Qualcosa là fuori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’uomo, l’ambiente e la letteratura. Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura https://www.carmillaonline.com/2018/03/01/luomo-lambiente-e-la-letteratura-le-relazioni-narrative-fra-ecologia-e-letteratura/ Thu, 01 Mar 2018 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43990 di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le [...]]]> di Paolo Lago

Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00

Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le sue memorie, gli alberi non ci sono più o si sono drasticamente ridotti: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure» (I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano, 2003, p. 303). Dopo la morte di Cosimo, il ragazzo e poi l’uomo che ha vissuto sugli alberi, gli stessi alberi sembrano non aver resistito, sono morti, sono stati tagliati. Il «barone rampante», infatti, era stato un po’ un simbolo della sinergia uomo-natura: come nota Gregory Bateson, almeno a partire dal XVIII secolo, si è creata una profonda frattura fra coscienza individuale umana e natura. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda del romanzo di Calvino si ambienti proprio nel Settecento, quell’epoca dei lumi in cui tale frattura ha iniziato a prodursi. Cosimo, diverso da tutti, è l’uomo che va in direzione opposta, che ‘ritorna’ alla natura. Bisogna inoltre ricordare che il romanzo è del 1957, in un periodo in cui l’Italia stava inesorabilmente e rapidamente mutando sotto la spinta del benessere e delle ricostruzioni postbelliche, e la penna di Calvino non è certo immune da uno spirito di denuncia nei confronti della società contemporanea, denuncia un po’ nascosta sotto il piglio fiabesco della narrazione.

Adesso, a schiarirmi le idee c’è un interessante e rigoroso saggio di Niccolò Scaffai che illumina in modo adeguato le complesse relazioni fra ecologia e letteratura, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, uscito recentemente per Carocci. Come spiega l’autore nell’introduzione, uno degli intenti principali del libro è quello di porre «al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione» (p. 14). Un importante dispositivo è, ad esempio, lo straniamento: per illustrare i danni prodotti dall’inquinamento sull’ambiente, un autore può farci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane facendocele osservare dalla prospettiva di altri esseri, animali o creature fantastiche. Dispiegando su letteratura e ecologia uno sguardo comparatistico, Scaffai sottolinea dunque l’importanza, fra gli studi culturali, dell’ecocriticism, disciplina che, da una parte, interpreta la relazione tra uomo e natura presente in un testo, dall’altra tende a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione per la coscienza ambientale. Basti pensare alla letteratura americana: opere importanti in questo senso sono Foglie d’erba (1855-92) di Walt Whitman o Walden ovvero Vita nei boschi (1854) di Henry D. Thoreau. All’interno della cultura americana, infatti, è presente in profondità l’aspirazione alla vita in una natura incontaminata, la wilderness. Un autore americano contemporaneo in cui è presente una forte componente ecologica è poi Jonathan Franzen, in cui grande rilievo ha l’esperienza stessa della natura. Ad esempio in Libertà (2010), la coppia protagonista, appartenente alla classe borghese, decide di trasferirsi in una località a diretto contatto con la natura all’insegna della riscoperta dei valori fondamentali, sulla scia del grande archetipo thoreauviano. La critica ecologia può poi fondersi con la geocritica, la quale studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. Ogni ambiente è infatti prima di tutto uno spazio e, come scrive il maggior esponente della geocritica, Bertrand Westphal, un punto d’incontro fra spazio e ambiente può essere intravisto nel momento in cui entrano in sinergia la «cultura guardata» e la «cultura guardante», in modo da creare uno spazio coabitato da una multifocalità di prospettiva.

La natura è poi presente all’interno della letteratura sotto forma di diversi topoi, come ad esempio il locus amoenus. Quest’ultimo è uno spazio caratterizzato da una vegetazione fresca e ombrosa, un corso d’acqua, il tutto attraversato da una leggera brezza e dal canto degli uccelli. Il locus amoenus è presente in tantissime opere della letteratura classica e medievale: in Virgilio, ad esempio, il paesaggio ben regolato assume quasi il simbolo del buon governo, all’interno di un gioco di metafore assai presente non solo nelle letterature classiche. Un altro importante topos è quello della primavera, connotato contemporaneamente da angoscia e bellezza, il quale vede la sua più importante presenza nelle letterature romanze. Se la natura si risveglia in aprile (il mese “che apre”), spesso e volentieri il poeta è angosciato e soffre per le pene d’amore infertegli da una insensibile dama. Si tratta comunque di una rappresentazione topica di lunga durata, se esso è presente, mutando nella forma, in poeti contemporanei come Montale, Pasolini o Zanzotto. Ad esempio, L’arca di Montale si apre con l’immagine di una tempesta – una vera e propria catastrofe atmosferica – la quale «ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile». In Pasolini, invece, la primavera assume connotazioni dolorose soprattutto per la lontananza della persona amata, soprattutto nelle giovanili poesie in friulano e ne L’usignolo della chiesa cattolica. In Zanzotto, lo spazio del locus amoenus diviene poi lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco).

Un capitolo del saggio di Scaffai è successivamente dedicato alla letteratura distopica e al tema dell’apocalisse. Quest’ultima è rappresentata in moltissimi romanzi contemporanei come un disastro ecologico che colpisce la terra, mentre gli esseri umani superstiti sono costretti a muoversi in uno spazio devastato e contaminato. Un genere contemporaneo in cui letteratura e ecologia entrano in stretta correlazione è l’ecothriller: «Il protagonista di un eco thriller, spesso un giornalista o uno scienziato (talvolta una coppia, in cui uno dei due personaggi, per lo più quello femminile, ha lo scontato ruolo di deuteragonista) deve fronteggiare e possibilmente sventare un’emergenza biologica e ambientale, scatenata, favorita o sfruttata da un antagonista (un’associazione segreta o semplicemente criminale)» (p. 114).

Un importante tema che attraversa la relazione fra letteratura e ecologia è poi quello dei rifiuti, intesi come oggetto di straniamento che porta a concepire l’esistente in forma di spazzatura. Ad esempio, in un romanzo in cui la tematizzazione dei rifiuti assume un ruolo preponderante, Underworld (1997) di Don DeLillo, il protagonista percepisce ogni oggetto, anche nuovo, «in termini di spazzatura», mentre quest’ultima assume connotazioni sacre e quasi feticistiche. Nella pièce teatrale di Daniel Pennac, Il sesto continente (2012), un personaggio intende trasformare la famigerata, gigantesca «isola dei rifiuti», (realmente esistente, individuata nell’Oceano Pacifico e composta per l’ottanta per cento da materiale plastico) in una attrazione turistica organizzando delle crociere. Essa viene così offerta al voyeurismo di massa dei croceristi, «testimoni di un “naufragio” ecologico di cui sono responsabili e vittime, oltre che spettatori» (p. 142). Anche Italo Calvino, ne Le città invisibili (1972), tematizza l’invasione della spazzatura all’interno dello spazio cittadino, anche stavolta con uno spirito di denuncia: come egli stesso scrive a proposito del libro, «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».

Nel Novecento letterario italiano un autore che ha affrontato da vicino tematiche ecologiche è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Oltre ad aver rappresentato poeticamente la trasformazione dell’Italia, anche in termini ecologici (basti ricordare il «pianto della scavatrice», nell’omonima poesia delle Ceneri di Gramsci, in cui la scavatrice ‘urla’ di dolore devastando i prati per la costruzione di nuovi quartieri di periferia, oppure la descrizione delle ‘devastate’ periferie romane nel postumo e incompiuto Petrolio), Pasolini, in un celebre articolo degli Scritti corsari, utilizza la metafora della «scomparsa delle lucciole» per indicare il mutamento del potere in Italia. Il potere che spadroneggia dopo la «scomparsa delle lucciole» è quello dei nuovi consumi, un regime forse più terribile di quello fascista, irreggimentatosi con il tacito consenso della classe politica democristiana degli anni Sessanta e Settanta.

Anche Paolo Volponi possiede uno spiccato sguardo ‘ecologico’, soprattutto ne Il Pianeta irritabile (1978), in cui è evidente il richiamo di scrittori come Huxley, Orwell, Asimov e Bradbury. La vicenda del romanzo si svolge a partire dall’anno 2293 nel territorio marchigiano caro all’autore ma il paesaggio è ormai irriconoscibile poiché il mondo è stato devastato da una grande esplosione atomica. I protagonisti di questa sorta di favola ecologica sono un babbuino, un’oca ammaestrata, un elefante e un nano. Quest’ultimo, l’unico umano del gruppo, si convertirà verso l’animalità rinunciando al linguaggio e estraniando in questo modo la dimensione umana da una natura che proprio dall’uomo era stata devastata.

Anche nei risvolti più contemporanei del romanzo italiano – ai quali è dedicato l’ultimo capitolo del ricco saggio di Scaffai – è possibile incontrare tematiche ecologiche. Ad esempio, in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, in cui il ‘ritorno’ alla natura dei protagonisti è oscurato dalla violazione e dai gravi danni inferti al territorio da parte del proprietario della casa che essi vogliono acquistare. Fra recenti esempi di fiction distopica si può invece ricordare Sirene (2007) di Laura Pugno, in cui la razza umana è costretta a rifugiarsi sott’acqua per sfuggire alle radiazioni solari che provocano terribili cancri alla pelle, o Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante, in cui in un futuro imprecisato, dopo la «sciagura» provocata forse da una grave crisi economica, quello che resta dell’umanità deve rifugiarsi in sperdute e incontaminate valli alpine o, ancora, Qualcosa là fuori (2016) di Bruno Arpaia, che racconta una Italia del futuro devastata apocalitticamente dal surriscaldamento globale.

Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura continuano perciò anche nella contemporaneità, anzi, sembra che si stiano intensificando sempre di più. E questo non può essere che un bene perché la letteratura, sfoderando la propria vocazione fantastica, onirica e visionaria forse riesce gradualmente a ricucire la frattura di matrice illuministica e tecnica creatasi fra coscienza umana e natura e a migliorare la vita in comune degli individui ricreando nuove e inedite relazioni d’amore fra di esse. Perché, come scrive Giorgio Caproni in Versicoli quasi ecologici, se «l’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore», dove ricomincia l’erba e l’acqua rinasce, l’amore ricomincia.

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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