proteste – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 ¡Ayotzinapa somos todos! Prologo e poesie del libro 43 poeti per Ayotzinapa https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/ayotzinapa-somos-todos-prologo-e-poesie-del-libro-43-poeti-per-ayotzinapa/ Mon, 26 Sep 2016 22:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33599 di Fabrizio Lorusso

43-poeti-per-ayotzinapa-copertina[A due anni dalla “notte di Iguala”, nello stato messicano del Guerrero, e dalla sparizione forzata di 43 studenti della Scuola Normale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa pubblichiamo il prologo al libro 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos, AA.VV. (traduzione all’italiano di Lucia Cupertino), Ed. Arcoiris, 2016, p. 216, 12 €]

Nella notte tra il 26 e 27 settembre 2014 quarantatré studenti della Scuola Normale Rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, nel meridionale stato messicano del Guerrero, furono sequestrati dalla [...]]]> di Fabrizio Lorusso

43-poeti-per-ayotzinapa-copertina[A due anni dalla “notte di Iguala”, nello stato messicano del Guerrero, e dalla sparizione forzata di 43 studenti della Scuola Normale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa pubblichiamo il prologo al libro 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos, AA.VV. (traduzione all’italiano di Lucia Cupertino), Ed. Arcoiris, 2016, p. 216, 12 €]

Nella notte tra il 26 e 27 settembre 2014 quarantatré studenti della Scuola Normale Rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, nel meridionale stato messicano del Guerrero, furono sequestrati dalla polizia locale dei comuni di Iguala e Cocula e consegnati a un gruppo di presunti narcotrafficanti dell’organizzazione dei Guerreros Unidos. Da allora i giovani risultano desaparecidos e gli inquirenti non hanno saputo offrire versioni plausibili sull’accaduto. In questi mesi l’azione di esperti autonomi, degli attivisti e di alcuni giornalisti, spesso osteggiati dalla Procura, dal Governo e dai mass media allineati, ha permesso all’opinione pubblica e ai genitori dei ragazzi di ottenere dati preziosi che hanno sconfessato la cosiddetta “verità storica” sul caso, offerta dall’ex procuratore generale Jesús Murillo Karam nel gennaio 2015 e basata su testimonianze di presunti delinquenti estorte con la tortura. Secondo la Procura i ragazzi sarebbero stati rapiti e poi bruciati dai narcotrafficanti per oltre quindici ore nella discarica di Cocula e i loro resti sarebbero stati gettati nel vicino fiume San Juán. L’opera di controinformazione e di ricerca indipendente, in particolare le indagini dell’EAAF (Équipe Argentina d’Antropologia Forense) e del GIEI (Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti della Commissione Interamericana dei Diritti Umani), ha smentito parti sostanziali di questa narrazione e ha mostrato le numerose contraddizioni e la malafede delle autorità nell’investigazione del caso. Sono state messe in evidenza la presenza e le responsabilità dell’esercito e della polizia federale nell’accaduto.

Invece la versione governativa, sorretta da campagne mediatiche che discreditano i ragazzi, i loro cari e la società che chiedeva giustizia e verità, pretendeva di ridurre l’accaduto a un episodio “locale”, limitato solo a pochi poliziotti e politici corrotti. Al contrario gli apparati pubblici coinvolti a vario titolo sono diversi e la notte del 26 settembre s’è svolta una vera operazione repressiva complessa e articolata di persecuzione contro un gruppo di studenti inermi. È stata anche rivelata la presenza di un autobus, tra quelli che i ragazzi avevano occupato e sottratto ai conducenti, che probabilmente era carico di eroina. Un attacco così spietato e prolungato, conclusosi con la cattura dei 43 e con la loro sparizione, potrebbe essere stato motivato dal timore di perdere il prezioso carico, la cui presenza ignoravano i normalisti. Iguala è uno degli hub del cosiddetto pentagono dell’oppio dello stato del Guerrero, una regione tra le prime al mondo per le coltivazioni di amapola o adormidera, cioè di papavero da oppio. Il cartello di Sinaloa, capeggiato da Ismael “El Mayo” Zambada e Joaquín “El Chapo” Guzmán, che attualmente è incarcerato in un penitenziario di Ciudad Juárez, sta infatti spingendo nel mercato statunitense l’eroina color caffè e la bianca, sostituendo la tradizionale di color marrone scuro. I messicani stanno facendo concorrenza direttamente agli importatori asiatici di eroina bianca, molto apprezzata sulla costa est, e, in questo contesto, Guerrero e il Triangolo d’Oro, un’area appartenente agli stati del Durango, del Sinaloa e del Sonora, sono territori strategici. Gli esperti internazionali del GIEI hanno investigato sul caso per un anno.

Il 30 aprile 2016 è scaduto il loro mandato e il governo del presidente Enrique Peña Nieto ha deciso di non rinnovarlo. La loro presenza è diventata scomoda perché con le loro scoperte hanno sostenuto la lotta dei genitori degli studenti e dei movimenti sociali nazionali e globali, denunciando le omissioni e le responsabilità dello Stato messicano in quello che si può configurare come un delitto imprescrivibile di lesa umanità. “Vivos se los llevaron y vivos los queremos” (“Vivi li hanno portati via e vivi li rivogliamo”), continuano a gridare il 26 di ogni mese i familiari delle migliaia di vittime di desaparición, i genitori di Ayotzinapa, i collettivi e i cittadini solidali nelle piazze del Messico. Chiedono giustizia e verità. A quasi due anni dalla “notte di Iguala” è chiaro che il caso dei normalisti di Ayotzinapa rappresenta solo la punta di un iceberg. Nell’ultimo decennio regioni come Guerrero, Veracruz, Tamaulipas, Chihuahua, Nuevo León, Coahuila, Estado de México e Michoacán, solo per citare alcuni esempi emblematici, si sono trasformate in immense fosse comuni, depositi clandestini di ossa e cadaveri di persone che non verranno mai identificate a causa dell’inerzia delle istituzioni. Non a caso queste zone corrispondono a snodi in disputa tra varie organizzazioni criminali, a punti di passaggio strategici dei traffici di droghe, armi e persone, a focolai di resistenza popolare o a territori ricchi di biodiversità e risorse naturali il cui sfruttamento è ambito da imprese multinazionali.

Quando una persona è sequestrata e viene “fatta sparire”, sono i suoi familiari che devono provvedere da soli alle ricerche, osteggiati da autorità indolenti, se non proprio conniventi con i perpetratori del crimine. Solo da alcuni anni, in particolare dopo la nascita del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità del poeta Javier Sicilia nel 2011, le vittime del conflitto interno messicano, della militarizzazione della sicurezza e della cosiddetta “guerra alle droghe”, che in realtà è una guerra alla società stessa, sono riuscite faticosamente a ritagliarsi uno spazio nel dibattito pubblico, a rendere visibile la tragedia nazionale della violenza e a organizzarsi efficacemente per smorzare dolori e solitudini, incontrarsi, fare comunità e lottare insieme per la verità. Grazie ai loro sforzi è stata approvata una “Legge delle Vittime”** che, all’atto pratico, non ha funzionato per mancanza di fondi, coordinamento e volontà politica per cui è ancora in corso una battaglia per riformarla e renderla operativa. Le istituzioni che ha creato sono solo l’immagine sbiadita di quello che prevede il suo testo e che la società civile esige. Un’altra legge importantissima, quella sulle sparizioni forzate, è ancora in discussione e gli sforzi della società civile organizzata si concentrano dunque su quest’iniziativa. Ciononostante anch’essa rischia di venire sterilizzata da veti e postille che, insieme alle croniche limitazioni del budget, puntano a limitare le responsabilità degli apparati dello Stato nelle desapariciones.

ayotzinapa-1[Tramonto domenicale semidesertico. Mi trovo nel zocalo, la piazza centrale, della città di León, nello stato del Guanajuato e osservo i cartelli e i poster disposti per terra da uno sparuto gruppo di attivisti. Una madre tiene per mano la sua bambina, che avrà dieci anni, e s’avvicina all’immagine in primo piano di Jhosivani Guerrero de la Cruz, studente desaparecido di Ayotzinapa. Suggestionata, forse spaventata, dalla sequenza grafica dei ragazzi davanti ai suoi occhi, la bimba chiede a sua madre: “Mamma, ma perché lì dice che sono desaparecidos, cos’hanno fatto?”. “Li han fatti sparire perché facevano i rivoluzionari”, è stata la risposta. Secca, cinica, magari preoccupata di non saper spiegare una realtà terribile alla sua figlioletta, o semplicemente male informata e pregiudiziosa, la signora con le sue parole è uno spaccato della società, almeno di quei settori disinformati e negazionisti che ne formano il nocciolo duro, specialmente fuori dai grandi centri urbani. Sono tantissime le persone che ancora oggi, per esempio, negano o minimizzano la realtà delle sparizioni forzate, non riconoscono il ruolo della forza pubblica in questi crimini, ignorano le cifre ufficiali e sono convinte che a loro non potrà mai succedere una cosa del genere e che le vittime siano sempre legate al mondo del crimine. “Se sono desaparecidos, avranno qualcosa a che fare coi narcos, se non ti metti nei guai, qui non ti capita niente”, sostengono…].

La sparizione forzata di persone in Messico, come in molti altri Paesi dell’America Latina, è una pratica che risale per lo meno agli anni sessanta e settanta del secolo scorso. La guerra sucia, o guerra sporca, condotta da alcuni apparati dello Stato, specialmente dalle forze armate, si rivolgeva contro i militanti dei movimenti popolari e d’insurrezione armata, oltreché contro la popolazione comune, che rivendicavano una maggiore giustizia sociale e una democratizzazione del sistema. Così l’assassinio politico, la desaparición, la tortura, il genocidio e l’annichilamento delle comunità hanno configurato una strategia repressiva ben definita. Guerrero, stato dalle profonde radici contadine e indigene e dalle enormi disuguaglianze sociali, ha prodotto numerosi movimenti guerriglieri e nelle sue montagne ci sono le forze armate che storicamente hanno gestito la controinsurrezione.

Il maestro rurale Lucio Cabañas, fondatore del gruppo armato Partido de los Pobres (Partito dei Poveri), venne ucciso nel 1974 in uno scontro coi militari e divenne una figura d’ispirazione per le lotte contadine e sociali. Aveva studiato proprio nella scuola di Ayotzinapa. Tanti suoi compagni non morirono sul campo di battaglia, ma furono sequestrati e non si seppe più nulla di loro. Sono tuttora desaparecidos. La sparizione forzata non significa la morte, ma nemmeno la vita. Significa sospensione, un limbo della memoria e della disperazione, dell’oblio e della ricerca. Vuol dire paura, strategia del terrore, distruzione del tessuto sociale. E questo male assoluto non può far altro che servire agli interessi di un meccanismo perverso e complesso, a volte criptico e altre chiaro, ma comunque potente, cinico ed efficace. Il potere dell’oppressione e dell’economia depredatrice, la riproduzione dello status quo, la spoliazione dei territori e delle culture, il monopolio politico dell’élite e l’ideologia della guerra, sia essa “fredda” o “calda”, “guerreggiata” o di “bassa intensità”, ne oliano gli ingranaggi. Dopo la caduta del muro di Berlino, con la presunta e declamata fine delle ideologie e della storia, la guerra sporca s’è riconvertita e modernizzata nel contesto della globalizzazione e di un conflitto interno messicano sempre più complesso e sanguinario.

La narcoguerra o guerra alle droghe e al narcotraffico ha sostituito la lotta contro il “pericolo rosso” e rappresenta un asse di legittimazione per politiche pubbliche, retoriche governative e campagne elettorali dal trasfondo bellicista. Ma i risultati, al di là dei falsi successi millantati di volta in volta dal presidente di turno, sono sempre gli stessi: carriere armamentiste, violenza, corruzione, crescita e sofisticazione del business degli stupefacenti e di altre attività criminali “collaterali”, impunità e controllo autoritario delle domande sociali. Nel frattempo le droghe e i narcocapitali inondano i mercati dei Paesi consumatori mentre le decine di migliaia di morti e le briciole della catena del valore del narcotraffico restano a Sud. Nel solo Messico le vittime della narcoguerra sono oltre 150.000 in un decennio e qualunque tipo di droga, naturale o sintetica, costa meno di prima. Col tempo il fenomeno della desaparición ha assunto proporzioni catastrofiche. Negli ultimi dieci anni il numero dei desaparecidos nel Paese ha superato quota ventottomila e oggi la desaparición forzada risponde a una molteplicità di fattori, al di là di quelli tradizionali di tipo politico. Le persone sono sequestrate e “fatte sparire” anche solo perché si trovano nel posto e nel momento sbagliato oppure perché difendono la loro terra e organizzano la popolazione. O perché transitano in una zona che è in mano alla criminalità organizzata e la polizia collabora o è al soldo di questa.

Ci sono ipotesi che provano a inquadrare la sparizione forzata come strategia di spopolamento delle regioni ad alta densità di risorse naturali o sostengono l’esistenza di un reclutamento coatto di manovalanza criminale da parte dei cartelli della droga che, per esempio, hanno bisogno di figure specializzate come i tecnici informatici e delle telecomunicazioni. Ad ogni modo in tutti questi casi si parla di desaparecidos in quanto c’è una partecipazione diretta o un’omissione di azioni preventive e di tutela da parte dello Stato che diventa quindi artefice o complice di questo crimine ignobile. Il tasso d’impunità dei delitti in Messico s’aggira intorno al 97% e la corruzione è endemica a tutti i livelli. La narco-politica caratterizza e definisce l’incipiente democrazia messicana nel secolo XXI. In questo contesto è triste ma realista affermare che l’escalation della violenza e delle sparizioni forzate avviene semplicemente perché è possibile che avvenga. Cioè la possibilità di delinquere e, semplicemente, farla franca perché mai si verrà catturati o condannati, o perché in ogni caso è possibile corrompere le autorità, rappresenta la norma, anche in caso di reati gravissimi. La protezione garantita da alcuni funzionari pubblici a certe organizzazioni criminali o il loro diretto coinvolgimento nei business illeciti è la cartina al tornasole di questo patto d’impunità. Oggi, come quarant’anni fa, Guerrero, in particolar modo la zona della tierra caliente, che è il cuore delle coltivazioni illegali, soffre un’endemica crisi umanitaria ed economica. La sua città principale, Acapulco, è stata negli ultimi anni la capitale mondiale dell’omicidio, con tassi di violenza altissimi. Si tratta di uno degli stati più poveri del Messico, sempre agli ultimi posti delle classifiche relative agli indici di povertà, disuguaglianza socioeconomica e sviluppo umano. In questo contesto le mattanze, i crimini e persecuzioni della notte di Iguala possono ripetersi con logiche e risultati simili, come in effetti è successo, e non solo nel Guerrero.

otros-igualaA Iguala, pochi giorni dopo il 26 settembre 2014, è nato il Comitato di Ricerca de Gli Altri Desaparecidos (Los Otros Desaparecidos), attivo ancora oggi. A partire proprio dalle ricerche degli studenti desaparecidos nelle colline tutt’intorno alla città, s’è creato un movimento di familiari che dapprima ha cominciato a riunirsi, poi ad aiutare concretamente la UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), che aveva organizzato delle squadre per trovare i giovani ancora in vita, e infine a formare le proprie brigate per disseppellire le centinaia di corpi e di resti rinvenuti mano a mano nei dintorni. Non si trattava più esclusivamente di cercare i 43, dato che il problema era molto più grave: l’intera zona era disseminata di fosse clandestine e ossa umane. I 43 non sono stati ancora stati ritrovati, e nemmeno i loro resti, salvo quelli di uno di loro, Alexander Mora Venancio, identificato con l’esame del DNA. Ma grazie al rischioso ed estenuante lavoro dei Los Otros Desaparecidos tante famiglie di Iguala hanno ottenuto risposte circa il destino dei loro cari scomparsi. Risposte che in tanti anni nessuno, né gli inquirenti né le istituzioni, aveva voluto o potuto dare. Perché offrire spiegazioni sul caso di un desaparecido potrebbe significare la assunzione di responsabilità enormi, per cui lo Stato dovrebbe ammettere d’essere coinvolto, d’essere parte in causa, e processare se stesso in qualche modo. In altri casi, invece, la procurazione di giustizia e le polizie, le agenzie per le indagini e i pubblici ministeri sono inerti, disfunzionali o privi di risorse e tecnologie. Avere un caso di desaparición in famiglia implica portare una croce, sopportare uno stigma sociale, affrontare l’isolamento e addirittura minacce, insomma vuol dire essere vittima due, tre, quattro volte.

La scelta alternativa, altrettanto amara, è far finta di dimenticare, smettere di cercare, rassegnarsi e provare a condurre di nuovo una vita “normale”. Il progetto collettivo e itinerante Orme della Memoria (Huellas de la Memoria), ideato dall’attivista e scultore Alfredo López Casanova, punta esattamente al contrario: registrare i passi dei familiari dei desaparecidos che hanno camminato per anni di comunità in comunità attraverso una stampa delle suole delle loro scarpe, che hanno incise frasi in rilievo dedicate ai cari scomparsi. La stampa su carta dei dati dei desaparecidos e delle espressioni d’affetto dei loro familiari viene realizzata con inchiostro color verde-speranza. Ma alcune incisioni sono di colore rosso, quando i resti della persona scomparsa sono stati rinvenuti e identificati, o nero, quando chi la stava cercando muore durante le ricerche o per malattie contratte durante anni di dolore e spostamenti.

Ciclicamente le cronache dei quotidiani europei riportano i nomi di villaggi e comunità messicane, spesso difficili da pronunciare o anche solo da memorizzare, dove sono avvenute terribili stragi, esecuzioni extragiudiziarie, violazioni di massa ai diritti umani, 15 sparatorie, repressioni della protesta sociale, abusi delle forze di polizia e dei militari, oppure regolamenti di conti, occupazioni, spoliazioni e sequestri da parte della criminalità organizzata. Ayotzinapa, Tlatlaya, Apatzingán, Acteal, Aguas Blancas, Tetelcingo, Temixco, Iguala, Tepalcatepec, San Fernando, Pasta de Conchos, Atenco, Oaxaca, San Juan Copala, La Realidad, Topo Chico, Pajaritos, Wirikuta: sono solo alcune località tristemente note in terra azteca, probabilmente meno in Italia. I luoghi si dimenticano e sono pochi i media che dedicano uno spazio alla riflessione su un problema grave e strutturale: la provenienza delle armi in possesso dell’esercito e delle narcomafie in Messico. Queste arrivano in gran parte dagli Stati Uniti e dall’Europa, cioè dalle regioni che più ricevono e riciclano i narco-capitali e che più consumano le droghe prodotte, o in transito, nei Paesi latinoamericani. Grazie agli esborsi dell’erario pubblico messicano e al contrabbando gli stati più conflittuali e socialmente diseguali, come Guerrero e Chiapas, sono invasi da armi di alto calibro che servono a uccidere e a far sparire migliaia persone, senza tregua e calcolatamente, come nel caso dei 43 studenti.

proceso-1989-la-verdadera-noche-de-iguala-1-638I fucili tedeschi G36 della Heckler & Koch, azienda leader mondiale nella produzione di armi da fuoco, sono passati facilmente dalle mani delle polizie del Guerrero a quelle dei cartelli della droga locali, malgrado esista un divieto legale di esportare armamenti negli stati in cui si violano i diritti umani. Anche per questo, sebbene siano concentrate nel Sud del mondo, le mattanze, come quella di Iguala, e le vittime dell’ipocrita narcoguerra, iniziata dall’ex presidente americano Richard Nixon e portata avanti dai vassalli di Washington in America Latina, come il colombiano Álvaro Uribe e i messicani Felipe Calderón e Enrique Peña Nieto, ci riguardano da vicino, direttamente, senza scuse. La società tedesca, e anche una parte del mondo politico, ha mostrato il suo sdegno per la situazione e ha dato alcuni segnali, per lo meno a livello diplomatico, economico e nelle piazze.

Peña Nieto viene dichiarato persona non grata da collettivi e importanti associazioni, ma non dai governi e dall’Unione Europea, che indugia, ammaliata 16 dalle promesse dell’apertura del settore energetico messicano. E il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi, dal canto suo, ostenta vergognosamente una reverenza e una spregiudicata vicinanza con “l’amico Enrique” ad ogni incontro ufficiale, senza mai menzionare la grave crisi ed il conflitto in corso in Messico. A livello mondiale le iniziative, dentro e fuori dalle Giornate Globali per Ayotzinapa realizzate nel 2014 e 2015, sono state tante che è impossibile ricordarle tutte. Il libro 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos, nell’ottima traduzione in italiano di Lucia Cupertino, ha accompagnato in Messico, e di certo lo farà in Italia, l’ondata di protesta, rabbia, soli-darietà e unione che ha coinvolto migliaia di militanti, specialmente negli ultimi due anni, dopo Ayotzinapa. È grazie ai progetti culturali, ai romanzi, alle cronache, ai documentari, ai flash mob, ai dipinti, alla street art, alle opere teatrali e, senza dubbio, è grazie a queste poesie, composte da poeti messicani, spagnoli e sudamericani, che i riflettori non verranno spenti e che possiamo dire “Ayotzinapa somos todos”. Ayotzinapa siamo tutti affinché la memoria sia collettiva e così sopravviva, si rinnovi e fruttifichi.

“43 poeti per scacciare la morte, per dar sfogo a una indignazione vitale. La poesia come una affermazione, sono qui, sono con te, sono per tutti. Dove tutti significa molte persone, tutte le vive, tutte le sparite, tutte le torturate, tutte le assassinate di questo Messico contemporaneo, immerso in una guerra contro i poveri, contro chi si sente sicuro di fare il proprio dovere, contro chi vuole essere libero. Molte di più dei 43 studenti desaparecidos dall’esercito, la polizia e i narcotrafficanti ad Iguala la notte tra il 26 e il 27 settembre 2014. Però quei 43 ragazzi risvegliano la poesia: sono stati trasformati dal desiderio popolare di mettere fine alla violenza di stato e della delinquenza (nessuno sa dove finisce una e comincia l’altra) in semi di speranza”. (dalla postfazione di Francesca Gargallo)

Nota.

**In spagnolo Ley General de Víctimas. È la norma approvata nel 2013 come risultato di una grande mobilitazione sociale contro la narcoguerra e la violenza, iniziata nell’aprile di due anni prima, e di un parallelo processo legislativo durante i mandati presidenziali di Felipe Calderón, fino al novembre 2012, e di Enrique Peña Nieto, nei due mesi successivi. La Legge, sulla carta, prevede l’identificazione delle tipologie di vittime e i loro diritti, la creazione di istituzioni specifiche di supervisione, vigilanza e implementazione dei programmi in favore delle vittime della violenza, fonda l’anagrafe nazionale delle vittime e prevede un fondo di aiuto e riparazione del danno.

Iniziative per i 24 mesi dalla desaparición dei 43 studenti: hashtag #Ayotzinapa243

Speciale Ayotzinapa dos años: Desinformémonos

Notte di Iguala video e documenti, timeline: link 1   Link 2

Articolo 26-27 settembre da Città del Messico link


Tre poesie dal libro

Briceida Cuevas Cob _____________ Maya, Messico

MESE XUUL (DAL 24 OTTOBRE AL 12 NOVEMBRE)

I

Questa volta il lumino dell’attesa si consuma dinnanzi al dubbio.

Questa volta i tuoi antichi defunti sono giunti e non c’eri in casa.

Eri alla ricerca dei vivi tra i morti.

(Vennero a cercarti e ti trovarono col tuo altare ambulante

ad issare volti reiterati di giovani amati).

Da allora

alla marcia per la giustizia e il ripudio

si sono unite le anime degli altri morti.

E non se ne andranno fino a quando non li troveranno vivi.

II

In questo mese di convivenza coi morti,

il forno in terra cruda per cuocere grandi tamales*

ti ricorda

che la morte giunge

dai quattro punti cardinali.

Ma l’odore della morte che ti circonda non viene da quelle parti.

Ha cancellato la sua traccia.

III

A lungo ti domandi:

“Se all’ottava del giorno dei morti tornano gli impiccati,

quando verranno i vivi incinerati?” Neghi a te stessa quest’idea

E intraprendi la ricerca

in valli, fiumi, guazzi, montagne, fosse clandestine

con una piccola luce che si è moltiplicata attraverso le voci d’altri:

“Vivi li hanno portati via,

vivi li rivogliamo”

IV

Le foglie del fior di morto**

non bastano a curare la ferita

quando profonda è la radice del dolore.

Lo sai perché sono trascorsi più di 43 giorni.

E ogni giorno che passa scava una palata di angoscia nella fossa

aperta del tuo cuore.

Preghi.

Mentre sopporti le burle del potere

sfogli il fior di morto;

Interroghi ogni petalo marcito:

Vivono…? Non vivono…?

E a ogni domanda senza risposta si sfoglia la tua anima.

Il fiore che si porge ai defunti durante la Festa dei Morti

 

*Piatto tipico amerindio costituito da massa di mais ripiena di carne e verdure, che viene avvolta in foglie di banana, mais e simili per poi essere cotta (NdT).

**(nome scientifico: Tagetes erecta, anche detto in nahuatl Cempohualxochitl, Venti fiori). In diverse zone del Messico la pianta è inoltre usata come rimedio medicinale in varie situazioni di malessere, includendo alcune considerate culturali, come paura e spavento (NdT).


Juan Campoy _____________ Spagna

AYOTZINAPA

Erano il miglior raccolto del Paese,

una generazione di pensatori liberi,

la speranza di un popolo.

Ma il potere appesta

e va marcendo

fino a servire d’adorno

negli uffici.

Tutto ciò che poteva essere orizzonte,

un cielo libero fecondato di vita,

non era nient’altro che una pagina

archiviata in uno scantinato buio.

43 voci con faccia e nome

disposti ad essere concime nel campo,

viveri sul tavolo dei poveri,

vaccino miracoloso

contro la febbre nera del lebbroso,

43 poesie

contro la longitudine vertiginosa

di una sferza o di una sciabola.

Erano il miglior raccolto del Paese,

però hanno lasciato solo equazioni

irrisolte,

verbi e aggettivi contro l’inverno0

e il suo bacio mortale,

così riga

dopo riga hanno scagliato metafore

contro l’iniquità

insopportabile dei genocidi.

Forse li colsero distratti,

o forse avevano troppa fiducia

nei pilastri basilari della loro fede.

Spaccati in pronomi,

il campo è rimasto seminato di ossa.


Patricia Olascoaga _____________ Uruguay

La morte ci sorprende ad ogni semina

con le braccia aperte all’aria.

Quarantatré sono state

le bocche a gridare la denuncia e l’utopia,

fors’è per questo,

le labbra aperte nei baci

giovani bocche ancora senza crepe d’odio,

sogni nuovi.

Fors’è per questo.

Quarantatré sono stati

i corpi a camminare lungo una strada in discesa,

quarantatré e non sono tornati.

La morte ci sorprende ad ogni semina

senza un luogo dove piangere i morti.

Assalto a mano alzata, zampata feroce:

non gli è bastato rubare la vita di quei corpi

incenerire i volti ormai inespressivi,

dovevano anche rubare i loro corpi dalla sepoltura

i loro nomi alle presenze

le loro lacrime al pianto delle loro madri.

Fors’è per questo,

quarantatré giovani bisognerà partorire oggi

come impotenza o ribellione o omaggio.

Partorirli ogni giorno nel ricordo e nel verso

e repellere l’oblio

e maledire quarantatré volte,

come uno scongiuro e una supplica

quando si lancia il chicco nell’aria ad ogni semina,

quarantatré giovani nella terra.

 

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Haiti e l’industria della fame https://www.carmillaonline.com/2016/01/12/haiti-e-lindustria-della-fame/ Mon, 11 Jan 2016 23:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27560 di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Haiti food aid[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie di Haiti, 5 anni dopo il terremoto”. Il numero attuale di NRL è dedicato a “nazionalismi, populismi di destra e razzismi”. Lo trovi qui e puoi leggerne una recensione su Carmilla qui. Sulle nuove e vecchie schiavitù e la migrazione dei lavoratori haitiani nelle coltivazioni di canna da zucchero della vicina Repubblica Dominicana segnalo l’uscita del bel libro di Raùl Zecca Castel Come schiavi in libertà, Ed. Arcoiris, Salerno, 2015]

Aggiornamento introduttivo (12/01/2015). Gli effetti del devastante terremoto del 12 gennaio 2010 ad Haiti furono e sono tuttora amplificati da una lunga lista di fattori storici, politici, economici e sociali. Sei anni dopo il sisma, che fece circa 250mila morti, il paese più povero delle Americhe vive una profonda crisi politica e non è avventato ricorrere alla definizione di “Stato fallito” per parlare del suo sistema di governo e istituzionale. Il quadro è fosco: le elezioni parlamentari, che erano state rimandate per ben tre anni, si sono svolte (primo turno) il 9 agosto in un clima da guerra civile; pacifico, invece, lo svolgimento del secondo turno delle parlamentari e il primo delle presidenziali, il 25 ottobre, anche se da settimane i partiti sconfitti protestano nelle strade denunciando brogli per cui il Consiglio Elettorale ha dovuto posticipare il ballottaggio per l’elezione del presidente dal 27 dicembre al 17 gennaio; l’epidemia di colera, scoppiata a fine 2010, ha fatto 9.000 vittime fino ad ora e nel 2014 era praticamente sotto controllo, mentre nel 2015 c’è stata una nuova impennata dei contagi; il parlamento è rimasto praticamente inoperante e l’esecutivo ha governato via decreto nell’ultimo anno; continua la crisi diplomatica e umanitaria con la Repubblica Dominicana, che sta espellendo in massa haitiani dal suo territorio in base a risoluzioni giudiziarie dal tenore palesemente razzista; le proteste e le manifestazioni post-elettorali denunciano anche cooptazioni massicce del voto e la strategia governativa in favore del suo “candidato ufficiale” (Jovenel Moïse, delfino del presidente Michel Martelly, del partito PHTK, Parti Haïtien Tet Kale); il rinvio del voto al 17 gennaio è anche conseguenza di questa situazione e si sfideranno il governativo Jovenel Moïse e il rappresentante d’una opposizione moderata, Jude Celéstine; anche il nuovo parlamento s’insedierà dunque in ritardo, in attesa dei risultati elettorali].

Haiti e l’industria della fame. Flashback (inizio 2010)

Claire indossa una camicia bianca elegante, i jeans puliti e le scarpe da tennis nuove, adatte alle lunghe camminate. E’ uscita di fretta, il passo deciso. Brilla in mezzo alle macerie. Trotta in salita evitando immensi cumuli di mattoni, tombini scoperchiati e pali della luce divelti in mezzo al marciapiede. Stanca di questa gincana senza scopo, si siede sullo spigolo di un macigno che invade la carreggiata rallentando il traffico. Lungo la Rue Delmas si boccheggia, il sole sembra rimanere fisso allo zenit per tutta la giornata, portando l’asticella del termometro sopra i 30 gradi. Lo smog tipico di una caotica metropoli caraibica si mischia alla polvere della distruzione, al vagare disperato di moltitudini alla ricerca di un motivo per spiegare la tragedia e di un pezzo di pane per palliare i morsi della fame.

Sono passate tre settimane dal terremoto, una tremenda scossa che in 39 secondi ha fatto 250mila vittime nella capitale di Haiti, Port-au-Prince (colloquialmente, PAP). Il 12 gennaio, giorno della catastrofe, Claire era fuori di casa e s’è salvata. A suo cugino, sua zia, a molti amici del quartiere e a tantissime altre persone non è toccata la stessa fortuna. Lei ha ancora una casa e una madre. Un milione e mezzo di suoi concittadini invece dormono nei giardini pubblici, sui marciapiedi o nei campi di accoglienza allestiti alla buona in oltre mille siti d’emergenza sparsi per la città.

Claire, però, ha fame. Sua madre non si fa vedere da un paio di giorni. Qualsiasi bene di prima necessità è diventato un lusso inaccessibile. Solo chi vive nelle tendopoli può accedere a qualche razione di riso e fagioli. Gli altri devono arrangiarsi, ingegnarsi, cercare lavoretti giornalieri o chiedere la carità. Sì, ma a chi? La ragazza osserva i passanti da dietro lo scoglio su cui s’è accovacciata, che in realtà è ciò che rimane del secondo piano di un piccolo albergo. Claire è in attesa d’incrociare qualche blanc, qualche straniero a cui parlare e chiedere aiuto. Siamo in due, in esplorazione nel mezzo delle macerie e della confusione, a pochi giorni dall’arrivo sull’isola. Due sconosciuti di nome Diego e Fabrizio che Claire avvista e segue. Trenta, quaranta, cinquanta passi accelerati dietro di noi, e poi effettua il sorpasso. Gentile, domanda se abbiamo da mangiare. Semplicemente, con lo sguardo abbassato e il tono risoluto. Le offriamo dell’acqua e la invitiamo ad accompagnarci.

La chimera della ricostruzione

Subito dopo il terremoto partì un’ipocrita e sfrenata gara per la solidarietà. Chi offre di più? ONU, governi, impresari, cittadini, siti web, associazioni e ONG riversarono una massa di promesse e buone intenzioni monetizzabili in circa 11 miliardi di dollari. Di questi, a oltre un anno dal sisma, solo il 5% era stato stanziato e “messo a budget”, cioè destinato a opere di ricostruzione. La vera gara, allora, diventò quella per gli appalti, la cui gestione fu affidata all’ex presidente USA Bill Clinton, a capo della CIRH (Commissione Interina per la Ricostruzione di Haiti) insieme al Primo Ministro haitiano. Questa carica, tra l’altro, rimase per più di un anno scoperta per via dell’impasse politica in cui si trovò il presidente-cantante Michel Martelly dopo il suo insediamento nel 2011. E’ allora facile immaginare chi fosse a prendere realmente le decisioni sul destino delle donazioni.

Haiti cite-soleilNei primi due anni di “ricostruzione” la situazione è rimasta stabile, stagnante, identica a quella che imperava nel febbraio 2010, il mese in cui sono stato a PAP. In quel periodo il presidente René Préval dovette consegnare il paese “chiavi in mano” a un consorzio di banche e governi che avrebbero deciso come (e se) ricostruirlo. Oggi l’80% delle macerie è stato rimosso, ma gli sforzi per la ricostruzione sembrano essersi orientati più all’edificazione di hotel di lusso, impianti d’assemblaggio e fabbriche di indumenti, in beneficio di compagnie e investitori in prevalenza stranieri, che ai bisogni della gente. Tra il 2010 e fine 2012 i fondi stanziati dalla comunità internazionale per Haiti hanno raggiunto la cifra di 6,43 miliardi di dollari, ma solo il 9% di questi è passato in qualche modo dal governo locale. L’ammontare dei contratti concessi dall’agenzia americana UsAid è stato di 485,5 milioni di dollari di cui solo l’1,2% è andato a imprese haitiane.

Nel 2012, quando ancora mezzo milione di persone abitava nelle tendopoli, il “fondo umanitario” per Haiti degli ex presidenti USA Bill Clinton e George Bush (figlio) investì 2 milioni di dollari nell’hotel a cinque stelle Royal Oasis, un’enclave nel mezzo di un’area urbana devastata. Un anno dopo, con 300mila sfollati ancora nelle tende, l’International Financial Corporation (IFC), parte del gruppo della Banca Mondiale, decise di finanziare la costruzione di un nuovo hotel Marriott che avrebbe generato “ben” 200 posti di lavoro dal 2015 e 300 durante la costruzione. L’albergo farà compagnia ad altre strutture dell’americana Best Western e della spagnola Occidental Hotels & Resorts, anch’esse risorte per il benessere turistico dell’isola, anche grazie ai fondi della solidarietà internazionale e a benefici fiscali inusitati di cui godono durante i primi quindici anni di attività. I meccanismi della cooperazione e una bella fetta delle donazioni fungono da ingranaggi e lubrificanti per l’apertura di nuovi mercati, attraenti per le multinazionali americane, giapponesi, latinoamericane ed europee, e per un manipolo di compagnie nazionali in mano alla ristretta élite locale.

haiti pirates“Haiti ha le condizioni fondamentali per una crescita economica sostenuta, incluse una forza lavoro competitiva, la prossimità a grandi mercati e attrazioni turistiche e culturali uniche”, sosteneva Ary Naim, rappresentante di IFC ad Haiti. Probabilmente si riferiva alla schiavizzazione dei lavoratori nelle mine e nelle “fabbriche miserabili”, note in inglese come sweatshops, impiantate dagli investitori statunitensi e poco rispettose del già infimo salario minimo nazionale, fissato a 4 dollari e mezzo. Si tratta, dunque, di una forza lavoro altamente “competitiva”, cioè sfruttata e a basso costo, ma comunque produttiva nonostante la fame, il colera e la precarietà salariale e abitativa imperante nel paese.

Nel 2014, con circa 140mila persone sparse in 243 tendopoli, non s’investe più solo nei progetti alberghieri, ma si punta sull’espropriazione e privatizzazione delle coste e delle isole haitiane, come nel caso della Île à Vache, un piccolo paradiso che  è diventato territorio di conquista per investitori americani, dominicani e di altri paesi. Il Collettivo dei Contadini di Île-à-Vache (KOPI), costituito nel dicembre 2013, lotta per difendere gli abitanti dell’isola dalla migrazione forzata, dall’espulsione dalle proprie terre e dalla crisi alimentare e ambientale che i nuovi megaprogetti turistici stanno provocando: disboscamento, riduzione delle coltivazioni e 20mila persone cacciate via dalle brigate motorizzate della polizia, a cambio di 2000 posti di lavoro promessi dal settore alberghiero e 1500 residence che occuperanno la costa. Il Collettivo non osteggia il turismo in quanto tale, combatte gli effetti nefasti di progetti calati dall’alto e dall’estero, in spregio delle comunità locali, costrette a migrare ingrossando le file dei disoccupati o dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche che popolano i quartieri slum delle grandi città.

Flashback (continua)

Haiti tourism-development-projects-haitis-caribbean-coast-2-638Claire si guarda intorno curiosa. Avrà diciott’anni. Ci troviamo a soli tre isolati dalla sede dell’AUMOHD, l’associazione di avvocati per la difesa dei diritti umani che ci ospita. Il suo presidente, Evel Fanfan, usa la casona dell’organizzazione come ufficio, magazzino di viveri e medicine, dormitorio improvvisato, “centro servizi” per gli abitanti del quartiere, e infine come mensa e rifugio d’emergenza per alcuni terremotati e per i cooperanti o i giornalisti in visita. E’ il nostro caso. Claire ha accettato con piacere il nostro invito a pranzo. A sprazzi, in un francese didattico e ben scandito, necessario a farci capire, ci racconta un po’ della sua vita e del giorno del terremoto, le douce janvier, che ha cambiato l’esistenza di tutti e il corso della storia haitiana. Di fronte a noi, adesso, ci sono un muro di cinta bianco e una porta con un cartello in creolo. L’AUMOHD s’è trasformato in un piccolo centro d’accoglienza. Gli operai di un sindacato indipendente usano la sede dell’associazione per fare le loro riunioni e ricostruire vincoli, contare i danni e rimboccarsi le maniche. Le donne e gli uomini incaricati delle pulizie lavorano di mattina e aspettano l’ora di pranzo prima di andarsene.

Instancabile, Evel è sempre indaffarato. Il suo cellulare squilla ogni 5 minuti. Risponde in inglese, in creolo o in francese. Cerca fondi, ascolta racconti, appunta piani d’azione su una lavagnetta, visita tendopoli e ambasciate, cliniche e prigioni. A volte sembra agire d’istinto, in preda a una strana frenesia. Sta provando a rintracciare gli altri avvocati del gruppo per riprendere le attività, ma la situazione è troppo grave, i palazzi ministeriali e i tribunali sono crollati, tutti i lavori sono fermi. Per un po’ non ci sarà tempo per seguire processi, urge sopravvivere, procurare il cibo, comprare la benzina per il generatore, l’acqua e le medicine.

haiti sweat shopsDopo il sisma, l’acqua è diventata un bene di lusso. Per acquistare una bottiglia o una bustina di plastica, da bucare con gli incisivi e succhiare fino all’ultima goccia, ci vogliono 2-3 dollari. Haiti ha sete e trova l’acqua potabile solo nei campi d’accoglienza, allestiti in ogni quartiere cittadino e per la strada, o in vendita sulle bancarelle degli ambulanti. Il supermercato, sebbene abbia riaperto poco dopo il terremoto, è privo della metà dei prodotti e carissimo, inaccessibile agli haitiani. Se prima del 12 gennaio i tre quarti della popolazione vivevano sotto la soglia della povertà, la situazione s’è drasticamente aggravata dopo la scossa tellurica che ha raso al suolo quasi tutta la capitale e il suo hinterland.

La cacciata del presidente, i caschi blu e il colera

Nel 2004, quando Haiti stava per festeggiare 200 anni d’indipendenza, l’ex prete Jean-Bertrand Aristide, primo presidente eletto in democrazia nel 1990 e costretto all’esilio da un golpe tra il 1991 e il 1994, fu deposto nuovamente da un colpo di stato e inviato fuori dal paese, anzi, fuori dall’emisfero occidentale. I militari USA lo deportarono nella Repubblica Centroafricana, dove rimase per più di sette anni, prima di tornare in patria nel marzo 2011. Oggi Aristide deve difendersi da vari capi d’accusa: traffico di droga, sottrazione di beni pubblici, espropriazioni illegali, concussione e riciclaggio. Due mesi prima era rientrato anche l’ex dittatore (1971-1986) Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier, figlio di un altro tiranno, François “Papa Doc” Duvalier (al potere dal 1957 al 1971). Pasciuto e ora disposto a “aiutare il suo popolo”, dopo un quarto di secolo di esilio dorato in Francia grazie ai soldi di famiglia, cioè del popolo haitiano, Baby Doc è stato messo sotto processo per crimini contro l’umanità e corruzione, ma ad Haiti i processi andavano al rallentatore e i gruppi organizzati di vittime della dittatura hanno presentato il caso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Ma purtroppo nemmeno in quella sede otterranno giustizia. Infatti, il 3 ottobre 2014 Duvalier è morto d’infarto. Ha potuto passare serenamente gli ultimi momenti della sua vita nel suo paese, nel lussuoso quartiere della capitale in cui risiedeva, e rimanere impune.

Haiti flagAristide, da presidente, aveva osato troppo: tentativi d’aumento del salario minimo, soppressione dell’esercito, protezione sociale per i più deboli, rivendicazione del debito storico pagato da Haiti alla Francia e un piano per recuperare il controllo di alcune risorse strategiche suscitarono i timori americani e internazionali di dover fronteggiare un “Hugo Chávez caraibico”. Gli USA, tramite la CIA e l’IRI (International Republican Institute), fomentarono gruppi ribelli e paramilitari per destabilizzare il suo esecutivo e tra il 2004 e il 2006 sostennero il governo autoritario di Alexandre Boniface e del Primo Ministro Gérard Latortue. Fu un periodo d’eccezionale violenza politica, con scontri tra i “ribelli” e la polizia, da una parte, e le bande armate pro-Aristide, le note chimères, ma anche gruppi di comuni cittadini, dall’altra. In pochi mesi si contarono quattromila omicidi politici e l’incarceramento di decine di leader sociali e oppositori.

Nel frattempo la Missione ONU ad Haiti, la MINUSTAH, si stava occupando di “ripulire” con la violenza i quartieri marginali della capitale, in particolare Citè Soleil, dove con la scusa di combattere la criminalità, nel luglio 2005, le “forze di pace” fecero decine di vittime sparando sulle case della povera gente, proprio in uno dei bastioni elettorali del partito del presidente in esilio (il Fanmi Lavalas). Da un decennio l’avvocato Evel Fanfan difende alcune vittime delle stragi di Citè Soleil e di altri brutali episodi del terrorismo di stato. Perciò è stato minacciato di morte, vive con la scorta, formata solo da un poliziotto che fa atto di presenza, e qualche mese fa, dopo nuove minacce e un attentato cui è riuscito a sfuggire per puro caso, ha deciso di mettere al sicuro sua moglie e i suoi due figli negli Stati Uniti.

WikiLeaks ha rivelato che nel 2008, durante il mandato dell’ex delfino di Aristide, Préval, l’ambasciatrice americana a Porto Principe, Janet Sanderson, parlò addirittura di una minaccia emisferica costituita dal risorgere di “forze politiche populiste e anti-mercato”, e poi chiarì che “l’impegno latinoamericano coordinato regionalmente ad Haiti non era possibile senza l’ombrello delle Nazioni Unite che aiuta gli altri principali donatori, con in testa il Canada, gli USA, la Francia, la Spagna, il Giappone e altri, a giustificare internamente la loro azione d’assistenza bilaterale”. In soldoni l’ONU e la MINUSTAH, che è comandata dal Brasile e svolge funzioni di polizia e militari, aiutavano e aiutano i paesi coinvolti a spiegare alle loro rispettive opinioni pubbliche perché investono in imprese e missioni neocoloniali sotto l’egida statunitense. Proprio i caschi blu, in particolare il contingente nepalese, sono responsabili di aver portato sull’isola il virus del colera che ha fatto 9mila vittime e quasi 750mila contagi dall’ottobre 2010. Ci sono voluti 813 giorni dallo scoppio dell’epidemia perché l’ONU presentasse delle scuse.

Flashback (fine)

haiti graph Breakdown of HUMANITARIAN fundingIl pranzo all’AUMOHD è un rituale. A turno uno degli ospiti o qualcuno dello staff, formato da conoscenti di Evel che lui prova ad aiutare con piccoli lavori, un tetto e un paio di pasti al giorno, s’occupa di preparare un pentolone di riso coi piselli o coi fagioli, oppure una copiosa razione di pasta, condita con improvvisate salse di pomodoro e pesce maciullato. Noi, oltre a svariati pacchi di spaghetti, abbiamo portato tre chili di cuscus che rende tantissimo. Spugnoso e assorbente, si gonfia d’acqua, imbiondisce e cresce a dismisura per sfamare tutti e tutte. Arricchiamo il piatto con zucchine, cipolle e carote soffritte per offrire un pasto completo. Qui lo chiamano “Piti Mi”, il “piccolo me”, anche se abbiamo scoperto che quel termine significa miglio o sorgo e non cuscus. Essendo un alimento mediterraneo, risulta quasi sconosciuto a queste latitudini e viene assimilato al locale Piti Mi. E’ una parola molto musicale che i commensali non si stancano mai di ripetere, ridendo fragorosamente e chiudendo il verso con la rima “Piti-Mi-Haitì”, “il-cus-cus-Haitì”, un vero rap culinario. Claire ne mangia due porzioni, ride di gusto, ringrazia e ci saluta: “Au revoir”, ma non l’abbiamo più rivista.

Ogni mattina e dopo pranzo, io e Diego siamo gli incaricati ufficiali della preparazione del caffè espresso. Abbiamo con noi un’impeccabile moka da quattro, quindi dobbiamo fare almeno quattro caffettiere una dopo l’altra per poter accontentare tutti. Per gustare meglio la bevanda, abbiamo riciclato una decina di vasetti di vetro degli omogeneizzati come tazzine. Li abbiamo comprati al supermercato per avere a disposizione delle “merendine extra” o dei rinforzini per la cena, ma poi, una volta consumate le saporite pappette per bebè, abbiamo preso a riutilizzare i contenitori per berci il caffè. Abbiamo scoperto, però, che i nostri compagni haitiani non li lavavano insieme alle altre stoviglie, ma li buttavano e preferivano usare al loro posto dei grossi bicchieri di plastica che, a loro volta, finivano nella spazzatura. Ci abbiamo comunque riprovato. Abbiamo acquistato un nuovo set di tazzine-vasetti e, dopo aver rimosso l’etichetta degli omogeneizzati, siamo riusciti a fargli ottenere un posto d’onore nell’apposito scaffale insieme agli altri veri bicchieri di vetro.

Haiti, le ONG e l’emergenza permanente

Haiti nike-sweatshopsNell’aprile 2014 il World Food Program ha lanciato un allarme sull’insicurezza alimentare nel Nordovest di Haiti, ma, anziché fungere da denuncia delle cause reali del problema o da invito per il governo e la comunità internazionale a stimolare la produzione locale, il monito è servito da scusa per chiamare a maggiori sforzi nelle donazioni e nell’invasione di prodotti alimentari dall’estero. Negli ultimi due anni il prezzo di fagioli, riso e altri alimenti è cresciuto del 40% e si sono moltiplicate le proteste popolari, soprattutto nel Nord, nel distretto di Cap-Haïtien. For Haiti With Love, organizzazione cristiana “non profit”, ne ha approfittato per chiedere ai suoi sostenitori maggiori sforzi: “Dobbiamo pregare veramente affinché più gente s’interessi ad Haiti e più gente aiuti a condividere il fardello degli aiuti laggiù, ma l’aiuto finanziario diretto è quello di cui abbiamo realmente bisogno proprio ora”. E così, tappando qualche buco con cibi importati e orazioni, la protesta sociale viene ammansita e il business può continuare.

L’80% dei dieci milioni di haitiani vive in povertà, con un reddito inferiore al già di per sé miserabile salario minimo di 4,54 $ al giorno. Un milione e mezzo di loro soffre la fame, 6 milioni e 700mila non riescono a coprire regolarmente i loro bisogni alimentari e un quinto dei bambini è in stato di denutrizione, nonostante gli innumerevoli programmi assistenziali internazionali. Anzi, è più realistico, anche se paradossale, pensare che alla radice del problema ci siano proprio questi. La stampa tende a presentare i problemi di Haiti, estrapolandoli dal contesto neocoloniale in cui si sono generati, come causati dal clima o dalle catastrofi naturali, dalla presunta violenza dei suoi abitanti o dalla corruzione dei suoi politici. Le responsabilità e gli abusi dei governi e delle agenzie straniere, che si spartiscono gli aiuti e limitano lo sviluppo democratico, sono spesso taciuti o normalizzati. E così succede anche con le operazioni delle ONG, oltre 10mila in territorio haitiano, i cui sprechi e costi logistici arrivano a mangiarsi fino al 60% del loro budget. Inoltre Haiti non è un paese violento, il suo tasso di omicidi è di 7 ogni 100mila abitanti, mentre la media dei Caraibi è 17, in Messico è 24, in Honduras 91 e nella “pacifica” Costa Rica 10.

Perché Haiti ha fame?

Haiti graph money goesGli appelli sulla “emergenza fame” ad Haiti finiscono spesso per soccorre le economie dei produttori americani e degli intermediari, agenzie governative e non, che amministrano la distribuzione o rivendita degli alimenti. Haiti Grassroots Watch (HGW) è uno dei pochi media alternativi su Haiti. “Perché Haiti ha fame? Perché la fame morde più adesso che negli ultimi 50 anni?”, recita il titolo di un articolo sul loro sito. I portavoce della Rete Nazionale per la Sovranità e la Sicurezza Alimentare (RENAHSSA) imputano al governo l’aggravamento della situazione, ma è da molto più tempo che economisti, agronomi agenzie umanitarie ed “esperti” internazionali disegnano progetti e vincono commesse, contratti e generose borse per affrontarla.

I donanti controllano miliardi di dollari per “aiuti alimentari”, “allo sviluppo”, “assistenza umanitaria” e programmi agricoli che non toccano le cause strutturali della fame. HRW ne cita sei: (1) la povertà, la precarietà salariale e la privatizzazione di tutti i servizi pubblici, indisponibili alla maggior parte della popolazione; (2) il sistema di proprietà della terra e la mancanza di una gestione razionale, l’inesistenza di un catasto, l’uso politico della terra data in ricompensa dai governanti ai propri alleati; (3) le politiche commerciali neoliberali, impulsate da USA, BM e FMI, che hanno ridotto le protezioni tariffarie sui prodotti nazionali e causato esodi dalle campagne alle città (anche per questo la sovrappopolazione e la precarietà abitativa a PAP fecero incrementare i danni e le vittime del terremoto del 2010); (4) l’aumento demografico in un contesto di produzione agricola stagnante, basata su tecniche e strumenti obsoleti, abbandonata dallo stato e soffocata da donazioni e importazioni straniere e dall’uso del carbone vegetale come combustibile, con la conseguente deforestazione quasi totale del territorio; (5) l’impatto negativo di vari meccanismi di “assistenza” che portano soldi a progetti e organizzazioni estere ma non al governo haitiano o alle associazioni locali, per cui non ci si concentra sulle cause strutturali della fame ma solo su emergenze e contingenze; (6) le inefficienze del mercato interno, le pratiche oligopolistiche degli importatori di cibo che mantengono i prezzi alti.

L’industria della fame

Gli aiuti internazionali e le politiche commerciali legate alla fame di Haiti, al settore alimentare e a quello agricolo, sono state disastrose e contradditorie. Secondo HGW la quota maggiore (più del 50%) degli aiuti alimentari mondiali diretti a Haiti proviene da programmi governativi statunitensi e arriva in parte al governo haitiano, in parte ad alcune agenzie come il World Food Program e in parte a contrattisti come World Vision, CARE, ACDI-VOCA e Catholic Relief Service. Tra il 5% e il 10% del cibo consumato ad Haiti entra con queste “importazioni” a basso costo che sfiancano i produttori locali facendo dumping e favorendo la cosiddetta “monetizzazione” degli aiuti alimentari. In pratica il governo USA compra riso, grano, farina, oli vegetali, carne di pollo e fagioli ai propri produttori, dato che per legge la stragrande maggioranza del cibo donato deve essere made in USA. Poi lo spedisce a enti governativi stranieri o alle organizzazioni umanitarie che a loro volta possono venderlo, “monetizzandolo”, per ottenere contanti freschi per i loro progetti.

La “industria della fame” è un grosso affare per cui si devono creare mercati coatti e negli USA il governo deve periodicamente segnalare le emergenze alimentari internazionali per attribuire contratti e riattivare consumi nei paesi in via di sviluppo. Negli anni ottanta e novanta Haiti è stata forzata da FMI, USA e World Bank a fissare le più basse tariffe all’importazione di prodotti agricoli tra i paesi dei Caraibi, mentre prima la protezione arrivava fino al 50%. Così nel 2011 l’esportazione agricola americana verso Haiti ammontava a 326 milioni di dollari e la dieta degli haitiani era cambiata: il riso e il pollo avevano sostituito il mais, il sorgo (il Piti-Mi!) e i tuberi. I coltivatori locali sono stati progressivamente estromessi dai più produttivi e sovvenzionati competitors statunitensi e gli aiuti hanno contribuito ad aprire mercati che in precedenza erano marginali o serviti dagli agricoltori nazionali. Anche per questo le campagne haitiane languiscono e la fame è una piaga endemica. La fame e le macerie di Haiti non hanno bisogno di carità e promesse ma dell’autonomia e della libertà che le possano rimuovere, trasformandole in nuove lotte e speranze.

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Ayotzinapa, Iguala e i Sentieri dell’Eroina Messicana https://www.carmillaonline.com/2015/12/31/ayotzinapa-iguala-e-i-sentieri-delleroina-messicana/ Thu, 31 Dec 2015 19:00:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27620 di Fabrizio Lorusso

Messico ayotzi striscio blanco y negroA oltre 15 mesi dalla mattanza di sei persone e la sparizione forzata di 43 studenti ad Iguala, le vittime di quel crimine di stato e gli altri 26.000 desaparecidos del Messico continuano a chiedere giustizia. Insieme a migliaia di persone “mancanti” la grande assente è la verità, o almeno la ricerca di versioni plausibili sulla drammatica notte della strage di Iguala in cui, conviene ricordarlo, non solo furono fatti sparire brutalmente i normalisti di Ayotzinapa, ma vi furono anche sei morti, [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Messico ayotzi striscio blanco y negroA oltre 15 mesi dalla mattanza di sei persone e la sparizione forzata di 43 studenti ad Iguala, le vittime di quel crimine di stato e gli altri 26.000 desaparecidos del Messico continuano a chiedere giustizia. Insieme a migliaia di persone “mancanti” la grande assente è la verità, o almeno la ricerca di versioni plausibili sulla drammatica notte della strage di Iguala in cui, conviene ricordarlo, non solo furono fatti sparire brutalmente i normalisti di Ayotzinapa, ma vi furono anche sei morti, tre studenti e altre tre persone uccise in esecuzioni extragiudiziali, più di 40 feriti e 80 vittime di attentati. A Iguala, località di centomila abitanti al centro dello stato meridionale del Guerrero e, ugualmente, crocevia di fiorenti e disputati traffici di stupefacenti, vi fu una vera e propria operazione militare e repressiva, sviluppatasi in nove attacchi e scenari diversi. Orchestrata dalle autorità locali, confuse e colluse con bande di narcotrafficanti, l’azione è stata realizzata tra le ore 21 e mezzanotte e mezza ed è stata “tollerata”, se non proprio supportata, pure dalla polizia federale e dall’esercito.

Ogni 26 del mese per i +43

Messico ayotzi antorchasSabato 26 dicembre 2015, quattro del pomeriggio, ora di Città del Messico. Un migliaio di persone manifesta per le strade della capitale messicana, semivuote per la pausa natalizia, accompagnando in un “pellegrinaggio politico” e simbolico i genitori dei 43 studenti della scuola normale di Ayotzinapa, sequestrati dalla polizia di Iguala e scomparsi nella notte del 26 settembre 2014. Il corteo, con alla testa 43 torce accese a illuminare le fotografie dei ragazzi, è partito dal centro storico e s’è concluso presso la Basilica della Madonna di Guadalupe, l’icona religiosa messicana per eccellenza. La domanda incessante di ritrovare in vita gli studenti, ribadita negli ultimi 15 mesi puntualmente ogni giorno 26 per le strade e le piazze di mezzo di mondo da organizzazioni, attivisti, collettivi e persone solidali con la causa dei desaparecidos messicani, è stata dunque portata anche nel centro cerimoniale cattolico più importante del Paese. Un altro Natale, il secondo, senza i ragazzi della Escuela Normal Rural “Raul Isidro Burgos” ma con la speranza pertinace di ritrovarli. E di ritrovare anche gli altri 26mila desaparecidos, da cifre ufficiali, che invece sono oltre 30mila secondo numerose Ong. Non si dimentica, quindi, che i 43 sono, in realtà, molti di più, sono +43. Il grido e la rivendicazione di ¡Justicia! si moltiplicano.

Vidulfo Rosales, avvocato del Centro dei Diritti Umani della Montagna Tlachinollan y delle famiglie dei giovani, ha sottolineato la volontà di non mollare del movimento che li sostiene, legittimato altresì dall’operato del Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (GIEI della CIDH). Il GIEI in settembre ha reso pubblici i risultati dei suoi primi sei mesi di investigazioni, che hanno smontato la “verità storica” della procura messicana con cui si pretendeva di chiudere il “caso Iguala-Ayotzinapa”, e in aprile concluderà le sue indagini. In dicembre il gruppo ha anche confermato, in base a immagini satellitari, l’inesistenza di un incendio nella discarica di Cocula la notte del 26-27 settembre, cioè quando secondo la Procura alcuni membri della delinquenza organizzata locale avrebbero incenerito i corpi degli studenti per tutta la notte e la mattina seguente.

Esercito impermeabile

Messico 43Anche se ripetutamente il governo e le forze armate hanno negato alla stampa, agli inquirenti e, in seguito, agli esperti internazionali l’accesso alle strutture castrensi e gli hanno impedito d’intervistare i militari del 27esimo battaglione di stanza a Iguala, che sono stati presenti in varie fasi della persecuzione contro gli studenti e sono stati più volte segnalati come possibili responsabili o corresponsabili di sparizioni forzate, sono sincere e forti le aspettative riguardanti il lavoro del GIEI che sta provando a dare almeno qualche certezza ai genitori e ad aprire nuove piste, volutamente escluse da governo e procura.

In questo senso le attese per i prossimi mesi sono positive, la speranza di sapere e di trovare vivi i ragazzi resiste. “Non è un atto religioso ma politico”, ha dichiarato Felipe de la Cruz, portavoce dei genitori, parlando della marcia alla Basilica e, in riferimento a questo “periodo festivo”, ha specificato che “non ci sono giorni di pace o di felicità, ma si tratta di giorni in cui non si riposa, non si dimentica che ci sono vittime di sparizione forzata”.

Ad oggi la linea d’investigazione tracciata dall’ex procuratore Jesús Murillo Karam in base a testimonianze di alcuni detenuti estratte con la tortura, la quale centrava l’attenzione sulla discarica del comune di Cocula, sulle polizie municipali e sui narcos del gruppo Guerreros Unidos, non è più quella fondamentale e si sta ampliando il novero delle persone, dei politici e delle autorità a vari livelli che sarebbero potenzialmente coinvolti. La famigerata SEIDO (Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada) è stata estromessa dalle indagini che sono passate nelle mani di Eber Omar Betanzos, sottosegretario ai diritti umani della Procura Generale della Repubblica (PGR), organo presieduto da Arely Gómez.

Messico ayotzi esercitoIl giornalismo di ricerca messicano, nonostante i rischi, non ha smesso di scavare. Il reportage di Anabel Hernández e Steve Fisher “Inoccultabile la partecipazione dell’esercito” (Rivista Proceso n. 2027) e l’analisi di Gloria Leticia Díaz “La verità di Iguala, tappata con un mantello verde oliva” (Proceso 2040), per esempio, confermano partecipazioni, testimonianze e versioni che legano tra loro le differenti azioni dell’esercito durante “la notte di Iguala” ed evidenziano nettamente i tentativi della PGR di occultare e coprire la presenza, la vigilanza, l’omissione dei soccorsi e le attività repressive dei militari contro gli studenti di Ayotzinapa. Infatti, le testimonianze rese dai 36 ufficiali e soldati del 27esimo battaglione alla procura il 3 e 4 dicembre 2014, ben 67 e 68 giorni dopo i fatti, sono di per sé infestate da imperfezioni tecniche e contraddizioni contenutistiche e rivelano un quadro fosco, cioè indagini intenzionalmente confuse e un ruolo dell’esercito ancora tutto da chiarire. Ed è la necessità di fare chiarezza sul ruolo delle forze armate una delle principali richieste del GIEI che probabilmente non verrà mai esaudita, creando un vuoto inaccettabile nelle investigazioni e nella ricostruzione dell’accaduto.

L’insostenibile nefandezza di Milenio

Portada-Milenio-9-de-noviembre-de-2015Effettivamente grazie a una protesta che non s’è mai fermata, ma che anzi s’è estesa a macchia d’olio globalmente, e alla forza di volontà dei genitori dei 43 il movimento per la giustizia e la verità sul caso Ayotzinapa è riuscito a scardinare la falsa verità offerta dagli inquirenti e far aprire nuove linee di ricerca, portate avanti da tecnici e personale differenti, e a mantenere comunque alto il livello d’attenzione dei mass media.

Un’attenzione che, se da una parte s’è mostrata sensibile alle istanze dei genitori e dei movimenti sociali, soprattutto mediante la copertura di media alternativi e indipendenti nazionali (Desinformémonos, Revolución 3.0, Agencia Subversiones, solo per citare i più noti) e stranieri, così come di alcuni importanti portali web e riviste cartacee (SinEmbargo, Aristegui Noticias, La Jornada, Revista Variopinto, Proceso, tra i più seguiti), dall’altra ha condotto una campagna di discredito e menzogne, capeggiata dal quotidiano Milenio, contro i genitori dei 43 e i loro figli sequestrati dallo stato, contro i portavoce del movimento e della scuola rurale di Ayotzinapa, come Omar García, e infine contro tutte le forme di dissidenza sociale e protesta attive del paese, in particolare quelle dei docenti della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación) in lotta contra la riforma educativa implementata dall’esecutivo di Peña Nieto nell’ambito delle sue “riforme strutturali” neoliberiste (link a reportage di Radio Onda d’Urto sulla campagna diffamatoria di Milenio contro Omar García).

la razonIn un paese che è al 152esimo posto, su 180 paesi, della Classifica Mondiale della Libertà di stampa realizzata da Reporter senza frontiere (RSF) e in cui l’89% dei crimini contro i giornalisti rimane impunita (vedi buona sintesi sulla repressione della libertà di stampa e i movimenti in Messico 2015 QUI LINK), la battaglia mediatica non è mai ad armi pari, visto che i professionisti della comunicazione, i blogger e anche semplici cittadini che usano le reti sociali vivono molteplici attacchi: osteggiati o comunque non tutelati dalle autorità, imbavagliati da leggi liberticide in materia di diritto di manifestazione e d’espressione, sono preda di cacicchi locali e bande della criminalità organizzata oltreché di un clima di violenza e della malafede di gran parte dei media mainstream, duopolio televisivo (Tv Azteca e TeleVisa) in testa.

Annata violenta

La minaccia della violenza risulta ancora più concreta in una società dal tessuto istituzionale sfaldato, minata alla base nei suoi gangli di resistenza e creatività comunitaria e sociale, violentata da un modello economico escludente e da megaprogetti estrattivi irrispettosi di culture e popolazioni. Un Messico che da una parte firma l’accordo segreto TPP (Trans Pacific Partnership) per non perdere “l’aggancio” col socio statunitense, egemone decadente, e dall’altro non può fermare l’emorragia dei desaparecidos e dei morti, con le migliaia di casi irrisolti, visto il tasso d’impunità dei reati del 97%. mapa_GuerreroInfine, come confermano i dati per i primi 11 mesi del 2015, nuovamente si registra un aumento nel numero di omicidi dolosi dopo due anni di discesa (2013-2014) e i picchi (insuperabili?) dell’epoca del presidente Felipe Calderón (2006-2012, col 2011 anno più violento in assoluto: 27.199 omicidi): i dati parlano di 17.055 omicidi contro i 15.907 nello stesso periodo del 2014, per cui per ora l’incremento registrato è del 7% e probabilmente le cifre definitive supereranno i 18.000 assassinii in un anno. La narcoguerra non è affatto finita, il sangue continua a scorrere a sud mentre le correnti di narco-capitali, di armi, di migranti, di schiavi e di droghe illegali fluiscono a nord. Gli stati messicani più violenti, che spiegano il 23% del totale nazionale, sono l’Estado de México, regione che circonda la capitale, e il Guerrero.

Nell’ottobre scorso lo stesso governo statunitense ha dovuto in qualche modo riconoscere come ormai i fondi che stanzia ogni anno per la guerra alle droghe in Messico finiscano nella mani di forze armate e di polizia inaffidabili, che sistematicamente sono al centro di scandali per violazioni ai diritti umani, o in quelle della delinquenza organizzata, provocando di fatto un’inondazione di armi nel paese. Il segnale più chiaro è che per la prima volta dall’inizio del programma di “aiuti” noto come Iniziativa Merida nel 2008, infatti, il Dipartimento di Stato ha deciso di decurtare di 5 milioni di dollari sui 148 previsti per il 2016.

Messico stricione grande ayotzinapa-25-s-2015-mexico-city-203-smallE’ un goccia nell’oceano, considerando pure che dall’inizio dell’operazione il congresso USA ha stanziato qualcosa come 2300 milioni di dollari, ma è pur sempre un segnale. 1300 milioni di queste erogazioni sono andate a finanziare l’acquisto di equipaggiamento bellico da imprese nordamericane e per corsi di formazione. “C’è gente nel governo USA che sa che tutto questo è una farsa e che non può continuare a dare soldi al Messico come se niente fosse successo, sanno che col loro silenzio, col loro sostegno finanziario e militare, con la loro vendita di armi e formazione, forniscono appoggi morali e politici affinché i militari e i poliziotti continuino a violare i diritti umani senza paura d’essere giudicati, per questo hanno preso questa decisione di tagliare i fondi”, ha precisato alla rivista Proceso Arturo Viscarra, coordinatore di SOA Watch, Ong statunitense che da anni lotta per la chiusura della School of the Americas (SOA), storica fucina di dittatori e militari latinoamericani.

L’eroina di Iguala e il mercato mondiale

Messico planta amapolaNel novembre 2015 è uscito nelle librerie messicane il libro Dai la colpa all’eroina: da Iguala a Chicago, inchiesta di un vecchio lupo di mare del giornalismo messicano, José “Pepe” Reveles, già autore de Il cartello scomodo (2010), Sequestri, narcofosse e falsi positivi (2011) e Il Chapo: consegna e tradimento (2014), tra gli altri. La tesi centrale del volume è che i veri responsabili della sparizione dei 43 normalisti di Ayotzinapa sono fondamentalmente i tre presidenti della repubblica che dal 2000 ad oggi sono stati al potere: Vicente Fox, del conservatore PAN (Partido Acción Nacional), tra il 2000 e il 2006, Felipe Calderón, anche lui del PAN, tra il 2006 e il 2012, e infine Enrique Peña Nieto, del PRI (Partido Revolucionario Institucional, partito egemonico di regime per 71 anni nel Novecento).

Sono loro i primi responsabili di non avere attuato una politica antidroga “decisa e sovrana” che non sottostesse ai diktat degli Stati Uniti, il maggiore mercato di consumo mondiale di beni e servizi leciti e illeciti. Tra questi, naturalmente, ci sono anche le droghe per circa 20 milioni di consumatori statunitensi per cui il Messico è (storicamente, come da mappa del 1993…) un gran produttore: la marijuana, l’oppio e i suoi derivati, tra cui morfina ed eroina, e le metanfetamine provenienti dai numerosi laboratori sparsi sul suo territorio. Messico 1993 Amapola MarijuanaMa in terra azteca, ormai da più di due decenni, sono smistati pure i principali flussi di cocaina, bianco petrolio importato da Colombia, Bolivia e Perù e gestito dalle mafie messicane su scala globale.

Negli ultimi 3-4 anni il cartello di Sinaloa, mafia leader del mercato in Messico e negli USA, ha spinto l’offerta di eroina, stupefacente inalato e non solo iniettato, diversificando il prodotto: dalla vecchia black o brown tar, eroina di colore marrone, ottenuta più rapidamente e di minor qualità, in cui erano specializzati i messicani tradizionalmente, è stato fatto il salto nel redditizio mercato della white tar, la bianca, che era dominato dai colombiani. Inoltre dal Sud e dalla west coast, regno della black, Sinaloa s’è spostata verso la east coast, più desiderosa di white tar.

Messico amapola 2Sostiene l’autore, a ragione, che la “guerra alle droghe” ha contribuito a un gran risultato, facendo sì che il Messico diventasse il secondo produttore mondiale di eroina, secondo solo all’Afghanistan e seguito dagli antichi leader, i paesi del “triangolo asiatico” o “dorato”, ossia Myanmar (Birmania), Laos e Tailandia, e la Colombia. Come è stato possibile? Le cause sono sicuramente varie, ma Reveles ne indica una sostanziale che contrasta fortemente con la retorica ufficiale. Alla fine del sessennio presidenziale di Vicente Fox l’esecutivo decide d’interrompere le fumigazioni dal cielo con erbicidi le piantagioni di cannabis e adormidera (papavero da oppio).

Dal “triangolo dorato” al “pentagono dell’oppio” del Guerrero

Il 28 novembre 2006, due settimane prima che Calderón annunciasse la prima offensiva militare della narcoguerra nel suo natale Michoacán il presidente Fox, nel terzultimo giorno del suo mandato, firma un decreto per sospendere i programmi d’estirpazione via area della coltivazioni. Messico Guerrero mapa pentagono de la amapolaNei sei anni successivi il Messico incrementa di quattro-cinque volte il suo output di oppiacei e di due volte quello di marijuana. Intanto anche i morti ammazzati crescono: sono più di 150.000, i due terzi dei quali legati alla narcoguerra. Ancora oggi l’esercito provvede a estirpare manualmente le coltivazioni illecite, ma il ritmo di crescita delle stesse è molto maggiore. Inoltre in questi anni i governi messicani hanno presentato cifre adulterate e contrastanti con quelle di organismi internazionali sulle superfici seminate a papavero realmente “ripulite”.

Il Guerrero, oltre ad essere culla di movimenti popolari e guerriglieri, è un territorio fortemente militarizzato per lo meno dagli anni settanta, epoca della guerra sporca (guerra sucia) e delle prime desapariciones, intese come metodica politica di stato e dirette contro ogni tentativo di organizzazione dal basso o di dissidenza rispetto al regime priista (=del PRI).

Sempre agli ultimi posti negli indici di sviluppo nonostante i suoi ricchi giacimenti auriferi e la proliferazione di località turistiche, la regione si trova al centro dei traffici internazionali della sostanza su cui i cartelli messicani stanno puntando per rimpiazzare nel mercato USA la coca, ormai in stasi, e la marijuana, sempre più legalizzata (per esempio in Oregon, Alaska, Washington e Colorado anche per fini “ricreativi”) e sottratta progressivamente al controllo mafioso. Acapulco, Chilpancingo, Taxco e Iguala sono hub dell’eroina e della marijuana. Le piantagioni di papavero da oppio fioriscono sulla sierra e nella tierra caliente per confluire verso i punti strategici del cosiddetto “pentagono dell’oppio”.

Il potere del cane

black_tar_heroinIl vero potere risiede storicamente nelle forze armate che, quarant’anni dopo l’inizio della lotta ai movimenti guerriglieri e a un quarto di secolo dalla fine della Guerra Fredda, contesto “macro” e geopolitico in cui s’iscrivevano le sue funzioni di controllo sociale a livello “micro” e nazionale, sono gli arbitri dei giochi e dei flussi nel Guerrero. La linea immaginaria del pentagono dell’oppio segue il tracciato delle strade federali della regione, ma corrisponde altresì alle basi militari: in senso orario troviamo le caserme di Iguala, Chilpancingo, Acapulco, Pie de la Cuesta, Atoyac, Petatlán, Pungarabato e, la più vicina a Iguala, Telolopan. Il pentagono dà origine al 42% degli oppiacei prodotti nel paese, occupa circa il 40% del territorio del Guerrero e si estende dalla costa alla sierra, collegando le turistiche Zihuatanejo e Acapulco, e poi in direzione nord-est ha tre vertici: la capitale Chilpancingo, Iguala e Tlapehuala. La frontiera è delimitata dalle strade federali e dalle basi militari. Al suo interno, ma anche oltre i suoi confini, verso Cuernavaca, Oaxaca, il Michoacán e l’Estado de México, la semina del papavero, l’ingovernabilità e lo scannatoio tra gruppi criminali proseguono indisturbati.

white tarLa repressione sociale, compresa l’escalation degli attacchi contro i giornalisti, gli ambientalisti e gli attivisti in generale, è legata a doppio filo, da un lato, alla strategia statale di controllo del territorio, che passa dalla militarizzazione, dalla desaparición forzada, dalla fabbrica dei colpevoli, dall’omicidio politico e dalla delega di poteri sostanziali a forze armate protette e intoccabili, e, dall’altro, alla gestione di patti politici, connivenze giudiziarie e ripartizioni dei benefici di un’economia criminale che, per quanto riguarda l’eroina, genera su scala nazionale guadagni stimati intorno a 17 miliardi di dollari. In questo quadro vanno considerati e collocati anche altri importanti fattori quali lo sfruttamento delle risorse minerarie, la presenza di imprese multinazionali, di agguerriti movimenti organizzati, come quelli dei docenti e delle stesse scuole normali, e di gruppi armati di autodifesa (per esempio le CRAC, ma non solo) e guerriglieri, come l’ERPI e l’EPR.

Il “cartello” e il quinto autobus

narco attivita' messicoL’inferno di Iguala in cui sono incappati gli studenti di Ayotzinapa è dunque l’inferno del traffico di eroina e marijuana, tollerato e cogestito da apparati dello stato e della sicurezza nazionale in combutta con partiti politici e amministratori locali controllati dai narcos o parte essi stessi delle cupole criminali. Gli inferi del narco-stato non si circoscrivono al pentagono oppiaceo del Guerrero, ma riguardano almeno la metà dei comuni messicani dal Sinaloa al Tamaulipas e al Chiapas, dal Michoacán e dal Oaxaca al Durango, Sonora e Chihuahua. Il tour geografico della decomposizione potrebbe continuare. Mi limito a menzionare gli stati dove il fenomeno è tradizionalmente molto radicato, per lo meno dall’epoca dei primi gomeros, coltivatori di oppio, che durante la Seconda Guerra Mondiale hanno sperimentato uno dei primi boom della morfina, sostanza utilizzata per soddisfare i bisogni narcotici e antidolorifici della macchina bellica statunitense.

señores del narcoSecondo lo scrittore americano Don Winslow, autore di magistrali romanzi sui narcos messicani come Il cartello (2015) e Il potere del cane (2005), il potere del cane rappresenta la capacità d’oppressione dei pochi sui tanti, mentre il cartello significa molto di più che un gruppo di produttori associati o un’organizzazione criminale per il commercio della droga. Il cartello è un sistema d’oppressione sofisticato e articolato che comprende tanto i gruppi della delinquenza organizzata quanto gli apparati dello stato collusi e gli istituti finanziari, tanto la manovalanza criminale quanto funzionari e politici corrotti. Gli anelli della catena del cartello si diramano fino ad includere al suo interno frammenti di tutto il sistema economico, sociale e politico. La tesi di un altro grande libro, l’inchiesta di Anabel Hernández “I signori del narco”, coincide con quella di Winslow, ma assume forza e veridicità in quanto elaborata da una giornalista tra le più rispettate in Messico: i signori del narcotraffico, infatti, non sono solo i boss ma anche (e sprottutto) i politici che li supportano, come per esempio uno dei “protagonisti” del libro, l’ex ministro della pubblica sicurezza di Calderón, Génaro García Luna.

“Tanto i conducenti dei bus come i poliziotti della Federale, gli agenti locali e lo stesso esercito ne erano informati. In altri modi non è possibile praticare nel paese il traffico di droghe”, conferma Pepe Reveles nel suo libro parlando di uno degli autobus, il famigerato “quinto bus”, sequestrato dagli studenti di Ayotzinapa la notte del 26 settembre a Iguala. corrupcion-en-mexicoDi cosa erano informate le autorità? Cosa invece non sapevano i ragazzi? Che quel pullman, di proprietà della compagnia Costa Line o della Estrella Roja del Sur, era molto probabilmente carico di eroina. Milioni di dollari rischiavano di sfumare, ma soprattutto si sarebbero accesi i riflettori sul cartello narco-politico-militare del Guerrero.

Anche il gruppo di esperti della corte interamericana ha messo in evidenza il caso di questo bus che, invece, era stato “trascurato” dalla procura e dalla sua “versione storica” dei fatti. All’interno della massa enorme di fascicoli sulla notte di Iguala le ricerche di giornalisti e periti hanno trovato la pista di quel quinto bus, occupato da 14 normalisti la notte del 26, e dell’eroina. I consumatori statunitensi di questa droga, oggi fornita al 90% dai trafficanti messicani, si sono duplicati tra il 2007 e il 2012. La metà delle esportazioni passa da Iguala e il sistema di trasporto preferito è quello terrestre che sfrutta le compagnie di linea. Il business dell’eroina è privato ma con partecipazione statale e nessuna delle parti vuole che venga scoperto, né che aumentino gli sguardi indiscreti o i testimoni. Perciò, quando le spie dei Guerreros Unidos e della polizia a Iguala hanno lanciato l’allarme, è partito l’ordine di fermare gli studenti “in qualunque modo”.

represionDa decenni insegnanti, giornalisti e studenti, specialmente quelli delle scuole normali e di Ayotzinapa, sono una spina nel fianco per “il cartello”. Sono attivisti sociali, militanti politici o comunicatori che possono mettere in pericolo gli affari della regione, siano essi legati agli stupefacenti o allo sfruttamento delle risorse naturali. Anche per questo sono osservati, infiltrati, minacciati e vigilati. Nel 2011 la polizia uccise con nonchalance due manifestanti della scuola R. Isidro Burgos sull’autostrada del sole, la Città del Messico-Acapulco. Il 26 settembre 2014 il Centro di Controllo, Comando e Computo (C4) li teneva d’occhio dal pomeriggio e ne ha seguito le mosse fino all’epilogo della mattanza e della persecuzione notturna. Per anni le autorità e la popolazione sapevano del saldo tremendo di vittime e desaparecidos nel pentagono dell’oppio, così come di altre zone del Messico, ma l’omertà e la connivenza avevano prevalso. La problematica del narcotraffico viene a convergere con quella della povertà e delle eterne disuguaglianzie socio-economiche, cui s’oppone la parte combattiva e più organizzata della popolazione, ben nota e segnalata alle autorità e schiacciata tra due fuochi: narcos e governo.

La scarsa volontà di risolvere questi casi è palese: per esempio per la strage di Iguala ci sono oltre 100 arrestati, in attesa di giudizio e dispersi in mezza dozzina di prigioni in tutto il paese, e il processo è spezzettato in 13 cause penali e numerosi fascicoli diversi. L’attenzione mediatica, sociale e politica s’è risvegliata anche se a fasi alterne. E resta sempre il rischio di cedere agli attacchi di chi pretende di lasciare tutto com’era prima e punta allo sfiancamento della protesta. La lotta dei genitori dei 43 e del movimento degli “altri desaparecidos”, sorto nell’ultimo anno dalle ceneri delle decine di fosse clandestine piene di resti umani nella zona intorno a Iguala per unire familiari di desaparecidos e vittime del crimine e delle autorità, è trascendente e necessaria per vincere il silenzio, l’oblio e il gattopardismo che all’improvviso, ciclicamente, finiscono per avviluppare e far dimenticare vicende, stragi, crimini di stato e traffici.

Marciume mediatico

In questo intricato e indignante contesto buona parte dei media del mainstream messicani, capeggiati dal “cartello” di Milenio e del quotidiano La Razón, anziché denunciare il contubernio delinquenziale vigente, lo sforzo delle autorità per mantenere lo status quo d’impunità e garanzia per i traffici illeciti, l’insultante e vergognosa condizione di intere regioni fuori controllo e poverissime, l’esposizione alla violenza dell’intera società e le condanne della comunità internazionale per le violazioni ai diritti umani, si dedica a creare casi fasulli e a denigrare chi protesta. Allora ecco che a Omar García vengono attribuite identità fittizie che lui avrebbe inventato o azioni spregiudicate da “cattivo maestro”. Ecco che gli “Ayotzinapos”, come vengono chiamati dispettivamente gli studenti della scuola “Isidro Burgos”, diventano i giovani boss di un narco-cartello, ecco che le bande criminali dei Rojos e degli Ardillos ora si contendono la plaza di Ayotzinapa a suon di Ak-47 (kalashnikov o cuerno de chivo), ecco che i 43 non erano degli stinchi di santo e, anzi, alcuni erano criminali e non alunni modello. Funzionari di governo e media cercano di convincere i genitori del fatto che i figli navigassero in cattive acque e poi provano a corromperli con prebende. Ed ecco poi che manifestanti si trasformano in violenti sovversivi che bloccano il traffico delle città senza motivo, i genitori delle vittime, che non accettano l’elemosina dei burocrati, sono dipinti come ignoranti e manipolati da organizzazioni e personaggi esterni. Gli insegnanti che scioperano sono degli scansafatiche, come d’altronde i maestri rurali diplomati nelle scuole normali, ed ecco infine che i giornali filogovernativi rilanciano la notizia, non verificata, per cui uno dei 43 desaparecidos era militare. E così via, senza fine e senza etica da più di 15 mesi, anche se purtroppo è un film che vediamo e rivediamo in loop da sempre e che in Messico assume tinte surreali e drammatiche, estreme, per cui vale la pena stoppare la trasmissione, finché è possibile, e scriverne.

Di seguito la video intervista (doppiata in italiano) a Omar García, realizzata al Vag61 di Bologna – Grazie a Vag e a Bologna per Ayotzinapa (video link originale). E QUI archivio completo Ayotzinapa-CarmillaOnLine.

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Riprende la lotta per i #desaparecidos di #Ayotzinapa in #Messico https://www.carmillaonline.com/2015/01/13/riprende-la-lotta-per-i-desaparecidos-di-ayotzinapa-in-messico/ Mon, 12 Jan 2015 23:00:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20034 di Fabrizio Lorusso

Mural Aytzinapa San CristobalI genitori dei 43 studenti desaparecidos della scuola normale di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero, in Messico, e il movimento sociale che da oltre 100 giorni li accompagna nella loro lotta per il ritrovamento in vita dei ragazzi e il chiarimento delle responsabilità a tutti i livelli non sono andati in vacanza in questo periodo natalizio. L’incubo di un caso in cui le autorità messicane si sono impantanate, non essendoci stati progressi concreti nelle indagini, e che ha smascherato il governo di Peña Nieto, promotore [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Mural Aytzinapa San CristobalI genitori dei 43 studenti desaparecidos della scuola normale di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero, in Messico, e il movimento sociale che da oltre 100 giorni li accompagna nella loro lotta per il ritrovamento in vita dei ragazzi e il chiarimento delle responsabilità a tutti i livelli non sono andati in vacanza in questo periodo natalizio. L’incubo di un caso in cui le autorità messicane si sono impantanate, non essendoci stati progressi concreti nelle indagini, e che ha smascherato il governo di Peña Nieto, promotore all’estero di un paese pacificato e sulla via dello sviluppo grazie alle riforme strutturali, non ha smesso di turbare i sogni di gloria della classe dirigente nazionale: la notte della vigilia di Natale e di capodanno migliaia di persone hanno sfilato per le strade di Città del Messico insidiando la residenza presidenziale de Los Pinos, difesa da centinaia di celerini. E ormai non si chiede più la “risoluzione di un caso”, ma si denuncia la violenza di stato strutturale che impera nel paese, la corruzione di tutto un sistema che reagisce con depistaggi e con la forza.

La mattina 12 gennaio un gruppo di manifestanti e una ventina di genitori dei ragazzi di Ayotzinapa hanno fatto irruzione nella caserma del ventisettesimo battaglione a Iguala perché sono sicuri che sia stato l’esercito a sequestrare gli studenti. Inoltre il ministro degli interni Osorio Chong ha cancellato una riunione che aveva fissato con i familiari nella capitale e questo ha suscitato ulteriori scontenti e rabbia. Nove genitori e vari manifestanti sono rimasti indignati e feriti per la dura repressione dei militari. Anche ad Acapulco i manifestanti hanno fatto un picchetto fuori dalla caserma. Rafael López Catarino, padre di Julio César López, sostiene che, grazie all’aiuto di alcuni suoi conoscenti della procura del Guerrero, è stato possibile tracciare gli ultimi spostamenti di suo figlio col GPS del cellulare e l’ultima coordinata ricevuta proviene dalla caserma di Iguala.

La lotta non va in vacanza: da Città del Messico a Oventic

In testa ai cortei di dicembre c’erano i genitori dei 42 studenti che ancora risultano scomparsi e di Alexander Mora, giovane normalista i cui resti sono stati identificati il mese scorso dopo gli studi del DNA effettuati a Innsbruck. In tante città e regioni, comprese quelle turistiche, dal Chiapas allo Yucatan, dal Guerrero alla capitale, i muri si sono dipinti di rosso e di nero, si sono riempiti di murales e gli stencil hanno riprodotto le tracce della protesta, gli slogan del movimento per Ayotzinapa: “Vivos se los llevaron, vivos los queremos”, “Fue el Estado”, “Nos faltan 43”, tra gli altri.

Un gruppo di genitori degli studenti, accompagnati da attivisti di una cinquantina di paesi, hanno seguito il cammino della carovana del Festival delle Resistenze e Ribellioni contro il Capitalismo, convocato l’agosto scorso dall’EZLN e dal CNI (Congreso Nacional Indigena), che, tra il 20 dicembre il 3 gennaio, ha percorso le strade del Messico dalla capitale al Estado de México, dal Morelos a Campeche e infine al caracol zapatista di Oventic e a San cristobal de las Casas, in Chiapas. L’Esercito Zapatista ha ceduto la parola e i suoi spazi ai genitori e ai normalisti venuti da Ayotzinapa e ha celebrato i 21 anni dell’insurrezione la notte del 31 dicembre a Oventic, dove sono confluiti collettivi, organizzazioni, militanti e aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, in totale oltre 2000 persone tra cui circa 500 stranieri.

I forni crematori dell’esercito, Ayotzinapa, versioni ufficiali e nuove smentite

Caracol Oventic Festival Resistencias Rebeldias 31 dic 14 (28)La versione ufficiale del procuratore generale Jesus Murillo Karam punta a limitare i danni e ad allontanare i sospetti dall’esercito e dalla polizia federale, accusando del crimine i narcos dei Guerreros Unidos, l’ex sindaco di Iguala José Luis Abarca, ritenuto uno degli “autori intellettuali” della mattanza, e alcuni membri della polizia locale. Si tratterebbe quindi di una strage derivata da un conflitto locale e non da una crisi strutturale dello stato messicano. La procura, chiaramente, non fa mai riferimento al caso Iguala come a un “crimine di stato” quale invece è. L’intervento di agenti e apparati dello stato nella notte tra il 26 e 27 settembre è un fatto assodato e sono state dimostrate anche la partecipazione delle forze federali e il fatto che tanto l’esercito, il ventisettesimo battaglione di stanza a Iguala, come i federali erano informati in tempo reale di quanto stava accadendo e non sono intervenuti. Anzi, i militari hanno vessato un gruppo di studenti che si trovavano in un ospedale e li hanno rimandati in strada, dove era in corso una persecuzione armata contro di loro.

Una parte consistente della società, numerose indagini condotte dalla stampa critica, i genitori dei ragazzi e alcuni sopravvissuti puntano il dio proprio contro l’esercito, un’istituzione che storicamente “s’è occupata” della repressione dei movimenti contadini e indigeni e della desaparicion forzata degli oppositori politici a partire dalla guerra sporca degli anni settanta fino ad arrivare a stragi più recenti come quella de El Charco, Guerrero, nel 1997, e a quella di Tlatlaya del 2014.

Nuove rivelazioni del settimanale Proceso, il cui direttore Julio Scherer, figura storica del giornalismo messicano, è deceduto all’età di 88 anni il 7 gennaio scorso, confermano che il fascicolo delle indagini della procura contiene indizi sulla possibile responsabilità dell’esercito nei fatti di Iguala i quali potrebbero giustificare l’avvio di un’investigazione a parte. Nonostante le accuse mosse dalla società civile e dai movimenti sociali, oltre a quelle lanciate in dichiarazioni giurate da varie persone arrestate per il caso, la procura si rifiuta di aprire un nuovo fascicolo sulle forze armate che, inoltre, erano bene informate sul “potere corruttore e la potenza di fuoco del cartello dei Guerreros Unidos”, come riporta la rivista.

Secondo le dichiarazioni rese dai detenuti e le carte delle indagini preliminari, sono vari i poliziotti di Iguala e di Cocula, accusati del rapimento e della sparizione dei normalisti che hanno un passato nell’esercito e, per giunta, gli alti ranghi del battaglione 27 nel 2013 hanno ricevuto denunce sui nessi della polizia locale di Iguala e Cocula coi narcos e su altre irregolarità gravi legate a conflitti interni alle forze dell’ordine di Cocula, per la precisione tra il capo della polizia, Bravo Barcenas, e il suo vice, Cesar Nava, probabilmente legato ai Guerreros Unidos.

La stessa procura della repubblica aveva cominciato tre indagini contro l’ex sindaco Abarca e una contro sua moglie, Maria Pineda, tra il 2010 e il 2012, ma queste sono rimaste sepolte fino a che la pressione nazionale e internazionale per il caso Ayotzinapa non ha obbligato le autorità a scongelarle e a far imprigionare l’ex sindaco per delinquenza organizzata, omicidio e sequestro di persona. Sono delitti che Abarca avrebbe commesso prima del settembre scorso, per cui sarebbe potuto finire in galera e non fare altri danni. Il 5 gennaio a sua moglie, che era ai domiciliari da due mesi, è stato confermato il fermo e sono state formalizzate le accuse di delinquenza organizzata e uso di risorse di provenienza illecita, per cui è stata trasferita al penitenziario di Tepic, nello stato settentrionale del Nayarit.

I forni dell’esercito

La procura non si muove, nonostante si moltiplichino le testimonianze e le segnalazioni di una possibile implicazione dell’esercito nella cremazione degli studenti nei propri forni. Pressato dalla pubblicazione di un reportage de La Jornada che proponeva questa ipotesi, supportata dal parere dei ricercatori Jorge Antonio Montemayor y Pablo Ugalde, il 7 gennaio il ministero della difesa messicano ha inviato una lettera al quotidiano La Jornada negando l’esistenza di forni crematori nelle strutture militari del paese. Ma pochi giorni dopo vengono diffuse altre ricerche giornalistiche. Un reportage di Sanjuana Martinez cita nuove fonti che accusano l’esercito di avere e utilizzare forni crematori. La guida per le pratiche legate ai benefici forniti dall’Istituto della Sicurezza Sociale delle Forze Armate (Issfam) cita l’esistenza dei forni. Il ministero stesso offre servizi di cremazione ai propri dipendenti sia in modo indipendente sia attraverso l’Istituto di Sicurezza Sociale dei Lavoratori Statali (Issste). Quindi ci sarebbe la possibilità che i corpi degli studenti siano stati inceneriti in una di queste strutture, anche grazie alla “discrezione” o segretezza di cui godono le operazioni condotte delle forze armate.

“Purtroppo non esiste un’altra possibilità che non si basi su questo tipo di crematori. Se le autorità avessero detto che i giovani erano stati seppelliti nel deserto e si fossero trovate delle ossa, sarebbe diverso. Ma siccome hanno detto che sono stati inceneriti nella discarica di Cocula, secondo le leggi della fisica, della chimica e della scienza in generale, è impossibile che siano stati cremati là, con legna o gomme. Lo abbiamo già dimostrato. Pertanto devono essere stati cremati in un forno. E chi ha possibilità di usarli in modo discreto? Solo lo stato”, ha dichiarato il ricercatore della UNAM Jorge Antonio Montemayor Aldrete. Le ricerche potrebbero quindi dirigersi verso le caserme, le strutture militari, quelle dell’Issfam o dell’Issste. Anche il generale José Francisco Gallardo, imprigionato per motivi politici dal 1993 al 2002 per aver proposto la creazione di un garante dei diritti umani all’interno dell’esercito, conosce bene le strutture gestite dai militari e ha dichiarato che i forni esistono. “La Difesa sepre lo negherà, anche se ci sono prove. Ma è chiaro che hanno forni crematori. Negano anche di avere prigioni con dentro dei civili, ma io sono stato prigioniero lì nove anni e ho visto gente incarcerata. Inoltre vi dico che dove stanno queste prigioni e forni clandestini. Nel Campo Militare Numero Uno ci sono cantine con persone detenute. A me mi hanno rinchiuso in una di quelle, nudo, e c’erano altri civili. Ho visto cavi, secchi d’acqua, tutto quello che usano per le torture. Pensavo che mi avrebbero ucciso”, sostiene Gallardo nell’intervista con La Jornada.

E continua: “Il governo ha catalogato le normali rurali come centri della dissidenza. E’ un crimine di lesa umanità perché è lo sterminio di un gruppo specifico della popolazione come quello di Ayotzinapa. Qui si è formato uno scudo di impunità che ha permesso quei crimini. E’ necessario che l’Esercito si sottometta al potere civile dello stato, ma se non ci sarà una rforma dell’esercito, questa cosa non verrà risolta. E così dovranno intervenire gli organismi internazionali per investigare su questo delitto, l’esercito non lo permetterà. Il Messico è una società militarizzata fino al midollo”. E ha aggiunto: “Chi è il massimo responsabile? Il comandante supremo delle forze armate, il presidente Enrique Peña Nieto”.

Sempre più dubbi…

Caracol Oventic Festival Resistencias Rebeldias 31 dic 14 (46)Il procuratore Jesús Murillo fonda la sua narrazione su alcune testimonianze dei presunti narcos agli arresti per il caso, Le ricerche dei giornalisti Anabel Hernández e Steve Fisher hanno fatto emergere le dichiarazioni delle persone arrestate che denunciano l’uso della tortura da parte delle autorità per cui si dubita fortemente della veridicità delle loro affermazioni sulla notte del 26-27 settembre. Secondo la versione ufficiale, quindi, i corpi dei 43 studenti sarebbero stati bruciati durante almeno 15 ore, dalle due del mattino alle cinque del pomeriggio, nella discarica di Cocula, a una trentina di chilometri da Iguala.

 Però non ci sono prove, solo racconti. Nessuno ha potuto verificare che le ceneri e i pochi resti ossei presentati dalla procura e inviati in Austria per l’identificazione provenissero effettivamente dalla discarica di Cocula e dal fiume sottostante, come affermano alcuni detenuti. Un pilota militare con ampia esperienza, Andrés Pascual Chombo, la mattina del 27 settembre ha realizzato due voli a bassa quota proprio in quella zona con un elicottero del ministero della pubblica sicurezza dello stato del Guerrero per cercare i normalisti, ma il suo rapporto finale è stato: “Nessuna novità”. Questo significa che non c’era nulla di anormale e non si scorgevano colonne di fumo o incendi nei paraggi. Infine anche alcuni esperti della principale università messicana (UNAM) hanno contribuito a smontare la storia della procura. Infatti, secondo i loro calcoli, per bruciare 43 corpi in poche ore ci sarebbero volute 33 tonnellate di legna o 995 gomme d’auto, si sarebbero avvistate fumarole a chilometri di distanza per tutta la giornata e si sarebbero dovute ritrovare grosse quantità di residui di questi materiali. Tutto ciò, invece, non è avvenuto.

EZLN e Ayotzinapa

La notte del 31 dicembre il subcomandante insurgente Moisés ha tenuto un discorso (link) di cui riporto una parte, dedicata ai familiari dei desaparecidos. Alla fine sono stati i letti i nomi dei 43 e quelli dei tre studenti uccisi nella strage di Iguala.

Fratelli e sorelle famigliari degli assenti di Ayotzinapa: le zapatiste e gli zapatisti vi appoggiano perché la lotta è giusta e vera. Perché la vostra lotta deve essere di tutta l’umanità. Siete stati voi e nessun altro ad aver inserito la parola “Ayotzinapa” nel vocabolario mondiale. Voi con la vostra parola semplice. Voi con il vostro cuore addolorato e indignato. Quello che ci avete mostrato ha dato molta forza e coraggio alle persone semplici in basso e a sinistra. Lì fuori si dice e si grida che solo le grandi menti sanno come fare, e solo con i leader e caudillos, solo con i partiti politici, solo con le elezioni. E così se la cantano e se la suonano senza ascoltarsi e senza ascoltare la realtà. Poi è arrivato il vostro dolore e la vostra rabbia.

Caracol Oventic Festival Resistencias Rebeldias 31 dic 14 (84)Poi ci avete insegnato che era ed è il nostro stesso dolore, che era ed è la nostra stessa rabbia. Per questo vi abbiamo chiesto di prendere il nostro posto in questi giorni durante il Primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni contro il Capitalismo. Non solo desideriamo che si raggiunga il nobile obiettivo del ritorno in vita di chi oggi ancora manca. Ma continueremo ad appoggiarvi con le nostre piccole forze. Noi zapatisti siamo sicuri che i vostri assenti, che poi sono anche nostri, quando saranno di nuovo presenti non si meraviglieranno più di tanto del perché i loro nomi hanno assunto diverse lingue e geografie. Tanto meno del perché i loro volti hanno fatto il giro del mondo. E nemmeno che la lotta per la loro riapparizione in vita è stata ed è globale. Neanche che la loro assenza ha fatto crollare le menzogne del governo e denunciato lo stato di terrore creato dal sistema.

Ammireranno invece la statura morale dei propri famigliari che non hanno mai fatto cadere nel dimenticatoio i loro nomi. Senza arrendersi, senza vendicarsi, senza tentennare hanno continuato a cercarli fino a trovarli. Quindi quel giorno o quella notte i vostri assenti vi daranno lo stesso abbraccio che adesso vi diamo noi zapatiste e zapatisti. Un abbraccio affettuoso, con rispetto e ammirazione. Così vi diamo 46 abbracci per ognuno degli assenti. (Leggi discorso completo qui).

Un’eventuale articolazione o intesa, preannunciata dagli eventi dell’ultimo mese, tra l’EZLN e i movimenti dello stato del Guerrero che sostengono la lotta dei normalisti e l’esigenza di giustizia e verità dei familiari di Ayotzinapa potrebbe rappresentare un punto di svolta per il 2015. Anche la proposta di un congresso costituente, oltre alle dimissioni del presidente e del governo, sta prendendo piede con l’idea di rifondare il paese e combattere un sistema definito da molti come “narco-stato-fallito”. Di fronte alla decadenza totale dell’apparato politico, all’impunità e alla corruzione endemiche tanto il vescovo di Saltillo, Raul Vera, vicino alla Teologia della Liberazione e ai principi di “opzione preferente per i poveri”, come alcuni movimenti sorti per la causa degli studenti di Ayotzinapa hanno chiamato a un congresso costituente. Il portavoce dei genitori di Ayotzinapa, Felipe de la Cruz, ha annunciato la data del 5 febbraio a Chilpancingo, capitale del Guerrero, per un primo passo in tal senso e per discutere la situazione della regione che resta militarizzata.

“Mano dura”, sgomberi e leggi restrittive

La scelta della “mano dura” non ha funzionato nel Michoacan, dove sono decine i morti risultanti dagli scontri dell’ultimo mese tra diverse fazioni della Forza Rurale, una polizia speciale creata nel maggio scorso dal Commissario “plenipotenziario” Alfredo Castillo, una specie di viceré emissario di Peña Nieto nella regione, dopo lo scioglimento dei gruppi di autodifesa. Siccome la Forza Rurale è stata subito infiltrata da ex narcotrafficanti, è stata imposta con la forza, in seguito all’incarcerazione a più riprese di vari leader del movimento delle autodefensas, ed è stata costruita in fretta e furia senza i dovuti controlli, sono scoppiati i conflitti tra diversi gruppi al suo interno, in particolare tra Luis Antonio Torres “El Americano” e Hipolito Mora, fondatore del movimento che ha da sempre denunciato le infiltrazioni mafiose, tollerate se non favorite dal Commissario Castillo, e ha perso suo figlio in una sparatoria contro gli uomini di Torres lo scorso 17 dicembre. Il Michoacan “pacificato” di fine 2014 è un territorio in guerra, con tassi di omicidio e di delitti denunciati superiori alla media nazionale, soprattutto nelle città come Apatzingán, Morelia, Uruapan e il porto di Lázaro Cárdenas.

Caracol Oventic Festival Resistencias Rebeldias 31 dic 14 (39)A completamento di questo quadro fosco e drammatico la polizia della capitale e quella del Chiapas, rispettivamente, hanno atteso la fine delle vacanze per sgomberare lo spazio “occupato, ecologico, politico e sociale Chanti Ollin, attaccato il 7 gennaio e recuperato il giorno dopo dagli occupanti a Città del Messico, e per reprimere i membri della comunità di San Sebastián Bachajón, nei pressi delle famose cascate di Agua Azul. Il 21 dicembre i comuneros del Chiapas, aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’EZLN, hanno recuperato un terreno che fino a 5 anni fa era gestito in base al regime della proprietà collettiva, conosciuto in Messico come “ejido”, ma che il 2 febbraio 2011 fu espropriato manu militari dal governo del Chiapas. La difesa della terra costò agli abitanti l’arresto: ben 117 persone finirono in manette. Il 9 gennaio è intervenuto di nuovo il governo. 900 uomini in uniforme, membri della polizia statale, dell’esercito e dei federali, hanno sgomberato le famiglie di indigeni tzeltales che si trovavano a presidiare la zona. L’11 gennaio, durante un tentato recupero della terra dell’ejido, la polizia ha sparato pallottole di gomma contro gli indigeni, ferendone alcuni, e sono stati ritrovati anche alcuni proiettili di arma da fuoco. La comunità tzeltal chiede la ritirata della polizia e la possibilità di tornare a coltivare le terre che gli spettano legittimamente.

Il portale SinEmbargo.Mx ha pubblicato un’indagine sull’evoluzione delle leggi repressive della libertà di manifestazione che, nei vari stati della repubblica, sono state approvate nel 2014: la situazione è preoccupante dato che sono una decina i provvedimenti presi dai governi e dai parlamenti locali di località come Città del Messico, il Chiapas, Puebla e Quintana Roo (nello Yucatan) che tendono a criminalizzare la protesta sociale e ampliano le possibilità di repressioni violente da parte della polizia. In risposta une ventina di organizzazioni hanno emesso un comunicato diretto al comune di Città del Messico in cui si critica la gestione della sicurezza pubblica e si chiede il rispetto dei diritti umani “contro la repressione della polizia”. Decine di migliaia di cittadini hanno firmato una petizione su Change.Org per chiedere che gli agenti in servizio durante le manifestazioni abbiano un numero d’identificazione sull’uniforme (hashtag twitter #NumeroEnElUniforme).

Campagna elettorale e nuove azioni per Ayotzinapa

Caracol Oventic Festival Resistencias Rebeldias 31 dic 14 (15)Il fondatore del Movimento per la Pace, Javier Sicilia, ha chiamato a boicottare il processo elettorale del 7 giugno prossimo, in cui si dovranno rinnovare il parlamento nazionale e alcuni governi e parlamenti statali. Sette milioni di spot invaderanno le frequenze televisive e radiofoniche solo nella fase di pre-campagna elettorale, per cui il rischio che il caso Ayotzinapa passi in secondo piano è alto. Per questa ragione l’VIII Assemblea Popolare per Ayotzinapa, riunitasi il 3 gennaio nella scuola “Isidro Burgos”, ha stabilito la ripresa delle iniziative di protesta con un calendario densissimo.

Le rivendicazioni dell’assemblea e del movimento continuano ad essere la “presentazione in vita” degli studenti, la identificazione e il castigo dei responsabili, la rinuncia del presidente, la libertà a tutti detenuti politici e il boicottaggio delle elezioni del 2015. Si chiede la realizzazione di azioni in Messico e nel resto del mondo. Dal 10 al 15 gennaio riprende la ricerca da parte dei cittadini e della UPOEG (Unione Popoli Originari dello Stato del Guerrero) dei desaparecidos per cui si sono formati gruppi di appoggio volontari per raggiungere Ayotzinapa. Il 12 gennaio le proteste, con picchetti e manifestazioni, si dirigono contro le caserme di tutto il paese. Il 26 gennaio, esattamente a quattro mesi dalla strage, è prevista la VIII Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa il cui centro sarà Città del Messico, con quattro cortei simultanei che convergeranno nella piazza dello zocalo. Il 17 gennaio si terrà la IX Assemblea Popolare che dovrà decidere sul programma in vista di una costituente e della convocazione di Assemblee Popolari Statali e convocare anche un incontro internazionale su Ayotzinapa e sul Messico.

In Italia segnalo per la sera del 13 gennaio (ore 18:30) l’evento AYOTZINAPA VIVE! Uno sguardo sul movimento messicano (RadioAlSuolo meets SOLIDARIA43 e collettivo Italia-Messico) al VAG61 – via Paolo Fabbri 110, BolognaLink evento Facebook

 Link

 Sul Festival delle Resistenze e Ribellioni – Cronaca e sintesi finale

Bilancio finale Festival e intervista con il normalista (del comitato studentesco di Ayotzinapa) Omar García su Radio Onda D’Urto

Lista iniziative per Ayotzinapa e VIII Giornata di Azione Globale

Video Arrivo dei genitori di Ayotzinapa a Oventic e accoglienza zapatista

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Identificati in Messico i resti di uno studente di Ayotzinapa, proteste #1DMX #6DMX #YaMeCanse2 https://www.carmillaonline.com/2014/12/07/identificati-in-messico-i-resti-di-uno-studente-di-ayotzinapa-proteste-1dmx-6dmx-yamecanse2/ Sun, 07 Dec 2014 02:46:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19363 di Fabrizio Lorusso

Ayotzi monumento 6dmx“Compagni, a tutti quelli che ci hanno sostenuto, sono Alexander Mora Venancio. Con questa voce vi parlo, sono uno dei 43 caduti del giorno 26 settembre per mano del narco-governo. Oggi, 6 dicembre, i periti argentini hanno confermato a mio padre che uno dei frammenti delle mie ossa mi appartiene. Mi sento orgoglioso che abbiate alzato la mia voce, la rabbia e il mio spirito libertario. Non lasciate mio padre solo col suo dolore, per lui significo praticamente tutto, la speranza l’orgoglio, il suo sforzo, il suo [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Ayotzi monumento 6dmx“Compagni, a tutti quelli che ci hanno sostenuto, sono Alexander Mora Venancio. Con questa voce vi parlo, sono uno dei 43 caduti del giorno 26 settembre per mano del narco-governo. Oggi, 6 dicembre, i periti argentini hanno confermato a mio padre che uno dei frammenti delle mie ossa mi appartiene. Mi sento orgoglioso che abbiate alzato la mia voce, la rabbia e il mio spirito libertario. Non lasciate mio padre solo col suo dolore, per lui significo praticamente tutto, la speranza l’orgoglio, il suo sforzo, il suo lavoro, la sua dignità. Ti invito a raddoppiare gli sforzi della tua lotta. Che la mia morte non sia avvenuta invano. Prendi la miglior decisione ma non mi dimenticare. Rettifica se possibile, ma non perdonare. Questo è il mio messaggio. Fratelli, fino alla vittoria”.

I genitori dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, nello stato messicano del Guerrero, hanno diffuso il questo messaggio su Facebook. Sono le quattro del pomeriggio. Mentre Città del Messico si prepara a un pomeriggio di cortei contro il crimine di stato del 26-27 settembre a Iguala, nello stato del Guerrero, e per il ritrovamento in vita dei 43 studenti desaparecidos della scuola normale di Ayotzinapa “Raúl Isidro Burgos”, arriva una notizia inattesa. La piazza grida, chiede la rinuncia del presidente Enrique Peña Nieto e del procuratore della repubblica Jesús Murillo Karam. Alcuni normalisti del comitato studentesco di Ayotzinapa hanno appeno fatto un annuncio importante, le emozioni e le reazioni sono contrastanti.

Tra i resti umani trovati dagli inquirenti nella discarica dei rifiuti di Cocula all’inizio di novembre ci sono quelli del diciannovenne Alexander Mora Venancio, uno degli studenti che, secondo le testimonianze di tre narcotrafficanti in stato di arresto, sarebbero stati bruciati per 15 ore nella stessa discarica. Lo hanno confermato i periti argentini dell’Equipe Argentina di Antropologia Forense i quali, su richiesta dei familiari delle vittime, stanno lavorando con la procura alle prove del DNA. I genitori di Alexander, vittima di un attacco da parte di narcos e poliziotti di Iguala e Cocula insieme ad altri compagni, sono partiti immediatamente per la loro terra d’origine, il paesino di Teconoapa, sulla costa del Pacifico, per le esequie. Sono otto gli studenti scomparsi a Iguala che provengono da questa località e i genitori di tutti loro appartengono all’organizzazione indigena, contadina e popolare Unione dei Popoli e Organizzazioni dello Stato del Guerrero (UPOEG).

Ayotzi NORMALISTAL’avvocato della UPOEG, Manuel Vázquez, ha confermato che in questi primi due mesi di ricerche, insieme ai genitori di Ayotzinapa, hanno contribuito al ritrovamento di 200 fosse clandestine nella zona di Iguala e in altri comuni vicini. Alcuni reportage recenti, in particolare uno della televisione France 24, hanno rivelato la probabile scomparsa, per mano della polizia di Cocula secondo alcuni testimoni, di altri 31 studenti nella regione tra il marzo e il luglio del 2013. Le denunce relative a 17 di questi desaparecidos sono state confermate dal governo del Guerrero nella sua pagina web. Il 3 dicembre i familiari di altre 375 vittime della polizia collusa coi narcos hanno preso coraggio, dopo anni di silenzio, e hanno manifestato nella piazza centrale di Iguala per denunciare la desaparición di tanti loro cari negli ultimi anni. Grazie a un frammento d’osso e un molare è stato possibile ricostruire il DNA di Alexander, ma restano da verificare sia i resti in mano ai forensi argentini e alla procura sia quelli che sono stati rinvenuti nel fiume San Juan di Cocula e inviati in Austria per un complesso esame mitocondriale. E soprattutto restano da verificare le migliaia e migliaia di fosse comuni e di resti umani che emergono dalle terre di mezzo paese. “Ne mancano 42 e li rivolgiamo in vita”, ha detto nel comizio finale della giornata di Azione globale per Ayotzinapa del 6 dicembre, #6DMX + #YaMeCanse2. La rivista di Tijuana, Zeta, da anni specializzata nel confronto di dati ufficiali sulla violenza, ha confermato la cifra allucinante di 41mila morti nei primi 23 mesi del governo del “nuovo PRI”.

Continua la protesta globale

Sono state settimane convulse in Messico. La capitale, lo stato del Guerrero, le città solidali del mondo intero sono in ebollizione per l’indignazione e lo sconforto, per il disanimo, la voglia di reagire, gridare e protestare, accompagnate dalla tristezza e dalla paura che tutto torni come prima. Il letargo mediatico, l’apatia sociale, il conteggio dei morti in un box rosso sui principali quotidiani. Una madre, un padre, una famiglia che cercano i loro figli e cari desaparecidos, moltiplicati per 27mila. Un compa che racconta in radio l’ultima estorsione subita dagli sbirri, un tentativo di sequestro, una minaccia di sparizione forzata. Gli universitari che han scoperto d’essere spiati perché in facoltà hanno nascosto delle telecamere. Altri che vengono attaccati da infiltrati e poliziotti nelle assemblee. Le violenze subite nell’anima e nel corpo delle donne, da Ecatepec a Ciudad Juárez, dalle strade alle maquiladoras. E ancora l’azzeramento delle vittime nei meandri della burocrazia e nei corridoi dell’oblio. La paura travestita da normalità. Crimini di stato trasformati in guerra alle droghe e viceversa, in un turbinio. Meglio risvegliarsi, rifondare, che ignorare e normalizzare una strage, quella degli studenti di Ayotzinapa del 26 settembre, che è solo la punta di un iceberg in un mare d’impunità e corruzione.

Ayotzi poster proteste 4-5-6 dicMi appresto a scrivere questo aggiornamento mentre vomito notizie e rimastico cronache. Guardo il video del flash mob, l’ennesimo, che 43 ragazzi hanno realizzato alla Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara. Alla fine urlano tutti insieme dall’uno al quarantatré. Per un minuto la Fiera si ferma, la terra non gira, silenzio, giustizia! Finisce il coro, cominciano gli applausi. Un brivido, l’ira, le lacrime, la speranza in un cambiamento. Penso alla grande manifestazione qui a Città del Messico, lunedì primo dicembre, #1DMX. Abbiamo calcolato 50mila persone. Una marcia instancabile ed energetica, nonostante sia finita anche questa volta a manganellate e lacrimogeni, con sette arresti casuali, terribilmente random e violenti, e una serie di incapsulamenti della polizia che solo un cordone di funzionari della Commissione Nazionale per i Diritti Umani, di bianco vestiti, ha potuto bloccare, almeno per un po’. Ora i prigionieri sono tutti liberi, le pressioni internazionali e di tutto il Messico stanno obbligando le autorità a risolvere i problemi da loro stesse provocati in modo più spedito, salvo poi dimenticarsi della legalità e del famigerato stato di diritto non appena i riflettori si spengono. Il rischio è questo, il governo è paziente, ha potere e mezzi per resistere e sfiancare, può aspettare qualche settimana e contrattaccare, sequestrare, riconquistare, offendere. E lo sta già facendo.

Si riconferma la modalità dell’accerchiamento delle forze dell’ordine e dei rastrellamenti a tappeto contro tutto e tutti, ma non contro chi li attacca o ne “giustifica” inizialmente l’intervento. E’ un copione ormai noto: un manipolo di ragazzi incappucciati, ma anche a volto scoperto a volte, causa danni a qualche edificio pubblico o privato. I celerini intervengono, picchiando a destra e a manca senza ritegno, impedendo ai manifestanti disarmati e pacifici di proseguire, di esprimersi, di respirare, per poi catturare un po’ di gente a casaccio. I detenuti del 20 novembre sono stati rilasciati tutti, non c’erano prove né elementi concreti per accusarli di alcunché. I familiari dei prigionieri e dei desaparecidos di Ayotzinapa, accompagnati dalla società civile e dai movimenti, chiedono adesso le dimissioni del procuratore Jesús Murillo Karam, oltre a quelle del presidente della repubblica.

DSC_0001 (Small)La testimonianza di una signora sotto shock, con la testa spaccata e sanguinante, consolata dalla figlioletta e curata alla buona da un’infermiera (?), diventa virale sui social e suscita la rabbia di chi ha un computer e una connessione, cosa che non è affatto scontata né così generalizzata come molti credono. Le classi medie cittadine hanno internet, ma il Messico guarda la televisione. In TV la storia è sempre un’altra. La padrona delle menti, Nostra Catodica Signora dei rimbecillimenti, passa scene di violenza, immagini di vandalismi e distruzioni, dimenticandosi delle 3 ore di corteo pacifico e del motivo per cui tanta gente scende in piazza sfidando la propaganda governativa e la criminalizzazione delle autorità contro il dissenso sociale.

I 43 studenti desaparecidos non importano più, meglio mostrare due bancomat sfasciati e qualche vetrina imbrattata per giustificare l’azione “gagliarda”, parola usata dal responsabile della sicurezza nella capitale, della polizia. Sì, ma contro chi? Eccoli lì che si scagliano ferocemente contro una signora che cerca lavoro e nemmeno sa che c’è un corteo quel giorno. Eccoli lì che lasciano stare i presunti responsabili degli attacchi nei loro confronti o nei confronti delle “preziosissime” proprietà private e dei palazzi della Avenida Reforma e che aggrediscono famiglie e cittadini, strappano striscioni e rinnegano la loro umanità. Se ti muovi, può toccare anche a te. Se corri, ti prendiamo. Se sei schifato e arrabbiato perché i narcos sono la polizia, lo stato è la mafia o viceversa, e ha sequestrato e ammazzato migliaia di persone in pochi anni, 43 studenti in una notte a Iguala, e poi trova scuse ciniche e idiote per non cambiare nulla, praticando il gattopardismo più becero, meglio che te ne stai zitto e ti dedichi a spendere gli ultimi risparmi, erosi dalla crisi e da un modello consumista sfrenato, per i regali di Natale. Questi i messaggi delle autorità alla gente.

Ayotzi tractores 5 diciembreIl cittadino cileno Laurence Maxwell, studente del dottorato in lettere della Universidad Nacional Autonoma de México detenuto la sera del #20NMX, per cui s’era mosso anche il ministro degli esteri del Cile, denuncerà lo stato messicano per le torture subite e così faranno anche gli altri 10 cittadini detenuti ingiustamente. Ma è l’intero sistema politico ad essere messo alle strette e criticato a fondo, delegittimato come mai prima. La popolarità di Peña è ai minimi storici. E’ scesa al 39%, la più bassa per un presidente dal 1995 ad oggi secondo il quotidiano Reforma. Il 5 dicembre il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon ha sollecitato un’indagine a fondo del caso Ayotzinapa e di tutte le sparizioni forzate in Messico in una conferenza stampa, ribadendo anche l’importanza del diritto alla libertà d’espressione e la necessità di canalizzare le legittime richieste della gente in modo pacifico, nel rispetto dei diritti umani. Avrà cominciato a percepire l’aria che si respira in Messico e la vena repressiva del governo? Non molto. Dopo le critiche, infatti, Ban Ki-moon ha dato il suo beneplacito alle misure autoritarie promosse dall’esecutivo negli ultimi giorni.

Burle presidenziali e cinismi

Nel maggio 2012, quando mancavano meno di due mesi alle elezioni, l’allora presidente Felipe Calderón annunciò la sua appartenenza al grande movimento studentesco e sociale #YoSoy132, che era nato da una contestazione al candidato Peña Nieto alla Universidad Iberoamericana e aveva poi segnato la fine della campagna elettorale, il ritorno del PRI al governo e l’inizio del mandato presidenziale, con le manifestazioni del primo dicembre 2012, sempre #1DMX, represse nel sangue. Fu una mossa elettorale disperata per provare a creare empatia col movimento e con una parte de. Non funzionò, il risultato della candidata del partito di Calderón (PAN), Josefina Vázquez Mota, fu deludente e il presidente fu ricordato per i 100mila morti e la narco-guerra, non di certo per la sua identificazione con gli studenti.

DSC_0119 (Small)Dopo il megacorteo del 20 novembre scorso, Peña, emulando il suo predecessore in un disperato e calcolato tentativo di riconciliazione, ha cercato di ribadire la sua identificazione con le vittime di Iguala e del Guerrero dicendo che “Tutti siamo Ayotzinapa”. Come conseguenza è stato mandato letteralmente “affanculo”, cioè a “chingar a su madre”, da uno studente della normale “Isidro Burgos”, oratore durante il comizio finale della manifestazione del primo dicembre. Tra le altre cose, gli ha anche ricordato che lui “non è Ayotzinapa, ma è Atlacomulco”, in riferimento alla città natale del presidente intorno alla quale girano tutto il gruppo di potere e le lobby delle correnti dominanti del PRI e degli impresari ad esse legati.

Superatelo, ja ja. Hashtag #YaSupérenlo

Nel suo discorso del 4 dicembre a Iguala, Guerrero, Peña ha chiesto alla comunità di “superare questa fase”, “questo momento di dolore”, per fare “un passo avanti”, dato che la sua geniale idea è molto semplice: voltare pagina, dimenticare l’inferno e salvare la sua immagine. Ottimo montaggio televisivo, un ponte da inaugurare come scusa per andare ad Iguala e dintorni, e infine un po’ di applausi dei burocrati che lo accompagnavano. Un evento pensato ad hoc per farsi vedere nella zona e prendere di nuovo la parola. Il ponte, distrutto nel settembre 2013 dall’uragano Manuel, è stato ricostruito a Coyuca de Benítez, nella Costa Grande al nord di Acapulco. Peña s’è definito come il “grande alleato degli abitanti del Guerrero” e ha indicato che quanto successo coi normalisti di Ayotzinapa “genererà una svolta, segnerà un momento e permetterà la costruzione di istituzioni migliori”. Ciononostante nessuno ha ancora capito come. La comunità sarà felice per il nuovo ponte dell’oblio, dunque, e per l’inizio del corso di superazione personale che pare voler proporre il presidente con le sue frasi ad effetto. “Hanno detto ‘superatelo’ per i femminicidi nel Chihuahua 15 anni fa, e continuiamo a cercare e lavorare, rispondiamo ‘siamo stanchi’ dell’impunità”, ha scritto via Twitter la giornalista Lydia Cacho.

DSC_0021 (Small)Occupazione simbolica di Città del Messico nella Giornata d’Azione Globale per Ayotzinapa

Intanto il Messico, e soprattutto Guerrero, continuano a bruciare, le proteste non si fermano e anche all’estero la solidarietà s’esprime nelle forme più fantasiose, incessantemente, giorno dopo giorno. Il 3 dicembre ci sono state mobilitazioni in 43 città degli Stati Uniti con l’hashtag #UStired2, oltre 3000 boliviani sono cesi in piazza a La Paz e oltre 10mila uruguayani hanno marciato per Ayotzinapa a Montevideo il giorno dopo. E’ stata la marcia per i 43 normalisti più numerosa realizzata fuori dal Messico. La settimana scorsa in Italia i movimenti sociali e l’associazione Libera hanno promosso decine di iniziative per denunciare il narco-stato messicano e i crimini di lesa umanità in terra azteca con cortei, flash mob, proteste fuori dai consolati e nelle università, diffusione di comunicati e attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Nel pomeriggio del 5 dicembre un corteo di 43 trattori ha sfilato per l’Avenida Reforma, nel centro di Città del Messico. Sabato 6, invece, in decine di città messicane ci sono state manifestazioni e proteste che nella capitale si sono trasformate in un’occupazione simbolica della città. Infatti, a Città del Messico le mobilitazioni della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educacion), dei genitori dei 43 desaparecidos, protetti dal collettivo Marabunta, degli studenti, del FPFV (Frente Popular Francisco Villa), del Frente de Pueblos para la Defensa de la Tiera di San Salvador Atenco, delle organizzazioni contadine, che sono arrivate a cavallo alle 10 del mattino, e della società in generale sono confluite nella spianata del Monumento a la Revolución.

DSC_0087 (Small)Hanno dato vita a un’altra oceanica Giornata di Azione Globale per Ayotzinapa per unire la causa dei 43 desaparecidos al rifiuto delle riforme strutturali, alla difesa dell’acqua, la vita e la terra e alla commemorazione dei cento anni dell’ingresso degli eserciti di Francisco Villa ed Emiliano Zapata nella capitale e l’occupazione indigena della città del 6 dicembre 1914. I megafoni della CNTE hanno annunciato la notizia, ufficializzata poco prima dai periti argentini: i resti di uno dei 43 normalisti sono stati identificati, ma la lucha sigue.

A un lato degli insegnanti dodici persone, tre donne e sei uomini, camminano in fila indiana. Hanno le mani legate e una corda li tiene uniti uno all’altro. Sono dei presunti infiltrati a cui i manifestanti della CNTE hanno appiccicato sul petto un cartello con la scritta “infiltrados” per evitare che facciano danni e si mischino con loro. E arriva anche la notizia che il capo della polizia della capitale, Jesús Rodríguez, ha presentato le sue dimissioni, dopo essere stato aspramente criticato per le sue ciniche dichiarazioni sul “valore e la gagliardia della polizia” durante lo sgombero della piazza del Zocalo il 20 novembre scorso.

Javier Sicilia e movimento per la pace

“Dissi a Peña, durante i dialoghi nel Palazzo di Chapultepec coi candidati alla presidenza, che pareva non avere un cuore, una sensibilità, e si arrabbiò perché gli stavo ricordando la repressione di Atenco del 2006, quando era governatore del Estado de México”, ha spiegato Javier Sicilia, leader del movimento per la pace con giustizia e dignità (MPJD), in un’intervista radiofonica. “Col suo discorso l’altro giorno a Iguala mostra anche una mancanza di intelligenza politica oltre all’insensibilità. Si potrebbe lanciare un messaggio del genere, forse, se almeno fossero state fatte le cose necessaria affinché i fatti non si possano più ripetere, se fosse stata fatta giustizia, se il caso fosse stato risolto, ma non così, quando niente è stato risolto e si ha un mandato per farlo che non viene rispettato. Bisogna rompere e rifondare lo stato, spegnere la emergenza nazionale e ricostruire e questo si fa solo con una logica di giustizia, dignità e servizio al paese, cosa che non è stata fatta, invece stanno facendo sparire più gente…”.

DSC_0085 (Small)Parlando del superamento del dolore, Sicilia ha sottolineato la profondità della crisi strutturale che sta vivendo il Messico: “Con cosa dovremmo superare il dolore? C’è una questione terribile dietro. E se dall’Austria ci dicono che i resti sono degli studenti, saranno comunque solo alcuni, e gli altri? E le fosse? Non è possibile accettare che non ci sia nulla, che ci sia solo la polvere degli studenti, che non resti più nulla. Perciò li vogliamo vivi, li vogliamo presenti, con un corpo almeno.

Questa situazione non si ripara in nessun modo, solo se non ce ne saranno mai più”. Il poeta e attivista ha ribadito l’obbligo dello stato chiarire cosa è successo coi ragazzi di Ayotzinapa e “l’ondata di proteste deve spingere affinché i fatti di Iguala non succedano mai più, deve esserci un punto di rottura a partire da questo. Le strutture sono corrotte, e Peña non ha nemmeno la legittimità o l’autorità morale per dire quel che dice di fronte al disastro che stiamo vivendo”. Dal “Mexican Moment” vaticinato dal The Economist nel 2012 e dal miraggio di un presidente che, secondo la rivista Time, stava “Salvando il Messico”, siamo passati inevitabilmente a una realtà fatta di tragedie dalle proporzioni immani, sequel spietato del terrore del sessennio precedente, ma ancor più amara perché s’è imposta sulla propaganda e il marketing governativo a forza di desapariciones, fosse comuni, mattanze dell’esercito, come quella di Tlatlaya del giugno scorso, e morti su morti che ritornano dagli inferi.

Anche alcuni settori della chiesa cattolica sono intervenuti per chiedere giustizia e protestare. Qualche giorno fa un gruppo di religiose ha manifestato per le strade della capitale mentre il 4 dicembre i sacerdoti e i seminaristi della diocesi di Saltillo sono scesi in piazza per chiedere la fine della violenza e il chiarimento della strage di Iguala. “Dinnanzi a quello che succede nel paese e nel Guerrero non possiamo stare zitti e far finta di niente”, ha espresso il vescovo e attivista Raul Vera che era alla testa del corteo.

L’idea che si sia raggiunto un punto di rottura, di non ritorno, nella storia recente del Messico si sta facendo strada nei movimenti e nella società. Ma se non si mantiene la pressione interna ed esterna per il cambiamento, per una “rivoluzione pacifica intelligente”, come l’hanno battezzata i normalisti sopravvissuti della strage di Iguala, per una “rifondazione dello stato”, secondo l’augurio di Sicilia, oppure per una fase costituente, come auspicano altri, insomma, “se non manteniamo la lotta e andiamo avanti per cambiare il paese, ci aspettano cose ancora più inaudite, peggiori di quelle che abbiamo vissuto fino ad ora”, prevede lo scrittore.

Ayotzi URUGUAYIl rischio di isolamento e repressione di chi non vuole e non può accomodarsi di fronte alla tragedia nazionale messicana è alto. Le alternative che Peña ha di fronte sono l’apertura di canali seri di dialogo, anche se è lecito chiedersi fino a che punto il sistema sia capace di riformarsi da solo e di ricevere proposte radicali per una “Convenzione” o una fase costituente, o la repressione. Pare che il governo e il gruppo di potere legato al presidente, spalleggiato da amministratori e governatori affini come Miguel Ángel Mancera, sindaco di Città del Messico, non abbiano dubbi sul fatto che renda di più la seconda opzione, costi quel che costi.

Guerrero seguro e Nuevo Guerrero

Guerrero vanta un indice d’impunità dei delitti del 96.7%, sopra la media nazionale del 93% e peggio degli altri 31 stati del paese. Non si contano chiaramente i reati non denunciati, che sono stimati intorno al 90% del totale. Il tasso d’omicidi ogni 100mila abitanti è di 63, il più alto del Messico. Questo significa 3680 omicidi nei primi 23 mesi di governo di Peña e oltre 1000 nei primi otto mesi del 2014. Seguono lo stato di Chihuahua con un tasso di 59 e Sinaloa con 41. Nel 2013 Acapulco è stata la terza città più violenta del mondo, dopo San Pedro Sula in Honduras e Caracas in Venezuela. Nella città costiera, ex perla turistica messicana, durante i primi 22 mesi del nuovo governo sono stati denunciati 132 casi di sequestro di persona, il numero più alto in Messico. Ecatepec, nel feudo priista del Estado de México, intorno alla capitale, ne hanno registrati 114. Con 447 casi Guerrero è il terzo stato con più rapimenti, dopo Tamaulipas e l’Estado de México.

Ayotzi Esecuzioni governo PeñaQuesta situazione era nota da tempo, evidentemente. Infatti, nel 2011, il presidente Calderón avviò l’operazione speciale Guerrero Seguro e aumento la presenza militare, una delle tante iniziative infruttuose che hanno martoriato il paese dalla fine del 2006 ad oggi. Peña Nieto ha annunciato il 4 dicembre la riedizione di quel programma per la “sicurezza” e ha lanciato un piano di “pacificazione”, un’operazione militare e poliziesca, per le zone note come Tierras Calientes (territori compresi tra la costa pacifica e le catene montuose della Sierra Madre Occidental negli stati del Michoacan, Guerrero, Oaxaca, Sinaloa e Morelos) e il piano di sviluppo e investimenti pubblici e privati battezzato Nuevo Guerrero. “Rilanciare lo sviluppo economico e sociale” è la finalità ufficiale dell’operazione. Nei giorni scorsi Peña ha parlato anche della creazione di zone economiche speciali negli stati del Chiapas, del Guerrero e del Oaxaca, il che suona come una riedizione del vecchio e fallito Plan Puebla Panamá di integrazione regionale tra il Messico e l’area centroamericana.

L’invio di truppe

Già da una settimana 2000 uomini della Polizia Federale sono stati mandati a Chilpancingo, la capitale dello stato, e altri 1500 ad Acapulco “per difendere i turisti e le famiglie”. Non si sa da chi li dovrebbero difendere, se poi è la polizia stessa che diventa parte integrante dei narco-cartelli. Adesso comunque arrivano i rinforzi, arrivano i “nostri”. Non bisogna essere esperti di sicurezza e politiche pubbliche per capire che la protezione degli investimenti delle multinazionali del settore minerario e turistico, insieme alla stabilità relativa dei narco-affari, soprattutto delle coltivazioni di papavero da oppio e marijuana, e del settore agricolo legale, sono le priorità sottese a questo piano. La protezione speciale, con più poliziotti e più vigilanza, che verrà offerta al porto e all’aeroporto di Acapulco va lette in questa chiave.

Come nel Michoacan e nel Tamaulipas pare che anche qui si stia cercando un accordo, un nuovo equilibrio tra i gruppi mafiosi in lotta in modo da regolarizzare il business e limitare la violenza: un compito molto complicato, vista la presenza di forti movimenti sociali organizzati e anche la frammentazione estrema, favorita dal tipico effetto cucaracha (scarafaggi che fuggono all’impazzata in ogni dove), che la dissoluzione del cartello dei Beltran Leyva ha portato con sé. In secondo piano passano, invece, la tutela delle comunità più povere e insicure e il rilancio delle zone rurali depresse e di quelle colpite dagli uragani degli ultimi anni. Parte dell’infrastruttura distrutta è stata ricostruita, ma l’economia non decolla. Nel suo complesso l’operazione puzza di controllo sociale e controllo delle proteste che, proprio a Chilpancingo e nel resto del Guerrero, stanno assumendo le forme più rabbiose e violente, con attacchi praticamente quotidiani alle sedi dei partiti e delle istituzioni cui si somma l’occupazione e gestione autonoma di almeno 13 comuni. Quasi non se ne parla, ma le diverse forme di autogoverno e autonomia come quelle dei caracoles zapatisti e della comunità autonoma di Cherán nel Michoacan sono una realtà in tante comunità del Messico.

cabalgata_ayotzinapa9Il decalogo di Peña Nieto

Il 28 novembre Peña ha enunciato un decalogo di misure e proposte del governo per provare a uscire dall’impasse. E’ una lista imbevuta di autoritarismo, di volontà accentratrice e di vecchie ricette dell’epoca di Calderón che attentano contro i diritti umani. A queste “nuove tavole della legge” si aggiunge anche una beffa: la legge anti-cortei. In questo contesto di escalation delle proteste e della repressione, in attesa di una possibile diminuzione della pressione internazionale e della partecipazione popolare per l’avvicinarsi del periodo natalizio e la chiusura delle università, i legislatori del PRI, del PAN e del Verde Ecologista hanno approvato la cosiddetta “Legge Anti-Corteo”.

Si tratta di una riforma degli articoli 11 e 73 della costituzione affinché il governo federale, le amministrazioni locali e i governi statali possano emettere leggi in materia di mobilità che potranno essere usate dalle autorità per impedire le manifestazioni e la libertà d’espressione e riunione. In pratica si attribuisce la facoltà di promulgare leggi e ordinanze sulla mobilità cittadina, provinciale e regionale che però in realtà nascondono l’inganno e giustificheranno la restrizione del diritto a manifestare e rappresaglie verso diverse forme di protesta sociale. Tra le misure che saranno discusse in parlamento c’è la creazione di un solo corpo di polizia per ogni stato, l’abolizione delle polizie locali o comunali, la possibilità per il governo di dissolvere comuni con infiltrazioni mafiose, la fissazione di un Codice Unico d’Identità personale, la creazione del numero 911 per tutte le emergenze, una riforma della giustizia e nuove operazioni militari per la sicurezza negli stati fuori controllo.

La stretta anti-libertaria del governo non ha comunque bisogno di molte nuove leggi dato che continuano le “vecchie” pratiche del sequestro, dell’arresto arbitrario e della desaparición come nei casi di tre studenti della Universidad Nacional Autónoma de México che hanno denunciato il tentativo di farli sparire della polizia federale, in azione contro di loro a Città del Messico.

Fabbrica di colpevoli

policia federal ayotziIl 15 novembre il ventiseienne Bryan Reyes e la sua fidanzata Jaqueline Santana, rispettivamente maestro di flamenco e studentessa di economia, entrambi militanti del gruppo Acampada Revolucion 132, stavano camminando in una zona periferica della capitale, si dirigevano al famoso mercato della Merced. Mentre passavano su un cavalcavia sono stati catturati da 14 poliziotti, otto uomini e sei donne, in borghese. Convinti che si trattasse di un sequestro di persona, dato che gli agenti non si sono identificati e li hanno picchiati per forzarli ad entrare con la violenza in un taxi e in un’automobile privata, i due hanno cominciato a gridare. Ulises Chavez, un amico che era con loro, è riuscito a scappare e un poliziotto locale è stato richiamato sul posto dai rumori e le urla, ha puntato la pistola in faccia a uno dei federali e gli ha intimato di liberare i ragazzi.

Quando il federale s’è identificato il poliziotto l’ha lasciato stare ma questo “contrattempo” ha forse salvato la vita a Jaqueline e Bryan che sono stati portati in questura e poi in prigione con delle accuse assurde ma, per lo meno, in vita. Senza il minimo rispetto dei diritti umani e del dovuto processo, in spregio al fatto che i poliziotti federali hanno cercato di sequestrare e, probabilmente, far sparire i due ragazzi, questi sono stati rinchiusi per furto aggravato per aver rubato 30 euro a una poliziotta proprio sul cavalcavia in cui sono stati immobilizzati e rapiti dai federali (in questo video-link la testimonianza della sorella di Bryan). I detenuti del 20 novembre e del primo dicembre sono stati liberati, Bryan e Jaqueline no, e da stanno portando avanti uno sciopero della fame dal 23 novembre.

Una situazione simile ha vissuto Sandino Bucio, studente di Filosofia e Lettere e attivista che lo scorso 28 novembre è stato praticamente sequestrato da alcuni agenti in borghese della polizia federale all’uscita dell’università, dopo aver partecipato all’assemblea degli studenti della sua facoltà. Picchiato e costretto a salire su una macchina bianca, anonima, come se si trattasse di un rapimento o di una sparizione forzata. Per fortuna i passanti e gli studenti che si trovavano nei paraggi hanno filmato l’arresto e hanno diffuso immediatamente l’informazione. Si sono mosse subito le reti sociali e quelle dell’attivismo universitario per organizzare un picchetto di protesta fuori dalla sede della procura, dove intanto era stato condotto Sandino. Dopo poche ore la pressione mediatica e popolare è riuscita a far liberare lo studente. Gli agenti federali coinvolti sono stati sospesi, ma resta critico il livello di guardia dei movimenti e dei cittadini di fronte alle rozze azioni d’intimidazione della polizia, alle sue operazioni delinquenziali e alle offensive legislative del mondo politico.

 

Reportage precedenti: Ayotzinapa @CarmillaOnLine

 

  1. La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica
  2. Il Messico e Ayotzinapa gridano: 43 con vida ya!
  3. Benvenuti in Messico: desaparecidos e morti di #Ayotzinapa #Fueelestado
  4. Due mesi dopo la strage: le vene aperte del Messico e #Ayotzinapa
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Venezuela, la repubblica degli accattoni https://www.carmillaonline.com/2014/03/09/la-repubblica-degli-accattoni/ Sun, 09 Mar 2014 01:23:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13360 di Valerio Evangelisti

Fascismo-IvanLira

Il liberalismo è l’ideologia più letale della storia, perché è versipelle. Finge di interessarsi della democrazia, ma in realtà ha a cuore solo il mantenimento di un sistema economico e di comando. Quando questo è minacciato, è pronto a cedere il manganello a versioni di se stesso più brutali. Il fascismo, il nazismo, il militarismo, lo sciovinismo, oppure il semplice autoritarismo. Sotto quei panni, o anche senza mascheramenti, uccide impunito. Ogni giorno, sotto gli occhi di tutti.

E’ il sistema che usava la Chiesa ai tempi dell’Inquisizione. Direttamente non uccideva. Passava la mano al “braccio secolare” (la [...]]]> di Valerio Evangelisti

Fascismo-IvanLira

Il liberalismo è l’ideologia più letale della storia, perché è versipelle. Finge di interessarsi della democrazia, ma in realtà ha a cuore solo il mantenimento di un sistema economico e di comando. Quando questo è minacciato, è pronto a cedere il manganello a versioni di se stesso più brutali. Il fascismo, il nazismo, il militarismo, lo sciovinismo, oppure il semplice autoritarismo. Sotto quei panni, o anche senza mascheramenti, uccide impunito. Ogni giorno, sotto gli occhi di tutti.

E’ il sistema che usava la Chiesa ai tempi dell’Inquisizione. Direttamente non uccideva. Passava la mano al “braccio secolare” (la giustizia civile), che provvedeva ad applicare le sentenze del tribunale ecclesiastico. Formalmente la Chiesa non ha mai bruciato eretici, streghe, ebrei. Non ha mai torturato nessuno. Ci pensava il “braccio secolare”. I De Tormentis dell’epoca (dal nomignolo di Nicola Cocia, capo di una squadretta del ministero degli Interni incaricata di torturare brigatisti veri o presunti, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del ‘900) facevano tutto ciò che l’istituzione non si sarebbe permessa di eseguire a volto scoperto.

Cosa c’entra questo con il Venezuela? Il paese demoniaco per antonomasia, agli occhi degli USA e anche della UE, non ha mai violato le regole della democrazia politica. L’assetto attuale ha resistito a ben 18 elezioni, certificate come limpide dai più autorevoli osservatori internazionali. L’ultima è stata quella amministrativa del dicembre scorso. Maggioranza indiscutibile alle forze che si richiamano a Nicolás Maduro, continuatore del programma impostato dal defunto Hugo Chávez. Opzione privilegiata per i poveri, gli sfruttati, gli esclusi da sempre. Limiti allo strapotere del capitale individuale. Nazionalizzazione di ciò che era stato privatizzato. Spese sociali in istruzione, sanità, alloggio, impiego. Formule magari non risolutive, ma per chi abbia conoscenza di prima mano dell’America Latina e delle sue disparità di classe, quasi una rivoluzione. Resa più solida da forme di interscambio continentale (Alba, Mercosur, Petrocaribe, ecc.) capace di prescindere da FMI, Banca Mondiale, Trattati di libero commercio.

Hugo Chávez ha reso autonomo come mai in passato un continente che era sempre vissuto nella più totale subordinazione. Ciò a colpi non di cannone, ma di elezioni vinte. E’ riuscito dove Salvador Allende aveva fallito. La sua arma? Coinvolgere le masse popolari, strappandole all’anonimato e a una vita ai margini. Farle figurare in liste di elettori da cui erano assenti, quando non erano trascurate persino dai censimenti. Porle al centro dei programmi di sviluppo. Ed ecco scuole gratuite, assistenza medica gratuita (chiunque passeggi per una strada messicana resta colpito dal gran numero di storpi, dovuto al costo delle cure), programmi impressionanti di edilizia popolare (mezzo milione di nuovi alloggi), costruzione di università, assegnazione di terre coltivabili, diffusione capillare dell’informatica. I proventi del petrolio usati a beneficio della popolazione, e non delle multinazionali.

Nel 1917 Mario Missiroli, direttore de “Il Resto del Carlino”, scrisse un pamphlet. Si intitolava La repubblica degli accattoni. Denunciava ciò che il socialista Giuseppe Massarenti era riuscito a fare nella sua Molinella. Un quinto del bilancio comunale – che scandalo! – a sostegno dei poveri. Ambulatori gratis, mense gratis, scuole gratis, turnazioni di lavoro per i disoccupati, opere pubbliche concesse alle cooperative. Un enorme spreco di denaro.

Oggi, in riferimento al Venezuela, i Missiroli (divenuto poi fascista, sia pure critico, e firmatario del Manifesto sulla razza), si sprecano. Si chiamano Ciai, Mastrantonio, Morlino, Cotroneo. Detestano la nuova “repubblica degli accattoni”, ribelle al neoliberismo e al nuovo ordine occidentale. Ne condannano l’assistenzialismo, la mania di nazionalizzare i beni di interesse pubblico che erano stati ceduti ai privati, l’insofferenza verso le costrizioni del capitale globale. E, per suggellare la scomunica, chiamano in campo l’autoritarismo. Di Chávez, ma ancor più di Maduro. Non si aspettavano che, morto il loro spauracchio, un altro chavista avrebbe vinto e rivinto. Un ex lavoratore dei trasporti. Per definizione confuso, pasticcione, impreparato in economia.

Non se lo aspettava nemmeno l’opposizione venezuelana. Vista sfumare l’ultima possibilità di rovesciare il governo per via legale ha scelto di rendergli la vita impossibile, in due diverse maniere. La prima economica, con aggiotaggio, accaparramento dei beni, disagi alimentati ad arte, blocchi della distribuzione. Quando Maduro, dopo avere cercato invano il dialogo, ha abbassato per legge il ricarico sul prezzo delle merci dal 1000% al 30% del loro valore monetario, la rabbia è esplosa ed è divenuta violenza di strada, nei quartieri residenziali della capitale e nelle province in mano alla destra. Braccio armato (il “braccio secolare” di cui dicevo), gli studenti delle università private. Loro bersaglio, tutti i simboli dell’assistenzialismo governativo: ambulatori per i poveri, spacci a prezzo politico, case popolari in costruzione, camion per il rifornimento di beni alimentari. Ci sono stati 19 morti, di cui solo quattro attribuibili a uomini in divisa, finiti sotto inchiesta. Gli ultimi due assassinati: un poliziotto e quello che diremmo un pony express, freddati da cecchini. L’agente scortava un autocarro della nettezza urbana che cercava di liberare le strade di un quartiere residenziale bloccato dagli abitanti. Il giovane dava una mano per poter fare il suo lavoro.

Eppure, i media occidentali, nella loro stragrande maggioranza, non amplificano che le voci di una destra pochissimo presentabile, che denuncia “torture” (documentate a furia di rozzi collages: vedi qui), “miseria” (in realtà l’ultima delle preoccupazioni dei ceti privilegiati, tanto è vero che i loro figli devastano per prima cosa i supermercati con prezzi controllati), “repressione” (gli arrestati vengono regolarmente rimessi in libertà, a parte il sobillatore Leopoldo López, legato al Tea Party statunitense) e, naturalmente, “dittatura” (sebbene tutti i quotidiani del paese siano in mano all’opposizione). L’intento sembra essere quello di “fare come in Ucraina” o di provocare un intervento esterno. Peccato che ne manchino completamente le condizioni.

Resisterà la repubblica degli accattoni all’offensiva dei Missiroli del XXI secolo? Certo, la sua colpa è grave. Ha rifiutato il neoliberalismo, questa magica ideologia che, come chiunque può vedere ogni giorno, crea ricchezza a fiumi, occupazione, benessere diffuso in ogni parte del mondo. Chissà come mai gli accattoni, invece di pentirsi e di sottomettersi alla giusta punizione squadristica, paiono affezionati al loro modello obsoleto e inefficace, incentrato sui bisogni.

Forse la masnada è ancora condizionata da colui che Oliver Stone, nel documentario che presentiamo qui sotto (in spagnolo), ha il coraggio di chiamare “Il mio amico”.

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Brasile: cartografie delle disuguaglianze https://www.carmillaonline.com/2013/11/28/brasile-cartografie-delle-disuguaglianze/ Wed, 27 Nov 2013 23:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10987 di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia [...]]]> di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia di migliaia di persone, scese per le strade a manifestare. Già, ma a manifestare per cosa? Occorre fare un passo indietro e osservare da una certa distanza gli eventi che hanno portato alle proteste di giugno, per non commettere l’errore di ridurre il tutto a un fuoco di paglia. Se è vero che le dimensioni, le pratiche e la radicalità di questo movimento sono fuori dall’ordinario per il Brasile, questo però va visto in prospettiva rispetto agli eventi che lo hanno anticipato. Qui vogliamo cercare di fornire un quadro sul contesto economico e sociale, sulla geografia urbana dei territori, sugli spazi dove si intersecano gli interessi di stato e capitale e quelli delle classi popolari.

I prodromi di una rivolta

I primi fuochi della protesta nascono a seguito dell’aumento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici in diverse città brasiliane, prima fra tutti São Paulo, operati ad inizio giugno 2013. Per molte persone, soprattutto lavoratori e studenti, un aumento di pochi centesimi fa la differenza tra l’accedere o meno al servizio e colpisce quindi in maniera diretta il diritto alla mobilità.

Queste proteste erano state precedute da mobilitazioni analoghe per la diminuzione del costo dei mezzi pubblici nel settembre dell’anno prima a Natal, città da quasi un milione di abitanti nel nordest del paese, nel marzo seguente a Porto Alegre e in maggio a Goiânia.

Per comprendere la viralità e l’estensione di queste proteste, ciò che le lega assieme nel tempo e nello spazio, occorre osservare e analizzare quei fili invisibili che intersecano assieme mobilità e sviluppo urbano: fili che nel contesto brasiliano disegnano la mappa delle disuguaglianze sociali e della divisione di classe.

La questione della mobilità nelle grandi megalopoli brasiliane costituisce un indicatore importante rispetto ai processi di ristrutturazione urbana che si articola sulla direttrice di una triplice esclusione: economica, spaziale e sociale. È evidente, infatti, come la dimensione del trasporto pubblico coinvolga e informi il quadro complessivo della definizione di spazio urbano metropolitano.

Città globali: Rio de Janeiro.

Per iniziare a cogliere questo aspetto è sufficiente fare un esempio concreto e ripercorrere la storia dello sviluppo urbano degli ultimi anni di una delle megalopoli più importanti del Brasile: Rio de Janeiro. La città carioca in tutto il Brasile è seconda solo a São Paulo sia in quanto a popolosità sia per il prodotto interno lordo. A livello economico, il settore manifatturiero ha svolto, almeno fino agli anni ‘80, un ruolo di primo piano e accanto a questo l’estrazione e la raffinazione di petrolio e gas, oltre a costituire una delle principali fonti di approvvigionamento energetico del Brasile, ha attirato diverse multinazionali petrolifere. Essendo stata capitale del Brasile per circa due secoli, la città ha sempre avuto una capacità attrattiva per i capitali nazionali e internazionali e questo ha favorito l’emergere di un polo finanziario, dei servizi e delle telecomunicazioni che negli ultimi decenni è divenuto estremamente rilevante.

A questo sviluppo economico, a questa produzione di ricchezza, è corrisposto l’aumento delle disuguaglianze sociali, con una polarizzazione sempre più marcata tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati. Un tipo di sviluppo che, come teorizza Saskia Sassen, ha coinvolto tutte le città globali attraverso la mondializzazione del mercato del lavoro e la finanziarizzazione delle economie, portando alla costituzione di nicchie economiche del terziario avanzato ad altissimo profitto e di vaste aree del settore dei servizi a bassa qualifica e con una mobilità sociale pressoché assente. Un quadro ben rappresentato anche dal punto di vista spaziale: nelle città globali – quindi anche a Rio – il quartiere della Borsa e della finanza è rigidamente diviso da quello dei servizi o dai quartieri-dormitorio.

A Rio de Janeiro questa divisione territoriale è particolarmente evidente: la zona del centro, quella più antica e nucleo originario della città, è caratterizzata oggi dai grandi palazzi della Borsa, delle banche, delle multinazionali e degli uffici dei colossi delle telecomunicazioni; la zona sud è quella delle residenze dei più ricchi, delle località di villeggiatura per turisti e delle attrazioni per i ceti più abbienti, oltre che sede di una delle più costose università private del Brasile: la Pontificia Università Cattolica; la zona nord è quella dove risiede parte del ceto medio ma soprattutto quella con il più alto numero di favelas, immense baraccopoli spesso senza elettricità, gas e acqua potabile dove vive circa un quinto della popolazione di tutta la città, quella che non può permettersi gli affitti troppo alti o che non può acquistare un immobile: le classi popolari – in questa zona si trova anche la sede dell’università pubblica di Rio de Janeiro; la zona ovest è quella dove è possibile osservare lo stridente contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri, tra slums e zone residenziali ultramoderne: la parte nord per estensione accoglie diverse baraccopoli mentre la parte sud vede quartieri abitati da classi abbienti ma che non possono permettersi la zona sud.

Negli ultimi decenni Rio de Janeiro ha avuto un intenso sviluppo economico, dovuto sia a rinnovate attività estrattive di petrolio e gas, sia ad un mercato finanziario aggressivo e in espansione. L’aumento di alcuni indicatori della ricchezza economica media, danno una visione assolutamente distorta delle reali condizioni materiali: a fronte di un aumento dei profitti e del reddito per i ceti più abbienti, è aumentato il numero delle persone sotto la soglia di povertà. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere e, per tenere sotto controllo il malessere sociale, nel 2008 sono state introdotte le Unidade de Polícia Pacificadora, un’unità speciale di polizia con l’obiettivo ufficiale di pacificare militarmente i quartieri controllati dai trafficanti di droga: in realtà una velleitaria risposta securitaria che vuole ridurre la complessa problematica della disuguaglianza sociale a un problema di ordine pubblico.

Mega eventi

All’interno di questo scenario, possiamo considerare il mega-evento come un dispositivo che viene messo in campo in quanto rete complessa di rapporti di potere che vengono risoggettivati (o desoggettivizzati) secondo un nuovo discorso e nuove retoriche. Per dispositivo intendiamo – nell’articolazione che ne dà Giorgio Agamben nel suo Che cos’è un dispositivo? – quella complessa rete di relazioni di potere che, in forma discorsiva o non-discorsiva, produce o destruttura la soggettività dei viventi; è cioè «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve; tanto del detto che del non-detto» e si manifesta come «un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati». Parliamo di dispositivo – come elemento disciplinare – perché il mega-evento va a incidere e a ridefinire in maniera conflittuale processi economici, politici, sociali e nondimeno spaziali. Se prendiamo il mega-evento come oggetto di analisi, possiamo riuscire a scorgere, attraverso le sue implicazioni, l’articolazione delle retoriche del potere.

Il grande evento da cui partire sono i Giochi Panamericani del 2007, che vengono ospitati interamente a Rio de Janeiro. In questa occasione, vengono avviati fin dagli anni precedenti diversi progetti di ristrutturazione urbana che riguardano sia la costruzione di nuovi complessi sportivi, stadi, arene, villaggi degli atleti, eccetera, sia interventi di “riqualificazione” di alcuni quartieri e la creazione di nuove infrastrutture. Secondo l’Observatório das Metrópoles, che si occupa da molti anni dell’impatto dei mega-eventi sui tessuti urbani, entrambe le tipologie di progetti hanno portato a processi di gentrification* e sradicamento delle comunità di quartiere in cui venivano messi in atto, a speculazioni nel mercato immobiliare e all’aumento generalizzato del costo della vita. Quello che preme sottolineare è come il discorso politico e la retorica sviluppista, messi in campo dalle istituzioni pubbliche dello stato di Rio de Janeiro (la macroregione di cui la città fa parte) e dall’imprenditoria privata convergano anche sul piano economico con investimenti e speculazioni sia del pubblico che del privato.

Il fatto che mette ancor più in evidenza la natura disciplinare di questa macchina astratta è il tentativo di ricomprendere all’interno dello stesso discorso istituzionale le critiche o i discorsi-altri al mega-evento con la nomina di una commissione speciale (CO-Rio) che monitorasse l’evolversi dei lavori: a questa commissione non ha peraltro partecipato nessun gruppo che si occupa della questione. Tra gli interventi urbani effettuati in questo periodo, il più esemplificativo risulta essere la costruzione dello Stadio Olimpico Engenhão, dal nome del quartiere che lo ospita: Engenho de Dentro, abitato prevalentemente da classe operaia e in misura minore da piccola borghesia. Lo stadio, che è finito per costare circa sei volte di più il prezzo preventivato ad inizio lavori, è stato edificato senza alcuna comunicazione con i residenti, molti dei quali anzi si sono trovati con la casa espropriata e poi demolita (chi la possedeva e non era in affitto).

Se possiamo considerare i Giochi Panamericani del 2007 come la forma ancora embrionale del dispositivo del mega-evento, con la maggior parte delle implicazioni ancora in nuce e non pienamente manifeste, negli anni successivi il tessuto metropolitano diventa sempre più terreno di scontro e disciplinamento. In vista della Confederation Cup del 2013 e del Campionato del Mondo di Calcio, di cui Rio ospiterà diverse partite, e soprattutto delle Olimpiadi di Rio del 2016, si estendono ulteriormente gli interventi securitari e urbanistici con tutto ciò che implicano in termini economici, sociali, spaziali.

Il primo di questi interventi che ci consegna la cifra del discorso pubblico istituzionale è la costituzione, come ricordato in precedenza, di un’unità speciale di polizia di prossimità col compito di pacificare alcuni quartieri più a ridosso dei luoghi in cui si terranno i mega-eventi. Quartieri limitrofi a quelli più ricchi dove la stessa condizione di povertà è elemento da nascondere, da rimuovere, da controllare.

Sul piano degli interventi urbani, la costruzione di infrastrutture, edifici e complessi sportivo/abitativi, oltre ad aver intaccato il tessuto urbano – in misura simile o maggiore a quella descritta prima per lo stadio Engenhão – ha provocato un boom del mercato immobiliare, con un aumento dei prezzi e della rendita che da un lato ha compresso il potere di acquisto degli affittuari e dall’altro ha prodotto una speculazione da parte dei proprietari di case. In molti quartieri è quindi intervenuto un processo di sradicamento duplice: il primo, dove la coazione è diretta e amministrata dall’istituzione pubblica nella sua forma di polizia; la seconda, in cui la coazione appare meno evidente ma ugualmente violenta e che è spinta dalle logiche di mercato che portano gli abitanti del quartiere originari a non avere i mezzi per vivere e sopravvivere.

Un’attenzione particolare meritano gli interventi volti a “migliorare” la mobilità urbana che di fatto si sono rivelati distruttivi per il tessuto urbano in cui sono stati implementati. È il caso di alcuni progetti di costruzione di infrastrutture per i trasporti che passano per diversi quartieri popolari e favelas per congiungere il villaggio olimpico con l’aeroporto e che di fatto implicano dubbi vantaggi per la popolazione locale e anzi rischiano di provocare lo sgombero di alcune migliaia di persone.

A Providência, una delle favela più vecchie di Rio, è in atto, all’interno del progetto Morar Carioca finanziato dal Programa de Aceleração do Crescimento (PAC), un processo di eradicamento di circa un terzo della popolazione per favorire la costruzione di alcune funivie. Lo stesso programma prevede la costruzione di case popolari e l’erogazione di prestiti a basso interesse per i meno abbienti. Anche qui la retorica sviluppista si sposa con pratiche coercitive e di disciplinamento che vedono delocalizzare di fatto le classi popolari per favorire la speculazione immobiliare e la rendita e parallelamente attuare politiche di segregazione – le case popolari si troverebbero a nord-ovest, all’estrema periferia di Rio e scarsamente servite dai mezzi pubblici.

Ecco allora che sotto il velo dello “sviluppo anche per i ceti più disagiati” in occasione dei mega-eventi possiamo scorgere le maglie avviluppanti di nuovi rapporti di potere e disciplinamento che si manifestano nelle varie forme che si sono descritte.

Insorgenze

Ecco allora che le proteste per il trasporto pubblico e la mobilità libera e gratuita acquistano un peso e una qualità differenti se le vediamo legate a quelle durante la Confederation Cup e la Giornata mondiale della gioventù cattolica, e se le inseriamo nel contesto dello trasformazione/trasfigurazione della metropoli attraverso il dispositivo governativo del mega-evento. La radicalità e inclusività con cui si è espresso il movimento in questi ultimi mesi in Brasile e in particolare a Rio, la pluralità di istanze assunte da esso e la capacità di sperimentare differenti pratiche organizzative ci suggeriscono che quanto portato avanti può essere la spinta per la nascita di ulteriori terreni di lotta. Un movimento che emerga con forza dal conflitto tra governo delle cose e dei corpi, che possa rinnovarsi continuamente e trovare nuove forme.

* Descrive un particolare processo metropolitano per cui viene “riqualificato” un quartiere considerato degradato per poi rivendere gli immobili ad un prezzo più alto. Ovviamente facendo in modo che gli abitanti precedenti sloggino. La discriminante è chiaramente la creazione del profitto derivante dalla riqualificazione più che il miglioramento delle condizioni sociali del quartiere.

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Il Brasile non si ferma e manifesta https://www.carmillaonline.com/2013/07/05/il-brasile-non-si-ferma-e-manifesta/ Thu, 04 Jul 2013 22:00:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7311 di Fabrizio Lorusso

TARIFA ZEROLa Confederation Cup è finita, il Brasile ha vinto il torneo, ma le piazze di decine di città non si sono più svuotate da quando, il 6 giugno scorso, il Movimento Passe Livre (MPL, nato nel 2005, di natura autonoma e orizzontale) convocò le prime manifestazioni della stagione contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico. L’MPL lotta per una “tariffa zero” nei trasporti, un “diritto alla città” per tutti che eliminerebbe le barriere alla mobilità e la ghettizzazione di classe nelle [...]]]> di Fabrizio Lorusso

TARIFA ZEROLa Confederation Cup è finita, il Brasile ha vinto il torneo, ma le piazze di decine di città non si sono più svuotate da quando, il 6 giugno scorso, il Movimento Passe Livre (MPL, nato nel 2005, di natura autonoma e orizzontale) convocò le prime manifestazioni della stagione contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico. L’MPL lotta per una “tariffa zero” nei trasporti, un “diritto alla città” per tutti che eliminerebbe le barriere alla mobilità e la ghettizzazione di classe nelle metropoli brasiliane. Per questo il movimento precede e trascende le proteste di questi giorni e ha una visione di lungo periodo che punta a mettere in discussione il modello di sviluppo postcapitalista e postmoderno delle città brasiliane che riproduce gli schemi della segregazione etnica e di classe.

In giugno, dopo una settimana di manifestazioni pacifiche, interrotte da meno pacifiche cariche della polizia, milioni di persone non protestavano più “solo per 20 centesimi”. Ed anche l’MPL, in realtà, non ha mai lottato “solo per 20 centesimi” ma per ben altro. Fino ad oggi, però, quella frase, riprodotta dai titoloni dei media di mezzo mondo fino allo spasimo, è servita da una parte a rendere l’idea della crescita del movimento e delle sue richieste, ma dall’altra ha contribuito in qualche modo a mettere in secondo piano o a diluire le rivendicazioni e la portata radicale, fondamentalmente anticapitalista, dello stesso MPL che è stato incalzato dagli eventi, almeno nelle prime fasi.

Da allora le manifestazioni continuano, anche se con intensità e partecipazione affievolite, e continua anche la repressione dalle Ruas alle favelas, con le incursioni della polizia che in questi quartieri popolari non usa “solo” proiettili di gomma ma pallottole vere e approfitta delle operazioni contro i manifestanti per rincarare la dose e invadere le comunità. La lotta storica dell’MPL e l’apparizione sulla scena e nelle strade della “nuova classe media”, cioè quegli oltre 40 milioni di brasiliani emersi dalla povertà con le politiche distributive di Lula e Roussef dal 2003, sono state accompagnate e, in più occasioni, messe in ombra dalla presenza di provocatori, di neofiti delle piazze esaltati o spaesati, da settori di classe medio-alta con un discorso più classista e nazionalista.

La moltiplicazione delle iniziative, delle città mobilitate, delle interpretazioni azzardate intorno al movimento e, infine, delle motivazioni scatenanti delle manifestazioni, con organizzazioni e persone molto diverse e addirittura contrapposte nelle stesse piazze, risponde a un’effettiva eterogeneità di idee e intenzioni, di lotte ed esigenze, che viene propiziata dall’uso massiccio dei social network come spazi dell’attivismo virtuale fai da te e del dibattito a colpi di slogan efficaci e click facili. Questo mix ha finito per mettere troppa carne al fuoco: richieste nuove, più astratte o generiche, come la lotta alla corruzione, alle tasse o all’inflazione, funzionavano come slogan e catalizzatori di un consenso traversale e di un malessere reale senza tradursi, però, in un programma politico che andasse oltre una lista di rivendicazioni.

san paoloAnche i reazionari media mainstream (Globo TV per prima) e le reti sociali, uno strumento utile ma ambiguo nel contempo, stavano palesemente contribuendo a trasformare le percezioni e la natura stessa della protesta, o almeno parti significative (e più mediatizzate) di essa, soprattutto in alcune città (per es. San Paolo): le rivendicazioni concrete passavano in secondo piano sotto la bandiera brasiliana, che “mette tutti d’accordo”, e sotto l’egida dell’antipolitica, non solo antigovernativa, ma anche potenzialmente antidemocratica.

Il “risveglio” è comunque andato avanti: anche docenti, camionisti, abitanti delle favelas, contadini e gruppi afrobrasiliani manifestano, nonostante il circo mediatico non se ne occupi. Circola uno slogan eloquente in rete: “chi non ha mai dormito abbraccia chi s’è svegliato”, che sta quasi a celebrare, con un pizzico di sarcasmo, un’unità d’intenti di vecchi e nuovi movimenti, di realtà vive e vegete e di altre, risvegliate dalla congiuntura, che sono più o meno strutturate, si ritrovano ora nelle piazze insieme alle altre e non si prevede quanto dureranno e come evolveranno.

Si ritrovano alcuni elementi del concetto di moltitudine, sviluppato da Michael Hardt e Toni Negri, nel movimento brasiliano, che tende a rifiutare i canali politici tradizionali e ad organizzarsi nella pluralità, orizzontalmente, senza leader, ma non in modo disorganizzato e del tutto spontaneo. Ne ha parlato Hardt in un’interessante intervista tradotta in italiano su GlobalProject, sottolineando come la tecnologia, anche nel caso brasiliano, sia solo uno strumento mentre l’organizzazione sociale e politica, insieme alla “maturità per combattere le provocazioni e gli interventi della destra” e la capacità di formare un potere “costituente” e non solo “destituente”, restino le vere sfide per il futuro del movimento.

Le proteste di buona parte dei movimenti non si erano mai addormentate. Alcuni risultati sono stati ottenuti nelle ultime due settimane, ma mi sembrano più congiunturali, magari anche emblematici, piuttosto che strategici: bloccato l’aumento del prezzo dei biglietti per il trasporto pubblico nelle grandi città, stanziati maggiori fondi per le infrastrutture, ritirate la PEC 37 (la legge che limitava le indagini sul reato di corruzione sottraendolo all’azione dei PM su cui, però, esiste un dibattito a sinistra relativo ad eventuali derive giustizialiste per l’eccessivo potere dei PM) e la legge omofoba e assurda nota come “cura gay” che trattava l’omosessualità come una malattia e prevedeva cure psicologiche per gli omosessuali.

Il senato ha approvato un provvedimento per ridurre a livello nazionale le tariffe dei trasporti pubblici che ora passa alla camera. La presidente Dilma Roussef ha incontrato l’MPL e i governatori, ha chiesto al parlamento di convocare un referendum sulla riforma politica e ha deciso di destinare il 75% dei proventi del petrolio all’istruzione e il 25% alla sanità. Ha anche rispolverato una vecchia proposta, da sempre osteggiata dai medici brasiliani, di contrattare dottori stranieri per far fronte alle emergenze sanitarie nazionali. Ma i medici dicono che non servono più dottori ma più investimenti.

A Belo Horizonte gli studenti dell’Assemblea Popolare Orizzontale (APH) da una settimana occupano l’edificio della camera, sede del potere legislativo locale dello stato di Minas Gerais, ed esigono la revoca degli aumenti dei biglietti dei mezzi pubblici, maggiore trasparenza nei contratti tra il comune e le imprese di trasporti, la tariffa zero per studenti e disoccupati oltre ad una riduzione generalizzata delle tariffe.

Il 3 luglio il Movimento dei Lavoratori Senza Tetto (MTST), i collettivi Resistencia Urbana, CSP-Conlutas, Itersindical, Periferia Ativa, il Forum Popolare per la Salute e l’MPL sono scesi in piazza a San Paolo, occupando la rinomata Avenida Paulista, per proporre alla Roussef un’agenda che superi i punti da lei proposti e le prime misure adottate: quindi tariffa zero, 10% del PIL per l’educazione, orario di lavoro a 40 ore settimanali senza riduzione del salario e dei benefici previdenziali, controllo statale sugli affitti ed eliminazione degli  sfratti, no alla privatizzazione della sanità, la classificazione della repressione delle forze dell’ordine come crimine grave e la demilitarizzazione dei corpi di polizia.

L’11 luglio ci sarà uno sciopero generale, indipendente dalle proteste dell’ultimo mese anche se ci sono molte rivendicazioni comuni, e unirà i sindacati delle città ai movimenti rurali per chiedere trasporti a “tariffa zero”, l’aumento degli investimenti in salute ed istruzione, lo stop alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro. L’MPL, che si mantiene molto attivo anche per la difesa dei detenuti politici (link bollettino), ha annunciato nuove mobilitazioni contro la repressione e la criminalizzazione dei movimenti sociali, per la tariffa zero, per una sanità e un’educazione pubbliche e gratuite e per il diritto alla casa.

Infine segnalo (e raccomando) il racconto “Cronaca di un titano incompreso”, metafora della situazione del Brasile e delle proteste.

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La protesta invade le strade del Brasile https://www.carmillaonline.com/2013/06/22/la-protesta-invade-le-strade-del-brasile/ Fri, 21 Jun 2013 23:51:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6866 di Fabrizio Lorusso

BrasilOltre un milione di persone si sono riversate per le strade di un centinaio città brasiliane nel pomeriggio di giovedì 20 giugno. Ma sono più di dieci giorni che in decine di città del Brasile le manifestazioni popolari sono inarrestabili, nonostante numerosi episodi di repressione violenta da parte della polizia e, a un livello più “folclorico” ma emblematico, gli spropositi proferiti da O Rey Pelè che ha cercato di richiamare all’ordine i manifestanti, suggerendo loro di concentrarsi sulle partite della seleção e farla finita con le proteste. Il suo appello è giustamente sprofondato nell’oblio. Intanto, solo nella [...]]]> di Fabrizio Lorusso

BrasilOltre un milione di persone si sono riversate per le strade di un centinaio città brasiliane nel pomeriggio di giovedì 20 giugno. Ma sono più di dieci giorni che in decine di città del Brasile le manifestazioni popolari sono inarrestabili, nonostante numerosi episodi di repressione violenta da parte della polizia e, a un livello più “folclorico” ma emblematico, gli spropositi proferiti da O Rey Pelè che ha cercato di richiamare all’ordine i manifestanti, suggerendo loro di concentrarsi sulle partite della seleção e farla finita con le proteste. Il suo appello è giustamente sprofondato nell’oblio. Intanto, solo nella sera di giovedì 20, ci sono stati 60 feriti a Rio, altri 30 a Brasilia e 1 morto a Ribeirão Preto. Come erroneamente alcuni media italiani hanno riportato, non si tratta di un movimento “contro i mondiali di calcio” o semplicemente contro il rincaro dei biglietti dei trasporti pubblici, deciso dai sindaci delle località che ospiteranno le partite nel 2014, per provare a recuperare le spese sostenute in questi anni. Di fatto, per esempio a Brasilia, la protesta è stata battezzata come un “Atto nazionale contro l’aumento dei biglietti, le violazioni legate alla coppa del mondo e la criminalizzazione della lotta popolare”. Dopo le prime giornate di lotta la settimana scorsa la gente è scesa in massa per le strade anche per rispondere alla repressione della polizia che aveva fatto 100 feriti e 190 detenuti. Ad ogni modo i motivi e le chiavi di lettura della protesta rivelano scenari e sentieri poco praticati dai mezzi di comunicazione nostrani, spesso avvezzi alla semplificazione della realtà e della storia latino americane.

Dalla Turchia al Brasile le piazze e la gente s’espongono e s’indignano, sperimentando diverse forme di partecipazione e protesta. Lottano contro l’esclusione dalla democrazia reale, sempre più lontana, “televisivamente” contaminata e infine sostituita dai surrogati del mercato e del privatismo, e dal sogno dello “sviluppo economico” di cui gran parte della popolazione è più vittima o semplice spettatrice che artefice o beneficiaria. Ed è un “sogno” che, tra l’altro, i paesi dell’America Latina hanno già provato a vivere a più riprese, quasi sempre interrotte da dittature, populismi, ingerenze straniere, colpi di stato e “problemi strutturali” sia negli anni trenta che negli anni sessanta del secolo scorso.

Da Istanbul a Brasilia parliamo di due paesi cosiddetti “emergenti”, seppur in modi, contesti e tempi assai differenti tra di loro, e di risvegli improvvisi, ma non imprevedibili né ingiustificati. Non sono gli alberi del Gezi Park a Istanbul o l’aumento di 20 centesimi di Real del biglietto per i trasporti pubblici di San Paolo e Rio (e di altre città che ospiteranno i mondiali di calcio) i motivi dell’incendio, ma sono solo le scintille che appiccano il fuoco e uniscono le masse attorno a esigenze certamente più trascendenti e ispiratrici che  coinvolgono settori anche molto diversi della popolazione e spaziano da proposte di riforma del sistema fino a idee per il suo superamento.

Il Brasile del PT (Partido dos Trabalhadores), dell’ex presidente Ignacio “Lula” da Silva (il “presidente operaio”, dal 2003 al 2010) e di Dilma Roussef (la “presidentessa guerrigliera”, 2011-14) ha 200 milioni di abitanti, è la prima economia dell’America Latina, sesta del mondo, e nell’ultimo decennio ha sicuramente fatto dei grossi passi avanti nella lotta alla povertà e nell’ampliamento della classe media grazie a un’economia che ha registrato una media di crescita del 4% per otto anni di fila (2003-2011). Il “gigante del Sud” si erge dunque a potenza regionale sudamericana, ma anche ad attore geopolitico di caratura mondiale e acquista più peso a livello internazionale. Per citare un paio di esempi, sono brasiliani il direttore generale della OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), Roberto Azevedo, e quello della FAO, José Graziano da Silva. Il Brasile fa parte dei paesi emergenti inclusi nella fantomatica sigla “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), organizzerà le Olimpiadi nel 2016 e i Mondiali di calcio l’anno prossimo, dopo aver già realizzato l’anno scorso la Conferenza ONU Rio +20 sull’ambiente. Ma non è tutto oro quel che luccica.

Undici giorni consecutivi di proteste, un crescendo di partecipazione popolare attivata dai social network, che riproducono lo slogan “Brasile, svegliati!”, convertito in hashtag e trending topic su twitter nel giro di poche ore, stanno lì a ricordare al mondo, ipnotizzato dalla Confederation Cup che sta per arrivare alla fase finale, che questo è anche il paese delle enormi disuguaglianze socio-economiche, tra le più grandi in America Latina, della corruzione, degli sprechi per il mondiale e dello sviluppo incompiuto. La crescita economica s’è quasi fermata per un paio d’anni passando a tassi europei (da declino o quasi) del 2,7% nel 2011 e dello 0,9% l’anno scorso, mentre l’inflazione è cresciuta fino al 6,5%.

L’alto costo della vita, che è semplicemente proibitivo per la maggior parte della popolazione, almeno nelle grandi città, e l’imposizione fiscale, tra le più alte in America Latina, farebbero pensare ad un paese che sta toccando le vette del tanto agognato “sviluppo” economico e del cosiddetto “primo mondo” (dove appunto tasse e costo della vita sono alti), ma la realtà è un’altra. I segni esteriori e i dati economici di un “paese sviluppato” (o in via di sviluppo) non sempre corrispondono alla situazione della vita reale né alla totalità della sua gente. Affianco alla nuova classe media salariata, sempre più appiattita su standard e modelli di vita estremamente consumistici, esistono masse popolari che dalle favelas alle periferie, dalle regioni amazzoniche al Nordest, storicamente più arretrate rispetto al Sud e all’asse Rio-San Paolo, non sono ancora riuscite a fare “il grande salto” e probabilmente dovranno attendere qualche decennio in più per farlo (se mai succederà). Il modello della potenza regionale che aspira ad essere un “global player” e proietta un’immagine nazionale positiva e amichevole al resto del mondo comincia a scricchiolare proprio in questi giorni in cui l’attenzione dei media avvia la sua fase ascendente per colpa della, o grazie alla, Confederation Cup.

Proprio il 22 giugno si gioca Italia-Brasile a Salvador de Bahia e sono annunciate nuove mobilitazioni, mentre la preparazione per i mondiali del 2014 rende irrequieta, anzi arrabbiata, la popolazione che vede fluttuare le spese per gli stadi e le infrastrutture mentre aumentano gli sfollati e i senza tetto, pagati una miseria per abbandonare le loro case site nei pressi dei nuovi megaprogetti, e s’abbassano la qualità e la copertura della sanità e del sistema educativo. Questi sono alcuni altri motivi che hanno spinto migliaia di persone a scendere in piazza. Un’altra delle richieste della popolazione “indignata” riguarda la trasparenza nella gestione dei circa 13 miliardi di dollari investiti dal governo per i mondiali e le Olimpiadi e i freni contro la corruzione. “Meno circo e più pane”, chiedono i manifestanti. Gli aumenti nei prezzi dei biglietti sono stati revocati, ma le proteste continuano.

Secondo uno studio (da prendere con le pinze ma almeno indicativo) citato dalla stampa brasiliana e portoghese nei giorni scorsi, l’84% dei manifestanti non dichiara simpatie di partito, il 71% partecipa per la prima volta a una protesta di piazza e più della metà ha meno di 25 anni. L’81% delle persone han saputo delle iniziative attraverso Facebook. Dal 1992, quando venne contestata la presidenza di Fernando Collor de Mello, non si vedevano manifestazioni così imponenti nelle metropoli brasiliane e queste sono le prime che vengono convocate prevalentemente tramite le reti sociali. L’origine viene dalle mobilitazioni convocate dal movimento contro l’aumento del costo dei trasporti pubblici (Movimiento Pase Libre), ma la continuazione e gli sviluppi delle manifestazioni passano dalle reti sociali e dall’estensione della protesta ad altri settori, in genere non rappresentati a livello istituzionale e appunto convocati spontaneamente per le strade.

In Brasile chi riesce a “entrare nel sistema”, magari grazie a un contratto decente, alla carriera in una grande impresa nazionale o in una multinazionale, oppure con un posto statale, ha l’illusione di raggiungere di una qualità di vita da “primo mondo” (per quanto questa definizione possa avere un significato attualmente). Ciononostante, gli alti indici di criminalità (per esempio un tasso di omicidi ogni centomila abitanti superiore a 25, di fatto simile a quello del Messico della narcoguerra) e un tasso di sviluppo umano (indice che incorpora la valutazione di istruzione, sanità e reddito) che colloca il paese al posto numero 85, sotto Perù e Venezuela per esempio, contraddicono l’ottimismo dei nuovi settori emergenti.

C’è chi ha provato a strumentalizzare politicamente la protesta, puntando il dito esclusivamente contro Dilma Roussef e riducendo le manifestazioni a un movimento contro il governo in carica. Invece la popolazione nelle piazze tende a lanciarsi contro tutta la classe politica, da una parte, e contro un modello di sviluppo incompleto, dall’altra. D’altro canto è vero che, rispetto al periodo di Lula, c’è stato un distacco maggiore dei movimenti sociali dai partiti di governo.

In un editoriale uscito sul quotidiano portoghese Publico del 20 giugno, l’accademico Boaventura de Sousa Santos sottolinea luci ed ombre del Brasile di Lula e Dilma, una potenza che ha proiettato internazionalmente l’idea (solo in parte seguita dalla pratica) di uno sviluppo “benevolo ed includente”, di una società effettivamente meno povera e con prospettive per il futuro, ma che è composta comunque da due paesi diversi, forse meno identificabili rispetto alle “due Turchie” che da tre settimane si scontrano nelle piazze del paese euroasiatico. Il Brasile “altro”, quello che sfugge alle analisi più comuni, è spiegabile tramite tre narrative.

La prima è quella dell’esclusione sociale, quella di un paese tra i più ingiusti al mondo, malgrado la crescita e le politiche dell’ultimo decennio, in cui le oligarchie latifondiste, il vecchio mondo provinciale e autoritario, le élite razziste e chiuse sono ancora vive e vegete. La seconda è quella della rivendicazione della democrazia partecipativa dell’ultimo quarto di secolo, culminata con la Costituzione del 1988, i bilanci partecipativi a livello municipale, l’impeachment del presidente Collor de Mello nel 1992, la creazione dei consigli cittadini per la gestione di alcune politiche pubbliche a vari livelli. La terza narrativa ha una decina d’anni e riguarda le politiche d’inclusione sociale portate avanti dal presidente Lula dal 2003 che hanno portato a un aumento della classe media “consumista”, a una riduzione della povertà e alla presa di coscienza pubblica sulla discriminazione razziale contro gli discendenti dei popoli indigeni e africani.

Da quasi tre anni a questa parte, con la presidenza di Dilma Roussef, c’è stato un rallentamento nelle azioni e nei discorsi legati alle ultime due narrative. “Lo spazio politico corrispondente è stato occupato dalla prima narrativa, rinforzata dall’ideologia dello sviluppo capitalista a tutti i costi e dalle nuove e vecchie forme di corruzione”, secondo Boaventura de Sousa, e “le forme di democrazia partecipativa sono state cooptate, neutralizzate dall’avvento delle grandi infrastrutture e i megaprogetti, perdendo interesse per le nuove generazioni”. Sono in aumento gli omicidi di sindacalisti e attivisti contadini nel vecchio Brasile rurale, per esempio, e la distribuzione della ricchezza sta vivendo un momento di stagnazione.

Quindi la vita urbana è peggiorata dato che gli investimenti per il trasporto, l’educazione, la salute e i servizi sono finiti nel calderone dei progetti per gli eventi internazionali organizzati dal Brasile. Ma questi stessi eventi rischiano di diventare un boomerang, anche se, forse, rischiano di diventare delle occasioni uniche per il risveglio della protesta popolare che, forte dell’attenzione mediatica globale, può spingere per una trasformazione più profonda della società, la redistribuzione della ricchezza e un riorientamento del modello di sviluppo che non dimentichi le narrative dell’inclusione politica, sociale ed economica.

La presidentessa del Brasile ha appena rivolto un discorso di “riconciliazione” alla nazione e specialmente a quel milione di manifestanti che minacciano di moltiplicarsi e continuare con le mobilitazioni. La Roussef ha dichiarato che destinerà il 100% delle risorse del settore petrolifero all’istruzione, che riceverà i leader delle proteste (che però non si sa esattamente chi siano e quindi forse il riferimento è al Movimento Pase Libre) per arrivare a una soluzione e che c’è bisogno di “ossigenare il sistema politico”. L’apertura al dialogo con tutti, sempre secondo il discorso della presidentessa, è d’obbligo, ma va condotto “in ordine e senza violenza”, quindi la polizia proteggerà il “patrimonio pubblico”. Mi sembrano parole un po’ fredde e promesse ancora poco definite, ma è un impressione esterna, per cui restiamo in attesa della risposta delle piazze e della definizione di un movimento che forse è ancora difficile “inquadrare”, ma che sta svegliando dal torpore un paese e stanando alcune sue contraddizioni.

PS. Segnalo due articoli interessanti (in portoghese e in spagnolo) che cercano di interpretare le direzioni e le sfumature del movimento inedito che sta riempiendo le strade brasiliane in questi giorni. Da una parte c’è una visione preoccupata e l’appello alle forze anticapitaliste che segnala (LINK Passapalvra) il pericolo (e la presenza) di strumentalizzazioni e infiltrazioni della destra e di una eventuale deriva nazionalista e conservatrice, dall’altra (LINK Rebelion) la forza del popolo per le strade, la riappropriazione degli spazi e lo spontaneismo che stanno facendo risvegliare il paese, dunque non solo un “movimento” della classe media. Foto degli scontri nelle diverse città: LINK

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