzionano, i brevi inserti documentari sono poetici, i titoli di testa e coda pop risultano elegantissimi. Ma se tiro le somme alla fin fine ho trovato più onesto e coerente di Don’t Look Up quel fetecchione di Armageddon. No dài, scherzo. Anche perché la verità è che quell’asteroide ce lo meritiamo veramente. (Netflix, 14/1/22)

(Continua – 81)

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Oppure binge reading qui, su Carmilla.

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C’era una volta a… Hollywood, di Quentin Tarantino https://www.carmillaonline.com/2019/09/19/cera-una-volta-ad-hollywood-di-quentin-tarantino/ Thu, 19 Sep 2019 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54756 di Mauro Baldrati

E’ doverosa una premessa: Quentin Tarantino non è un regista “contro”. Non è “anti”. Anzi, è patinato. Non è un Altman che dice: “Finalmente Hollywood è riuscita a togliersi i registi dai piedi”. Ama usare le star di Hollywood. Ama i red carpet. E’ hollywoodiano fino all’ultimo centimetro di pellicola. Fino all’ultimo byte. Eppure ha una particolarità che lo rende unico. Benché amante ricambiato dello spietato sistema commerciale globale americano, infila nelle sue opere elementi di satira “pesante”, sempre in bilico tra l’eversione e un innato talento naturale per il [...]]]> di Mauro Baldrati

E’ doverosa una premessa: Quentin Tarantino non è un regista “contro”. Non è “anti”. Anzi, è patinato. Non è un Altman che dice: “Finalmente Hollywood è riuscita a togliersi i registi dai piedi”. Ama usare le star di Hollywood. Ama i red carpet. E’ hollywoodiano fino all’ultimo centimetro di pellicola. Fino all’ultimo byte. Eppure ha una particolarità che lo rende unico. Benché amante ricambiato dello spietato sistema commerciale globale americano, infila nelle sue opere elementi di satira “pesante”, sempre in bilico tra l’eversione e un innato talento naturale per il successo; inserisce elementi splatter quasi antagonisti, ammorbidendoli, piegandoli con una sovraesposizione di cinismo autocosciente, di comicità paradossale; li traveste da citazioni di classici pop che rendono il tutto, alla fine, conforme al “guanxi” del grande fratello del cinema americano. Tutto questo lanciato nel cosmo dell’entertainment con uno stile inconfondibile, complesso, raffinato. E’ senza dubbio un sensei delle riprese, dell’accostamento immagini-musica, della fotografia e della direzione degli attori.

Tutto questo emerge spavaldamente dal suo ultimo film, l’attesissimo C’era una volta a… Hollywood. Senza scadere nel luogo comune si può affermare che si tratta di un’opera completa, matura. Sì, l’opera della maturità. Sembra che certi eccessi fumettistici siano tenuti a bada, che il controllo stilistico e dinamico sia perfetto. E poi le citazioni, una sua passione di sempre: i western italiani, smitizzati da una caustica, non reticente presa in giro. Quando Leonardo DiCaprio, attore in crisi, riceve la proposta di venire in Italia a cercare fortuna negli spaghetti western, tra cui Sergio Corbucci (“Corbucci? E chi cazzo sarebbe?”), spara a zero: “E io dovrei recitare in quei fucking western italiani? Sono tutte farse del cazzo” (poi ci va, fa un po’ di soldi e si porta a casa persino una moglie italiana). Ovviamente prendendo in giro il genere prende in giro anche se stesso, in quanto fan. Prende in giro tutti, gli hippies, di cui la California era piena (siamo nel 1969), tutti giovani, belli e patinati, specialmente le ragazze, a pacchi; Dennis Hopper (era appena uscito, o stava per uscire, Easy Rider); i telefilm americani, in una straordinaria antologia per immagini con spezzoni di girato. Oppure quando uno strafatto di acido Brad Pitt disfa la faccia di un’assassina seguace di Charles Manson, in un finale ultraviolento e ultratarantiniano, che tutti in sala salutano con risate liberatorie, come non riconoscere una fulminea citazione di Dario Argento.

Lo stile, la classe registica, la ricostruzione dei dettagli, tutto è di prim’ordine. Tarantino qui dimostra una mano artistica nelle riprese, nel configurare i personaggi e i luoghi che ne fanno uno dei grandi maestri viventi. Senza alludere a fusioni o corrispondenze imbarazzanti, in certe inquadrature ricorda Fellini, la sua epica, uno splendore che addirittura commuove lo spettatore sensibile. Quell’avanzare della Cadillac di DiCaprio guidata da Brad Pitt per le strade di Los Angeles del 1969: non troviamo altro aggettivo che non sia “magnifico”.

E poi il gioco degli attori, dicevamo. DiCaprio è quello oscuro, sporco, alcolista, catarroso, disperato. E’ un attore di medio calibro, star delle serie western, un mondo aleatorio, nel quale domani si può sprofondare nel nulla e da famoso in pochi attimi si può essere dimenticati. Vive in una villa sui colli di Hollywood, come tutti nell’ambiente del cinema, ma quanto durerà? Il suo agente, in un cameo di Al Pacino, glielo preannuncia: preparati, tu sei il cattivo, e lo sarai sempre. Come tale la gente ti ricorderà, e subito ti dimenticherà. Parole velenose che gli infuriano nella mente e lo portano a bere sempre di più, a fumare come un turco, a confondere le battute, ad aspettare la fine. Tarantino qui si diverte a inserire il truffautiano “cinema nel cinema”: assistiamo a scene in cui Di Caprio spara, salta, recita prodigiosamente la parte dell’attore che ogni tanto si impappina, sbaglia battuta. E allora ricomincia, ripete la scena con grande realismo. Gli spezzoni di film nel film sono perfetti, non sembrano recite nella recita, ma campionamenti di film di ottima fattura.

Accanto a DiCaprio c’è Brad Pitt, la sua controfigura, uno stuntman, che tuttavia non riesce a lavorare in quanto tale, ma gli fa da autista, da tuttofare, e anche da spalla, quando l’altro sprofonda nella depressione e nel pessimismo. Come DiCaprio è stravolto, scapigliato e scuro, Pitt è un wasp da manuale, algido, imperturbabile. Sembra un’intuizione geniale questo accostamento, come il ribaltamento di un luogo comune: chi comanda è il bruno, il peloso, il rauco, chi lo assiste è il biondo, il chiaro, il bello. Brad Pitt è un tipo tosto, con un passato sempre in bilico tra la libertà e la prigione. Sembra che abbia ucciso sua moglie, non si sa come né quando, e “l’abbia fatta franca”. Lo dice un tipo a Bruce Lee (un’altra esilarante presa in giro), prima che i due si scontrino in una lotta nella quale Brad Pitt lo fa fuori più o meno come Indiana Jones si sbarazza di quell’enorme arabo ne I predatori.

DiCaprio è vicino di casa di Roman Polański e di sua moglie Sharon Tate, che lui guarda con ammirazione e con invidia, perché lì si nasconde il vero successo, il vero cinema. Il regista è in Inghilterra per girare il suo prossimo film, dopo il trionfo mondiale di Rosemary’s Baby, per cui Tarantino si concentra su Sharon Tate, che è un personaggio importante, cui dedica un ampio spazio. E proprio sulla tragica vicenda che la vide vittima della strage di Bel Air, l’8 agosto 1969, Tarantino cambia la storia, come fece con Inglourious Basterds.

Una speranza? Una favola? Oppure un sogno, come avrebbe potuto, o dovuto essere quella notte infernale. L’ennesima presa in giro della Storia, che a sua volta si diverte a puntare sempre al peggio del peggio.

(Un consiglio: il film deve essere visto in lingua originale. Perdere la recitazione dei due campioni per il doppiaggio significa rinunciare a un buon terzo della qualità del film.)

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 77 https://www.carmillaonline.com/2017/09/21/divine-divane-visioni-cinema-porno-77/ Thu, 21 Sep 2017 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40618 di Dziga Cacace

Plus tu baises, moins tu cogites et mieux tu dors.

900 – Ma pensa tu che mistero, Il triangolo delle Bermude di René Cardona Jr., Italia/Messico 1978 Mani sulle palle o dove vi aggrada, perché secondo me questo film mena rogna come pochi. È tutto sinistro, tutto inquietante, a partire da una fattura quasi amatoriale, con una fotografia sgraziata, degli zoom telescopici e un cast che lascia sconcertati per i nomi coinvolti e per l’utilizzo che se ne fa: a fianco di John Huston (no, dico: John Huston!) e Marina Vlady [...]]]> di Dziga Cacace

Plus tu baises, moins tu cogites et mieux tu dors.

900 – Ma pensa tu che mistero, Il triangolo delle Bermude di René Cardona Jr., Italia/Messico 1978
Mani sulle palle o dove vi aggrada, perché secondo me questo film mena rogna come pochi. È tutto sinistro, tutto inquietante, a partire da una fattura quasi amatoriale, con una fotografia sgraziata, degli zoom telescopici e un cast che lascia sconcertati per i nomi coinvolti e per l’utilizzo che se ne fa: a fianco di John Huston (no, dico: John Huston!) e Marina Vlady c’è pure Gloria Guida, loro improbabile figlia, dalla fisicata clamorosa e con occhi che sembrano due fanali. Bene, questi popò di attoroni danno vita a una vicenda che ruota attorno a uno di quei supposti Misteri che negli anni Settanta davano i brividi a lettori ingenui come me. Prima del complottismo e delle verità alternative dei social si dibatteva dell’esistenza dell’Uomo delle nevi, del continente perduto di Atlantide, dell’autocombustione improvvisa e, ovviamente, dell’inesorabile Triangolo delle Bermuda, poligono che sembrava esaltare le mie fantasie adolescenti molto più di altri triangoli (…). Erano misteri che trovavi pure in edicola, a dispense, altro che Costruisci il tuo presepe o Colleziona sottobicchieri di marchi di birra. Bene, quelli erano i tempi e non poteva mancare l’esito cinematografico che io vidi per la prima volta assieme a mia madre al cinema Lumière di Genova in una proiezione pomeridiana, sul finire degli anni Settanta, mio esordio nell’amata sala dove avrei passato molte serate felici ai tempi dell’università. Comunque: regista di questa cosa abbastanza improponibile era il professionale (e non si direbbe, eh) René Cardona Jr., già autore di quel Tintorera prediletto da Quentin Tarantino visto più e più volte sulle tivù locali genovesi durante gli anni Ottanta e figlio del Cardona Senior che ha firmato I sopravvissuti delle Ande, mio film formativo visto al parrocchiale di Champoluc (formativo perché mi ero reso conto della differenza tra riprese in studio e riprese in esterna, montate assieme in modo fotograficamente lancinante). Il plot de Il triangolo delle Bermude è semplice da far tenerezza: c’è uno yacht un po’ scassato che incrocia nel Triangolo maledetto per una missione archeologica. La dirige il vecchio Huston, a bordo con la famiglia: la moglie e i 4 figli. Partecipano anche il fratello, un medico alcolizzato identico a Marcello Lippi che ha sulla coscienza un intervento in cui ha ucciso un paziente (il medico, non Lippi), e la sua consorte (sempre del medico, non di Lippi). (Vabbeh, la smetto). Poi c’è il resto dell’equipaggio: il capitano nervosetto, l’ufficiale sciupafemmine, il motorista indio e il cuoco di bordo nero che parla da bovero negro. Gli leggi già in faccia che hanno tutti il destino segnato. Nel prologo assistiamo al naufragio di un veliero: in mare finisce anche una bambola con la faccia assassina che – oplà – viene trovata dai nostri eroi odierni ed è subito adottata dalla figlia minore di Huston, una mocciosa tremenda. La bambolina le parla e le rivela chi morirà, quando e come, cosa che puntuale la stronzetta annuncia lasciando tutti basiti.
Intanto lo yacht riceve via radio messaggi insensati, tipo quelli che lo stesso yacht manda nell’etere. Oppure arrivano richieste di soccorso – contemporanee o vecchie di anni – di aerei e navi che si perdono. La bussola è sempre impazzita, l’orizzonte assume colorazioni bizzarre, il mare ribolle, si sentono voci come le sirene di Ulisse e il radar manda immagini inquietanti. Insomma, una crocierina tranquilla. Durante una missione subacquea in cui si trova niente meno che una città sommersa avviene un maremoto e Gloria Guida rimane sotto una colonna che le frana addosso, sfasciandole le gambe. La cosa ha dell’incredibile perché le colonne sono in cartapesta, ma non meno straordinario è il colore rosso Ferrari del sangue che lorda le lunghe leve dell’attrice. E da lì la trama ha un’accelerata e si va verso un finale cialtrone, quasi sbrigativo. Tanto non c’è nulla da spiegare, il mistero del Triangolo rimane un mistero e fessi voi che pensavate che questo filmaccio potesse risolverlo. Il film ha un suo ritmo malato, è innegabile, e alterna le vicende sullo yacht – cioè le morti o le scomparse dei vari membri dell’equipaggio uno dopo l’altro – a scene documentarie che raccontano di altre sparizioni inspiegabili in quella porzione di oceano. Beh: che faccio, ve lo consiglio? Massì, dài. Magari risolvete l’arcano voi. E poi mi dite. (17/12/11)

901 – L’irriducibile Baise-Moi di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi, Francia 2000
Crime thriller sui generis a tinte noir e al contempo – per chi ama le categorizzazioni – rape e revenge movie, Baise-Moi è un film che ha avuto vita molto difficile, vietatissimo in molti paesi, ritirato in Francia, osteggiato da giudici cavillosi e dalle varie associazioni di rompicoglioni che devono decidere su cosa sia giusto o no vedere. Perché? Perché è un salutare calcio nelle palle al buon gusto borghese e un violento sputo in faccia al perbenismo cinematografico. È un film esplicito (in tutti i sensi, con penetrazioni e tutto l’armamentario da cinema hard) tacciato per convenienza di pornografia. Ma in realtà non evoca alcuna fantasia erotica, non eccita mai, semmai disturba e respinge ed è doloroso come una pallottola su per il culo (e non uso l’espressione a caso). Dunque: Nadine e Manu sono figlie delle banlieu, senza passato e senza futuro. Nadine fuma, beve, ascolta musica punk, si masturba. Se fosse un maschio sarebbe un figo nichilista. È una donna e quindi è una poco di buono. Del resto, si prostituisce, come l’assioma pretende. Manu è una beurette disoccupata che prende sberle da ogni lato: ha un fratello possessivo e violento che la considera – come tutti – una zoccola (avendo preso parte a un film porno per raggranellare qualche soldo). Viene violentata assieme a un’amica da quello che la stampa morbosa definirebbe un branco: subisce senza opporre resistenza, inanimata, per evitare il peggio. Non vi sto a dire cosa succede poi ma gli eventi prendono una piega vagamente estrema e Manu e Nadine, che non si conoscono, incrociano le loro strade e decidono di fuggire assieme. Da qui in poi è un delirio di violenza senza freni, una ribellione assoluta a regole e gerarchie, al mondo patriarcale e paternalista che le (e ci) attornia: questa vita non ha senso, e allora perché non sconvolgerla, perché non ribaltarla e provare un piccolo, momentaneo, attimo di rivincita e di felicità? “Più scopi, meno pensi, meglio dormi”, come esemplifica Nadine. La coppia scappa attraverso la Francia, la stampa gioca coi due personaggi che lasciano dietro di loro una striscia di sangue e tu spettatore sei sopraffatto dal racconto senza sconti, che non vuole indorarti la pillola facendo delle due assassine due romantiche eroine. Baise-Moi (che non vuol dire “baciami” ma “scopami”) è un Thelma e Louise amorale. E finalmente, dico io. A me quello era sembrato finto femminismo mercantilistico, una sorta di concessione su pellicola secondo logiche maschili e maschiliste. (Esagero. Però, insomma, pensateci). Questo film invece ti deve dar fastidio, è la sua ragion d’essere. Ti deve far male come la vita fa male alle protagoniste, due donne – due corpi – considerate a disposizione dalla società in cui vivono. La regia è di Virginie Despentes, autrice anarco-femminista del romanzo da cui il film è tratto, e Coralie Trinh Thi, ex attrice porno. E attrici hard lo sono anche le due interpreti principali, Karen Lancaume e Raffaëla Anderson, bravissime (senza ironia, giuro). La messa in scena è rozza, sgraziata e nervosa come il montaggio e tutto è girato in digitale, con luce solo naturale: l’impressione di realtà è molto forte e se ti aspetti i bei colori, l’immagine stabile, il cinema di papà, no, sei fuori strada, amico. Nel 2005 la Lancaume si è suicidata, quasi a mettere un sigillo reale ai problemi posti dal film che ha interpretato. Ma sto facendo il trombone: il film è particolare e può risultare indigesto ma è anche un ceffone che vi auguro di prendere sul muso. (18/12/11)

902 – E niente, non ce la faccio proprio: Guerre stellari – Il ritorno dello Jedi di Richard Marquand, USA 1983
Trascrivo i nervosi appunti sparsi che ho preso durante la visione assieme alla seienne Sofia: 1) l’imperatore si chiama Palpatine, giuro, e sembra Jorge, il monaco cieco del Nome della rosa, andato a male e con qualche problema di igiene dentaria in più. 2) Jabba the Hutt è un pouf di gommapiuma a forma di lumaca e nella sua taverna si suona del rhythm and blues da bordello veramente inascoltabile. 3) Yoda – altro che Jedi! – è un nano rugoso e furfante che insegna a Luke Skywalker a barare, a saltare come nessun altro è capace e a muovere gli oggetti come provava invano a fare Massimo Troisi in Ricomincio da tre. 4) Mark Hamill, Luke, appunto, è invece un curioso incrocio tra Johnny Dorelli, la salma di Mike Bongiorno e Franco Stradella (che conosco solo io, ma vi assicuro che c’entra) e il suo confronto edipico col padre è una palla al cazzo che non vi dico. 5) Darth Fener, quando si toglie il cascone nazistoide, è lo zio Fester! Ooooh, orrore e raccapriccio! 6) Luke ha inoltre intuito che Leila è sua sorella (primo colpo di scena mancato), poi (altro anticlimax) glielo dice e lei risponde: “Lo sapevo!”, roba che neanche a Carràmba! Che sorpresa in acido. 7) Tra l’altro Carrie Fisher fa la figa in bikini, ma non lo era prima con quei due pretzel in testa , figuriamoci ora col reggiseno che sembra fatto in ferro battuto. 8) Comunque tra il primo Guerre Stellari e questo terzo episodio della saga (in realtà il sesto ma lo sapevamo in pochi) il cast deve essere stato investito da una tempesta di meteoriti perché sembrano tutti invecchiati in maniera inclemente. 9) Gli ewoks, abitanti della “Luna boscosa di Endor”, sono dei nanetti imbustati in pigiamini pelosi. 10) Tra gli alleati dei ribelli ci sono anche dei branzini alieni veramente incredibili, da far cadere le braccia. Bene, cosa concludo, dopo queste noterelle amene? Beh, che questo è un film di una noia mortale: dura oltre due ore e non ti finisce più. Non so bene cos’abbiano aggiunto in questa versione rimasterizzata, rivista, ricorretta e tante altre palle. So che non ricordavo per niente le scene di giubilo in giro per la galassia alla notizia della vittoria contro l’Impero, tante enormi Times Square la sera di capodanno, questo mentre i nostri eroi fanno una festicciola intorno al fuoco come dei boy scout. Tutti tentativi di rendere un po’ meno naif la materia trattata, anche perché qui ci sono sganassoni da film per bambini, nemici cattivissimi che si arrendono senza colpo ferire, i nostri eroi che non vengono mai colpiti e non si sporcano neppure. A Sofia la fiaba prende moderatamente, specialmente il plot familiare, ma la conclusione è di film “carino”, giudizio che mi eviterà ripetute visioni future che avrei trovato letali. Lo so, per tanti amici e fedeli lettori sto bestemmiando, ma in verità, in verità vi dico, che Il ritorno dello Jedi è una cagata pazzesca. (Dvd; 19/12/11)

903 – Mi regalo Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, USA 1982
È il mio compleanno e mi tolgo una soddisfazione rara. Mi vedo un film alle 17, a casa, incurante di chicchessia, con Sofia che pronta si distende sulla mia calda ventrazza. Ed è Koyaanisqatsi, senza plot, senza dialoghi, solo la musica celestiale e inquietante di Philip Glass. E io, like a boss, godo di bestia, ad almeno 18 anni dall’ultima visione, quando facevo finta di studiare: assieme alla fraterna amica Hilda avevamo fantasticato col nostro relatore di scrivere la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e architettura, abusato legame di volta in volta evocato da cineasti che vogliono darsi delle arie o da architetti in vena di fancazzismo; ci incontravamo la mattina per vedere film ed era veramente dura con tipi come Jon Jost (guardatevi City of angels e poi sappiatemi dire). Però questo Koyaanisqatsi, no, era stato un piacere che aveva coinvolto anche il nostro prof (che in una riunione dell’istituto di Urbanistica lo aveva chiamato – giuro – Coituoiscazzi). Attraverso riprese di bellezza abbacinante vediamo il mondo sconvolto dalla presenza umana. La poesia cinematografica mette in scena la natura, coi suoi tempi eterni e la sua maestosità imperturbabile, e la civiltà (per modo di dire) occidentale che avanza: miliardi di esseri che tutto travolgono e divorano, come un virus frenetico, folle e impazzito. Siamo wurstel in metropolitana, ecco cosa siamo, macchie di luce sull’autostrada mentre cala la Luna. Le immagini diventano astratte in velocizzazioni e rallenti, un caleidoscopio di colori e di suggestioni pittoriche, tra palazzi che cadono e muti monumenti in vetro e cemento al Capitale che riflettono le nuvole in incessante movimento. Il risultato è magnifico, assolutamente emozionante e struggente. Dovrei leggermi bene su Wiki le responsabilità autentiche di cotanto capolavoro, ma il direttore della fotografia (Ron Fricke) mi sembra la vera mente grafica di questa operazione, durata una decina di anni e sponsorizzata da Francis Ford Coppola una volta vista una preview. Eccezionale, veramente. (Dvd; 20/12/11)

904 – Adorabili, I compagni di Mario Monicelli, Italia 1963
Film personale e sfortunato di Monicelli, con le vicende di un gruppo di operai che rivendica cose minimamente civili nella Torino umbertina. Finisce male, in maniera anche narrativamente prevedibile, ma è caruccio, dotato di un calore che è raro trovare nel cinismo distaccato del vecchio Mario. Mastroianni – dolente e magnifico – è l’intellettuale, un po’ profittatore ma anche dotato di spina dorsale e capace infine di prendersi le sue responsabilità. I compagni risultò un film scomodo, poco popolare nonostante gli intenti ed ebbe scarso successo, peccato. Girato in un bianco e nero scintillante (fotografia di Giuseppe Rotunno), con precise e discrete caratterizzazioni e una Raffaella Carrà – fresca diplomata al Centro di Cinematografia Sperimentale, non scherzo – assolutamente credibile e mai più così a sinistra neanche quando ha ballato il Tuca tuca o presentato Pronto, Raffaella? (qui, scherzo. Però una grande). (Dvd; 23/12/11)

905 – Natale con Asterix e Obelix contro Cesare, Francia/Italia/Germania 1999
Vigilia natalizia santificata con film di fama incognita, ma mooolto desiderato dalle piccine. Ed è una porcata, che alle bambine piace (anche se a Elena, 3 anni, mette un po’ paura) e a noi adulti, o presunti tali, annoia tremendamente. Il film è un continuo esercizio di umorismo infantile che perde la magica qualità dei fumetti di Goscinny e Uderzo: saper far ridere a più livelli. Effettacci digitali (che forse, all’epoca… oggi: mah), Benigni che folleggia e almeno dà un po’ di vitalità, migliaia di comparse, Idefix che è il cane di Asterix e non di Obelix, Depardieu che non è dovuto ingrassare di un grammo per interpretare quest’ultimo e altre bestialità in un copione confuso che mescola diverse storie dell’amato villaggio di galli che non vuole arrendersi alla prepotenza romana. È un tradimento continuo, come sempre accade quando porti una narrazione da un media a un altro. Ma ci sono tradimenti possibili che sortiscono grandi invenzioni e tradimenti da infingardo che tradiscono la fiducia data e questo è il caso. Laetitia Casta – reduce allora da un festival di Sanremo muto a fianco di Fabio Fazio – si presta per una comparsata nuovamente silente ma molto tettuta, con testa vaporosa anni Ottanta per nulla filologica. Poco altro da ricordare, se non il rigonfiamento scrotale del sottoscritto: film costosissimo, lo han visto una trentina di milioni di persone nel mondo, potere della persuasione pubblicitaria e probabilmente dell’ignoranza del testo originale. A visione ultimata le bimbe vanno a dormire e noi ci mettiamo a impacchettare come dei carbonari i regali da mettere sotto l’albero. Poi ci tocca allestire la messinscena del passaggio delle renne di Babbo Natale in terrazzo: Barbara ha lasciato con Sofia ed Elena dei biscotti e una ciotola con del latte. Tocca a me consumarli truffaldinamente e lasciare la ciotola sporca e un po’ di briciole (si butta via mica niente, qui, eh). Infine io solo – in piena notte – mi riduco a costruire una maledetta cucina giocattolo in legno che sembra progettata da un ingegnere dell’Ikea in preda ai vapori della colla. (Dvd; 24/12/11)

906 – The Decline of Western Civilization di Penelope Spheeris, USA 1981
Il nome della regista probabilmente non vi dice niente, ma l’avete amata – eccome – per Wayne’s World, quello che un distributore italiota aveva ribattezzato incongruamente Fusi di testa. Ho ricordi antichi di quel film ma le parti migliori erano quelle di racconto sociologico della grande provincia americana e dei suoi miti spettacolari e consumistici. Ma dieci anni prima la Spheeris si era già misurata (e poi avrebbe continuato) col documentario vero e proprio, un esercizio indipendente di guerrilla filmmaking sulla scena hardcore punk losangelena. The Decline of Western Civilization è un film interessante, per nulla piacione, e in qualche maniera distaccato e disilluso, con un atteggiamento speculare a quello di chi viene raccontato e interpellato per dire la sua. I gruppi investigati (Black Flag, Germs, Fear, X e altri a me ignoti) mi fanno – confesso – cacare a spruzzo: son colpevole, lo ammetto, ma non son mai riuscito ad amare l’hardcore pur comprendendone le ragioni. A mia difesa posso solo dire che probabilmente il cacare a spruzzo verrebbe di molto apprezzato dai protagonisti di quella singolare esperienza musicale. Del resto – con chitarre, testi e costruzioni armoniche – questi, orgogliosamente, non vanno tanto lontano e gli interventi in concerto palesano che l’inabilità strumentale non sia questo gran problema: sono schifati, annoiati, contro tutto e tutti, e quel suonare storto, urlando e vomitando l’oscena verità è il loro modo per manifestarlo. Gli fa schifo la società, gli fan schifo i vecchi hippie così come i plastic people, rifiutano la politica tradizionale, la famiglia, il modo in cui (gli) è organizzata la vita. Gli X, con Exene Cervenka, sembrano quelli più strutturati, sia musicalmente che ideologicamente. Gli altri più spesso lasciano interdetti per mancanza di elaborazione ma se il senso è quello di non rispondere ai nostri abituali canoni dialogici, allora ci sta tutto. Dal punto di vista narrativo il documentario è abbastanza confuso e lasco e le interviste e le riprese non sono granché pensate. In questo senso è molto punk anche il film, quindi, che ha però un forte valore testimoniale, spaziando dalle esperienze personali dei protagonisti alla teoria e pratica del pogo e dello stage diving, passando per tatuaggi, testi, strumenti e ascoltando anche spettatori, fan, promoter e sicurezza dei locali. Qualche volta mi vien da sonnecchiare (a me è un mondo che non interessa granché, che ci devo fare?), ma c’è almeno una scena clamorosa che dovreste recuperare, con Lee Ving, il cantante dei Fear, che provoca il pubblico: finisce a sputazzate e mazzate, con una ragazza dalla mira implacabile (con saliva e mani). Il senso di tutta l’operazione – del film e del movimento artistico – la dà Richard Biggs, direttore della fanzine Slash e poi anche dell’etichetta omonima: il punk – dice – è l’unica forma di rivoluzione rimasta. E questo è in effetti un buon punto a favore. (26/12/11)

907 – La delusione de I diavoli volanti di A. Edward Sutherland, USA 1939
Vedo in edicola Stanlio e Ollio che mi salutano dal classico primo numero di una collana di Dvd a prezzo stracciato e, ancora circonfuso di spirito natalizio e trovando buono e giusto il consumo in questo momento di crisi, procedo all’acquisto pensando che le bambine si divertiranno un mondo. Beh: no. Durante la visione le sento che sbuffano e si distraggono. Il film è lentissimo, in effetti, e le gag si contano sulle dita di una mano. C’è la famosa scena in cui si canta e danza “Guardo gli asini che volano nel ciel…”, ma l’evento non smuove le piccole. La trama è elementare: per una delusione d’amore di Ollio il duo finisce nella Legione straniera, dove ne combinano di ogni colore (per modo di dire, visto che non succede quasi nulla). Si va avanti a tentoni e tutto risulta più frustrante che appagante. Carina la scena finale: dopo un’improbabile e involontaria fuga in aereo, i due comici si schiantano per terra e Ollio va in cielo come un angioletto. Però ritorna reincarnato in un cavallo. E vabbeh. I programmi di Giancarlo Governi che vedevo quando ero bambino distillavano il meglio della coppia e lo riproponevano montato ad hoc; un film intero, invece… bah! Va detto che si tratta di uno degli ultimi prodotti di Laurel e Hardy e in effetti, criticamente, non se lo fila nessuno. Però adesso ho paura anche a ripescare I figli del deserto che ho sempre amato tantissimo. (Dvd; 28/12/11)
P.s.: arriva il lieto fine! Siccome non ci sto a vedere denigrati gli amati Stanlio e Ollio, su YouTube recupero Liberty, una vecchia comica dove i due amici, scappati di prigione, si avventurano sulla struttura di un grattacielo in costruzione in compagnia non richiesta di un granchio che si infila nelle braghe di Ollio. Beh, qui si ride e tanto e le bimbe apprezzano moltissimo. E io sono sollevato: buon anno!

(Continua, ancora un poco – 77)

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Challenger, un ventaglio infinito di possibilità https://www.carmillaonline.com/2017/05/18/challenger-un-ventaglio-infinito-possibilita/ Wed, 17 May 2017 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38301 di Sandro Moiso

Challenger_explosion Guillem López, Challenger, Eris 2017, pp. 403, € 20, 00

Appena ho finito di leggere questo, lo dico subito, bellissimo romanzo, non ho potuto fare a meno di pensare alla prosopopea con cui Mario Draghi, dall’alto del suo scranno alla guida della Banca Centrale Europea, continua a ripetere il suo mantra sull’impossibilità di modificare ciò che è stato scelto una volta per tutte. In questo caso la possibilità di recedere dall’Euro come moneta unica europea.

Si tranquillizzi immediatamente il lettore di queste prime righe: l’opera di Guillem López non si occupa di economia e tanto meno [...]]]> di Sandro Moiso

Challenger_explosion Guillem López, Challenger, Eris 2017, pp. 403, € 20, 00

Appena ho finito di leggere questo, lo dico subito, bellissimo romanzo, non ho potuto fare a meno di pensare alla prosopopea con cui Mario Draghi, dall’alto del suo scranno alla guida della Banca Centrale Europea, continua a ripetere il suo mantra sull’impossibilità di modificare ciò che è stato scelto una volta per tutte. In questo caso la possibilità di recedere dall’Euro come moneta unica europea.

Si tranquillizzi immediatamente il lettore di queste prime righe: l’opera di Guillem López non si occupa di economia e tanto meno di Euro o di Unione Europea.
E’ invece un romanzo, che definire di fantascienza è poco, che si occupa di universi paralleli, dell’infinito ventaglio di possibilità attraverso cui la realtà appare e dell’esistenza o meno della realtà stessa. Almeno in chiave oggettiva e scientifica.

Il 28 gennaio 1986, alle ore undici e trentotto del mattino, dopo soli settantatre secondi di volo, lo Space Shuttle Challenger, appena decollato da Cape Canaveral in Florida, si disintegrò in volo a 14.000 metri di altezza mentre stava accelerando ad una velocità superiore a Mach 1,92 (quasi due volte la velocità del suono). Per i sette membri dell’equipaggio, cinque uomini e due donne, non vi fu alcuna possibilità di salvezza quando, due minuti e quarantacinque secondi dopo, il modulo spaziale in cui erano rinchiusi si schiantò sulle acque dell’Oceano e si inabissò.

Challenger Da questa drammatica vicenda prende spunto l’autore per imbastire la sua storia, che si articola intorno a 73 episodi o capitoli, tanti quanti i secondi trascorsi prima del disastro del modulo spaziale. 73 capitoli che ci guidano a comprendere come la realtà sia composta da una combinazione di storie infinite che, a loro volta, possono riproporci un numero infinito di finali.
Una visione che già è appartenuta a tante letterature e narrazioni antiche, come nel poema narrativo L’oceano dei fiumi dei racconti di Somadeva – brahmano del Kashmir – che risale all’undicesimo secolo e da cui furono tratti molti racconti contenuti nelle Mille e una notte.

Intuizione che soltanto la logica occidentale, bisognosa di un ordine generale in cui sistematizzare le proprie certezze e insicurezze, ha contribuito a demolire per sostituirla, non solo nella letteratura, con una narrazione in cui il plot o la trama degli eventi fosse pienamente comprensibile e predeterminata, con cause e conseguenze riconoscibili e strettamente collegate tra di loro. Una visione che ha cercato di riportare la concezione meccanicistica dell’Universo all’interno delle cose umane e del loro “effettivo” svolgimento”. Ignorando, ancora al giorno d’oggi, le infinite possibilità suggerite dalla fisica quantistica oppure anche solo da quella lettera di Engels a Bloch1 in cui, lui l’apparente padre di ogni determinismo, sottolineava come la complessità delle azioni umane fosse difficilmente interpretabile attraverso la rigidità delle formule economiche e scientifiche.

Da qui il proliferare di romanzi e racconti in cui, sempre più spesso, il bisogno di legare tra di loro e dare senso agli eventi costringe gli autori a ricorrere a trame in cui i complotti e le forzature narrative portano a soluzioni poco soddisfacenti sia sul piano letterario che su quello dell’effettivo coinvolgimento del lettore. Sempre meno libero di interpretare gli eventi narrati e sempre più obbligato a piegarsi alla volontà, spesso meschina, dello scrittore. Con grande rimpianto per il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore e con il conseguente rischio di veder prodotto e riprodotto all’infinito un immaginario fossilizzato sia nelle sue forme artistiche che scientifiche e politiche.

Guillem Lopez Guillem López (classe 1975), autore spagnolo di cui Challenger costituisce il terzo romanzo e il primo pubblicato in Italia, per la sua complessità e per la sua capacità di andare oltre le classiche divisioni tra generi letterari, ha già ricevuto diversi riconoscimenti. Proprio il romanzo appena pubblicato in Italia da Eris è stato inserito nella lista dei migliori libri del 2015 redatta dalla rivista statunitense di fantascienza Weird Fiction, mentre nel 2016 ha vinto il premio Kelvin 505 come miglior romanzo di fantascienza pubblicato in Spagna e il premio Ignotus della AEFCT (Asociación Española de Fantasía, Ciencia Ficción y Terror).

Ma i premi e i riconoscimenti potrebbero anche voler dire poco o nulla se alla base della sua scrittura non ci fosse una solida capacità di unire tra di loro e, allo stesso tempo, lasciare libere, storie di mostri (umani e non), assassini, drop-out di vario genere, fantasmi, cani ed oggetti che parlano o pensano, la motosilurante PT 109 del futuro Presidente Kennedy durante la seconda guerra mondiale, medium, piccoli delinquenti, profughi cubani, pensionati ed alcolisti americani, maniaci sessuali, studenti e studentesse di vari ordini di scuole, bambini prodigio, insegnanti repressi, la guerra in Vietnam, idioti di vario genere, scienziati pazzi (o quasi), invasori spaziali, tecnici confusi e poliziotti delusi .

Tutte le vicende, tranne in un caso, si svolgono in un arco temporale ristretto, tra le 5,45 e le 12,08 della stessa mattina, e all’interno o nelle immediate vicinanze della città di Miami, mentre il tutto è narrato con uno stile che va da Philip Dick a Raymond Carver, passando per William Burroughs, Michail Bulgakov, Howard Phillips Lovecraft, Don DeLillo, i fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons e la cinematografia di Quentin Tarantino e dei fratelli Cohen. Un’autentica orgia di divertimento, mistero, orrore, suspense, in cui il collante è costituito dalla quotidianità di vite minime, destinate a scontrarsi con eventi inspiegabili, talvolta enormi e talaltra quasi impercettibili.

Un autentica summa di mondi e universi paralleli costituiti dalle vite e dalle reazioni dei diversi personaggi, piccoli o grandi, giovani o vecchi che siano. In cui la routine quotidiana nasconde oppure lascia spazio a squarci di luce e di buio, spesso inaspettati e imprevedibili.
Una ricostruzione di una realtà che è costituita da una trama apparentemente priva di ordito in cui il lettore è lasciato libero prima di scivolare, affascinato dalle vicende e travolto dal senso del meraviglioso (sense of wonder), e poi di interpretare tutto ciò che sta accadendo davanti agli occhi della sua mente.

challenger 1 Tutti i registri del possibile e del meraviglioso, del drammatico e del banale quotidiano, del desiderio e del disgusto sono racchiusi nelle 400 pagine del libro e il lettore, arrivato alla fine, forse ne vorrebbe ancora e ancora e poi ancora. Non resta quindi che sperare che la giovane e coraggiosa Eris, già distintasi per la pubblicazione di altre opere narrative e a fumetti, voglia ancora pubblicare gli altri lavori di López. Magari ancor accompagnati dalla grafica più che efficace di Sonny Partipilo che già arricchisce il presente volume.

Attenzione però, ed è l’unica rivelazione che voglio fare ai lettori, il fatto che l’offensiva del Tet, durante la guerra del Vietnam, sia datata al 1965, potrebbe non essere frutto di un errore o di una svista, in un romanzo troppo intelligente per contenerne.


  1. F. Engels, Lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890  

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Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi https://www.carmillaonline.com/2016/11/09/dal-tunnel-cattivi-primitivi/ Wed, 09 Nov 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34410 di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, [...]]]> di Sandro Moiso

venaus-aggressivi Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa, Meltemi editore 2016, pp.300, € 22,00

Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombre Corte 2016, pp.214, € 18,00

Come scriveva Jean Baudrillard nel 2002, (Jean Baudrillard, La violenza del globale in Power Inferno, Raffaello Cortina Editore 2003, pag. 63) a dare scacco al sistema nel mondo attuale potranno essere soltanto specifiche particolarità che non costituiscono obbligatoriamente un’alternativa, ma che appartengono sicuramente ad un altro ordine. Si trattava, per il filosofo, sociologo e semiologo francese “di uno scontro quasi antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di un’alterità irriducibile”.

Anche se queste parole erano state scritte a seguito di una riflessione sull’allarme suscitato dall’attacco alle Twin Towers nel settembre del 2001, col passare del tempo è diventato sempre più evidente che le interpretazioni dei conflitti sociali e di classe date nel corso del ‘900 non sono più in grado di per sé di spiegare le dinamiche sottostanti ai movimenti reali che si oppongono all’attuale modo di produzione e di dominio e, ancor meno, di determinarne tattiche e strategie.

E’ un intero sistema di categorie e di ideologie che è in qualche modo fallito.
Le promesse implicite nel modello di sviluppo proposto dal capitalismo, in tutte le sue varianti occidentali e asiatiche oppure liberali o stataliste, hanno dimostrato la labilità e la fallacia dei loro presupposti, finendo però col riversare il proprio fallimento anche su tutte quelle ideologie che pur facendo del capitalismo l’obiettivo delle proprie critiche hanno comunque finito con il non abbandonarne i presupposti paradigmatici e continuato a condividerne nell’immaginario lo stesso territorio politico. Inclusa gran parte del marxismo, sia eretico che ortodosso.

Lo sviluppo, l’ampliamento della produzione industriale, il benessere legato al consumo di massa, sia di servizi che di beni materiali o immateriali, non solo non sono stati alla reale portata di tutti, ma anche là dove, pur in forme diverse, più ci si è avvicinati a tale obiettivo (Europa, USA, Giappone), tali valori paradigmatici e condivisi hanno mostrato la loro fragilità temporale, la loro vacuità e la loro sostanziale dannosità, ideologica e ambientale, trasformando un sorriso di rassegnata soddisfazione nel sogghigno squarciato del Joker.

In altre parole: i presupposti dell’espansione capitalistica e delle sue meraviglie sono venuti a mancare o, per lo meno, hanno mostrato non solo come queste fossero destinate ad una cerchia sempre più ristretta di investitori/sfruttatori, ma anche come tale gioco al rialzo (più investimenti, più produzione, più ricchezza per tutti, più investimenti, etc.) non fosse altro che un mantra ipnotico e devastante per la maggioranza della specie umana, sia in termini di realizzazione individuale che sociale.

Insomma se la visione socialista del mondo, sia nella sua variante socialdemocratica e riformista che in quella rivoluzionaria, è in qualche modo superata, lo è non perché è fallito il socialismo reale o perché una miriade di partiti e formazioni di sinistra ed ultra-sinistra è stata progressivamente sconfitta e/o riassorbita dall’avversario, ma piuttosto per il fatto che il loro presupposto storico-politico non si discostava troppo da quell’idea di progresso, di organizzazione politica partitica e di sviluppo che condivideva con il nemico a partire fin dall’Illuminsimo e dalle due grandi rivoluzioni del XVIII: quella francese e quella industriale. Progresso e sviluppo senza fine e al di là di ogni confine.

Che con la globalizzazione economico-finanziaria sembravano aver raggiunto il loro apice, ma che, con le attuali vittorie, per non dire trionfi, dei cosiddetti populismi dalla Brexit a Trump,1 vedono invece detonare tutte le loro contraddizioni in maniera asimmetrica e nel cuore del sistema. Movimenti sismici che sembrano trasmettere onde telluriche sempre più vicine e apparentemente imprevedibili, destinate a frantumare le certezze sia dei sostenitori dell’espansione basata sulla speculazione finanziaria e bancaria (da Renzi alla Clinton2) che di un antagonismo sociale talvolta ancora radicato in un immaginario politico che, come nel caso di “Born In The USA” di Springsteen per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti appena conclusasi, giova ormai di più alla causa della conservazione che a quella del superamento dell’attuale modo di produzione.

Per tutti questi motivi l’alterità irriducibile di un movimento come quello No Tav sviluppatosi nella e a partire dalla val di Susa, ormai da più di 25 anni, non può essere facilmente irreggimentata nelle interpretazioni classiche della sociologia e delle ideologie politiche. Infatti, anche se la componente anti-capitalista e ambientalista è sicuramente forte, è altrettanto vero che molti altri aspetti (locali, individuali, storici, geografici e culturali solo per ricordarne alcuni) concorrono a determinarne le caratteristiche e la combattività.

Non a caso due delle più recenti ed interessanti opere uscite nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicate una, quella di Meltemi, nella collana Biblioteca/Antropologia e l’altra, quella di Ombre Corte, nella nuova collana Etnografie. Scelte non tanto determinate dagli editori quanto dalle metodologie utilizzate e rivendicate dai due autori per analizzare la forza e la capacità di resistenza, sviluppo ed offensiva dimostrate dal tale movimento nel corso degli anni.

Entrambi i testi si pongono, infatti, in una dimensione altra rispetto alla semplice rievocazione dei fatti e delle lotte oppure della ricostruzione delle vicende politico-economiche che hanno portato alla scelta e all’autentica truffa della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci che proprio nella val di Susa doveva transitare.
Non siamo di fronte ad una semplice, per quanto ricca, oral history3 né, tanto meno, ad una appassionante ricostruzione della dialettica conflittuale venuta a realizzarsi tra lotte del Movimento e decisioni mafiose, imprenditoriali e governative.4

Una delle principali caratteristiche di tale movimento è infatti quella che vede, al di là delle simpatie e delle celebrazioni nei suoi confronti manifestatesi sia dentro che fuori i confini nazionali, il forte radicamento sociale e territoriale dei suoi militanti e delle loro ragioni porsi ben al di là dei normali limiti politici, sindacali, generazionali e di classe che hanno spesso determinato le caratteristiche dei movimenti del ’900.

Un movimento che non solo, come tutti i grandi rivolgimenti sociali della storia, ha prodotto una nuova cultura, nuovi valori, una nuova visione dei rapporti umani e politici, una nuova concezione di quelle che dovrebbero essere le scelte ambientali ed economiche, ma anche, e soprattutto, una irriducibile volontà di resistere per costruire una differente comunità umana.
Una comunità che oltre a riprendersi lo spazio intende, come afferma Wu Ming 1 in una delle più felici intuizioni del suo ultimo libro, riprendersi il tempo. Non poi, non dopo la fine della lotta e la vittoria, ma subito. Qui, ora e adesso. Dove spazio e tempo coincidono, come la fisica contemporanea ci ha da tempo avvisati.

fuori-dal-tunnel Come questo sia diventato possibile, nel corso dei venticinque anni di lotta in cui tale movimento si è dispiegato, non può essere soltanto una vecchia lettura politica a spiegarcelo; così l’antropologo Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, si sforza di penetrare il segreto di tale efficace resistenza creativa attraverso interviste e testimonianze raccolte sul campo che, più che elencare ancora una volta eventi e ragioni che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora la lotta, sono destinate a rivelarne l’intrinseca esperienza umana e comunitaria. Con i propri riti, le proprie narrazioni e le proprie riflessioni, individuali e collettive.

Scrive Aime: “A differenza dei movimenti di protesta del recente passato, quelli attuali non si costituiscono nella classica forma di partito, né cercano alleanze con i partiti esistenti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, vengono avversati dai partiti istituzionali, tanto di destra quanto di sinistra. E’ il caso del No-Tav, ma anche di altre realtà antagoniste simili.
Se in passato un movimento di protesta veniva in qualche modo accolto da una parte politica e le sue rivendicazioni trovavano una sponda istituzionale, oggi non è così o almeno non lo è nella stessa misura […] Destra e sinistra, conservatorismo e progressismo, sono divenuti leggere sfumature di un modello pressoché consolidato, fondato sul profitto, che richiede un consenso generale di chi governa e in cui etica, ideali e valori non trovano più spazio. Come non trova più spazio riconosciuto la communitas […] La communitas in quanto anti-struttura ha il fondamentale compito di fungere da contrappeso al modello dominante. Quando tale contrappeso viene a mancare, il rischio è un senso di soffocamento, di oppressione tipico di una realtà mono-dimensionale, che progressivamente si chiude su se stessa […]Il caso della valle di Susa diventa allora paradigmatico di una comunità che propone un’alternativa e che la difende per oltre venticinque anni contro un fronte istituzionale quasi unanime formato da forze politiche tradizionalmente rivali tra di loro, ma accomunate da una identica visione che privilegia lo “sviluppo” e l’economia letti in un’ottica macro rispetto alle esigenze locali. Visto in una cornice più ampia il movimento no-tav esprime un disagio piuttosto diffuso nei confronti di un modello economico sempre più dominato da interessi ristretti, da una sempre minore redistribuzione e da un sempre maggiore attacco all’ambiente. Un disagio che il movimento è riuscito a organizzare in protesta e in proposta.
” (pp. 285-290)

Ecco allora che il titolo del testo, Fuori dal tunnel, ci dice molto, perché qui non si tratta più di analizzare ciò che accade nello scavo e per la realizzazione della “Grande opera di importanza strategica” ma, piuttosto, la proposta di uscita dal tunnel senza sbocco in cui l’attuale modo di produzione si è infilato, abbagliato soltanto dalle logiche del profitto e del dominio incontrastato.
Fuori dal tunnel , però, anche per l’attenzione che la vita comunitaria del Movimento merita, così come la meritano le riflessioni dei suoi militanti.

Io sono passato dal considerare il nemico e il combattere noi contro di loro a combattere me stesso, sono o il nemico, perché con le mie scelte e abitudini ho contribuito a creare il tessuto sociale per questo mostro che è nato e vive di vita propria nella totale indifferenza delle popolazioni, a causa di milioni di persone che hanno comportamenti che favoreggiano questa cosa5

Più volte, nelle conversazioni con attivisti No-Tav delle manifestazioni, mi sono sentito dire rasi del tipo: «In fondo ci si diverte anche». E questa è un’altra cifra caratteristica di questo movimento ed è un ulteriore dato che conferma la dimensione di communitas, perché l’ironia è una delle forme di comunicazione tipiche delle antistrutture. Gli scherzi, le battute, il sarcasmo hanno l’effetto di sovvertire la struttura dominante delle idee. «Il riso e gli scherzi, attaccando la classificazione e la gerarchia, sono ovviamente simboli atti a esprimere la comunità nel senso di rapporti sociali non gerarchizzati e indifferenziati» scrive Mary Douglas.6 Insomma, il burlone alleggerisce per tutti l’oppressività della realtà sociale, facendo piazza pulita del formalismo in generale.” ( pag. 157)

Come anche la lotta condotta da alcuni militanti contro i provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti dalla Procura di Torino, e la vicenda di Nicoletta Dosio in particolare, ben testimoniano.
Rimane comunque il problema del tentativo in atto da parte delle istituzioni statali, forse unico nella storia delle lotte degli ultimi decenni in Italia, di criminalizzare un’intera comunità: quella della bassa val di Susa.

Osserva ancora Aime: ”Ogni conflitto nasce da una relazione ed è qui che nasce il pensiero relativista; dalla possibilità di conoscere ed eventualmente riconoscere la differenza. Laddove questo conflitto viene impedito o negato ci troviamo di fronte all’imposizione di un’unica verità dogmatica, che non prevede alternative, né spazi di traducibilità.
La mancanza di alternative possibili o ipotizzabili è a un tempo causa ed effetto di un’operazione di chiusura. Se ciò che pensiamo è il vero e l’assoluto, allora non esiste possibilità di declinarlo in altri modi, non sono possibili altri mondi, altre realtà. Pensando in questo modo, ci isoliamo da, impedendo l’accesso a chiunque sia portatore di cambiamento. Se poi quel qualcuno è tra noi, va espulso o messo a tacere.
” (pag.287)

cattivi-e-primitivi Proprio di questo aspetto repressivo di espulsione, reclusione e silenziamento del Movimento No Tav e dei suoi militanti si occupa invece il testo di Alessandro Senaldi edito da Ombre Corte. Ricercatore indipendente nel campo della sociologia della devianza e del mutamento sociale, impegnato nello studio criminologico dei movimenti sociali, l’autore, nell’affermare l’importanza scientifica del Movimento No Tav, dichiara che: “Il movimento in questione trova la sua particolarità nella sua storia e nei risultati raggiunti. Nato come movimento territoriale all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, ha saputo cambiare pelle con il mutare del tempo, adattandosi alle diverse fasi che la storia gli imponeva e bloccando, di fatto, la realizzazione dell’opera. Dopo venticinque anni dalla sua «fondazione» il dato che ci viene consegnato è quello di un movimento ancora in salute, che non ha pari nel nostro paese per costanza e quotidianità di iniziativa. Proprio la sua intergenerazionalità lo rende particolarmente interessante, in quanto, col tempo, ha assunto un ruolo totalizzante nel contesto valsusino, implementando una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie. Un movimento che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita dalla scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica.” (pp. 7-8)

Per questi motivi si rivela particolarmente utile l’uso del metodo etnografico, proprio per analizzare sia le strategie e i discorsi messi in atto dalla compagine istituzionale per realizzare l’opera e fronteggiare il movimento che vi si oppone sia quelle messe in atto dalla controparte.
L’etnografia per Senaldi è una necessità: “La scelta del metodo etnografico è stata una scelta «dovuta». Quest’ultimo ha infatti peculiarità proprie, che ben si prestano allo studio dei diversi temi affrontati nella ricerca. Inoltre consente di muoversi con una certa libertà all’interno delle maglie strette del paradigma scientifico, in quanto respinge la formulazione rigida e preconcetta di teorie e fa procedere queste ultime di pari passo con la ricerca; favorisce peraltro l’impiego di un approccio trans-disciplinare che abbatte i confini tra aree di conoscenza.” (pp. 8-9)

Scelta che deriva oltre che dal percorso biografico e dalla militanza pluriennale all’interno del movimento No Tav del ricercatore, anche dal fatto che, come già affermava Danilo Montaldi,7 nel metodo etnografico “è possibile ritrovare espliciti fini «etico-politici». Questo perché «gli angoli visuali incidono in modo detrminante sulla rappresentazione, sulla narrazione e sulla creazione stessa della realtà».8 Questa considerazione è ben riferibile al caso della vicenda Tav, in cui vi sono almeno due divisioni diverse della «realtà dei fatti»: quella narrata dai diversi livelli di potere e quella del movimento che si oppone alla realizzazione dell’opera. La scelta metodologica è quindi determinata dalla necessità di fare emergere il punto di vista del movimento No Tav, le sue pratiche, le sue rappresentazioni e narrazioni; oltre che dall’occasione di «documentare l’esperienza di soggetti sociali trascurati dalla storiografia e dalla ricerca sociale».9 In sostanza «dar voce a chi voce non ha»”. (pag. 9)

Anche nel caso del testo edito da Ombre Corte, il titolo è rivelatore: Cattivi e primitivi. Due termini che riassumono inequivocabilmente l’immagine che i fautori delle Grandi Opere vogliono dare di coloro che a tali opere si oppongono.
Cattivi perché dannosi per gli interessi della Nazione e primitivi perché inadeguati e impreparati per le meraviglie della modernità. Tutto sommato un giudizio che accomuna i valsusini, ma anche tutta la storia dei movimenti di classe e anti-sistemici più radicali, a tutti quei popoli espulsi dalla Storia con la violenza della modernità.

La Storia, lo si sa, la scrivono i “buoni” e i “progressisti”; gli altri resteranno sempre tra i popoli senza storia o tra i vinti perché cattivi o inutili. Ma ciò che ha funzionato per secoli non è detto che debba funzionare obbligatoriamente ancora in futuro. Il mantra del cambiamento istituzionale, dal “Sì” al Referenduma alla TAV, ormai traballa insieme a tutto il sistema che li ha ideati e non ancora prodotti, mentre la partita è ancora tutta da giocare. Però su un campo di gioco e con regole totalmente differenti, come potrebbero dire i killer di Pulp Fiction ideati da Quentin Tarantino.

La ricerca di Senaldi si riferisce, principalmente, ad un periodo di osservazione e partecipazione ad iniziative, eventi, vita quotidiana, lavori e pratiche giornaliere riconducibile all’estate del 2013.
La parte centrale del mio lavoro è rappresentato da interviste non strutturate. Più precisamente ho raccolto delle «interviste in profondità» che cercavano di indagare la ricostruzione che gli attivisti danno dei dispositivi di controllo implementati, le dimensioni motivazionali e i mutamenti biografici e relazionali delle persone che partecipano alla lotta.” (pp. 9-10)

Grazie a tale metodo, ne deriva un coro di voci anonime, ma autentiche che delineano collettivamente le scelte, i discorsi e le strategie del movimento nel suo insieme. Fungendo così da perfetto contraltare al discorso e alle pratiche repressive istituzionali.
Non ci sono categorie di No Tav che non siano soggetti a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri. Durante la mia permanenza ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo «Cattolici della Valle», che, ridendo, mi hanno fatto notare come, essendo quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. Qui […] pur essendo mantenute – soprattutto dal punto di vista pubblico – le pratiche discorsive di discernimento tra «buoni» e «cattivi», si assiste tuttavia a un evidente cortocircuito nel rapporto tra queste ultime e le pratiche del controllo poliziesco. Sarebbe a dirsi che nell’attacco a tutto campo delle tattiche antagoniste in questione, ritroviamo nuovamente la volontà di applicare una reductio ad unum del controllo ed estendere così lo status di non cittadini.” (pag.127)

Si dimostra in tal modo perché, così come gli antropologi che compiono ricerche sul campo in ambienti lontani dalle pratiche del mondo civilizzato oppure da quest’ultimo relegati al di fuori della legalità e del suo riconoscimento giuridico devono fare, oggi chi si occupa di lotte realmente antagoniste è altrettanto costretto a studiare il suo soggetto come “altro” dalla società che lo ha prodotto e che pur combatte, riportando il discorso su quella irriducibile, e andrebbe aggiunto inevitabile, alterità di cui si è parlato all’inizio di questa lunga recensione.

Alterità che, nonostante gli sforzi dello Stato e dei suoi galoppini mediatici ed ideologici, non può e non vuole essere relegata in una sorta di “riserva indiana”, come forse anche qualche benpensante democratico vorrebbe intendere la lotta No Tav nel suo contesto. Anche perché, nonostante gli sforzi imponenti, “Anche sul versante giuridico, come su tutti gli altri livelli, il dispositivo sembra però in affanno. La sensazione è che la compagine istituzionale stia, rispetto ai soli confini geografici della Valle, tentando l’applicazione casuale dei dispositivi di controllo disponibili, attraverso un procedimento che potremmo definire di «trial and error». Un procedimento per il quale – anche a seconda delle fasi evolutive della lotta – gli attori preposti al governo della popolazione e al suo controllo affiancano ai dispositivi volti al disciplinamento (accumulando saper sulla società) quelli miranti alla neutralizzazione e all’espulsione dei non cittadini, insieme a tattiche di polizia e giudiziarie che puntano invece alla deterrenza. Questo affanno, questo tentativo di usare tutti i mezzi possibili dimostra la difficoltà che la compagine istituzionale avverte nel controllare e leggere la conflittualità sociale.” (pag. 160) Che, aggiungerei, non vuole e non sa più leggere finendo col credere soltanto più nel proprio discorso: farsesco e fuorviante allo stesso tempo.

contrees Due ottimi libri, interessanti e documentatissimi, per comprendere e andare oltre le letture ormai “istituzionalizzate” di uno dei movimenti più vivaci ed innovativi della realtà europea contemporanea. Mi permetto però, e soltanto a questo punto, di suggerire che, per capire a fondo le trasformazioni in atto nelle lotte più significative, sarebbe necessario anche la traduzione in lingua italiana dell’inchiesta parallela condotta attraverso cinquanta interviste a militanti NO Tav italiani e ad altri cinquanta militanti francesi della Zad di Notre-Dame-des-Landes, prodotta ed edita dalle compagne e dai compagni del Colletivo Mauvaise Troupe: Contrées. Histoire croisées dela zad et de la lutte No TAV dans la Val Susa, Éditions de l’éclat 2016, pp.412


  1. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

  2. Sulla scarsa credibilità elettorale e sull’inevitabile sconfitta della candidata democratica si veda ancora il mio https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  3. Come quella già efficacemente prodotta a cura del Centro sociale Askatasuna: A sarà düra! Storie di vita e di militanza no tav, DeriveApprodi 2013  

  4. Come nel caso dell’ultimo testo di Wu Ming 1, Un viaggio che non promettiamo breve, Einaudi Stile Libero 2016  

  5. cit . in Aime, pp. 205-206  

  6. M. Douglas, Antropologia e simbolismo, il Mulino, Bologna 1985, pp. 76, 88  

  7. D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971  

  8. Gianfranco Carofiglio, L’arte del dubbio, Sellerio Editore 2007, pag. 15  

  9. Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza 2002, pag.XXXII  

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Dove la terra scotta: intervista a Mauro Gervasini https://www.carmillaonline.com/2016/03/24/29105/ Thu, 24 Mar 2016 21:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29105 di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto? Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel [...]]]> di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto?
Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel cinema col coltello tra i denti, fatto con budget risicati ma che era la palestra e il luogo della sperimentazione per un sacco di registi… ecco, quello oggi lo trovi nelle serie televisive, meno sul grande schermo.
Per il poliziesco il problema è cominciato negli anni Ottanta. Se penso a cos’è stato il poliziesco negli anni Settanta, c’è da mettersi le mani nei capelli. Vale anche per la fantascienza… forse l’unico genere cinematografico che può permettersi qualche sperimentazione è l’horror, che ha un andamento ciclico: l’horror estremo intanto non può andare in televisione. Poi in questi anni c’è stato un boom di certo horror francese, titoli come Martyrs, a Frontiere(s), tutti film abbastanza tosti… e devo dire che mi capita ogni anno – soprattutto grazie al festival di Torino – di vedere due o tre film horror che mi fanno alzare un sopracciglio… penso a Babadook o allo strepitoso It Follows, grandissimo.
Essendo un genere antitelevisivo, ecco, l’horror resiste. Certo, poi in tivù ci sono The Walking Dead o The Strain di Guillermo Del Toro, ma questo mi pare un genere che ha ancora cartucce da sparare e che non è stato ancora dissanguato. In crisi, invece, è – come dicevo – il poliziesco americano. Per fortuna che c’è ancora il noir francese, che ha una sua dignità e distinzione rispetto al genere televisivo. Un film come Le resistance de l’air è un ottimo polar, fatto e finito.
Il problema vero è che Hollywood lavora moltissimo sui brand consolidati. Adesso avremo un nuovo Alien. Una saga che ha 35 anni… cosa si può aggiungere di nuovo, a quel film?

Dicevi della tivù: ecco, possiamo considerare le serie televisive una nuova forma di racconto cinematografico?
Assolutamente no! Sono una cosa diversa, e vanno valutata per quel che sono: un campo da gioco differente con linguaggio e regole differenti. Ce ne sono di strepitose e anche di bruttissime ma insomma reputo fuorviante e anche un po’ pretestuoso questo dibattito sulle serie che stanno soppiantando il cinema.
C’è piuttosto un discorso da fare sul cinema americano che sta vivendo una profonda crisi identitaria, dovuta appunto al fatto che molti generi che erano tipicamente hollywoodiani sono stati demandati a una produzione di tipo televisivo, ma questo è ben diverso dal dire che le serie tv sono il nuovo cinema.

Presenza di ganci narrativi a profusione, trame orizzontali distese, ritmo continuo… la tivù sta cambiando comunque il linguaggio a cui siamo abituati? E cambierà anche come raccontare sul grande schermo?
I linguaggi sono diversi ma naturalmente si compenetrano e dal punto di vista narrativo ci sono stati sicuramente nuovi stimoli. Più che altro sono e saranno una componente sperimentale. Perché le serie hanno nella sceneggiatura il vero punto di forza.
Prendiamo i Soprano – la serie che io ho preferito: ricordo delle sequenze strepitose, ma è il testo la cosa più sconvolgente, l’elaborazione narrativa… Se vogliamo da questo punto di vista c’è un rapporto molto stretto tra cinema e tv, e penso al lavoro di Aaron Sorkin, però qual è la differenza? Nelle serie di David Chase ogni puntata viene diretta da un regista diverso, ma la serie rimane di David Chase.
The Social Network e Steve Jobs, sono due film interamente scritti da Aaron Sorkin ma il primo, girato da David Fincher, è un gran film, mentre il secondo asseconda in modo più fedele Sorkin e dal punto di vista cinematografico è molto meno interessante.

Anche dall’altra parte dello schermo sta cambiando la percezione: si vedono sempre più film in televisione, sul computer, sui tablet. Come crescono le nuove generazioni di spettatori?
Allora, bisogna stare attenti ai luoghi comuni: la maggior parte degli spettatori che si recano al cinema, in sala, ha meno di 25 anni. Il vero problema è la generazione dai 40 anni in su, che si è impigrita.
Il pubblico di massa più giovane comporta anche il successo di un cinema tagliato su quel gusto. Fa fatica il cinema più classico, più adulto e che magari ha una seconda vita in sale d’essai, nei cineforum… la filiera è lunga, per fortuna.
18655Il consumo su piccolo schermo ha certamente portato a una minore attenzione a quello su schermo grande ma è un problema antico. Da spettatore, io ricordo molto di più un film visto al cinema di uno in tivù, ed è raro che mi appassioni a un film visto in televisione – a meno che non sia un classico che magari non posso rivedere su grande schermo, con rammarico.
Ti faccio un esempio: Dove la terra scotta, è un cinemascope di Anthony Mann del 1958. L’ho visto su un 32” con un dvd che rispettava la ratio, un’ottima edizione. Ecco: è un capolavoro di cui mi rimarrà però il dispiacere di non averlo visto proiettato.
Prendi poi l’ultimo Tarantino: è un 70 mm – che non è un formato, attenzione – e se non lo vedi nelle condizioni giuste perdi tutto il lavoro sulla profondità che quella definizione consente…

Come ha reagito il cinema italiano in questi ultimi anni: la crisi ha attivato energie? O date mazzate finali?
Allora: nel 2013 ho fatto un gioco in cui ho chiamato i lettori di FilmTv a votare il loro film italiano preferito dal 2000 in poi. Poi ho ripetuto questo gioco negli anni successivi su altri temi, ma la partecipazione sul cinema italiano è stata veramente straordinaria. Attenzione: chiedevo non solo un voto, serviva anche un testo breve. Il film più votato dei primi 12 anni del secolo è stato Le conseguenze dell’amore di Sorrentino, del 2004; il secondo più votato è stato Pane e tulipani di Soldini, del 2001, con uno scarto veramente minimo. Guarda caso film d’inizio millennio. Pochissimi i film recenti. Forse non rappresenta nulla ma credo che il cinema italiano abbia avuto una forte crisi nei primi anni del Duemila, crisi da cui credo stiamo uscendo solo adesso. C’è grande fermento e disordine. Si continua a fare cinema d’autore e negli ultimi 3, 4 anni, un documentario come Sacro GRA ha incassato più di un milione di euro. Ha vinto a Venezia, certo, ma non è così automatico che questo significhi incassi sicuri. E, ripeto, è un documentario.
Il giovane favoloso, su Leopardi, ha avuto un successo di pubblico inatteso per un film con quella difficoltà, se vuoi.
E secondo me c’è un fermento anche nel cinema più popolare. Penso a Smetto quando voglio, che è una commedia intelligente lontano dalla piattezza di altre commedie banali, piatte. Sono segnali disordinati, frammentati – quest’anno ci sono le sorprese di Lo chiamavano Jeeg Robot o Perfetti sconosciuti – ma, forse anche grazie al successo internazionale di film come La grande Bellezza, c’è finalmente un’attenzione diversa nei confronti del nostro cinema.

FilmTv 2013-39Senti, come sei arrivato alla direzione di FilmTV?
Io ho collaborato a FilmTV nelle sue varie fasi, dal 1998: ero un collaboratore con intensità variabile! Poi tre anni fa mi hanno fatto la proposta di diventare direttore e mi sono resettato nei confronti del giornale: ho dovuto reinventarmi perché la responsabilità e le mansioni sono chiaramente diverse.

E lo hai cambiato molto, FilmTV?
L’ho cambiato, sì. Il mandato era di non stravolgerlo: FilmTV vive di uno zoccolo duro molto fedele, affezionato e consolidato che non avrebbe apprezzato delle rivoluzioni strutturali esagerate, per cui l’ho cambiato un po’ secondo i miei gusti e la mia idea di giornale. Credo anche di averlo semplificato, spero nella migliore accezione del termine.
Noi purtroppo non riusciamo a fare abbonamenti fisici, solo digitali – in crescita, molto – comunque vendiamo tra le venti e le venticinquemila copie settimanali, certificate ADS.

Il web è pieno di appassionati che scrivono di cinema: questi contributi influiscono sul lavoro critico più ufficiale?
Io li chiamo – rubando la definizione a qualcuno che non ricordo! – i cosiddetti saccopelisti della critica, nel senso che purtroppo hanno contribuito a rendere meno autorevole chi scrive di cinema e non lo fa solo a scopo informativo ma anche per fare analisi e critica. Purtroppo è diventata dominante soltanto la cosiddetta “critica impressionista” con questa brevità imposta dai social network, magari con toni accesi, ed è la morte del ragionamento.
Dire se un film sembra bello o sembra brutto è veramente il campo della soggettività più assoluta. Più che critici si diventa tifosi: pensa a La grande bellezza, che sui social è stato visto – e commentato – come una partita di calcio…

Mi stai facendo venire grandi sensi di colpa per le cose che pubblico su Carmilla!
Ah ah! È colpa del Cacace!

Ultima cosa: per una serata ideale, cosa ti regali al cinema?
Ah, non si scappa: I cancelli del cielo… ma oggi voglio consigliare Dove la terra scotta di Mann: recuperatelo, è fantastico!

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The Hateful Height, di Quentin Tarantino – rien ne va plus https://www.carmillaonline.com/2016/02/10/the-hateful-height-di-quentin-tarantino-rien-ne-va-plus/ Tue, 09 Feb 2016 23:09:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28513 di Mauro Baldrati

Tarantino_HatefulDunque venerdì 6 febbraio decidiamo di andare al cinema. C’è Tarantino, finalmente. In tempi di siccità, di carestia, di cavallette, l’uscita del n. 8 di Quentin rischia di essere un evento. Ci sono sentimenti contrastanti comunque. Come una predisposizione negativa.

Primo problema preventivo: la sala. E’ uscito da un giorno, per cui immagino una lunga fila alla cassa, e il cinema gremito, con la peste bubbonica degli adolescenti. Non stanno mai zitti, e accendono di continuo i cellulari. A nulla serve dirglielo educatamente: l’interpellato la smette per un po’, ma [...]]]> di Mauro Baldrati

Tarantino_HatefulDunque venerdì 6 febbraio decidiamo di andare al cinema. C’è Tarantino, finalmente. In tempi di siccità, di carestia, di cavallette, l’uscita del n. 8 di Quentin rischia di essere un evento.
Ci sono sentimenti contrastanti comunque. Come una predisposizione negativa.

Primo problema preventivo: la sala. E’ uscito da un giorno, per cui immagino una lunga fila alla cassa, e il cinema gremito, con la peste bubbonica degli adolescenti. Non stanno mai zitti, e accendono di continuo i cellulari. A nulla serve dirglielo educatamente: l’interpellato la smette per un po’, ma ce ne sono altri cinqunta.

E poi il secondo, preoccupante quasi quanto il primo: il coro. Ho già verificato con assoluta certezza che quando i media si mettono a gridare al capolavoro, con un abuso imbarazzante di aggettivi superlativi, c’è qualcosa che non va. C’è sotto il trucco. E con The Hateful Eight non ci sono andati leggeri. Il film più nichilista, più politico di Tarantino. Ma com’è possibile? O è nichilista o è politico. Cinefilia allo stato puro, con almeno cinque modelli, spaghetti western a gogo, De Palma e il sommo La Cosa di Carpenter. E lo splendore del 70 millimetri, che pochissimi vedranno, non essendo le sale italiane attrezzate coi proiettori giusti. Tra l’altro qui a Bologna c’è una delle 3 sale nazionali che lo proiettano con quel formato, ma chi è riuscito a trovare i biglietti ha riferito che si vede male. E poi l’unione della politica con Hollywood, un concetto assai impegnativo, buttato li senza tanti complimenti. E infine il trailer, non so perché poco appetibile, con l’ennesimo doppiaggio di Francesco Pannofino, uno bravo, niente da dire, ma onnipresente, secondo la sindrome incurabile italiana dell’omologazione ossessiva.

Insomma, sentimenti contrastanti: Quentin, ormai sei rimasto solo tu, tutti gli altri sono morti, o vecchi, o dimenticati. Se anche tu deludi, cosa resterà? E’ una enorme responsabilità, lo so, ma sei uno degli ultimi eroi, non tirarti indietro. Soffri, per essere creativo. E’ così che deve essere. E’ dalle ferite che sgorga il coraggio. Non dal mestiere. Soffri per tutti noi.

Beh, come forse si sarà capito da questa introduzione le previsioni negative non si sono avverate. Talvolta succede. Il segreto sta anche nel non crederci veramente. Se ci credi, le chiami. E questo, dicono, vale anche per quelle positive. Se ci credi, andrà bene.

Per cui, non si sono avverate.
Almeno per quanto riguarda la sala.

Non era particolarmente affollata. Ci siamo piazzati in penultima, perché l’ultima era parzialmente occupata da coppie di mezza età, meravigseliosamente posate, e addirittura alcuni single. Tutta gente tranquilla, che non divora enormi secchi di pop corn. E il resto non era occupata solo da barbari. Studenti, magari del DAMS, ragazzi e ragazze in gamba.

Finalmente, dopo un delirio di pubblicità e trailer di film inverosimili, roba urlata istericamente che uno si chiede: ma com’è possibile che ci siano degli italiani che escono di casa per andare a vedere questa roba? il nostro film è iniziato.

E qui mi si permetta di saltare direttamente alla fine. Vale a dire non al finale, perché in realtà il film non ha finale, ma alla sintesi. Si è detto dei riferimenti cinefili a questo e a quello, ma la questione è molto più semplice. Tarantino ha rifatte Le Jene in chiave western. Certo, La Cosa viene in mente, con quella situazione asfittica di tutti contro tutti, ma il copione sembra davvero una riscrittura del suo primo film. Per dire, dopo un inizio che lo spettatore ben disposto ritiene di buon auspicio (perché in definitiva, dopo la sofferenza della pubblicità, la speranza regna sovrana e spazza via le previsioni negative), un paesaggio del Wyoming innevato, una diligenza che arranca, inseguita dalla bufera, appaiono i primi personaggi. Parte una sequenza di dialoghi serrati, di pura chimica tarantiniana, con Pannofino (Kurt Russell) che imperversa, una mitragliata di parole, domande e battute, che si protrae per un’ora a mezza, senza che accada nient’altro. Cioè, dopo qualche passaggio per sentieri innevati, la vicenda si rinchiude subito in un emporio isolato, dove arrivano anche gli altri personaggi. Sono tutti uomini a parte una donna (e una comparsa che spunta fuori verso la fine, la proprietaria dell’emporio), prigioniera di Kurt Russel, un bounty killer detto “Il Boia” che deve condurla a Red Rock, dove sarà impiccata per rapine e omicidio.

Qui Tarantino ci mette tutto il mestiere, e gli attori pure, ma Le Jene era una novità assoluta, non si era mai visto nulla di simile; oggi, 24 anni dopo, la cosa diventa abbastanza pesante. E i riferimenti dei personaggi ai loro interlocutori, la messa in dubbio continua della loro identità, il sospetto che dovrebbe serpeggiare, si perdono nella massa densa del parlato, fino a fare sprofondare lo spettatore in uno stato semi-catatonico. Quando le luci si accendono per l’intervallo ci chiediamo: Cristo, ma non sarà tutto così?

La ripresa si movimenta, per fortuna, esplode quella violenza di cui si è tanto parlato, con qualche incursione nello splatter, e lo spettatore appassionato di cinematografia nera, di horror, viene in parte risarcito. Ma quando finisce, o meglio, non finisce, resta un senso di insoddisfazione, come di inutilità, di violenza compiaciuta, una sottile linea d’ombra che Tarantino aveva sempre evitato di oltrepassare. Django era violento, ma era la violenza “santa” del bambino assetato di giustizia che punisce i cattivi senza pietà, perché il bambino è spietato, nei suoi giochi, e vede tutto nitido, bianco, nero, bene e male. Qui invece non ci sono scelte, non c’è gioco. Quando i due, gli ultimi, assistono a una impiccagione e ridono soddisfatti, nel contemplare la vita che lascia lentamente la vittima, ripresa in primo piano, non vi è alcun riscatto né politico né estetico, ma solo una forma di voyeurismo macabro.

Ma c’è un altro aspetto che lascia stupiti: la donna. In Tarantino, come nel suo amico Rodriguez, la donna è una eroina, rappresentata con toni persino fumettistici, epici, una combattente per la liberta’. Ricordiamo la donna di Kill Bill: una guerriera samurai, ammantata di sacro. Qui l’unica donna, per quanto sia una criminale, è oggetto di ogni genere di vessazione: massacrata a pugni e calci dal Boia, umiliata dallo stufato lanciato in faccia, apostrofata da tutti unicamente con gli epiteti “puttana” e “bagascia”. Non si vuole giudicare il film con criteri trinariciuti o moralisti, ma davvero sembra di assistere a una involuzione, a una caduta di stile e di contenuti.

In conclusione, mettiamo pure che i riferimenti cinefili ci siano tutti, ma in fondo chi se ne frega? Sembra di essere nell’era del vinyle, quando certi fissati ascoltavano il loro impianto stereo, e si beavano dei bassi, dell’effetto presenza, della potenza delle casse.

Ma l’impianto non era che un mezzo, uno strumento.
Era la musica che contava.
Solo la musica.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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