psicanalisi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 Jan 2025 21:07:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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Metapsicologia dell’inanalizzabile https://www.carmillaonline.com/2017/12/26/metapsicologia-dellinanalizzabile/ Mon, 25 Dec 2017 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42499 di Piero Cipriano

Talvolta qualcuno me lo chiede. Ma come, di mestiere fai lo psichiatra, e hai ricusato di farti analizzare?

Eh sì. E non è obbligatorio, ancora, per fortuna. E poi, analizzare che? Cosa? L’inconscio? E dov’è? Cos’è?

Va be’, parliamone.

Abrahams. Si può cominciare da lui questo discorso sui soggetti inanalizzabili, oppure ricusanti l’analisi.

Chi è Abrahams? Chi vuole si può leggere il pezzo su di lui che ho scritto qualche mese fa, sempre su Carmilla.1

Altrimenti lo riassumo. È uno che nel dicembre del 1967, a 32 [...]]]> di Piero Cipriano

Talvolta qualcuno me lo chiede. Ma come, di mestiere fai lo psichiatra, e hai ricusato di farti analizzare?

Eh sì. E non è obbligatorio, ancora, per fortuna. E poi, analizzare che? Cosa? L’inconscio? E dov’è? Cos’è?

Va be’, parliamone.

Abrahams. Si può cominciare da lui questo discorso sui soggetti inanalizzabili, oppure ricusanti l’analisi.

Chi è Abrahams? Chi vuole si può leggere il pezzo su di lui che ho scritto qualche mese fa, sempre su Carmilla.1

Altrimenti lo riassumo. È uno che nel dicembre del 1967, a 32 anni, diventa il paziente selvaggio, non più domestico ma selvatico, e irrompe nello studio del suo ridicolo psicanalista, brandendo un magnetofono come fosse un’arma.

Il dialogo psicanalitico, come lo chiama Abrahams, è eloquente, fa bene Sartre a pubblicarlo.

Una settimana dopo, il ridicolo analista lo fa internare in manicomio.

Basaglia, ne Le conferenze brasiliane dice: dal punto di vista del sapere lo psichiatra è il medico più ignorante: non sa niente ma compensa questa carenza con il potere. Nel manicomio questo è evidente. Ci sono poi i vari psicanalisti, psicoterapeuti, psichiatri eccetera. Ognuno tenta di dare una risposta a quello che è la malattia mentale, ma se noi parlassimo con ciascuno separatamente ci sentiremmo dire che non sanno cos’è la follia, e ciascuno ammetterà anche che la relazione con il paziente è una relazione di potere. L’esempio dello psicoanalista è il più tipico. Su questo problema del dominio dello psicanalista sullo psicanalizzato Abrahams discute in L’uomo col magnetofono. Un giorno un paziente va dallo psicanalista con il registratore e dice: questa volta chi fa la psicoanalisi sono io, lei è il paziente e io lo psicanalista. Lo psicanalista resta sorpreso, cerca di dissuaderlo, ci convincerlo a riprendere il suo posto, siccome il paziente si rifiutava, lo psicanalista prese il telefono e chiamò la polizia.

Basaglia usa Abrahams per dimostrare che la psicanalisi, non meno della psichiatria (da cui non si distingue così tanto, in termini di potere) è una pratica oppressiva.

Personalmente mi ritengo fortunato a non aver risposto alle sirene di questa disciplina, tanto superba quanto sopravvalutata, ho sempre contestato gli psicanalisti, claustrofilicamente chiusi nei loro studi d’avorio, staccati dalla vera sofferenza, dalla miseria, dalla merda, dalla feccia umana. Dai manicomi insomma, d’ogni sorta. Dalla sofferenza hard. Dalla miseria esistenziale di “chi non ha non è”, diceva Basaglia.

E continua: “Io non voglio offendere nessuno, ma qual è la differenza tra una prostituta che vende il suo corpo e il medico che si prostituisce nel suo ambulatorio, quando dovrebbe dare il massimo della sua attività alle istituzioni pubbliche?” “Gli psicanalisti hanno sempre una gran lista di attesa, come gli aeroplani”. Perché? Perché gli psicanalisti rispondono ai problemi di quella parte della popolazione che ha i mezzi per difendersi, e non certo ai bisogni dei miserabili, perché “chi non ha non è”, chi non ha il danaro non se la può pagare la terapia psicanalitica. Perché la psicanalisi è “terapia di classe”, “cosa ha fatto la psicanalisi per il malato mentale del manicomio nel corso di questo secolo?”

Affermazioni forti, apparentemente datate, ma non tanto. È a margine di queste e di questa critica della psicanalisi che, nelle conferenze in Brasile, Basaglia cita Abrahams. Come esempio del potere e della repressione non solo psichiatrica ma perfino psicanalitica.

Perché questo dialogo affascina Basaglia, e affascina Sartre? Perché capovolge i rapporti tra analista e analizzando, capovolge il rapporto di potere tra i due, e la violenza, che c’è, passa dall’altra parte. Lo psicanalista ridicolo, incapace di gestire l’irruzione nel suo studio del paziente col magnetofono, grida “Violenza fisica! Violenza fisica! Non sono abituato alla violenza fisica!”, così grida. A quella psicologica invece evidentemente ci è abituato, quella per cui obbligare per anni a stare steso sopra un lettino girato di spalle senza poter guardare l’espressione del volto del cosiddetto analista, depositario del segreto, della verità, del tempo della guarigione. Alla violenza dell’interminabile asimmetrica relazione psicanalitica a quella ci è abituato.

Dice Abrahams, nella sua registrazione: “Non si può guarire là sopra – al divano intende – e lei stesso non è guarito perché ha passato anni là sopra. Lei non osa guardare la gente in faccia. Lei mi ha obbligato a voltar le spalle e non è così che si può guarire la gente. Vivere con gli altri significa saperli guardare in faccia”. Continua: “Sono venuto da lei per molti anni due o tre volte a settimana e cosa ne ho ricavato? Lei ora sta raccogliendo quello che ha seminato con la sua ingannevole teoria”. Ancora: “Lei è un privilegiato, è venuto dopo di Freud, le hanno pagato gli studi, ed è riuscito a mettere una targa sulla porta! E adesso rompe le palle a un sacco di persone con il diritto di farlo. Lei è un fallito e non farà altro nella vita che rifilare i suoi problemi alle persone…”.

Ecco: uno psicanalista che a queste affermazioni riesce a balbettare solo: “Violenza fisica! Violenza fisica!” conferma di essere davvero un fallito.

*

Non sembra un fallito, invece, lo psicanalista che analizza Alessandra Saugo. Lei raccoglie il testimone di Abrahams. E subito dopo muore, nel settembre del 2017, e dopo due mesi esce Metapsicologia rosa, il libro selvatico di questa selvatica apparentemente addomesticata analizzata riluttante. Il titolo forse non è il massimo, la copertina nemmeno, rosa nel titolo e rosa la copertina. Quello che c’è dentro però non è affatto rosa.

Lo scopro per caso, inizio a leggerlo, e mi pare subito una dichiarazione di guerra all’analista, o all’analisi, o a entrambi, o forse proprio al suo analista, a quello lì e non a un altro, e la cosa non è di poco conto, giacché questo suo analista, che lei per contrappasso metapsicologico analizza, ho come l’intuizione che potrebbe essere non un analista qualunque ma… l’analista, l’analista che psicanalizza la nazione.

Se Abrahams fu il gatto selvatico penetrato di forza nello studio di quell’inetto pavido pusillanime di analista francese, lei è la gatta selvaggia bolañiana che penetra sorniona e timida nello studio dello psicanalista della nazione, lo psicanalista del partito della nazione, lo psicanalista del condottiero della nazione, lo psicanalista che dalle pagine culturali del giornale della nazione analizza la nazione.

Lei è lì, che lo analizza. Che paga quattrini per analizzarlo.

Pure Abrahams pagò anni di quattrini per analizzare il suo. Lei non so per quanti anni paga quattrini. Ma tutto lascia credere che vada lì soprattutto per osservare, con quegli occhi suoi nucali (quei “due occhi allucinati dietro le spalle”), l’uomo “sciatto” che “sta lì”, che “intasca”, “in nero”, e “gigioneggia”, “sciatto”.

Mi colpisce il pagare, seduta dopo seduta, o meglio sdraiata dopo sdraiata, ma questa cosa non è un elemento di inferiorità e soggezione, al contrario, è un gesto di più che parità, perfino superiorità, io ti pago, tu mi ascolti, un gesto, quello della mano che a fine seduta puntualmente arraffa il danaro, “in nero”, dunque senza scontrino, senza ricevuta, e che lo rende molto pezzente, morto di fame, nonostante la fama. E quanto è anti-terapeutico – ammesso che l’analisi sia davvero terapeutica? – il gesto di prendersi pagato “in nero”?, questo è un argomento che nessuno, dallo psicanalista della nazione fino all’ultimo guru affronterà mai, nelle infinite supervisioni.

È chiaro che lei tra i due è la più forte.

Curiosità. Perché lei sceglie lui? Perché proprio lui? Il più famoso. Il più letto. Il più invitato. Il più pagato. Perché?

Lo psicanalista organico. Organico al partito della nazione. Lo psicanalista che seduce le platee. Lo psicanalista che fa l’endorsement. Lo psicanalista che psicanalizza la nazione.

Perché vuole guarire?

Ma no. Non è così sprovveduta.

Perché vuole scrivere di lui. Ecco perché. Lei lo paga, seduta dopo seduta, per studiarlo, registrarlo con quei suoi “due occhi allucinati e nucali”, vederlo in azione nel suo, là dove sta, “gigione, sciatto, narciso”.

E a mano a mano che vado avanti nella lettura di queste pagine lasche (e rallento fino a fare una pausa di molti giorni quando arrivo a metà libro, perché non voglio consumarlo, perché Saugo è un’autrice morta e chissà quando mi capiterà un altro suo libro, ammesso che ne verranno pubblicati degli altri) me la vedo questa donna dal carattere venuto su difficilino, che entra e esce dal confessionale dell’analista.

A un terzo del libro di poco più di cento pagine la gatta selvaggia in analisi descrive il suo transfert erotico, come lo chiamano loro, gli psi, quelli addestrati a difendersi dagli attacchi sessuali e che spesso non ci riescono – pare che la differenza tra il transfert erotico e quello erotizzato è che nel primo il paziente si capisce che vorrebbe ma non procede nel secondo ci prova apertamente perché è un perverso o un narcisista maligno che vuol distruggere l’analista. Dice “ostia io mi farei suonare invece di farmi analizzare, io mi farei accordare, con il suo archetto lui mi potrebbe sviscerare come e quanto gli pare. Gli darei soddisfazione, ho un suono… basta solo che metta le dita nelle posizioni giuste e tocchi la corda”. E prosegue “ah questa psicanalisi che mi toglie solo fuori dalla custodia… lui tiene l’archetto ma non lo affonda… è lì seduto dietro al mio corpo incustodito” e poi “qui è il posto sbagliato per mettersi a fare un concerto, ma so che sento che ne ho una voglia di suonare, da scoppiare”. E infine, e qui è bellissima la descrizione della curiosità impicciona dell’analista nazionale “vuole sapere che tipi erano i miei liutai, da che bottega salto fuori e quanti concerti mi hanno fatto fare, se mi hanno mai rotto, qual è il mio repertorio”. E conclude “Dottore: di fronte al tuo teoretikòn. La tua prosa armata fino ai denti è specializzata. Abbottonata. Di fronte alla tua prosa istruttiva protetta da trattatistica mi sento pescivendola scollata che sbraita le sue offerte fin troppo aulenti in preda a una glasnost rionale”. Applausi. Dieci minuti.

Abrahams e Saugo. Due esempi – e bastano loro, a questo punto – di contestazione della psicanalisi e del proprio psicanalista, aggressiva e violenta nel primo caso, infatti Abrahms si becca il manicomio, mite e sarcastica nel secondo, infatti Saugo non viene mica ricoverata, a quel che mi risulta.

Detto ciò, io non ho voglia di discettare di psicanalisi e delle magagne della psicanalisi di cui non mi frega niente e di cui, della psicanalisi intendo, penso tutto sommato abbastanza male. Filosofia confessionale. Omeopatia della sofferenza psichica. E si potrebbe andare avanti così ma penso si capisca.

E non voglio salvare gli psicanalisti da questo loro mestiere francamente inutile (inutile nel senso che se ne potrebbe fare a meno, senza colpo ferire) perché non li stimo, in generale, salvo quelli che si giocano la propria capacità relazionale e psicoterapica nei servizi pubblici, CSM, SPDC (non sui lettini, insomma, o sulle chaise longue) e che si confrontano con la grande psichiatria, non esclusivamente con la piccola sofferenza, e con le persone non abbienti, quelli che non avendo (danaro) rischiano di non essere (nessuno).

Ciò che penso, in accordo con Foucault (l’ho già scritto ne La società dei devianti) è che viviamo in una società sempre più confessionale, con l’ingiunzione a confessarci che ci aggredisce da ogni parte, e se progressivamente vien meno la prassi della confessione cristiana (o religiosa, in genere), e se conservandosi nei limiti della legge si riesce, forse anche per tutta la vita, a scansare la confessione giudiziaria, nell’ultimo secolo a queste s’è imposta la confessione psichiatrica, o, in generale, la confessione psicoterapeutica. E il medico, lo psichiatra che fu alienista, ora è lui il nuovo confessore, e l’ospedale è la sua chiesa, e il folle che delira, perché ha smarrito la verità, che vada in ospedale, da solo o di forza, e confessi allo psichiatra il suo delirio, e poi assuma come un’ostia i farmaci, li inghiotta, perché il reparto psichiatrico è non più, non solo il luogo della custodia sanitaria, ma il luogo dove si inghiotte: farmaci, parole, cibo, nicotina. Inghiotta e lasci trascorrere dieci o venti giorni, e ogni giorno ripeta la confessione, finché la verità non sia cambiata, finché il pensiero non sia più folle, finché il delirio che ha in testa non si sia estinto.

Ma non c’è solo la confessione del delirio del delirante. Cioè la confessione della follia più spinta. La confessione coercitiva, sotto ricatto, da TSO, o confessi il delirio, o inghiotti i medicamenti anti-delirio, oppure non esci, oppure non ti slego. Non c’è solo la confessione estorta. È sempre più imperativa, ormai, la confessione della vita normale della persona normale (e la storia di Abrahams costretto dal padre a confessarsi da quel ridicolo psicanalista per quasi tre lustri ce lo dimostra) (e il libro di Saugo che paga per dire parole a colui che sta lì “sciatto e intasca” ce lo conferma). Soggetto normale che è, sempre di più, indotto a percepirsi fragile, insicuro, vulnerabile, e perciò bisognoso di una diagnosi, di un nome, di un qualcosa che definisca la sua incertezza, e poi, forte della diagnosi, poter ricorrere alla confessione psicoterapeutica.

Eppure, nonostante l’apparente separazione tra lo studio borghese e il reclusorio manicomiale, questa psicanalisi, contestata da Abrahams e irrisa in modo adorabile da Saugo, è lo stesso ancella del manicomio. I suoi analizzati non adatti, quelli che non si adattano alla confessione psicanalitica, i contestatori, come Abrahams, là finiscono, in manicomio. Gli altri, quelli normali anzi più intelligenti e sensibili dei normali, come Saugo, quelli ce la farebbero pure senza. La psicanalisi non è alternativa al manicomio. La psicanalisi è un’altra forma del manicomio. Oppure è inutile.

Prima di concludere il libro di Saugo mi capita (per sincronicità, avrebbe chiosato quel volpone di Jung) un articolo apologetico su uno psicanalista definito di scuola lacaniana (per capirci: quelli che quando parlano ti fanno la supercazzola, per farti passare per scemo), che, ma questa è una mia fantasia, potrebbe essere dello stesso stampo di quello che ascolta Saugo e “gigioneggia”, e questo viene intervistato proprio nel suo confessionale, dove “tutto è secondo l’ordine che ti aspetti in questi casi. Il silenzio, il lettino, le luci basse, la tinta pastello dei muri. Nulla denota che, in realtà, stai entrando nello studio di un rivoluzionario della prassi medica, di un carbonaro della psiche, di un eretico della élite terapeutica più snob che esista. L’eresia di questo psicanalista sta nel pensare che la psicanalisi possa farsi cura alla portata di tutti”. Accidenti, non conoscessi i miei polli abboccherei anch’io e correrei a farmi psicanalizzare. Intanto ripenso: alla portata di tutti, e come?

Ma uscendo dalle torri d’avorio!, proclama l’analista eretico. E il chiavistello, per questa rivoluzione copernicana, sta nelle tariffe. Quelle del mercato vanno da 100 a 150 euro tre quattro volte a settimana. E il nostro psicanalista le considera immorali. Dice che così si fa una selezione naturale del paziente. E qual è dunque la sua proposta? E quale la parcella, dunque? Eh, lui ha deciso per questo di infrangere il tabù dei sacri testi – secondo cui sarebbe proprio la tariffa alta che incentiva il paziente alla guarigione, tu guarda che paraculi – e fare i conti con l’ostracismo della categoria, e fondare una onlus senza fini di lucro. Il cui fine è riassunto in uno slogan anarchico, nientedimeno: offrire terapie a basso prezzo. A ciascuno secondo i propri bisogni, da ognuno secondo le proprie possibilità, insomma. Sedute che al massimo costano 40 euro e studi che nascono in periferie. Solo in questo modo, sostiene, riesci a intercettare perfino il bisogno di cura dei migranti, e delle persone con problemi di droga, e con disturbi alimentari, eccetera.

A parte che ci sarebbero i Centri della Salute Mentale, che sono gratis in quanto servizi pubblici. Ma comunque. Vediamo, con soli 40 euro, più volte a settimana, lo psicanalista nazionale spin doctor del partito della nazione pensa di poter avere in cura, steso sul suo lettino, un migrante? Ah. Aspetta che finisco di ridere. Mettiamo che lo veda per una sola seduta a settimana. Sono 40 per quattro. Fanno 160 al mese. Psicanalista. Dico a te. Il migrante tu non lo vedrai mai, neppure col binocolo.

Questa è la dimostrazione – pleonastica – di come la psicanalisi sia il dispositivo adatto – esclusivamente – a quella che ieri chiamavano la classe borghese, e oggi potremmo dire la classe degli abbienti. Per gli altri, niente, inutile, non ci arrivano proprio. Ma lasciate i vostri studioli aromatici e calatevi nei servizi pubblici, CSM ambulatori consultori, mettete la vostra perizia confessionale al servizio del popolo, allora sì, sarete credibili in questo slancio da psicanalista per tutti.

Ecco come Saugo racconta la propensione del suo analista a entrare in rapporto col migrante, con gentilezza e garbo, dall’alto del suo carattere venuto su difficilino, gli dice “per strada e in televisione vorrebbe sempre cambiare il colore delle pupille di tutti. Poi non gli interessa niente altro che i caratteri delle persone… è un fanatico dei caratteri. Dei tipi psicologici. Il segreto delle persone sospinte verso i bordi delle strade… oppure rinchiuse nelle stanze senza partecipare al grande movimento generale che sa portarsi avanti e sa la direzione… lui pensa che il segreto è i caratteri”.

“Ha intravisto degli extracomunitari seduti sulle panchine… e si è sentito gonfio di impressioni su di loro come se li avesse incontrati veramente.” “Vuota retorica, teoria, porca teoria… bei paroloni, tutte cazzate, pavido, non li osserva, non ne sa niente…”.

“E i barboni, pensa, si stendono sulla pietra…” (e no sul lettino).

“E un pomeriggio che pioveva forte lui con sua moglie camminavano sotto gli ombrelli nel centro della città… e c’era un barbone… e il cielo gli buttava addosso tutta l’acqua. Allora questa sua fulgida moglie… al barbone… urlando… indicandogli i portici col dito… e il barbone… ma va’ in mona”.

Pare che l’ha pagato solo per studiarlo. Ma lui, l’avrà capito?

Ogni seduta, quante? Tre quattro a settimana o meno, per quanto tempo? Un anno due tre o quattro? La tariffa, in nero, ok, ottanta? Cento? Di più?

Quanto ha speso, mettiamo ottanta – arrotondiamo per difetto – mettiamo solo una volta a settimana – arrotondiamo per difettissimo – mettiamo solo per due anni – impossibile, ma facciamo finta – ebbene fanno circa tremila euro in nero all’anno, seimila euro per studiare lo psicanalista.

È stata in una posizione di forza assoluta. Io ti pago. Tu mi ascolti. Poi sei libero di “gigioneggiare”. Di sbadigliare. Di stare lì. Nel tuo. Di sgranocchiare la caramelluccia. Ma ricorda: sono io che ti pago. Sei al mio servizio. E non solo ti pago. Scriverò di te. Sarai il mio soggetto. Il mio personaggio.

Io non ho mai pagato nessuno per parlare. Io vengo dal basso come un montante, come disse mi pare Camus. E chi viene dal basso, se non è proprio coglione, non paga l’analista. Anche se si mette a fare – più o meno – il suo stesso mestiere. Non solo non avevo questa esigenza di ricostruire la mia storia, non solo non avevo sintomi che non riuscivo a domare da solo – ipocondria ossessioni anancasmi panico ciclotimie hai voglia, ma son cose che fanno parte della vita, e dopo un po’ le addomestichi pure senza lettino – ma non avevo neppure questa curiosità epistemica o letteraria di guardare l’analista stare nel suo e operare e agire e gigioneggiare e intascare il mio danaro in nero.

Anche perché, intanto, avevo un’altra quotidiana opportunità di osservare quegli altri terapeuti, gli psichiatri, agire nel loro luogo, nell’ospedale, stare accanto a loro, essere uno di loro, godere della loro fiducia, vederli in azione.

Vedere il loro scarso interesse curiosità comprensione per l’altro. Vedere la loro paura per le anormalità dell’altro. Vedere lo psichiatra che da soggetto che ascolta si trasforma di repente in soggetto che aggredisce e salta addosso e immobilizza e fa legare lo sragionante.

E allora ho provato a fare la stessa operazione di dileggio-del-cosiddetto-terapeuta che fa Saugo, li ho resi macchiette e li ho chiamati la iena, la fredda, il cinico, il prete, lo psicanalista, il biondo, il grigio, il giovane, la suorina, la gattamorta. I loro caratteri.

È divertente irridere psichiatri e psicanalisti. Fa bene.

 


  1. P. Cipriano, “Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia“ 

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