Quaderni Piacentini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La classe operaia che non volle farsi Stato: Linea di condotta https://www.carmillaonline.com/2020/04/06/la-classe-operaia-che-non-volle-farsi-stato-linea-di-condotta/ Mon, 06 Apr 2020 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59202 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro

“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)

Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro

“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)

Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema Kalogero, tornare a parlare di un’opera giunta alla sua terza edizione. A quattro anni dalla seconda (2016) e a dodici dalla prima (2008). Un’opera, quella di Emilio Quadrelli, che non soltanto ripercorre la storia dell’autonomia operaia italiana, dai primi anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, a partire dal conflitto e dall’iniziativa di classe che la fondarono e le diedero le gambe su cui marciare, ma che, in questa nuova edizione, aggiunge un dato di tutto rispetto: la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta uscito nel 1975, accompagnata da un’esauriente Introduzione a cura dello stesso Quadrelli.

Una rivista uscita in numero unico, con datazione di copertina luglio-ottobre 1975, che avrebbe preceduto di poco «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti», uscito poi in nove numeri tra l’autunno di quello stesso anno e il settembre del 1977, di cui si è occupato recentemente sempre Emilio Quadrelli per Red Star Press (qui) proprio per riportare alla luce un’esperienza di analisi e pratica politica militante troppo a lungo rimossa dalla ‘storia ufficiale’ di ciò che è entrato nella memoria collettivaa come Autonomia Operaia.

Azzeccatissimo appare subito il titolo del primo paragrafo dell’introduzione alla rivista, Fuori dalle linee, proprio perché quel numero unico oltre che allontanarsi dal discorso marxista o marxista-leninista imbalsamato nelle varie forme dei gruppuscoli e dei partiti, grandi o piccoli, che ancora a tali esperienze formali si richiamavano, così come l’esperienza dell’Autonomia Operaia aveva già messo in pratica, prendeva anche le distanze dalla stessa Autonomia così come si era andata definendo, organizzativamente e politicamente, in un contesto in cui le formulazioni dei più importanti intellettuali di quell’area e la pratica posta in essere si sarebbe allontanata sempre più dalla centralità dell’azione operaia opponendo a questa la ricerca di un nuovo, e mai completamente definito, soggetto politico.

Se gran parte dell’esperienza e del nuovo programma politico espresso dall’autonomia, così come si era andata formando intorno alla rivista Rosso, derivavano dall’esperienza già ‘eretica’ di Potere Operaio, Linea di condotta e, successivamente, Senza tregua avrebbero aggiunto a questa l’esperienza dei militanti fuorusciti da Lotta Continua dopo la svolta capitolarda, istituzionalizzante e filo-PCI della sua direzione proprio nel 1975 e che avrebbe portato al definitivo scioglimento di quell’organizzazione, avvenuto nel contesto del congresso di Rimini, nell’autunno del 1976. Proprio quel congresso che il leader di quella formazione ormai allo sbando avrebbe aperto con parole involontariamente profetiche: C’è stato un terremoto…

Entrambe le esperienze, quella di Rosso e di Linea di condotta, affondavano le loro radici in un rifiuto del lavoro salariato che all’interno delle frange più avanzate della classe operaia di fabbrica si era andato accompagnando al rifiuto di farsi Stato, così come invece proponevano il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, il partito che continuava a definirsi come il più grande partito comunista dell’Occidente e la CGIL, nel tentativo di separare non solo la classe dalle sue avanguardie più combattive, ma anche da una critica radicale delle condizioni di lavoro, produzione e riproduzione della vita che si era manifestata in maniera sempre più ampia e decisa non soltanto nel pensiero critico degli intellettuali militanti che avevano dato vita alle riviste più importanti degli anni Sessanta (Quaderni rossi, Classe operaia, Classe, Quaderni piacentini), ma che proprio a partire dalle manifestazioni di piazza e nelle lotte di fabbrica degli operai, da piazza Statuto in avanti, aveva trovato le gambe su cui marciare.

Veniva così nettamente alla luce uno scontro, voluto e gestito da una sinistra istituzionale sempre più coinvolta nella gestione dell’economia, della società e dell’ordine pubblico, in nome di un superiore interesse nazionale, destinato non solo a dividere la classe al suo interno e davanti al nemico, ma anche e soprattutto in nome di una presunta oggettività economicistica di ispirazione marxista, destinata a privare la classe di una delle sue armi più importanti e decisive: la teoria rivoluzionaria.

Paradossalmente non solo il PCI, che pur si richiamava ancora al marxismo e al socialismo di cui traboccavano ancora formalmente le pagine delle sue riviste e i discorsi degli intellettuali che ne avevano comunque da tempo sposato linea e strategia, ma anche i vari partitini di ispirazione trotzkista, stalinista, marxista-leninista filo-cinese e bordighista non erano riusciti a cogliere le novità insite nell’esplosione di lotte che avevano caratterizzato soprattutto il periodo compreso tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. Anzi, pur con modalità diverse e diverso intendimento, quegli stessi erano spesso diventati di intralcio allo sviluppo delle lotte di classe che si erano andate sviluppando nelle fabbriche, nei quartieri e nelle scuole.

Così, invece, non era stato, come nota giustamente Quadrelli nella sua ricostruzione, per i due raggruppamenti che più si erano smarcati da qualsiasi richiamo alla tradizione formale dei partiti di derivazione cominternista, ovvero Potere operaio e Lotta continua. Entrambi coinvolti fin dal loro primo apparire nelle lotte prodotte spontaneamente dal basso; sia che si trattasse dalle lotte in fabbrica che dell’occupazione di case, di riduzione degli affitti e delle bollette oppure delle rivolte popolari come quella di Reggio Calabria, indicata fin da subito, tranne che per i due gruppi in questione e dai situazionisti, come manifestazione di stampo fascista da tutti gli altri.

In questa differente interpretazione della realtà delle lotte giocava non tanto, come i principali rappresentanti del marxismo ‘ortodosso’ avrebbero fin da subito affermato, l’avventurismo delle nuove formazioni politiche, ma piuttosto una più corretta e consona ai tempi interpretazione della capacità di analisi dialettica contenuta nelle formulazioni di Marx e di Lenin. Troppo spesso citate mnemonicamente e/o opportunisticamente dalle altre forze politiche e troppo spesso stravolte oppure semplicemente non comprese nella loro essenza.

Si può affermare, come fa Quadrelli, che la prassi rivoluzionaria riprese spunto in quegli anni non tanto dagli archivi polverosi, dai testi salvati dalla critica roditrice dei topi o dalla novella intellighentsia formatasi nelle scuole di partito o nelle università, ma direttamente dalle lotte nate spontaneamente dalle condizioni di lavoro e di vita con cui si barcamenavano gran parte dei lavoratori (occupati e non), dei giovani (studenti e non), delle donne (lavoratrici e non), in un momento di grandi trasformazioni socio-economiche che avevano accompagnato o erano derivate dal cosiddetto boom economico.

Un boom economico che aveva visto, come sempre, accumularsi una gran parte della ricchezza socialmente prodotta nelle mani di un’imprenditoria audace e aggressiva, a discapito di un proletariato di fabbrica o marginale che aveva potuto accedere a ben pochi vantaggi sociali, pagati con uno sfruttamento del lavoro sempre più intenso e allargato anche alle sfere dell’esistenza quotidiana. Così come l’allargamento dell’istruzione superiore a fasce giovanili sempre più ampie era stata accompagnata dallo sviluppo di istituzioni scolastiche sempre più destinate alla formazione di una manodopera maggiormente alfabetizzata ma indirizzata a una specializzazione lavorativa che più che altro avrebbe contribuito ad una più generale abitudine al lavoro alienato, e domato preventivamente, dall’abitudine alla disciplina dell’orario e dell’obbedienza.

Tutto questo era però esploso, non in grazia di una preventiva azione comunicativa e di formazione condotta dai partiti e partitini di sinistra all’interno delle differenti frazioni di classe, ma proprio a causa di una realtà sociale che aveva finito con lo spingere al parossismo le contraddizioni di un modo di produzione che aveva fatto delle sue esigenze di accumulazione ed estorsione del valore il metro di misura di qualsiasi attività umana: lavorativa, intellettuale, collettiva, individuale, artistica o sessuale e riproduttiva che fosse.
Così proprio chi stava in basso aveva saputo raccogliere la sfida e ribellarsi.

Potere operaio e Lotta continua seppero far proprie le lezioni di chi dal basso aveva iniziato a ribellarsi e liberarsi e, per un breve e intenso periodo, farsene portavoce. Ricreando quella dialettica tra spontaneità dell’azione delle masse, teoria e prassi politica che sola poteva servire a confrontarsi vittoriosamente con il capitale e i suoi funzionari. Il partito rivoluzionario insomma tornava idealmente, ma non soltanto, a rinascere proprio là dove non era stato direttamente teorizzato o non aveva tratto ispirazione dalle forme mummificate del passato terzinternazionalista e non.

Tornava a rinascere ma non a formarsi, poiché le varie componenti dei due movimenti finivano col favorire un altalenarsi di tendenze ora allo spontaneismo ora all’organizzativismo e ora all’istituzionalizzazione, quest’ultimo aspetto soprattutto per quanto riguarda la leadership di L.C., che non permisero il formarsi di una organizzazione politica capace di trarre linfa e capacità direzionale dalla indicazioni che pur provenivano in tal senso dalle lotte proletarie e dal basso e neppure dalle trasformazioni in atto a livello di riorganizzazione industriale, finanziaria, amministrativa e giuridico-militare dell’apparato economico e statuale capitalistico.

Fu proprio questa difficoltà a portare alla fine delle due esperienze con una, quella di Pot Op, che avrebbe però costituito la componente ‘teorica’ più importante della fase politica successiva, mentre l’altra, quella di L.C., avrebbe fornito, proprio in virtù dell’essere stata l’organizzazione militante più diffusa all’interno del proletariato metropolitano e di fabbrica fino al 1975, la principale componente operaia e proletaria di un’esperienza politica, militante e, successivamente, militare che non ebbe eguali nel resto del mondo occidentale.

Non bisogna infatti mai dimenticare che in Italia sono stati 20.000 gli inquisiti per i fatti di lotta armata; 4200 sono stati incarcerati a seguito dell’accusa di banda armata o associazione sovversiva; 300 hanno avuto pene con meno di dieci anni, oltre 3100 più di dieci anni, quasi 600 più di quindici anni, centinaia gli ergastoli. Questi dati, che se analizzati da un punto di vista sociologico vedrebbero altissima la componente proletaria tra coloro che furono inquisiti e altrettanto alta quella delle presenze femminili, ci dicono di un’irruzione nella Storia, di un autentico balzo di tigre all’interno di contraddizioni sociali altrimenti irrisolvibili, che proprio a partire dal 1975 ebbe inizio su una scala più vasta di quella già teorizzata e immaginata, con rigida logica partitica tradizionale (la coscienza instillata nella classe da un partito di militanti di professione), dalle Brigate Rosse.

Proprio al centro di queste fratture, esperienze politiche e organizzative e riflessioni teoriche si situa la cristallina esperienza di Linea di condotta, tanto ispirata dalla riflessione politica di alcuni militanti che si erano divisi dagli altri esponenti di Potere Operaio dopo la sua fine, quanto dalle energia, dalla rabbia e dalla delusione che aveva spinto alla ricerca di nuove modalità operative e organizzative una giovane classe operaia uscita fortemente delusa dalla precedente militanza in Lotta Continua, nelle sue strutture di fabbrica, territoriali e di servizio d’ordine.

Sfogliando le più di 160 pagine di Linea di condotta si osserva la presenza di una notevole mole di articoli: riflessioni teoriche e analisi marxiane destinate ad esplorare le trasformazioni dell’assetto politico-istituzionale italiano(con particolare attenzione al ruolo del PCI e della manovalanza fascista), la teoria del valore, lo scontro operante anche all’interno della crisi economica di quegli anni tra rivendicazioni della classe e volontà di ristrutturazione capitalistica, la ridefinizione dell’importanza dello scontro intorno al salario e la sua funzione politica ancor più che sindacale, oltre che i due documenti in cui l’ala più radicale degli operai di L.C. aveva detto addio alla formazione precedente, ormai impastoiata dalle paure e dalle scelte riformistiche della sua direzione, in aperto contrastato con la pratica militante degli anni precedenti.

Sono pagine che annunciano l’inevitabilità di una guerra civile, magari a bassa intensità, che avrebbe attraversato la società italiana e animato lo scontro di classe negli anni a venire. Un annuncio della necessità di un partito formale che, pur rimanendo sul filo del tempo, avrebbe dovuto saper interpretare una rivoluzione anonima e tremenda guidandola su traiettorie non ancora sperimentate. Proprio come dovrebbero fare ogni autentica rivoluzione e ogni autentico partito rivoluzionario, che per esser tale deve saper rivoluzionare anche le proprie forme, senza voler far rientrare le novità dello scontro di classe all’interno di forme già superate o sconfitte (probabilmente le due cose si accompagnano sempre) finendo col riuscire soltanto a castrare le iniziative e le indicazioni di lotta e organizzazione provenienti da una società in rivolta.

Indicazioni che proprio a partire dall’esperienza operaia ponevano al centro la questione del potere politico. Ma la “questione del potere” non poteva e non può che chiamare in cau­sa la “questione militare”. Se, infatti il “politico” presuppone sempre la messa in forma della guerra, la “questione militare” non poteva e non può essere altro che parte costitutiva del “politico” medesimo.

Una scelta che avrebbe visto ancora alcuni degli intellettuali presenti nei ranghi redazionali del numero unico allontanarsi negli anni successivi, ma che avrebbe dato i suoi frutti, magari immaturi e forieri di indicazioni per il futuro allo stesso tempo, nelle lotte degli anni successivi.
Una lettura che si rivela particolarmente utile ancora e forse soprattutto oggi, quando di fronte alla pandemia che ci avvolge, alla crisi economica e alla probabile guerra che verrà, l’assenza di prospettive è causa, per molti militanti antagonisti, di una condizione di impotenza e smarrimento cui le iniziative spontanee di lotta dal basso (dalle fabbriche alle carceri fino ai territori) iniziano a fornire modalità di risposta non ancora pienamente colte nella loro intima essenza.
Così come non è ancora stato colto in pieno l’assetto politico-militare che il capitale si è dato negli ultimi anni, in funzione di una guerra civile già annunciata e di cui la militarizzazione legata all’attuale crisi sanitaria ed economica non è che uno dei più prevedibili aspetti.

N.B.
Il testo è fin da ora disponibile on line in ebook e anche in cartaceo, sul sito dell’editore, su amazon, su ibs e per le librerie che vorranno ordinarlo presso il distributore (Messaggerie) che comunque anche se operativo a mezzo servizio avrà disponibile il libro.

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Il sentimento della rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2018/04/12/sentimento-della-rivoluzione/ Wed, 11 Apr 2018 22:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44747 di Sandro Moiso

Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50

Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.

Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50

Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.

Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni e Franco Fortini, oltre che di altri importanti esponenti del rinnovamento poetico e culturale italiano dei primi anni sessanta, si sarebbe poi allontanato progressivamente da quello stesso ambiente intellettuale per vivere pienamente l’esperienza e il sentimento, come lo avrebbe definito egli stesso, della Rivoluzione.

L’opera appena ripubblicata da Castelvecchi, con la cura attenta e preziosa di Neil Novello, aveva costituito nel 1968 una delle prime testimonianze dirette di un movimento che, in quella primavera e a Milano, stava muovendo i primi passi. Pubblicata da Mondadori nel luglio di quello stesso anno aveva di fatto costituito l’ampliamento di un testo, “Vengo anch’io” direttamente ispirato all’omonima canzone di Enzo Jannacci, pubblicato da Anna Banti sulla rivista “Paragone”.
All’epoca, però, il testo apparve “censurato” dalla casa editrice e mondato della seconda parte che, già all’epoca, l’autore avrebbe voluto pubblicata insieme alla prima (e pubblicata poi nell’autunno di quell’anno su “Nuovi argomenti” con il titolo “La notte del Corriere”), finalmente ripresa in questa nuova edizione che, inoltre, ripristina anche il testo originale del primo diario.

Mentre la prima parte (I giorni del dissenso) è dedicata dall’autore “ai ragazzi dei radiomegafoni”, la seconda (La notte delle barricate) è dedicata “ai ragazzi delle bottiglie”, segnando così una sorta di cambio di passo sia nella narrazione dei fatti che, nella riflessione di Cesarano, sugli eventi che in quella primavera avrebbero contribuito turbinosamente a modificare il panorama politico, sociale e culturale italiano e internazionale.

I tempi sono diversi, ma vicinissimi: è la cronaca dei giorni compresi tra il 25 marzo e il 9 maggio quella contenuta nel “primo diario”, mentre il secondo copre un periodo molto più ristretto rinchiuso tra l’8 e l’11 giugno. Insomma dalle prime manifestazioni studentesche della primavera alla notte dell’assedio al Corriere della sera, con relativi scontri con la polizia, come risposta all’attentato, avvenuto in Germania, contro il leader degli studenti tedeschi Rudy Dutschke.

Così la prima parte riguarda principalmente le riflessioni di un uomo maturo, già quarantenne all’epoca, nei confronti di un movimento ancora imberbe, con forti elementi di novità ma anche di debolezza nell’analisi dell’esistente. Riflessione che vede l’autore pencolare, inizialmente, tra l’accettazione di quella novità rappresentata dagli studenti in piazza e la non comprensione di un discorso immediatamente radicale che sembra voler far piazza pulita delle affermazioni e convinzioni accumulate in anni di militanza nel movimento operaio. Prima nel PCI e come cronista dell’Unità (da cui fu espulso per la sua adesione adolescenziale alla X Mas) e in seguito nelle esperienze di Classe Operaia e della collaborazione con riviste come Aut Aut, Nuovi argomenti e Quaderni piacentini.

Non a caso il testo era preceduto, già nell’edizione originale, da un’affermazione di Mario Savio, leader delle proteste studentesche americane a Berkeley. Un’affermazione tratta da un discorso tenuto ancora per il movimento per la libertà di parola negli anni delle prime lotte per i diritti civili negli Stati Uniti:

“C’è un’ora in cui le operazioni della macchina divengono così odiose, provocano tanto disgusto, che non si può più stare al gioco, che non si può più stare al gioco nemmeno tacitamente. E’ allora che bisogna mettere i nostri corpi sugli ingranaggi e sulle ruote, sulle leve e su tutto l’apparato della macchina per farla fermare. E’ allora che si deve far capire a chi la fa funzionare, a chi ne è il padrone, che se pure noi non siamo liberi impediremo ad ogni costo che la macchina funzioni”

Sì, perché in seguito a quelle riflessioni Cesarano avrebbe deciso di mettersi in gioco come corpo, oltre che come intelletto. Le parole che fungono da incipit per i giorni del dissenso sono, infatti, le seguenti:

“Sono qui, con le ossa rotte (in pratica per modo di dire, anche se alla base c’è il fatto che sono stato bastonato), la schiena e le gambe che mi fanno male, non so più se per le botte o perché non sono più allenato a muovermi violentemente, a correre e a stare tanto tempo in piedi”.1

Ma mettere in gioco il corpo significherà per Cesarano ben più che partecipare alle manifestazioni e agli scontri di piazza. Vorrà dire riflettere sui corpi come veri protagonisti dell’esistenza umana e sulla necessità di una loro liberazione immediata dalle catene del modo di produzione capitalistico e dal suo naturale corollario costituito dal consumo forzato di merci come unico scopo della vita.
E’ un rifiuto totale del mondo che lo/ci circonda, delle sue leggi, della sua economia, della assurda legge della miseria contro la quale sola può levarsi la rabbia degli oppressi. Immediata e rivoluzionaria già sul momento e nelle pagine centrali del testo, solo il poeta potrà esprimere ciò con la sufficiente potenza visionaria:

“…perché il potere gettò la maschera gli oppressi dettero di muso in sciabole fucili e gas il mondo si spaccò visibilmente in due non crederò mai abbastanza in quello che si vede la fame reale o metaforica può restar fame mille anni covar fame e figliare fame ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento non si deve dimenticare che può in ogni momento rovesciare l’asse del mondo”.

Nella Notte delle Barricate la narrazione si fa più corale e l’esperienza collettiva, anche sulle pagine, mentre, allo stesso tempo, la rottura con la tradizione politica del passato diventa evidente nei fatti.
Non solo perché gli atti, non troppo dissimili da quelli di qualsiasi altra rivolta, acquistano nuovi significati, ma anche perché la rottura con i partiti, o meglio ancora con il Partito con la P maiuscola, il PCI, diventa ineludibile come dimostra, fattivamente e simbolicamente, l’episodio del militante del partito comunista che cerca di cacciare i giovani che hanno trovato rifugio in una delle sue sedi per ripararsi dalle cariche della polizia chiamandoli Provocatori!

Si disvelava così che tutti i giochi del movimento operaio istituzionalizzato altro non erano che strumenti per il mantenimento di un ordine basato sulla produzione e sul consumo di massa, ai cui occhi qualsiasi forma di indisciplina e rifiuto delle regole non poteva e non può apparire che come una provocazione, un complotto, un atto terroristico.

Inizia proprio a partire da questi diari il “salto nel vuoto” del poeta. Un salto che lo porterà ad avvicinarsi agli ambienti e alle formulazioni più radicali della critica di quegli anni.
Come specifica Gianfranco Marelli, nella sua concisa postfazione:

“Sicuramente la frequentazione sul finire degli anni ’60 degli ambienti anarchici milanesi e del milieu situazionista francese, oltre agli studi su Rosa Luxemburg, il consiliarismo e «Socialisme ou barbarie» […] segnarono l’orizzonte teorico di Cesarano e lo condussero a praticare una visione politica radicale rispetto a quanto ribolliva all’interno dei “politicissimi amici” con i quali sul piano intellettuale condivideva l’impegno a svecchiare da sinistra PCI e sindacato. In particolare la partecipazione alla Federazione Anarchica Giovanile Italiana con il gruppo milanese La Comune assieme a Eddie Ginosa, un giovane e stimato compagno con il quale si creò un solido legame intellettuale interrotto bruscamente con il suicidio del giovane nell’ottobre del ’71 – il primo di una lunga serie di suicidi che scosse profondamente Cesarano – gli consentì di tracciare una parabola che lo condusse a riconoscersi in un progetto comunitario intriso di venature marxiste, libertarie, situazioniste.
Munito di questi strumenti teorici, cercò la loro attuazione dapprima nelle nascenti organizzazioni spontanee del Movimento milanese come il CUB Pirelli, divenuto nel 1967 il luogo dell’organizzazione autonoma delle lotte operaie e studentesche, per poi essere fra i protagonisti dell’occupazione del palazzo della Triennale e dell’hotel Commercio, due delle più importanti lotte che contraddistinsero l’anima più radicale del ‘68/’69 meneghino, slegata dalle camarille del Movimento Studentesco di Mario Capanna e dei gruppi politici quali Avanguardia Operaia intenti a monopolizzare ideologicamente la contestazione, fino a partecipare alla fondazione di Ludd, un gruppo informale la cui tendenza era l’estremizzazione delle lotte del proletariato spingendolo ad attuare lotte non sindacali, “anti-economiche”, e forme organizzative consiliari e “unitarie” (né partito, né sindacato) per l’immediata realizzazione del comunismo senza passare attraverso una transizione socialista e senza costruzione di un modello o di un progetto positivo da posporre al “tutto e subito” che allora pareva il realizzarsi della rivoluzione nei soggetti protagonisti del Sessantotto”.2

Non solo, attraverso la frequentazione di Jacques Camatte, di cui diverrà collaboratore e amico, Cesarano si farà riscopritore e teorico di quella comunità umana (Gemeinwesen) già presente nell’opera del giovane Marx e poi utilitaristicamente abbandonata dai suoi successivi epigoni, interessati più a far rientrare il movimento operaio e l’azione di classe all’interno delle logiche della politica e della produzione più che alla liberazione dell’umana specie dalle catene dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sull’ambiente e dell’uomo sulla donna.

A partire da quegli anni, bruciando velocemente le tappe di ogni discorso culturale che non fosse anche critica radicale dell’esistente, Cesarano produrrà alcuni dei suoi testi più significativi,3 collaborerà con le riviste Puzz e Provocazione lasciando ancora alle sue spalle, dopo la drammatica morte, una grande quantità di scritti che hanno iniziato ad essere raccolti nelle opere complete edite a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano.4

Attraverso quegli anni e il personale travagliatissimo percorso politico, oltre che tra le pagine dei diari, ci guidano in maniera articolata e profonda sia Neil Novello5 che Gianfranco Marelli, entrambi esperti conoscitori dell’incandescente materia trattata.

Costituita, come si è già detto, da un’esistenza che ha attraversato il Novecento nella convinzione assoluta che «L’uomo non è mai stato ancora». Da una critica della modernità che, a differenza di quella radicale ma conservativa portata avanti da Pasolini, ha cercato di indicare una comunità umana del futuro da opporre alla mortifera globalità capitalistica. Da opere provocatoriamente memorabili in grado di far sognare la fine della preistoria come presente, accendere la speranza nella rivoluzione biologica, varare le ontologie del desiderio e della passione per annientare il senso morto dell’esistenza. Tutto per giungere ad un altro modello di vivere umano.

Ciò potrebbe costituire l’unica vera eredità trasmessaci dai movimenti desideranti e combattivi di un decennio di cui Cesarano fu, per gran parte, testimone e interprete e proprio per questo motivo al curatore Neil Novello e a Gianfranco Marelli, oltre che all’editore, devono andare i ringraziamenti del recensore e dei lettori per quella che è destinata a rimanere fin da ora una delle migliori celebrazioni dei cinquant’anni dal ’68.


  1. pag. 41  

  2. Gianfranco Marelli, Istantanea del Séssantotto [Per una rinascita ontologica del Movimento], op. cit. pp. 213-214  

  3. Giorgio Cesarano- Gianni Collu, Apocalissa e rivoluzione, Dedalo 1973; G. Cesarano, Manuale di sopravvivenza, prima edizione Dedalo 1974 ora Bollati Boringhieri 2000 (con una prefazione e una cronologia della vita e delle opere a cura di Gianfranco Marelli)  

  4. Delle quali è per ora disponibile soltanto il terzo volume: Critica dell’utopia capitale  

  5. Autore, tra l’altro, dell’unica ricerca dedicata interamente all’opera del poeta-militante: Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, Castelvecchi 2017  

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A/traverso (a suo modo) una pratica dell’obiettivo https://www.carmillaonline.com/2017/05/12/38008/ Thu, 11 May 2017 22:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38008 di Gioacchino Toni

cover_Chiurchiù_La rivoluzione_è_finita_Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00

«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine. Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_Chiurchiù_La rivoluzione_è_finita_Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00

«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine.
Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere la gente a lavorare»

“Piccolo gruppo in moltiplicazione”, “A/traverso”, maggio 1975

La rivista nacque nel 1975, dall’eredità della controcultura e dell’operaismo degli anni Sessanta, ma al contempo si presentò come il simbolo di uno scarto nel mondo antagonista della sinistra extraparlamentare di allora. Una frattura sghemba, obliqua e anche ambigua, proprio come quella della barra che spaccava il titolo a metà e che si insinuava nel mezzo delle cose. La proposta era quella di mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio, di rideterminare l’ordine del reale utilizzando la scrittura […]
“A/traverso” è un oggetto alieno, oltre che per le sue fattezze anticipatrici delle fanzine punk, anche e soprattutto per il modo in cui, nelle sue pagine forma e contenuti si influenzano a vicenda, andando a costituire un messaggio che riesce sempre a travalicare la semplice trasmissione dell’informazione. È come se fosse in atto un instancabile tentativo di evasione, una costante, ostinata (e inattuale) spinta centripeta volta alla dissoluzione delle norme imposte dal discorso dell’ordine (pp. 5-7).

Nelle intenzioni di Luca Chiurchiù, autore del lavoro recentemente edito da Derive Approdi, il libro non vuole “tradurre” e “spiegare” i testi apparsi sulla rivista bolognese, quanto piuttosto capire se e quanto

i progetti della rivista abbiano trovato un vero riscontro, o meglio, se e fin dove essi siano stati capaci di promuovere il cambiamento che si prefissavano di operare in ambito espressivo e, per suo tramite, in ambito politico. Sconvolgere e rifondare il linguaggio per sconvolgere e rifondare la vita, scoprendo le sue infinite possibilità di libertà e di liberazione dal destino impostoci dall’alto del potere. Questo è stato il principale, utopico e impossibile obiettivo di “A/traverso” (p. 7).

L’analisi della rivista bolognese proposta da Chiurchiù prende il via dai debiti che essa palesa nei confronti delle esperienze delle avanguardie artistiche di inizio Novecento tanto per l’importanza assegnata da esse alla pubblicazione di riviste quanto per il loro aver rivoluzionato il periodico

affrancandolo per la prima volta dal suo specifico fine comunicativo. La rivista si è così trasformata in un supporto dove poter portare fino alle estreme conseguenze la loro sperimentazione programmatica. Da semplice contenitore, neutro e impersonale, essa è stata elevata a oggetto d’arte da plasmare e colorare, smembrare e riassemblare in continuazione. […] Le avanguardie hanno stravolto il periodico dall’interno, spodestando l’informazione dal suo ruolo di fulcro, mettendo in secondo piano il significato. […] La sovversione della gerarchia segnica, il rovesciamento e la confusione tra significante e significato sono le cifre identitarie di questi fogli (pp. 10-11).

Se da un certo punto di vista queste sperimentazioni di rottura nei confronti del linguaggio della stampa borghese, hanno permesso alle avanguardie storiche di infrangere il confine tra arte e vita, dall’altro hanno comportato un allontanamento delle riviste dal lettore. É da questo stallo che alcune esperienze maturate in quella sorta di “lungo Sessantotto”, protrattosi dalla fine degli anni Sessanta al termine dei Settanta, sono ripartite ricorrendo a modalità produttive e distributive autonome rispetto al sistema dominante. Si parla a tal proposito di “esoeditoria” indicando con tale neologismo, introdotto ad inizio anni Settanta, quelle esperienze editoriali autoprodotte circolanti negli ambienti politici ed artistici di movimento.

Chiurchiù passa dunque in rassegna alcune riviste che ritiene, in qualche modo, si possano collocare a monte dell’esperienza di “A/traverso”. “Quaderni rossi”, “Classe operaia”, “Contropiano”, “Quaderni Piacentini”, per fare alcuni esempi, vengono annoverate dallo studioso tra le esperienze editoriali espressione di “un luogo autonomo” di elaborazione politica al di fuori del circuito politico istituzionale.

Con il primo operaismo si sviluppa la pratica della “con-ricerca”, ossia dell’inchiesta nella quale le esperienze personali degli operai e le loro testimonianze dirette diventano parte integrante della comprensione “dal di dentro” dei processi di produzione e di sfruttamento. Seppur strutturate su un linguaggio ancora tutto intellettuale, e chiuse in un circuito distributivo ristretto, queste pratiche innovative di analisi in presa diretta […] trovarono seguito e sviluppo nelle riviste degli anni a venire, in favore di un sempre maggior interesse nei riguardi della soggettività operaia (p. 15).

Negli anni Settanta la soggettività del “qui ed ora” tende a sostituirsi in molti casi all’utopia di una società da trasformarsi in data a venire e le pubblicazioni periodiche provano a dare spazio in presa diretta a settori del proletariato giovanile. L’esperienza di “A/traverso” e di Radio Alice, secondo l’autore, rientrano in tale dinamica di riappropriazione della parola.

a_traverso___3446Non vengono tralasciate dallo studioso le riviste sorte attorno alla metà degli anni Sessanta nell’ambiente beat milanese come “Mondo Beat” e “Pianeta Fresco”, capaci di dar voce ad un immaginario altrimenti celato o distorto dalla stampa ufficiale. La rivista “Quindici” del Gruppo 63 viene invece indicata come esempio importante volto a rinnovare la scena letterario-culturale italiana altrimenti piegata – ed attardata – attorno ai canoni neorealisti cari al Pci.

Le pubblicazioni di Potere operaio e Lotta continua rappresentano una trasformazione importante all’interno dell’editoria della sinistra radicale. In particolare “Lotta Continua” viene indicata come esempio di sperimentazione e di rinnovamento linguistico teso tanto a rendere il linguaggio politico accessibile a larghi strati sociali, quanto ad assolvere ad una funzione di controinformazione in opposizione al monopolio informativo del potere. Nell’ambito delle esperienze editoriali alternative, il saggio affronta anche la parabola della rivista milanese “Re Nudo”, nata nel 1970, esempio di pubblicazione tesa al superamento della scissione tra politico e privato.

Da una parte, dunque, si fanno strada le voci delle nuove generazioni, sempre più insistenti riguardo i loro bisogni individuali e privati, in un processo simile a quello che si sarebbe concretizzato nella sezione epistolare di “Lotta Continua”. Dall’altra, in maniera opposta, trovano spazio nelle pagine di “Re Nudo” anche i primi comunicati delle Brigate rosse (p. 29).

Dopo aver ricostruito il panorama editoriale del periodo, Chiurchiù ripercorre la nascita e lo sviluppo nel corso degli anni Settanta di quell’autonomia operaia diffusa – entro la quale deve essere collocata l’esperienza del collettivo bolognese – ed il dilagare a livello sociale di fenomeni di “pratica dell’obiettivo”. Il bisogno di “autorappresentazione” di esperienze specifiche di lotta conduce non di rado alla creazione di pubblicazioni sostanzialmente autoreferenziali, volte non più a raggiungere il numero più alto possibile di lettori ma ad esprimere un’urgenza di comunicare con i “propri simili”.

“L’erba voglio”, “Rosso” e “A/traverso” rappresentano, secondo l’autore, alcune importanti novità nel panorama delle pubblicazioni degli anni Settanta. Della prima di queste pubblicazioni, che non appartiene all’area autonoma anche per motivi cronologici, viene messa in evidenza la capacità di dare spazio ad una pluralità di voci derivanti da ambiti decisamente differenziati. Del periodico milanese “Rosso” viene evidenziata la modalità comunicativa decisamente diretta e rude.

Chiurchiù giunge così, dopo una panoramica sull’editoria alternativa e sul mondo politico della sinistra radiale, ad affrontare la storia della pubblicazione bolognese “A/traverso” i cui animatori «si propongono di operare mediante il linguaggio, di trasformare il reale attraverso una pratica scrittoria liberata e liberante da qualsiasi schema preordinato. La prassi da testuale vuole farsi concreta, politica e quindi rivoluzionaria» (p. 39).

Se la maggior parte degli studi sistematici sulla rivista si sono concentrati quasi esclusivamente sul versante artistico/letterario, il saggio di Chiurchiù intende invece, e qua sta la vera novità proposta dal volume, di

riservare un’attenzione particolare ai fatti che segnano anche la vita della rivista bolognese, la modificano, le fanno prendere una determinata direzione durante il corso dei suoi numeri. Questo giornale è uno dei testimoni alternativi di ciò che accade in Italia nella seconda metà degli anni Settanta, ed è necessario inserire la sua analisi in un contesto storico il più possibile ben definito. La ricostruzione storiografica procederà quindi di pari passo con lo studio degli aspetti più innovativi, quelli legati all’anima avanguardistica del progetto, alla sua inedita concezione della pratica scrittoria e dei mezzi comunicativi, alla sua lettura semiotica del mondo e del potere. A fare da filo conduttore saranno le diverse tematiche in campo estetico e politico affrontate dal giornale e il loro sviluppo nel succedersi degli anni di pubblicazione (p. 41).

Il “piccolo gruppo in moltiplicazione” da cui nasce la rivista si colloca, come detto, all’interno di quella magmatica area dell’autonomia diffusa che, in quel di Bologna, si trova a fare i conti direttamente con la gestione del potere da parte del Pci. Nata nel 1975, presentandosi come supplemento a “Rosso”, la testata ha un’uscita estremamente irregolare e, secondo l’analisi proposta dal saggio, è nel 1979, in seguito agli eventi repressivi del 7 aprile calogeriano, che l’attività della rivista va pian piano spegnendosi. Sebbene il “periodo eroico” resti quello compreso tra il 1975 ed il 1979, l’ultimo numero esce nell’estate del 1981, salvo poi riapparire qualche tempo dopo sotto diverso formato prolungando la pubblicazione fino al 1988 a cui si deve, inoltre, aggiungere un’appendice in forma di piccoli quaderni in concomitanza all’esplosione del movimento studentesco della Pantera nel 1990.

La veste grafica ed il linguaggio di “A/traverso” riprendono sperimentazioni delle avanguardie di inizio Novecento, la tecnica del cut up e le fanzine punk anglosassoni. La scritta “A/traverso”, composta da Claudio Cappi, che assembla lettere ritagliate da testate giornalistiche come “L’Unità”, “il manifesto”, “Lotta Continua” e “Rosso”, ha nella barra divisoria diagonale l’elemento di maggior interesse come ha ben evidenziato Claudia Salaris nel suo libro Il movimento del Settantasette (1997); con essa, attraverso essa, viene scardinato il discorso a senso unico, si sabota l’univocità del linguaggio ufficiale. Per certi versi si apre il discorso in direzione polisemica rifiutando la grigia e servile monosemia propria del linguaggio strettamente funzionale.

Nel solco del rifiuto del lavoro praticato in fabbrica e fuori da essa da parte di quel proletariato giovanile reso/resosi estraneo al ciclo produttivo, l’innovazione tecnologica portata nelle fabbriche al fine di piegare la ribellione operaia, secondo il gruppo bolognese, sull’onda di un certo operaismo che recupera il Marx dei Grundrisse, può essere rovesciata al fine di limitare il più possibile il tempo in cui si resta confinati in fabbrica trasformando il (falso) tempo libero in libertà reale. Lavorare tutti ma lavorare poco, anzi pochissimo e magari lentamente.

Lavorare con lentezza / Senza fare alcuno sforzo / Chi è veloce si fa male / E finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto / e si può morire presto / Lavorare con lentezza / senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, / quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, / pausa pausa ritmo lento (Lavorare con lentezza, 1974, Enzo Del Re)

Secondo Chiurchiù il linguaggio di “A/traverso” insiste sulla necessità di «rilevare il meccanismo di espropriazione che il sistema compie nei confronti della produzione testuale e sovvertirlo, rimpossessarsi di ciò che ci viene tolto ogni volta in cui crediamo di comunicare […] Il mondo in cui viviamo è costruito su segni e simulacri, e il modo linguistico e logico con cui pensiamo è il solo modo con cui possiamo (ci è dato di) leggere (ma non scrivere) la realtà» (p. 87). É alla ricerca di un’alternativa a ciò che si impegna la rivista.

Nel 1976 il sottotitolo della testata si trasforma; da «giornale dell’autonomia» a «giornale PER l’autonomia» e ciò potrebbe essere letto, a parere di chi scrive, come l’intenzione di praticare l’obiettivo della liberazione del linguaggio, l’intenzione della rivista di farsi agente di autonomia e non portavoce di un’esigenza. «Distruggere il linguaggio codificato è dunque un modo per restituire parola al rimosso e a quei bisogni materiali che le istituzioni della politica stanno contraffacendo e mettendo da parte affinché non destabilizzino l’ordine delle cose» (p. 91). Un editoriale del 1976 è intitolato “Leggere nella merda”, riprendendo l’invito di Antonin Artuad di “leggere nella merda”, in tutto ciò che il sistema nasconde nell’emarginazione attraverso strutture come i manicomi, la scuola e la famiglia. La scrittura trasversale che intende praticare la rivista pare voler indagare ciò che la ragione capitalistica rifiuta in quanto contraddittorio; «è il nonsenso, è la gratuità, una sostanza che pulsa e non può né vuole essere resa valore, il corpo sottratto alla prestazione e al ricatto salariale, il desiderio che produce soltanto se stesso. Tuttavia, è solo là dove si odora la merda che si sente l’essere» (p. 91).

Chiurchiù si sofferma anche sul ruolo esercitato dell’Antiedipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari (uscito in Francia nel 1972) sul ragionamento portato avanti dal gruppo bolognese a proposito dell’occultamento

compiuto dalla psicanalisi e dal sistema in generale della macchina desiderante che è proprio un occultamento di di tipo codificante, significante, formalizzante. […] Il desiderio è schizofrenico, senza direzione né freni, il sistema capitalistico è paranoico, in quanto per esso tutto deve essere necessariamente ridotto a segno, a valore, a simbolo da poter ipostatizzare, immobilizzare nelle sue reti. Il desiderio è molecolare, scomposto e scontornato, le macchine paranoiche del capitale sono invece molari, compatte e strutturate (p. 93).

Occorre pertanto, secondo il “Piccolo gruppo in moltiplicazione” ridare voce al desiderio, rifiutando di uniformarsi alle macchine paranoiche, occorre delirare fino in fondo.

a_traverso___3456Se da un lato risultano evidenti i debiti nei confronti delle avanguardie storiche, secondo Chiurchiù il gruppo bolognese ne individua lucidamente anche i limiti; certo queste hanno operato per abolire la distanza tra pratica artistica e vita ma il loro sabotaggio nei confronti della società e della sua cultura ufficiale è ancora, tutto sommato, di matrice romantica in quanto gli esponenti delle avanguardie di inizio Novecento ritengono la loro attività ancora «indipendente rispetto ai processi di valorizzazione e, soprattutto, rispetto alla progressiva sussunzione di qualsiasi lavoro o produzione intellettuale da parte del capitale» (p. 96).

In sostanza le avanguardie storiche non comprendono che la loro azione resta comunque coinvolta nel generale processo di alienazione. Le stesse pur meritorie neoavanguardie degli anni Sessanta vengono accusate di non aver saputo uscire dal “laboratorio artistico” e “stilistico formale”. Nelle loro pratiche il mondo risulta comunque essere messo tra parentesi. É dal fallimento di quelle esperienze che occorre ripartire secondo “A/traverso”, dall’abbandono dell’illusorio laboratorio artistico e della pretesa indipendenza rispetto alla sussunzione della produzione creativa ed intellettuale da parte del capitale.

È su questa strada si arriva al mao-dadaismo ed a Vladímir Vladímirovič Majakovskij. Nel manifesto del mao-dadaismo, letto polemicamente nell’estate del 1976 in occasione del convegno di Orvieto della Cooperativa scrittori, all’ottavo punto è scritto: «Ripartiamo dalla lezione del dadaismo; ma quella separazione fra arte e vita che il dadaismo vuole abolire nel regno (illusorio) dell’arte, il trasversalismo la abolisce sul terreno pratico dell’esistenza, del rifiuto del lavoro, dell’appropriazione. Trasformazione del tempo, del corpo, del linguaggio» (p. 101).

Majakovskij è preso come punto di riferimento dal gruppo bolognese, sostiene l’autore, per il suo farsi promotore di una poesia capace di divenire pratica di massa, per il suo non essersi integrato al potere, per il fatto che è proprio nella sua partecipazione al processo rivoluzionario che

ha trovato il punto in cui la separazione veniva praticamente superata: tutta la forza-intelligenza che il capitale sottrae agli operai e cristallizza in forma di lavoro, tutta una creatività che il capitale riduce a spettacolo di fronte alla miseria del quotidiano delle masse, in quel movimento di massa che era l’ottobre Rosso esplodeva e travolgeva in cinto dentro cui la letteratura voleva stare rinchiusa. Produrre testi in piazza, dipingere di rosso la trasformazione della vita. Trasformare il colore della metropoli e il linguaggio di tutti rapporti, per rendere insopportabile la schiavitù capitalistica. Questa è l’indicazione di Majakovskij. La pratica testuale è così, in quei momenti, pratica creativa. Pratica creativa significa superamento reale (e non mera predicazione su questo superamento, o lamento della separatezza) della spettacolarità del testo e della miseria del quotidiano. Nel processo rivoluzionario, di liberazione della vita operaia dal lavoro salariato, diventa centrale la trasformazione collettiva del tempo liberato, dello spazio in cui si vive, del linguaggio (p. 103).

Nel volume si riportano anche le celebri letture proposte da Umberto Eco e Maurizio Calvesi del linguaggio del movimento della seconda metà degli anni Settanta e degli evidenti debiti di Bifo e compagni nei confronti di Guy Debord e di Jean Baudrillard. Nel saggio viene, inoltre, ricostruita la collaborazione romano-bolognese tra “Zut” e “A/traverso” che porta alla pubblicazione nel 1977 di “La rivoluzione. Finalmente il cielo è caduto sulla terra”. Nell’analizzare l’esperienza di Radio Alice Chiurchiù mette in risalto il suo aprirsi al flusso sociale, il suo lasciarsi attraversare da esso, il suo esserne parte.

Poi si arriva alla Bologna del marzo 1977, ai “fatti nostri”, come recita il titolo di un noto libro bolognese (“autori molti compagni”), ai blindati all’università, alla morte di Francesco Lorusso, alle barricate, ai botti ed alle botte, all’irruzione a Radio Alice. Poi è epoca di fughe precipitose verso il confine o verso la baiaffa, verso la solitudine e verso l’eroina. Poi è anche storia di oblio e di memorie selettive, di nostalgie reduciste e di silenzi assordanti calati su chi non ha finito di pagare il conto, di portavoce sempre in servizio e di riciclati facenti capolino negli anniversari comandati, di chi si è spento sul lavoro e di chi si è spento avendolo perso senza avere in cambio libertà, di chi è tornato a  chinare il capo ma anche di chi ha continuato a non farlo. La rivoluzione (è) in/finita (?)

 

 

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Banche, crisi, porti. La vecchia talpa scava ancora https://www.carmillaonline.com/2013/12/16/banche-crisi-porti-la-vecchia-talpa-scava/ Mon, 16 Dec 2013 22:55:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11490 di Girolamo De Michele banche_crisi

Sergio Bologna,  Banche e crisi. Dal petrolio al container, Postfazione di Gian Enzo Duci, Derive Approdi, Roma 2012, pp. 198, € 17.00

Le lotte degli anni ’60-’70 sono state attraversate, in un rapporto di reciproca produzione e rilancio, da alcuni importanti testi “teorici” (chiamiamoli così, per comodità), che avevano all’epoca una finalità militante, e che sono oggi dei classici, nel senso autentico del termine: testi che non hanno ancora smesso di dirci qualcosa, veri e propri scrigni del tesoro nei quali si trova sempre qualcosa di nuovo. Testi [...]]]> di Girolamo De Michele banche_crisi

Sergio Bologna,  Banche e crisi. Dal petrolio al container, Postfazione di Gian Enzo Duci, Derive Approdi, Roma 2012, pp. 198, € 17.00

Le lotte degli anni ’60-’70 sono state attraversate, in un rapporto di reciproca produzione e rilancio, da alcuni importanti testi “teorici” (chiamiamoli così, per comodità), che avevano all’epoca una finalità militante, e che sono oggi dei classici, nel senso autentico del termine: testi che non hanno ancora smesso di dirci qualcosa, veri e propri scrigni del tesoro nei quali si trova sempre qualcosa di nuovo. Testi che ci parlano del tempo presente pur essendo stati scritti in anni talmente lontani da sembrare epoche, o ere. Operai e Stato di Mario Tronti, Crisi dello Stato-piano e Marx oltre Marx di Toni Negri, e Moneta e crisi di Sergio Bologna (gusti miei, sia chiaro, senza alcuna pretesa di completezza e di gerarchia): non certo per caso, testi che attraversano i Grundrisse di Marx, un altro classico la cui attualità continua a sorprendere1.

Tempo fa, noi carmilli eravamo sul punto di ripubblicare il lavoro di Sergio Bologna, perché ci pareva ingiusto che un testo di tale importanza fosse irreperibile2: e lo avremmo fatto, se non ci fosse giunta notizia dell’imminente riedizione da parte di DeriveApprodi. Ora questo testo è di nuovo pubblico, all’interno di un volumetto che raccoglie altri testi in apparenza distanti, ma in realtà strettamente legati a quel primo studio che vide la luce sulle pagine di “Primo Maggio”3.

Cosa lega questi testi?
In primo luogo il metodo di lavoro, che in tempi di sciattezza epistemologica dovrebbe essere usato per insegnare come si fa una ricerca, come si lavora sui testi e sulle fonti – insomma, per insegnare i fondamentali. Poi, per la capacità di tenere simultaneamente insieme ricerca empirica e lettura teorica: all’altezza dei testi di Tronti e Negri, all’altezza della critica marxiana, la descrizione empirica dei fatti viene continuamente complicata dalla chiave di lettura teorica4, la complessità delle cose sempre ricondotta alla dimensione ontologica, e questa sempre rilanciata all’interno di un ordine del discorso costituisce la soggettività di chi lo enuncia, ma anche di chi lo interpreta. Il discorso dell’economia politica non è mai neutrale, non assume mai una fittizia asetticità descrittiva, perché si costituisce e costituisce sempre come critica antagonista dello stato di cose presente.
È lo stesso Bologna, nella Prefazione (pp. 5-10), a chiarire qual è l’approccio al marxismo che caratterizza il proprio metodo:

«Non so quanto valgono oggi questi miei scritti del ’73-’74, può darsi che siano da buttare nel cestino. Quello che sicuramente è ancora valido è il metodo che avevo seguito nell’avvicinarmi a quei temi: per leggere Marx occorre avere una forte tensione politica sul presente. Per leggere Marx occorre avere una forte partecipazione politica nelle lotte del presente, Marx non è roba per contemplativi, mistici e altre categorie affini. O per imbecilli (una quota non irrilevante di “marxisti” appartiene purtroppo a questa categoria). Per leggere Marx non occorre essere marxista, anzi è meglio non esserlo, occorre avere libertà di pensiero, tanta. Non avere pregiudizi, non avere schemi di pensiero predefiniti, non avere ideologie. Lui ti insegna a capire la ratio invisibile che sta dietro alle cose, non ha la pretesa di spiegartele. Ti prende semplicemente per il braccio e ti dice: “Vieni qua. Mettiti qua e alza gli occhi, guarda da questo angolo visuale”. Ti mette semplicemente nel punto giusto di osservazione e ti dice: “Da qui io vedo questo. E tu?”. Non è prescrittivo, è maieutico» (p. 7).

Se non ché, nulla di questi scritti è da cestinare. Quanto allo scopo della ricerca di Bologna, in piena crisi del postfordismo: «Sarà finita la classe operaia come soggetto politico importante, ma non la forza lavoro da cui estrarre qualcosa che avevamo chiamato plusvalore» (p. 9). Il primo saggio narra la crisi del 1856-1858, l’ultimo si interroga sui possibili scenari lasciati aperti dalla crisi esplosa nel 2007: in entrambi i casi, la comprensione della crisi non può prescindere dalla descrizione dei meccanismi e degli istituti finanziari: «Allora c’era da tagliare l’istmo di Suez, oggi si allarga il canale di Panama, allora il compito di rastrellare capitali presso le corti e le cancellerie d’Europa era svolto da spregiudicati banchieri d’affari, oggi il compito di racimolare soldi presso piccoli risparmiatori e di spennarli con investimenti sbagliati è distribuito tra una miriade di società finanziarie protette dallo Stato» (p. 8).

Moneta e crisi mostra, in un certo senso, il cantiere che Marx aprì nel 1855, e dal quale trasse il materiale che andrà a costituire i Grundrisse prima, e Per la critica dell’economia politica poi5. Marx era costretto a scrivere articoli per la “New-York Daily Tribune”6, lavoro che paragonava al pestare delle ossa per la zuppa dei poveri – un caso da manuale di sfruttamento della forza lavoro intellettuale. Eppure da queste cronache emergono i temi fondamentali dei successivi lavori: la scoperta degli istituti di credito, il ruolo dei movimenti monetari e finanziari, la natura stessa della moneta. Come scrive Christian Marazzi nella sua recensione:

«La moneta del Marx letto da Bologna è forma del valore delle merci, espressione del lavoro all’interno dell’intero circuito del capitale, dalla compra-vendita della forza-lavoro alla realizzazione monetaria dei profitti, e che in questo periplo circolatorio assume funzioni diverse. Forma del valore, non equivalente generale-universale (che della forma-valore è una funzione tra le altre), come praticamente tutta la tradizione marxista ha sempre teorizzato […]. È questa lettura del denaro in Marx che permetterà di seguire le trasformazioni future tenendo ben fermo lo sguardo sulla produzione e la riproduzione del capitale come rapporto sociale, e non come mero rapporto tra quantità di lavoro astratto contenuto nelle merci»7.

C’è una doppia anima della “moneta”, come mezzo di pagamento o equivalente generale, ma al tempo stesso come «materializzazione della ricchezza astratta, nella sua sostanza materiale di metallo nobile» (p. 57) che permette a Marx di cominciare i Grundrisse direttamente dalla moneta, senza attraversare l’esposizione della merce per scoprire la compresenza di valore di scambio e valore d’uso. E per giungere a comprendere che la circolazione monetaria è circolazione e distribuzione delle funzioni del comando capitalistico: l’uso capitalistico della crisi che il capitale stesso non è in grado di scongiurare, ma che può mettere a profitto8.
Con queste pagine Sergio Bologna aprì un cantiere di ricerca su moneta e finanza9 che non si è ancora esaurito, e che ha gettato le basi, attraverso due generazioni di studiosi e ricercatori militanti, per la comprensione della finanziarizzazione del capitalismo del tardo Novecento e della crisi dell’economia globale. E questo basterebbe, da solo, per giustificare l’importanza di queste pagine del ’74 e l’acquisto del libro.

qp52Ma accanto a questo saggio, ce ne sono altri due.
Il secondo, Petrolio e mercato mondiale, è coevo all’indagine sul Marx “americano”. È una sorta di banco di prova del metodo di Bologna: applicando le proprie chiavi di lettura, infatti, Bologna fornisce una cronaca degli eventi del ’73-’74, ovvero della crisi energetica e dello shock petrolifero che la vulgata corrente vuole essere stati causati dalla guerra del Kippur e dagli avidi petrolieri arabi. Per rendere l’idea di quanto radicale sia il rovesciamento di prospettiva, una volta che si prenda come punto di partenza quella particolarissima merce che è il petrolio (e il suo fratello gemello, il gas naturale), col suo correlato valore di scambio (che all’epoca si sostanziava nei petroldollari), basterà pensare a una tarda filiazione di queste pagine: il rapporto La fine del ”pensiero unico”. Dalla crisi del neoliberismo ai nuovi scenari geopolitici che Sbancor mise in circolazione nell’estate 2001 (cioè un mese prima dell’attacco alle Torri Gemelle), e nel quale avvertiva come, seguendo la pista delle fonti energetiche, delle pipe line, del petrolio e del gas – ma usando come GPS la lettura della crisi finanziaria globale – fosse sul punto di scoppiare «in un punto imprecisato delle frontiere della cosiddetta area “turanica” (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Khirghisistan, Azerbaijan, Uzsbekistan, Pakistan)» una guerra. La guerra: l’invasione dell’Afghanistan, in nome di una Enduring Freedom.
Bologna fa nel ’74 la stessa cosa: legge la guerra arabo-israeliana (della quale cita solo, e non a caso, le reciproche distruzioni di depositi petroliferi) nel quadro di un uso capitalistico della crisi energetica. Cioè dell’«attacco frontale contro la forza-lavoro in quanto produttrice di valore»: «diminuzione massiccia del fattore lavoro nei settori strategici» e “svalorizzazione del lavoro come potenza economica, come salario reale». Leggete con attenzione questo passaggio, nel quale la portata della crisi che si abbatterà su tutto l’occidente industrializzato è già compresa: «La “crisi energetica” in questo senso è stato uno strumento che ha consentito operazioni selettive, quella di aggravare l’attacco alle avanguardie di massa dell’automobile e quella di “agganciare” il processo di formazione di un proletariato arabo allo stadio storico della petrolchimica, minandone sul nascere i ritmi di crescita» (p. 103).

Crisi energetica, guerre, ristrutturazione feroce, attacco violento alla classe operaia e al proletariato occidentale, blocco del processo di proletarizzazione dei paesi arabi (chi ricorda oggi i/le fedayn palestinesi con i jeans e le gonne a fiori che disegnavano falci e martelli sui muri con gli spray?), fine del dollaro come moneta mondiale – ma anche: progressiva integrazione del blocco sovietico nel sistema del capitalismo occidentale: le premesse per il successivo trentennio ci sono tutte. Non può stupire che Bologna vada a parare sul dibattito su un’eventuale “moneta mondiale”, ovvero “unica”: «espressione di rapporti di scambio generali, riproponendo perciò stesso la forma denaro come allusione a rapporti di lavoro necessario e capitale, a rapporti di sfruttamento reali» (p. 104). Il dibattito sull’euro e sulla moneta del comune come alternativa dal basso, all’interno di «un sistema monetario che sappia garantire una ridistribuzione del reddito sulla base di diritti assoluti di cittadinanza»10.

Se, a dispetto di quattro decenni di distanza, questi due saggi parlano all’oggi – ma «in favore, come diceva il Nietzsche delle Inattuali, di un tempo futuro» – non dovrebbe costituire un problema il nesso con il denso scritto su navi e porti che, diviso in due parti, occupa la seconda metà del volume. Perché il sistema mondiale del trasporto marittimo – indagato dapprima nella sua dimensione strutturale, e poi con uno sguardo assai poco conciliante nella sua periferica determinazione italiana – col suo gigantismo di navi da 10-14-18.000 TEU11, i porti dai fondali sbancati, le banche e i fondi d’investimento specializzati nel business dello shipping, con emblematiche analogie col settore dei derivati12:

«HSH Nordbank ha nel suo settore di business un po’ il valore simbolico che Lehman Brothers aveva nel settore dei derivati. Ci troviamo di fronte al ripetersi di un copione già conosciuto ma la grande differenza tra il 2008 ed oggi è che allora la paralisi aveva colpito il circuito immateriale e virtuale del denaro, oggi colpisce il circuito fisico delle merci […] Ma per capire le dinamiche interne di questa crisi è necessario capire il rapporto tra la nave come prodotto industriale e la nave come prodotto finanziario sullo sfondo del cosiddetto “gigantismo navale”, cioè della tendenza inarrestabile a costruire unità sempre più grandi» (p. 133-134).

In sintesi: il trasporto navale è stato finanziarizzato, il valore delle navi dipende da indici finanziari astratti, e non dal valore e dalla quantità delle merci trasportate: conta più il valore d’acquisto (dunque più è grande, più vale, indipendentemente dal bisogno che il mercato ha o non ha di navi da18.000 TEU) e dalle caratteristiche tecnologiche (dunque più è nuova e più vale, indipendentemente dal bisogno di sostituire vecchie navi ancora in grado di funzionare): «i cantieri le sfornano a prezzi sempre più convenienti, le compagnie le ritirano e ne iscrivono in bilancio il valore con la speranza che l’anno successivo potranno aggiornarlo cresciuto di un tot oppure con la certezza che avranno svalutato le navi tecnologicamente meno sofisticate dei competitor» (p. 139).13.

renaA questo gigantismo che spinge le grandi società mondiali dello shipping verso un crack finanziario prossimo venturo si accompagna un gigantismo nella progettazione portuale che comporta grandi opere di cui non si comprende il valore – come lo sbancamento dei fondali che dovrà consentire al porto di Genova di accogliere navi da 22.000 TEU che ancora non esistono, o opere la cui realizzazione finanziaria finisce sempre col pesare sul settore pubblico, quindi sui contribuenti, mentre gli eventuali utili sono sempre sui privati che di fatto non corrono rischi imprenditoriali. Qui Bologna infila il dito bagnato nella tintura di iodio giù giù nella ferita aperta dell’inettitudine del capitalismo italiano (quello che Federico Caffè chiamava “capitalismo pigro”, per la storica incapacità imprenditoriale, la mancata attitudine al rischio d’impresa, e gli intrecci strutturali con la politica). Piani di sviluppo dei porti che non tengono in minima considerazione l’hinterland e il retroterra, come se le merci sbarcate non dovessero poi essere caricate su treno e trasportate; politiche pubbliche che privilegiano il trasporto ad alta velocità dei passeggeri invece che quello delle merci, peraltro contraddette da politiche di austerity che creano cittadini che non viaggiano ad alta velocità (come è già successo in Spagna); nessuna reale capacità strategica di strutturare il porto di Trieste come il punto di partenza di un corridoio Baltico-Adriatico14. Anche per i porti italiani vale la logica delle Grandi Opere, dalla TAV all’Expo 2015 di Milano, fino al FICO di Bologna: progetti faraonici a costo del pubblico, cioè dei contribuenti, nessun reale progettazione strategica:

«Il porto di Genova ha bisogno di riorganizzare gli spazi, deve spostare il terminal traghetti, avrebbe bisogno di parecchi interventi sul piano ferroviario senza aspettare il Terzo Valico, ha il problema delle rinfuse – invece di cercare di risolvere questi problemi con interventi puntuali e soprattutto di rapida esecuzione, si prospetta un cantiere senza fine, il cui risultato si potrà vedere tra sei/sette anni (in realtà sappiamo che ce ne vogliono spesso il doppio) che assorbe ingenti risorse pubbliche ed addirittura esaspera la cultura del gigantismo navale invece di mitigarla. Sempre con l’ossessione del container. Il Piano Regolatore di Genova promette 600 posti di lavoro alla fine di queste opere, ma quanti posti di lavoro si saranno perduti nel frattempo non lo dice. E inoltre, che posti di lavoro saranno quelli del 2020, ancora più precari e meno pagati di oggi? La credibilità di un piano di sviluppo del porto che si vedrà realizzato un domani lontano dipende dalla capacità di governare le contraddizioni di oggi. Oggi non domani» (p. 182).

Verrebbe voglia di ricordare che sono questi i veri sprechi da tagliare, e non quelli evocati dalla bolsa retorica dei “tagli alla politica”.
Ma sono poi davvero sprechi? Non si tratta, piuttosto, di meccanismi di estrazione e captazione della ricchezza “pubblica” (posto che questo termine abbia ancora senso) da parte del capitale finanziario attraverso partite di giro contabili che mentre sfruttano in modo selvaggio la forza-lavoro internazionale, impoveriscono sempre più la società sulla quale nulla di quanto estorto farà ritorno in termini di servizi, utilità sociale, qualità della vita?
Sono questioni sulle quali la ricerca di Sergio Bologna ci aiuta nel lavoro della critica, ma anche nella pratica delle lotte: una volta di più, ben scavato, vecchia talpa!


  1. Vedi ad esempio la silloge americana Karl Marx’s Grundrisse. Foundations of the critique of political economy 150 years later, ed. by Marcello Musto, Routledge, London/New York 2008. 

  2. Come molti dei “materiali marxisti” e degli “opuscoli marxisti” mai più ristampati, mandati al macero o esclusi dal catalogo Feltrinelli: un altro 7 aprile di cui prima o poi bisognerà parlare. 

  3. Il primo saggio del volume (pp. 17-92), Moneta e crisi. Marx corrispondente della “New York Daily Tribune” 1856-1857, fu pubblicato nel volume curato da S. Bologna, P. Carpignano, A. Negri Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 9-72; la prima parte (corrispondente alle pp. 17-49 Di Banche e crisi) fu anticipata nel n. 1, 1973 di “Primo Maggio”, pp. 1-15 (la rivista “Primo Maggio” è stata ristampata in DVD da DeriveApprodi nel 2010: La rivista “Primo Maggio” (1973-1989), a cura di Cesare Bermani; il secondo saggio (pp. 93-127), Petrolio e mercato mondiale. Cronistoria di una crisi, fu pubblicato sui “Quaderni Piacentini”, n. 52, 1974; i due successivi testi, che di fatto costituiscono un saggio unitario, Il crack che viene dal mare (pp. 131-147) e La funzione dei porti. Integratori di sistema, non mero servizio alle navi, (pp. 149-184) sono apparsi sui numeri 21 (dicembre 2012) e 23 (marzo 2013) della rivista on line promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti Altronovecento

  4. Che tempi sono, quelli in cui tocca ricordare che la ricerca teorica non è un mero additivo da aggiungere nel motore della prassi per azzardare semplificazioni? Tempi di sciattezza epistemologica, appunto: nei quali la teoria diventa un feticcio apotropaico, un Nam myōhō renge kyō per pugilatori di professione – ma che te lo dico a fare? 

  5. Se i Grundrisse debbano essere considerati la prima stesura del Capitale o un testo diverso e talvolta divergente; se tra i due testi maggiori di Marx ci sia più continuità o discontinuità, sono questioni che in questa recensione non possono certo essere affrontate, se non per chiarire che per chi scrive la risposta è nel secondo corno dei dilemmi che costituiscono la storia non certo solo ermeneutica di Marx in Italia. 

  6. Gli articoli di Marx analizzati da Bologna possono essere reperiti on line sul sito www.marxist.org, qui 

  7. Christian Marazzi, La moneta corrente del liberismo, “il manifesto”, 11 ottobre 2013. 

  8. È sintomatico che Negri abbia colto negli stessi mesi, tra il ’77 e il ’78, questa peculiarità della circolazione che si fa produzione di soggettività, tanto nei Grundrisse (Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979) quanto nel dispositivi di potere foucaultiani (Sul metodo della critica della politica in “aut aut” n. 166-167, 1978, pp. 197-212, poi in Macchina tempo. Rompicapi Liberazione Costituzione, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 39-54. 

  9. I cui primi esiti furono il secondo dei “Quaderni di Primo Maggio”, che raccoglieva e rilanciava il lavoro d’inchiesta svolto sulla rivista. 

  10. Christian Marazzi, Effetto comune per la ricchezza, “il manifesto”, 7 novembre 2013. Sarà appena il caso di ricordare che Marazzi, già presente in “Primo Maggio”, appartiene alla prima generazione degli “allievi” di Bologna. 

  11. TEU=Twenty (feet) Equivalent Unit, equivalenti a un container da 20×12×8 piedi. 

  12. «I fondi per lo shipping sono, si può dire, una specialità tedesca e la piazza più importante è Amburgo. Rappresentano però la periferia del complesso sistema della finanza dello shipping, fanno appello alla moltitudine dei risparmiatori, grazie anche a una normativa fiscale particolarmente favorevole in Germania. Spesso i risparmiatori non sono bene informati, il settore non è regolamentato, il periodo di tempo per il quale il capitale del risparmiatore resta impegnato dura in genere 15 anni e in questo lasso di tempo i capitali non possono esser ritirati e liquidati né la partecipazione può essere negoziata, come fosse dei bond di Stato. Molti, ingenui o inesperti, rimangono in trappola. Se questa è la caotica periferia, il centro del sistema è formato da un ristretto gruppo di grandi banche specializzate in questo genere di business, la Royal Bank of Scotland, la LLoyd Bank, la Commerzbank, la HSH Nordbank. Quest’ultima, una banca pubblica posseduta a metà tra la città-stato di Amburgo e il Land dello Schleswig Holstein, è la più esposta di tutte, aveva avuto già grossi problemi nel 2008 ed era stata la prima banca tedesca a ricorrere all’aiuto dello Stato» (p. 132). 

  13. Lo stesso processo – la nave come risorsa finanziaria – vale per le grandi navi da crociera, col correlato di sfruttamento, lavoro nero, e soprattutto di non-detti che le accompagna, come il naufragio del Concordia ha fatto intravedere. 

  14. Per non parlare, aggiungo io, dell’assenza di qualsivoglia visione strategica del porto di Taranto nel contesto della crisi dell’ILVA, di cui mi sono occupato qui

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