protesta – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Kim, prima che l’ipocrisia soffochi il mondo https://www.carmillaonline.com/2021/09/29/kim-prima-che-lipocrisia-sommerga-il-mondo/ Wed, 29 Sep 2021 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68366 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 282, 26,00 euro

Ho letto Kim diverse volte – non so quante – e l’ho portato con me nei miei viaggi. È l’unico libro di prosa che si può aprire a caso, a qualsiasi pagina, e ricominciare a leggere con lo stesso piacere che se fosse poesia. (Wilfred Thesiger)

Un amico torinese, scrittore, saggista e recensore inveterato, ha definito Kim come il più bel romanzo di avventura che sia mai stato scritto. [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 282, 26,00 euro

Ho letto Kim diverse volte – non so quante – e l’ho portato con me nei miei viaggi.
È l’unico libro di prosa che si può aprire a caso, a qualsiasi pagina, e ricominciare a leggere con lo stesso piacere che se fosse poesia.
(Wilfred Thesiger)

Un amico torinese, scrittore, saggista e recensore inveterato, ha definito Kim come il più bel romanzo di avventura che sia mai stato scritto. Certamente l’opera di Rudyard Kipling lo è, ma è anche molto di più: un magnifico romanzo di formazione, un grande affresco storico e antropologico sull’India coloniale e i giochi delle grandi potenze imperialistiche che si svolsero ai suoi confini e al suo interno. Intorno ai personaggi principali, infatti, si sovrappongono, talvolta nell’ombra e talaltra alla luce del sole, i maneggi di spie e avventurieri che incrociano, non sempre solo virtualmente, le loro armi nel tentativo di difendere o indebolire il dominio britannico sul subcontinente indiano e le sue propaggini centro asiatiche.

Ora, prima che sia costituito qualche nuovo ministero da Minculpop perbenista e politically correct destinato a proibire la circolazione e la lettura di un libro scritto da un autore “colonialista”, varrebbe la pena di scoprire quanti di quei personaggi (il curatore del museo di Lahore, il vecchi lama tibetano, i rappresentanti dei servizi segreti inglesi, le spie francesi al soldo dello zar, commercianti e ladri di cavalli, anziane donne indiane autoritarie ma benevole e molti altri ancora) avessero radici e riferimenti in personaggi reali, oltre che in fatti e vicende appartenenti alla dinamica del Grande Gioco ovvero all’infinito sotterraneo conflitto che vide coinvolte, tra l’inizio del XIX secolo e la prima metà del XX secolo Russia e Gran Bretagna per il controllo del grande nulla costituito dall’Asia centrale e dalle aree confinanti con l’India, il Pakistan e il Tibet attuali.

Vicende interessanti soprattutto per chi, ancora oggi e con attori parzialmente cambiati (USA e Cina oltre che la Russia di Putin), si interessi alle vicende centro-asiatiche, e afghane in particolare. Che, al di là del miserrimo e ipocrita discorso liberal sui diritti umani e il politically correct, continuano a sgranare il loro rosario di conflitti, voltafaccia, tradimenti, morti, violenze, contraddizioni, false informazioni, contrasti religiosi e ideologici e, perché no, speranze per le irriducibili popolazioni locali.

Peter Hopkirk, che prima di affermarsi come saggista storico con i volumi che dedicò al Grande Gioco e ai suoi preamboli ed aspetti avventurosi, di cui Sulle tracce di Kim costituì il sesto e ultimo1, fu ufficiale dell’esercito britannico, viaggiatore e reporter per la «Independent Television News», corrispondente da New York per il «Sunday Express» ed in seguito giornalista, per quasi vent’anni, del «Times», cinque come capo reporter e poi come specialista del Medio ed Estremo Oriente (aree che aveva conosciuto personalmente girovagando a lungo tra Russia, Asia Centrale, Caucaso, Cina, India e Pakistan, Iran e Turchia orientale.

Sostenne sempre che ad ispirare questa sua passione fosse stata proprio la lettura del romanzo di Kipling, cui volle dedicare la sua ultima fatica saggistica. Romanzo che, a sua volta, era strettamente ispirato alle vicende famigliari e d’infanzia dello stesso Kipling, visto, ad esempio, come sia facilmente riconoscibile la figura del padre dell’autore nel personaggio del curatore del Museo di Lahore (la Casa delle Meraviglie) che compare nelle prime pagine del romanzo.

Uomo colto, conoscitore delle culture locali, affascinato dall’arte e dal pensiero buddista, in qualche modo sembra rivelare il cuore dell’attenzione di Kipling per il subcontinente e le sue genti, anche se lo stesso autore fu forse l’inventore del termine Grande Gioco per definire lo scontro tra potenze per il suo controllo e possesso e, ancor peggio, il teorizzatore del white man burden (il fardello dell’uomo bianco) con cui l’Occidente, compresa la sua componente socialdemocratica e socialista, spesso guardò a quello e ad altri nell’intento di giustificare come missione (non si parla forse ancora oggi di missioni di pace e di soccorso oppure di polizia quando si tratta di operare in aree poste al di fuori dei confini ufficiai dell’Occidente?) l’opera predatoria messa in atto di popoli e continenti non bianchi.

Eppure, eppure…
Basterebbe scorrere le pagine di Kim, con un minimo di attenzione, per cogliere il realismo e il rispetto con cui vengono descritti non solo i personaggi principali, ma anche quelli secondari e minori che si incontrano lungo l’interminabile viaggio sulla Grand Trunk Road2 che il giovane protagonista intraprende come servitore, astuto e fedele, di un vecchio lama tibetano intento a visitare, prima di morire, i Quattro Luoghi Sacri e a voler scoprire il fiume da cui tutto ha avuto origine.
Pagine e vicende che, come afferma Hopkirk nel Prologo, hanno colpito non soltanto lui ma tantissimi altri lettori di formazione e convinzioni molte lontane tra loro.

L’indirizzo della mia vita lo devo molto alla lettura da giovane del capolavoro di Kipling. Perché è stato proprio Kim, non riesco neppure a ricordare quanti anni fa, a introdurmi per la prima volta nel mondo intrigante del Grande Gioco. Per l’impressionabile e fantasticante ragazzo di tredici anni qual ero – la stessa età di Kim – le attività misteriose, per non dire torbide, di uomini come il colonnello Creighton, Mahbub Ali e Lurgan Sahib erano davvero roba forte. Dopotutto, si era al tempo in cui la Gran Bretagna governava ancora l’India, e molte altre parti del mondo, per cui quasi tutto pareva possibile.
Ero così stregato da questa mia sbirciata dentro i maneggi del servizio segreto indiano che mi portavo sempre dietro, dovunque andassi, una copia di Kim, anche se tante cose non le avevo capite. Perché Kim, nonostante molti non lo sappiano, non è un libro per ragazzi. E in effetti, all’età di tredici anni, ero ben lontano dal capire di cosa veramente si trattasse dicendo Grande Gioco, «che mai cessa di giorno e di notte». Ciò nonostante, quello che appariva era incredibilmente eccitante, e io anelavo di saperne di più. La ricerca sarebbe durata per tutta la vita, e dura ancora.
Scoprii poi che non ero il solo ad essermi appassionato a Kim. Wilfred Thesiger ci dice che raramente si è messo in viaggio senza una copia di questo libro nella bisaccia, mentre T.S. Eliot lo leggeva a voce alta a sua moglie certe sere, giusto per il piacere di sentire il suo linguaggio. Mark Twain disse che lo leggeva da capo ogni anno […] E io una volta ho sentito dire da Tarik Ali,
quell’ex-fustigatore dell’establishment britannico, che Kim era il libro che amava di più quando stava a Lahore, dove anche lui era cresciuto, come Kim3.

Ma chi volesse vedere nell’opera di Kipling, e nella lettura attenta che ne fa Hopkirk, soltanto un segno del paternalismo occidentale nei confronti dei sottoposti o degli ex-tali, dovrebbe fare i conti anche con l’attenzione che l’autore di Kim pone alla presentazione delle culture e delle arti locali. Ad esempio quando l’Amico del Mondo (uno dei tanti soprannomi assegnati al giovane protagonista) entra con il lama nel museo di Lahore: «Nel salone di ingresso erano esposte le figure più grandi della statuaria greco-buddhista; datarle è impresa da eruditi – opera di artefici anonimi dalle mani impegnate a ritrovare, non senza maestria, il tocco greco misteriosamente trasmesso»4.
Tema che sarai poi ripreso, in un’altra delle sue ricerche, dallo stesso Hopkirk.
La vera base di partenza per la diffusione del buddhismo in Cina, ci spiega infatti l’autore inglese

fu in realtà il regno buddhista di Gandhara situato nella valle di Peshawar, che appartiene oggi al Pakistan nordoccidentale. In questi luoghi si era già realizzata un’altra fusione artistica, tra l’arte buddhista indiana importata dai dominatori Kushan (discendenti degli Yueh-chih) nel I secolo d.C. e l’arte greca, introdotta in quella regione quattro secoli prima da Alessandro il Grande.
Il più rivoluzionario prodotto di questa scuola greco-buddhista, o gandharana, fu la raffigurazione del Buddha in forme umane. Era la prima volta che degli artisti si permettevano di rappresentarlo in questo modo […] I primi viaggiatori occidentali che nell’Ottocento raggiunsero la regione di Gandhara dall’India restarono stupefatti alla vista di quest’arte così differente dalle forme dell’arte religiosa indiana alla quale erano abituati. Nella precipitazione con cui si cercò di ottenere campioni di quell’arte per musei e collezioni, furono inflitti a siti e templi irreparabili danni5.

Metafora di tutti i successivi danni causati dal colonialismo occidentale in India e nelle regioni limitrofe (e già abbondantemente segnalati da Marx ed Engels nei loro scritti sull’India e la Cina6), le descrizioni di Hopkirk (e di Kipling) ci parlano dei tempi lunghi della Storia, degli incontri tra culture e civiltà diverse, segnalandoci, se abbiamo orecchie ed occhi per comprenderlo, che tutto quanto sta avvenendo oggi nell’area centro-asiatica ha una lunga storia pregressa con cui occorrerebbe fare i conti e conoscere nel dettaglio. Magari anche prima di lanciarsi in campagne militari destinate alla sconfitta fin dall’inizio. Proprio come quella occidentale in Afghanistan.

Ora, ed è questo il punto principale di questa riflessione, il vento di revisionismo che percorre il pensiero liberal e una certa sinistra immediatista, che in nome di un loro ipotetico superamento “volontario” intende rimuovere ogni ricordo del passato o dell’attuale regime di differenziazione tra le classi, i generi e gruppi etnici e culturali, rischia di non far altro che nascondere e rimuovere le infinite contraddizioni, passate e attuali, su cui si fonda ogni regime di oppressione di classe, razza e genere.

Il rischio è costituito, infatti, dal fatto che, passato il momento della rivolta generalizzata e “illegale” durante la quale, giustamente, statue e immagini di dittatori, schiavisti e generali vengono bruciate o abbattute, si pensi di cancellare le contraddizioni reali e persistenti con un volontaristico e “legalitario” colpo di spugna ed un mea culpa generalizzato e infingardo. Rintracciabili, soltanto per fare due esempi, tanto in dichiarazioni come quella rilasciata in un tweet dall’attrice americana Rosanna Arquette («Sono dispiaciuta di essere nata bianca e privilegiata, Mi disgusta. Mi vergogno molto»), quanto nell’abito indossato dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez in occasione di un (ricco) meeting di gala per la raccolta fondi (Met Gala), considerato l’evento mondano più importante di New York, una serata di “beneficenza” da 30mila dollari a biglietto organizzata dalla direttrice di «Vogue» Anna Wintour. Abito di alta sartoria sul quale era scritto provocatoriamente (?), con grandi lettere rosse, Tax the rich (tassate i ricchi).

La rivolta e la protesta vengono così sostituite dagli atti di contrizione, cui già spesso ci hanno abituato i social7, oppure dalla loro formale spettacolarizzazione mediatica attraverso logo e frasi ad effetto.
Una furbesca operazione di disarmo delle lotte che attraverso l’eliminazione di film, opere letterarie ed altro8 non fa altro che prolungare l’esistenza di violenza, oppressione e ingiustizia semplicemente nascondendo, nel più borghese ed opportunista dei modi, la polvere sotto il tappeto del salotto buono.
La finta intolleranza, che non passa attraverso la lotta aperta e dichiarata, finisce infatti col creare nuova tolleranza nei confronti delle ingiustizie, ben più profonde e radicate che nelle pagine di un romanzo o tra le immagini di un film (dove quasi sempre sono spesso più evidenti proprio perché date per scontate).

Noi, che crediamo che l’attuale modo di produzione abbia bisogno di ben altre iniziative per poter essere negato e rovesciato, continueremo a leggere con attenzione le opere che di tali violenze ed ingiustizie ci parlano, anche e forse soprattutto indirettamente, a distanza di decenni o di secoli da quelle stesse. Per questo vale ancora la pena di leggere la dettagliata ricostruzione storica di Hopkirk e lo stesso romanzo da cui ha tratto ispirazione, prima che nelle biblioteche, solo per fare un’ipotesi banale, siano soltanto più rintracciabili le opere di Elena Ferrante (guarda caso, quest’ultima, autrice prediletta da Hillary Clinton).

Era seduto, in barba alle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah che su un basamento di mattoni fronteggiava il vecchio Ajaib-gher, la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore. Chi detiene Zam-Zammah, il «drago sputafuoco», tiene il Punjab, e quel gran pezzo di bronzo verde è sempre stato la preda più ambita del conquistatore.
A parziale giustificazione di Kim – che aveva cacciato il figlio di Lala Dinanath giù dall’affusto – c’era il fatto che gli inglesi tenevano il Punjab, e Kim era inglese. Pur essendo un tizzo nero almeno quanto un indigeno; pur parlando di preferenza il vernacolo, e la lingua madre con un’incerta, zoppicante cantilena; pur facendo comunella su un piano di perfetta parità con i ragazzini del bazar, Kim era bianco…un bianco povero tra i più poveri. La mezzosangue che badava a lui (fumava oppio e faceva mostra di tenere una bottega di mobili usati vicino alla piazza dove stazionavano le vetture da nolo a buon mercato) raccontava a i missionari di essere la sorella della madre di Kim; in realtà la madre del ragazzo aveva fatto la bambinaia presso la famiglia di un colonnello e aveva sposato Kimball O’Hara, giovane sergente portabandiera dei Maverick, un reggimento irlandese. In seguito O’Hara aveva trovato impiego alla Sind, Punjab and Delhi Railway, e il reggimento era tornato in patria senza di lui. La moglie era morta di colera a Ferozepore e O’Hara si era messo a bere e vagabondare su e giù lungo la linea ferroviaria assieme al figlio, un bimbo di tre anni con due occhi vispi. Istituti e cappellani, preoccupati per il piccolo, avevano cercato di sottrarglielo, ma O’Hara aveva preso il largo fino a quando, incontrata la donna che faceva uso di oppio, ci aveva preso gusto anche lui ed era morto come muoiono i bianchi poveri in India 9.

Questo l’incipit del grande romanzo e della contraddizione che il giovane protagonista vivrà sempre nella sua appartenenza a due mondi, entrambi poveri e complessi.


  1. Peter Hopkirk: Diavoli stranieri sulla Via della Seta. La ricerca dei tesori perduti dell’Asia Centrale (Foreign Devils on the Silk Road: The Search for the Lost Cities and Treasures of the Chinese Central Asia, 1980), Adelphi, Milano 2006; Alla conquista di Lhasa (Trespassers on the Roof of the World: The Secret Exploration of Tibet, 1982), Adelphi, Milano 2008; Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia (Setting the East Ablaze: Lenin’s Dream of an Empire in Asia, 1984), Mimesis, Milano-Udine, 2021 (già recensito su Carmilla qui); Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale (The Great Game: On Secret Service in High Asia, 1990), Adelphi, Milano 2004; On Secret Service East of Constantinople: The Plot to Bring Down the British Empire, 1994. [pubblicato negli USA nel 1995 col titolo Like Hidden Fire]; Quest for Kim: in Search of Kipling’s Great Game, 1996.  

  2. Conosciuta anche come Uttarapath, Sarak-e-Azam, Badshahi Sarak, Sarak-e-Sher Shah è una delle strade più antiche e più lunghe dell’Asia. Per almeno 2.500 anni, ha collegato l’Asia centrale con il subcontinente indiano. Si sviluppa per 2.400 km (1.491 miglia) da Teknaf, dal confine con il Myanmar a ovest di Kabul, passando per Chittagong e Dhaka in Bangladesh, Calcutta, Allahabad, Delhi e Amritsar, in India, e Lahore, Rawalpindi,e Peshawar in Pakistan.  

  3. Peter Hopkirk, Prologo. Qui comincia il Grande Gioco in Sulle tracce di Kim, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 13-14  

  4. Rudyard Kipling, Kim, Adelphi, Milano 2000, p.17  

  5. Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Adelphi, Milano 2006, p. 45  

  6. Raccolti a cura di Bruno Maffi in K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960  

  7. Si veda qui su Carmilla  

  8. A quando la cancellazione del XXXIII canto dell’Inferno dantesco, quello del conte Ugolino (mai letto, guarda caso, in tv dal servile e liberalissimo Roberto Benigni), per l’insopportabile violenza sui minori in esso descritta?  

  9. R. Kipling, Kim, op. cit., pp. 11-12  

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“Se mi uccidono”: femminicidi e violenza di genere all’università https://www.carmillaonline.com/2017/06/06/vivas-femminicidio-rivittimizzazione-ribellione-universita-simematan/ Mon, 05 Jun 2017 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38704 di Caterina Morbiato*

Lesvy Berlín Osorio: #SiMeMatan

Sono le due di pomeriggio del 5 maggio. Il corteo inizia a muoversi dalla facoltà di Scienze Politiche lungo, rabbioso. Avanza lento e grida forte. La testa è formata da un contigente di sole donne, gli uomini sono ammessi ma devono restare nella parte posteriore. Quando svolta verso la zona delle facoltà scientifiche il passaggio si restringe e i corpi si comprimono, il passo rallenta mentre i tamburi della batucada e centinaia di lingue pestano nelle orecchie: “non una di più: non una assassinata in [...]]]> di Caterina Morbiato*

Lesvy Berlín Osorio: #SiMeMatan

Sono le due di pomeriggio del 5 maggio. Il corteo inizia a muoversi dalla facoltà di Scienze Politiche lungo, rabbioso. Avanza lento e grida forte. La testa è formata da un contigente di sole donne, gli uomini sono ammessi ma devono restare nella parte posteriore. Quando svolta verso la zona delle facoltà scientifiche il passaggio si restringe e i corpi si comprimono, il passo rallenta mentre i tamburi della batucada e centinaia di lingue pestano nelle orecchie: “non una di più: non una assassinata in più! Non è stato un suicidio: è stato un femminicidio! No no no, non è un caso isolato: i femminicidi so-no-un-cri-mi-ne-di-Sta-to!” Da quanto gli stessi slogan? Ci sono momenti in cui la loro interminabile ripetizione provoca uno smarrimento profondo – Applaudite! applaudite! non smettete di applaudire che il maledetto machismo deve morire! – e la sensazione che le cose non potranno mai migliorare può diventare devastante. La notte tra il 2 e il 3 di maggio Lesvy Berlìn Osorio è stata assassinata nell’area della facoltà di Ingegneria dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM). Il suo corpo esanime è stato ritrovato legato a una cabina telefonica con il cavo dell’auricolare. Secondo i primi accertamenti Lesvy sarebbe rimasta fino alle quattro di notte nelle strutture dell’università in compagnia di alcuni amici e del suo ragazzo. I due si sarebbero poi separati dopo un litigio.

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“Il giorno dei fatti la coppia si era riunita con vari amici nell’università, dove si sono alcolizzati e drogati”

“La madre e il fidanzato assicurano che lei non studiava più dal 2014 e aveva smesso di frequentare il CCH Sur (scuola superiore) dove era ripetente in varie materie”

“Il fidanzato, con cui viveva la vittima, ha informato che lavora nell’area amministrativa della Preparatoria 6 (scuola superiore)”

A poche ore dall’identificazione di Lesvy, la Procura di Città del Messico provvede a diffondere questi tweet: non informazioni rivelanti sugli eventuali sviluppi dell’indagine, ma dettagli della vita personale della vittima. Dettagli che vengono utilizzati per spiegare (legittimare?) il delitto, facendo leva su quell’universo di stereotipi e pregiudizi di cui si nutrono le costruzioni del genere. Dettagli che propiziano nuove forme di aggressione, che esibiscono e vittimizzano Lesvy  per una seconda volta: una dinamica fin troppo comune nei casi di femminicidio. Varie testate giornalistiche e media digitali si affrettano a replicare i dati diffusi dalla procura anche se poi c’è chi farà autocritica, chiedendo scusa per la mancanza di professionalità e sensibilità. Lo stesso farà la Procura, la cui responsabile dell’area comunicazione si dimette dopo pochi giorni.

In reazione ai tuits centinaia di donne iniziano a diffondere l’hashtag #SiMeMatan (Se mi uccidono), elencando una serie di dettagli della loro vita personale per cui dovrebbero, secondo la logica imbastita dalla retorica della procura, meritarsi la morte: se mi uccidono è perché uso gonne corte e scollature, perché mi ubriaco, perché mi piace viaggiare da sola, perché sono bisessuale, perché dico NO quando lui vuole che sia un si. Se mi uccidono è per i miei tatuaggi, perché vado a far festa con le mie amiche, perché ho avuto relazioni prima del matrimonio e ho debiti con la banca.

Non importa che siano messaggi grondanti dolore e rabbia, non mancano le varie soggettività maschili che colgono l’occasione al volo per far parlare di sé, stravolgendo il significato della protesta: “#SiMeMatan rivivo”, scrive in un tweet Pascal Beltràn del Rìo, direttore della testata nazionale Excelsior, mentre Fernando Belaunzaràn, politico del Partito della Rivoluzione Democratica (PRD), esordisce: “#SiMeMatan che sia per amore”. Entrambi si commentano da soli.

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Centinaia di donne e decine di uomini sono riunite intorno a una cabina telefonica. Qualcuna legge delle testimonianze in ricordo di altre donne uccise: la voce spesso si impiastra di lacrime e muco e allora cori energici – Non sei sola! Non sei sola! – si innalzano per abbracciare simbolicamente chi non ce la fa a contenere l’emozione. C’è un altare improvvisato con candele e fiori e cartelli rosa: Lesvy è stata ammazzata qui. Aveva 22 anni, era una accanita lettrice e amava le lingue: parlava inglese, catalano, rumeno. Era figlia di madre messicana e padre guatemalteco. I risultati della sua autopsia hanno confermato segni di tortura e la morte per strangolamento: è stato un femminicidio e non un suicidio come inizialmente, per quanto inverosimile possa suonare, avevano ipotizzato le autorità.

Caso Perelló: se non c’è cazzo, non c’è stupro

È il 28 di marzo 2017 e dalle frequenze di Radio UNAM, la stazione radiofonica dell’Università Nazionale Autonoma del Messico, la voce ruvida di Marcelino Perelló Valls inonda l’etere. È l’ora di “Sentido Contrario” (Contromano), la trasmissione che conduce da quasi sedici anni.

“Lo stupro implica necessariamente il cazzo. Se non c’è cazzo, non c’è stupro. Cioè: con pali di scopa, dita e vibratori non esiste stupro. Semmai c’è una violazione della dignità, ma di queste ce n’è di vario tipo. Per esempio se ti spalmano in faccia merda di cavallo”.

Per quasi tre ore, il conduttore radiofonico nonché ex lider del movimento studentesco del ’68 e accademico dell’UNAM, passa in rassegna diversi casi di abuso sessuale avvenuti di recente nel paese, facendosi beffe delle donne coinvolte e ridicolizzando le loro azioni di denuncia.

“Succede soprattutto con le donne fighe, e non c’è nemmeno bisogno di strappargli i vestiti di dosso: il fatto è che gli piace. Ci sono donne che hanno avuto un orgasmo solamente quando sono state violentate. È registrato nella letteratura specializzata. Ti hanno stuprato e quindi godi”.

Tra una risata e l’altra si impegna a commentare la violenza sessuale commessa all’inizio del 2015 ai danni di Daphne Fernández (minorenne al momento dei fatti) da parte di quattro giovani, figli di influenti imprenditori e di un politico dello stato di Veracruz. Il giudice che segue il caso, che in Messico è conosciuto come il caso de Los Porkys, ha da poco assolto uno degli indagati dal delitto di pederastia: a suo giudizio l’imputato avrebbe agito “senza lascivia e senza l’intenzione di arrivare alla copula vaginale, orale, né anale”, quindi l’abuso sessuale non sarebbe pienamente dimostrabile.

Secondo il giudice la “sola” introduzione delle dita nella vagina della ragazza e il palpeggiamento dei seni non sarebbero elementi sufficienti per comprovare l’abuso sessuale e poco importa se l’articolo 190 quater del Codice Penale dello Stato di Veracruz prevede una condanna fino a dieci anni per chi “senza arrivare alla copula o all’introduzione vaginale, anale o orale, abusi sessualmente di un bambino, bambina o adolescente o lo obblighi, lo induca o lo convinca a eseguire un qualunque atto sessuale in circostanze pubbliche o private”. Poco importa perché è l’impunità a dettar legge, specie quando gli imputati sono persone che si muovono nelle alte sfere del potere, ancor di più quando si tratta di casi in cui le vittime sono donne.

Non è la prima volta che Perelló si diletta in quest’attività di cui sembra andar piuttosto fiero. Nel suo account twitter il professore si è più volte dichiarato uno “stupratore compulsivo” e anche ora ci tiene a dire la sua, facendo inoltre sfoggio di una solida formazione in materia. La “letteratura specializzata” – dice – gli dà ragione: “se non c’è cazzo, non c’è stupro”.

“Se ti offende tuo figlio o tuo marito, allora sì che è un casino. Se ti offende qualcuno che rispetti. Ma se ti offende un coglione per la strada, o anche se ti introducono le dita: l’unica preoccupazione è se erano pulite o no”.

“Ma allora, perché ti metti le gonne corte? Perché ti si vedano o non ti si vedano le gambe? La prossima volta che esci in strada mettiti un’armatura, figlia di puttana!”

Questa volta però il fine esercizio ermeneutico del professore provoca un’ondata di disgusto nelle reti sociali e diventa presto trending topic. Tra le tante voci che si alzano ripudiando la violenza verbale dell’accademico c’è chi decide di non fermarsi ai tuits: il 17 di aprile un gruppo di femministe consegna alla UNAM una petizione firmata da quasi 12mila persone per esigere l’allontanamento di Perelló dalla Radio e la sua destituzione dall’incarico di docente che svolge presso la Facoltà di Scienze.

Passano i giorni e il 5 di maggio la UNAM annuncia che dal 26 di aprile Marcelino Perellò Valls non lavora più per l’università. Il 26 di aprile Perellò ha effettivamente smesso di lavorare alla UNAM, ma dopo aver lui stesso data per terminata la sua relazione con l’università: manovra che gli ha permesso sottrarsi alle evenutali sanzioni. Non solo la comunicazione da parte dell’università arriva dieci giorni dopo, ma le querelanti vengono informate della notizia leggendola nei media e non attraverso una risposta ufficiale dell’istituzione.

Violenza all’università

Anche di fronte al femminicidio de Lesvy Osorio la reazione della UNAM (Universidad Nacional Autonoma de México, la più grande dell’America Latina) è stata tiepida: nel comunicato ufficiale diffuso subito il ritrovamente del cadavere della ragazza si leggeva che l’università “ripudia ogni tipo di illicito commesso” all’interno delle proprie installazioni. Ora, riferirsi a un assassinio come a un illecito non sarà giuridicamente erroneo però genera una minimizzazione del delitto. Significa impiegare un eufemismo per nominare una violenza grave che, inoltre, succede con preoccupante frequenza dentro gli spazi universitari. Di fatti quello di Lesvy non è il primo femminicidio che vede coinvolta una delle più importanti università del paese, solo nel 2002 in meno di un mese vennero ammazzate due ragazze poco più che ventenni: Areli Osorno Martìnez, 26 anni, studentessa di Ingegneria, assassinata da un altro studente e Cristel Estibali Alvarez, 21 anni, studentessa di Scienze, assassinata anche lei da un compagno di studi.

L’area delle facoltà scientifiche è stata segnalata come una delle dipendenze dell’università in cui si registrano più casi di molestie. Il passato 19 aprile, appena due settimane prima che Lesvy fosse ritrovata strangolata con un cavo del telefono, un professore della UNAM aveva denunciato attraverso le pagine del quotidiano nazionale La Jornada l’insicurezza e gli abusi che vivono sulla propria pelle le studentesse e ogni donna in generale che transitano nella zona delle facoltà di Ingegneria e Chimica.

Femminicidi, molestie, violenze sessuali e psicologiche, mobbing, ricatti sessuali, minacce: i casi di violenza di genere che si consumano all’interno del perimetro universitario sono svariati e numerosi. Inutile dire che nella maggior parte degli episodi le vittime sono donne e che spesso i soggetti responsabili delle violenze sono docenti che abusano della propria posizione di potere, proteggendosi dietro alla logora maschera di ottimi docenti, luminari, uomini dalla traiettoria accademica brillante.

Nel 2013 la Commissione Nazionale per i Diritti Umani (CNDH) ha per la prima volta emesso una raccomandazione nei confronti dell’università per il caso di un professore di una delle scuole superiori appartenti al sistema UNAM: il docente aveva cercato di ricattare sessualmente una sua alunna minorenne in cambio della promessa di aumentarle la valutazione di un esame.

Anche se esiste il diritto a un accesso trasparente alle statistiche degli abusi, per cui chiunque può presentare un richiesta formale ai rispettivi organismi universitari, una semplice ricerca in rete apre le porte al caos. I dati sono confusi e alle volte contradditori. Questo può essere dovuto in parte al fatto che la UNAM si è dotata solo in tempi recenti, nell’agosto del 2016, del Protocollo di Assistenza ai Casi di Violenza di Genere, e che questo meccanismo di prevenzione, attenzione, sanzione e gestione dei casi di violenza non stia funzionando ancora con celerità e precisione. D’altra parte i dati duri non sono mai degli strumenti neutrali e il loro utilizzo, a seconda delle circostanze, può essere un’arma a doppio taglio: una cifra “pulita” e presentata con rigore parlerebbe di un’istituzione che si impegna a fare i conti con la situazione di crisi che sta vivendo, ma potrebbe anche mostrare l’ambiente universitario come un nido di violenze, attentando alla sua immagine pubblica.

Detto ciò è utile ricordare che, per quanto le stime possano diventare accurate, queste solitamente non rispecchiano la totalità delle violenze dato che molte non vengono denunciate per paura di rappresaglie, per vergogna del possibile stigma sociale e anche per la complessità dei procedimenti legali, spesso farraginosi e sfiancanti.

Secondo dati diffusi dall’Unità di Assistenza e Monitoraggio di Denunce della UNAM dal 2003 al 2016 si sono registrate 396 denunce di diversi tipi di violenza di genere: molestie, abuso, discriminazioni, atti immorali; altri dati sollecitati alla stessa Unità e resi pubblici a marzo 2017, riportano come dal 2013 al febbraio 2017 la suddetta entità abbia registrato 73 denunce: 38 di queste per molestie, mentre 35 per abuso sessuale; in 50 casi i responsabili sono stati sottoposti a una non meglio specificata “sanzione”. Un’altra richiesta di informazioni, presentata questa volta da un’accademica della facoltà di Scienze Politiche, riporta come solamente da maggio 2015 a maggio 2016 l’UNAM abbia ricevuto 85 denunce di violenza contro le donne.

 

Secondo un altro report presentato dall’università solo nel primo mese e mezzo di funzionamento del Protocollo di Assistenza ai Casi di Violenza di Genere ci sarebbe stato un aumento esponenziale delle denunce: 70 in soli quarantacinque giorni. Il Protocollo è stato lanciato in concomitanza con l’adesione della UNAM alla campagna globale della ONU #HeForShe, progettata per promuovere l’uguaglianza di genere a partire dal coinvolgimento degli uomini in quanto “agenti di trasformazione” e “alleati dei diritti delle donne”. Il programma ha raccolto numerose critiche da parte di gruppi femministi tanto per il binarismo di genere che ripropone, cioè un he e un she in cui si dovrebbero riconoscere senza esitazioni tutte le persone, come per la necessità di presentare in maniera acritica gli uomini come soggetti alleati e salvatori delle donne.

Dal canto suo, anche il Protocollo è stato duramente criticato: come sottolinea, ad esempio, il collettivo universitario No Están Solas, sono anni che le femministe si battono per ottenere una riforma della legislazione universitaria in materia di violenza di genere, ma il tanto atteso Protocollo non sembra aver tenuto troppo in considerazione il lavoro svolto fino ad ora. Opacità e confusione continuano a caratterizzare l’operato delle autorità universitarie.

Tra i punti critici del documento il collettivo segnala la mancanza di sanzioni specifiche ed esplicite per i diversi tipi di delitto; l’assenza di misure di riparazione del danno della vittima; l’obbligo di confidenzialità, un concetto confuso che potrebbe arrivare ad ostacolare la denuncia a livello sociale della violenza subita. Il Protocollo inoltre prevede sanzionare chi deposita denunce false, ma non chiarisce quali siano i procedimenti e i criteri attraverso cui si definirebbe se una denuncia è vera o falsa; allo stesso modo richiede di videoregistrare le testimonianze delle vittime, senza però giustificarne la necessità. Oltre a produrre un analisi critico del Protocollo, No están Solas ha anche accusato l’università di occultare informazioni rilevanti e di minacciare diverse docenti che aiutano i sostengono i processi di denuncia. Evidentemente la dotazione di un Protocollo per trattare le denunce di chi soffre un abuso non è una misura sufficiente, specie se non viene accompagnata da un percorso integrale che includa, ad esempio, una formazione in materia di genere rivolta al personale amministrativo e più in generale agli integranti della comunità universitaria.

Patrimonio e censura o della normalizzazione dell’orrore

La UNAM rientra tra le 50 migliori università del mondo. In Messico è considerata l’alma mater per eccellenza, culla di cultura, libertà e rispetto, ed è uno dei primi motivi d’orgoglio nazionale. Che sia un luogo consagrato alla ricerca non assicura che sia immacolato e includente. Crederlo sarebbe un’illusione. Come buona parte delle università del mondo anche la UNAM è uno spazio marcato da dinamiche di esclusione, razzismo, misoginia e machismo: le violenze avvengono anche qui dato che i ruoli stabiliti dal privilegio culturale, sociale e politico, non restano ad aspettare, obbedienti, fuori dal cancello.

Il giorno della manifestazione per Lesvy Berlín Osorio varie delle partecipanti hanno deciso di mettere la rabbia per iscritto ricoprendo le grosse lettere di plastica che, nei pressi dell’edificio del Rettorato, recitano #HechoEnCU (una buona traduzione sarebbe: “made in UNAM”). Quasi d’immediato una grossa parte della comunità universitaria, assente all’ora di manifestare contro l’assassinio della loro coetanea, si è sollevata protestando con veemenza contro “il vandalismo” delle femministe. Uniti nell’hashtag #IbuoniSiamoDiPiù, molti giovani volontari sono accorsi per ripulire il “patrimonio” vilipendiato, ossia le grosse lettere di plastica, dicendosi offesi per le azioni violente e senza rispetto delle manifestanti. Le lettere hanno presto riacquistato il loro aspetto originale: la loro materialità glielo permette. Non succede lo stesso ai corpi violentati, degradati, offesi.

Anche nel caso Perelló non sono mancate le voci solidarie che hanno invocato la libertà d’espressione, accusando di censura la sospensione del programma Sentido Contrario: non importa che Perelló abbia silenziato con il suo linguaggio violento l’esperienza delle donne, revittimizzandole e degradandole a routa libera per ore.

Anche se suona scoragginate dirlo, il fatto che anche nella “massima casa di studi” tanti abusi vengano sistematicamente invisibilizzati non sorprende più di tanto. Ciò non significa che deve sembrarci normale o inevitabile. È grave, invece: gravissimo. Perché se allunghiamo lo sguardo fuori dalla porta ci affacciamo all’orrore.

In Messico vengono assassinate sette donne ogni giorno; è un paese in cui moltissime giornaliste, attiviste e femministe vengono minacciate nei social da orde di trolls che promettono di ammazzarle o stuprarle e che inviano fotografie di corpi di donne sventrate per seminare panico e per silenziare, ancora una volta, le voci scomode che criticano lo status quo. Il Messico è un paese in cui moltissime famiglie continuano a cercare ii propri cari scomparsi: migliaia di desaparecidas e desaparecidos che abbondano sempre più di fronte alla passività complice dello Stato.

L’impunità riprodotta all’interno degli spazi universitari o la priorità data a delle lettere, o a dei muri, imbrattate con degli slogan non fanno che riprodurre e legittimare ognuna di queste violenze.

La voce di Araceli Osorio si mantiene solida di fronte alle decine di manifestanti; non riesco a non notare l’immediatezza con cui coniuga i verbi al passato quando parla di sua figlia Lesvy. Lo noto e mi dà i brividi: perché le sue parole -come lei stessa afferma- sono soprattutto parole di indignazione. Ho l’amaro in bocca: quello che è successo sembra non sorprenderla completamente perché prevale la sua consapevolezza di star vivendo in un paese squassato, perverso. “Il mio orrore è una goccia minuscola in un oceano di orrori”, dice, e la sua lucidità colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco.

quanto vorrei essere un muro: così ti indignerai se mi toccano senza permesso

slogan scritto sul cartello di una manifestante

*Antropologa alla UNAM-Messico e collaboratrice di Carmilla. Galleria fotografica a questo link (foto di C. Morbiato e Roberta Granelli)

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I poteri occulti del terrore in Guatemala e il movimento #RenunciaYa contro il presidente https://www.carmillaonline.com/2015/05/09/i-poteri-occulti-del-terrore-in-guatemala-e-il-movimento-renunciaya-contro-il-presidente/ Fri, 08 May 2015 22:00:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22358 di Martina Oliviero*

Guatemala CIACCSSabato 25 aprile Città del Guatemala è stata scenario di un evento tutt’altro che ordinario per la vita di questo paese. Ha, infatti, avuto luogo una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi decenni, una marcia pacifica che non si è voluta identificare con nessun partito né colore politico e che è riuscita a bloccare il centro della città per l’intero fine settimana. Le proteste sono infatti proseguite anche il giorno seguente, lasciando in molti la sensazione e la speranza d’esser state solo le prime di una lunga [...]]]> di Martina Oliviero*

Guatemala CIACCSSabato 25 aprile Città del Guatemala è stata scenario di un evento tutt’altro che ordinario per la vita di questo paese. Ha, infatti, avuto luogo una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi decenni, una marcia pacifica che non si è voluta identificare con nessun partito né colore politico e che è riuscita a bloccare il centro della città per l’intero fine settimana. Le proteste sono infatti proseguite anche il giorno seguente, lasciando in molti la sensazione e la speranza d’esser state solo le prime di una lunga serie. Nonostante l’ingente dispiego di forze di polizia disposto dal Governo e l’abitudine di queste ultime a non farsi troppi problemi a ricorrere alla violenza, non vi sono stati scontri fisici, anche se è stato comunque imposto per diverse ore il blocco di qualunque segnale telefonico in tutta l’area della manifestazione e sono state installate telecamere che hanno, illegalmente, ripreso ogni particolare della marcia.

RENUNCIA-250415-MZS-05-webIl movimento civile che ha indetto queste giornate di contestazione, conosciuto sui social netwok come #RenunciaYa, ha come principale obiettivo le dimissioni del Presidente della Repubblica, il generale in pensione Otto Pérez Molina, e della Vicepresidentessa, Ingrid Roxana Baldetti Elías, entrambi membri del Partido Patriota (PP), il partito conservatore al potere dal 2012. Ciò è stato puntualizzato attraverso il comunicato pubblicato il 20 aprile scorso sulla pagina Facebook dello stesso movimento, sottolineando particolarmente il totale non coinvolgimento di qualunque partito politico in tutto ciò che riguarda l’organizzazione delle proteste e le richieste avanzate.

Hanno partecipato all’incirca ventimila persone, a cui si sono aggiunti tremila studenti dell’Università San Carlos, l’università pubblica più grande del paese. Atti di protesta di questa portata non sono frequenti in Guatemala. La guerra civile che ha dilaniato il paese dal 1960 al 1996 ha inevitabilmente intaccato la voglia e la capacità di organizzazione della società civile e tutt’ora omertà e sfiducia sono sentimenti prevalenti tra la popolazione indigena, senza contare la durissima repressione a cui sono sempre stati sottoposti manifestanti e dissidenti. Durante i trentasei anni di conflitto il governo guatemalteco, guidato dai militari, ha perpetrato un vero e proprio genocidio nei confronti delle popolazioni maya provocando circa 250.000 morti ed oltre 40.000 desaparecidos, “giustificando” questa persecuzione con la volontà di annientare la guerriglia che combatteva contro il regime.

RENUNCIA-250415-MZS-010-WEBCICIG e “poderes ocultos”

Le richieste avanzate dal movimento in questione sono diretta conseguenza del cosiddetto scandalo de “la Linea”, scoppiato il 16 aprile scorso e che sta facendo tremare le alte sfere del governo guatemalteco. A seguito di un’indagine durata all’incirca otto mesi portata avanti dalla Commissione Internazionale Contro l’Impunità in Guatemala (CICIG), in collaborazione con il Pubblico Ministero e la Polizia Civile Nazionale, il 16 aprile sono state arrestate venti persone, appartenenti alla classe dirigente guatemalteca, con l’accusa di frode fiscale, contrabbando doganale ed associazione illecita con fine di contrabbando.

 La CICIG è un organo internazionale indipendente nato a seguito dell’accordo stipulato il 12 dicembre 2006 tra l’Organizzazione delle Nazioni Unite ed il Governo guatemalteco, all’epoca guidato da Óscar Berger a capo della Gran Alianza Nacional (GANA), ovvero la coalizione di cui facevano parte il PP, il Movimento Reformador (MR) ed il Partido de Solidaridad Nacional (PSN). L’accordo venne poi ratificato dal Congresso della Repubblica il 1 agosto 2007. Attraverso l’azione congiunta con istituzioni guatemalteche, quali il Pubblico Ministero e la Polizia Civile Nazionale, la Commissione nasce con lo scopo di combattere i CIACS (Cuerpos Ilegales y Aparatos Clandestinos de Seguridad).

In Guatemala esiste infatti una fitta e ben organizzata rete di cosiddetti poderes ocultos, retaggio della recente guerra civile. Con questo termine si fa riferimento ad una struttura informale di individui che ricoprono o ricoprivano posizioni di potere entro le strutture politche e/o economiche del paese e che utilizzano la loro posizione e la propria relazione con il settore pubblico per arricchirsi illegalmente e proteggersi di fronte alla persecuzione legale dei crimini commessi.[1]

RENUNCIA-250415-MZS-09-webElemento portante di questa rete sono appunto i CIACS. Nati durante il conflitto e composti da membri dell’esercito e dell’intelligence guatemalteca, erano parte del sofisticato apparato di servizi segreti di cui i governi militari fecero largo uso durante gli anni dello sterminio e delle persecuzioni. Il sistema d’intelligence da cui si sono originati i CIACS era denominato Estado Mayor Presidencial (EMP) e venne istituito negli anni ’70 con il pretesto di proteggere il presidente e la sua famiglia, ma ben presto si convertì in una struttura dedita al controllo dell’opposizione e alla repressione. L’attuale Presidente della Repubblica, Otto Peréz Molina, era membro di questa oscura organizzazione e, in diversi momenti, arrivò a ricoprire ruoli di comando al suo interno.

Al termine della guerra civile questi controversi gruppi non vennero smantellati, anzi si convertirono in vere e proprie imprese criminali organizzate dedite al narcotraffico, al contrabbando, alla vendita di passaporti falsi e al traffico di esseri umani. I più influenti e conosciuti, assieme all’EMP, sono La Cofradía, El Sindicato, Las Patrullas de Autodefensa Civil e Red Moreno.  Fanno parte di questi nuclei delittuosi militari in pensione ed ex funzionari del governo, membri delle forze speciali ma anche funzionari tutt’ora attivi, civili e militari, che operano entro le strutture statali. La collusione tra questi e l’esercito, così come con le alte sfere governative, è evidente e spesso risulta difficile distinguere i confini tra l’una e l’altra organizzazione.[2]

Nel 2006 nacque quindi la CICIG con l’obiettivo di investigare riguardo questi gruppi, operare per smantellarli incentivando le indagini a loro carico, incoraggiare la persecuzione penale ed il castigo dei suoi membri e prevenirne la crescita e l’affermazione sostenendo eventuali riforme giuridiche ed istituzionali. La Commissione ha l’obbligo di operare attenendosi alle leggi guatemalteche, utilizzando il procedimento penale previsto dalla Repubblica del Guatemala.[3]

Inizialmente la CICIG entrò in funzione per la durata di due anni ma le tre proroghe, richieste dal Governo ed approvate dal Segretario dell’ONU Ban Ki-Moon nel 2009, 2011 e 2013, ne hanno prolungato l’esistenza e l’operato sino ad ora. In questi sette anni i casi seguiti dalla Commissione sono stati molti ed hanno prodotto arresti e scandali che hanno coinvolto le più alte cariche pubbliche accusate di crimini orrendi quali la partecipazione in esecuzioni extragiudiziali, il traffico di essere umani, frodi d’ogni genere, corruzione e riciclaggio. Nel 2010 il Caso Portillo portò addirittura all’arresto dell’ex-presidente Alfonso Portillo e all’estradizione di quest’ultimo verso gli Stati Uniti, con lo scopo di sottoporre quest’ultimo a giudizio per il crimine di riciclaggio di denaro.

La Linea: SAT e uffici doganali organizzano la frode fiscale

RENUNCIA-250415-MZS-04-webProprio durante il mese di aprile 2015 il Governo guatemalteco discuteva riguardo un ulteriore rinnovo dell’accordo firmato nel 2006 e quindi la possibilità di richiedere un’estensione della presenza della CICIG nel paese sino al 2017. Ma il 16 aprile, dopo quasi un anno di indagini, la CICIG annuncia un processo in atto per evasione fiscale ed evasione delle imposte doganali nei confronti di ventidue persone. Il giorno stesso venti di queste vengono arrestate dalla Polizia Civile Nazionale e La Commissione rende pubblico il cosiddetto caso de “la Linea”. Si tratta dell’inchiesta che ha come oggetto l’intricata rete che sta alla base di una colossale truffa fiscale in cui sono coinvolti i più alti esponenti della Superintendencia de Administración Tributaria (SAT), tra cui lo stesso sovrintendente Alváro Omar Franco Chacón, alti funzionari della dogana ed il cui capo viene individuato nel segretario personale della Vicepresidentessa, Juan Carlos Monzón Rojas.

 Viene quindi evidenziata l’esistenza di una struttura che nasce all’interno della SAT e coinvolge le sette dogane più trafficate del paese con lo scopo di appropriarsi delle imposte doganali applicate sui prodotti importati. L’organizzazione offriva infatti la possibilità agli importatori di pagare somme irrisorie al posto delle suddette tasse in cambio di una tangente, con la garanzia che questi avrebbero comunque passato i controlli doganali. Grazie ad affiliati all’interno del personale di dogana, era possibile dichiarare il falso riguardo la merce in entrata, aggirare i controlli e pagare imposte ben più basse di quanto previsto dalla legge per quegli stessi prodotti.[4]

Al momento dello scoppio dello scandalo la Vicepresidentessa Baldetti ed il suo segretario Monzón si trovavano all’estero, precisamente in Corea del Sud, dove la signora Baldetti era stata invitata a ricevere una laurea honoris causa. I due lasciarono Città del Guatemala il 13 aprile. Nonostante la notizia sia stata resa pubblica il 16, la Baldetti si è presentata in conferenza stampa solamente il 19 aprile, senza acclarare se il suo volo di rientro sia decollato da Seul il 17 o il 18. Infatti le informazioni fornite dalla stessa e dal vicedirettore dell’Aeronautica Civile, incaricato di trasmettere questo tipo di notizie, risultano incomplete e poco convincenti. Monzón, al contrario, non è salito sullo stesso volo e, secondo le ultime dichiarazioni dell’Interpol, si è diretto dapprima a Madrid il 17 per poi essere intercettato il 21 in Salvador, su un volo proveniente da Bogotà e con destino finale Honduras. Monzón non è ancora stato localizzato e continua ad essere ricercato dall’Interpol.

genocidio guatemalaIl Presidente e la Vicepresidentessa della Repubblica hanno negato qualsiasi coinvolgimento nei fatti e fino ad ora non vi sono procedimenti legali aperti nei confronti di questi ultimi, anche se è curioso osservare come in soli due mesi la Baldetti sia stata chiamata a testimoniare già quattro volte, per due differenti processi. Il 19 aprile, durante la conferenza stampa, la Vicepresidentessa ha annunciato l’allontanamento di Monzón dall’incarico di suo segretario personale, affermando comunque di non conoscere l’esatta localizzazione dell’indagato.

Il 22 il Partido Guatemalteco del Trabajo (PGT) ha emesso un comunicato in cui appoggia l’operato della CICIG, sottolineando però come quest’ultima non abbia reso pubblica alcuna notizia riguardo imprenditori ed aziende che usufruirono ampiamente del sistema della Linea e come il recente scandalo sia solo la punta dell’iceberg, fatto di corruzione e truffe, su cui poggia il sistema politico guatemalteco.[5] Il 23 aprile il Presidente ha ufficialmente richiesto al Segretario delle Nazioni Unite un’ulteriore estensione del mandato della CICIG, sino al settembre 2017, scartando l’ipotesi precedentemente avanzata di porre fine all’esistenza della stessa Commissione. La rapida risposta dell’ONU è stata, come prevedibile, positiva.

 Crimini nuovi e vecchie figure

Gli indagati sono accusati di associazione illecita con fine di contrabbando, contrabbando doganale e frode tributaria. La CICIG calcola che gli incassi derivanti dagli illeciti commessi si aggirino attorno ai due milioni di quetzales settimanali (circa 240.000 €): una frode da centinaia di milioni. Per decisione del giudice Marta Sierra Stalling, sei dei venti arrestati sono già stati rilasciati e si trovano al momento in libertà provvisoria, nonostante tra questi vi siano figure identificabili come i leader del meccanismo fraudolento. In particolare, si tratta di Salvador González Álvarez e di Francisco Javier Ortiz Arriaga. Il primo è rappresentante dell’importante consorzio di mezzi di comunicazione Corporación de Noticias S.A., società guatemalteca che controlla i quotidiani nazionali Siglo XXI e Al Día, mentre il secondo è un veterano del contrabbando. Egli stesso nelle intercettazioni telefoniche eseguite nel corso dell’indagine afferma di avere “oltre diciotto anni d’esperienza in frodi fiscali”.[6] Si tratta infatti di un integrante della Red Moreno, CIACS nato negli anni ’70 e composto da ufficiali dell’esercito e funzionari governativi, per scopi di controllo doganale, poi utilizzato per vere e proprie azioni di contrabbando. Durante il governo di Álvaro Arzú (1996-2000) ebbero inizio, però, le indagini che portarono allo smantellamento della Red. Nel 1996 Ortiz Arriaga era funzionario doganale e prese parte alla lunga serie di illeciti commessi da quest’organizzazione, ma durante l’inchiesta decise di collaborare con le forze dell’ordine, evitandosi quindi il carcere e salvando le ricchezze accumulate.[7]

Otto-Perez-Molina-e vicepresidenta guatemalaSolamente quattro degli indagati si sono presentati a dichiarare di fronte al giudice. Al momento le indagini stanno proseguendo, rivolgendo particolare attenzione alle imprese che utilizzarono il sistema della Linea per i propri affari. Il movimento di protesta nato sui social network chiede infatti al Governo e alla CICIG la pubblicazione dei nomi delle aziende coinvolte, dato che queste non sono state minimamente menzionate nelle dichiarazioni fatte fino ad ora.

Incongruenze e resistenza

Alla consueta marcia del primo maggio, in occasione della Festa Internazionale dei Lavoratori, si sono uniti cortei studenteschi appartenenti a diverse università del paese per chiedere nuovamente le dimissioni dei capi di Governo. Le proteste sono poi proseguite il giorno seguente quando la folla, riunitasi nella piazza principale di Città del Guatemala, ha occupato il palco che era stato montato per i comizi politici programmati per l’inizio della campagna elettorale. Per tutto il pomeriggio persone d’ogni età e provenienza sociale, senza indossare le bandiere di nessun partito, hanno, a gran voce, ripetuto la richiesta di rinuncia da parte del Presidente e della Vicepresidentessa.

Sono state annunciate altre manifestazioni pacifiche nella capitale ed in altre città del paese il 16 maggio. Proseguono quindi le proteste che, al grido di “ci hanno rubato tutto, persino la paura”, richiedono le dimissioni del binomio presidenziale. Ma i vertici del Guatemala non sembrano voler abbandonare le proprie comode poltrone ed il Presidente ha controbattuto che la richiesta delle sue dimissioni proviene da una piccola parte della popolazione, che non rispecchia il volere dell’intero popolo.[8] Ma le manifestazioni degli ultimi giorni ci dicono che nemmeno i guatemaltechi sono disposti a rinunciare: dopo anni di silenzio, l’ampia partecipazione alle proteste sembra significare l’inizio di un risveglio sociale.

Non mancano, però, le perplessità attorno a questo complesso caso. Il Guatemala si troverà presto in piena campagna elettorale. Le elezioni generali sono previste per il 6 settembre di questo stesso anno e porteranno al rinnovo delle principali cariche politiche, quali il presidente, il vicepresidente, 158 deputati del Congresso della Repubblica, 20 deputati del Parlamento Centroamericano nonché dei sindaci e dei vari assessorati dei 337 municipi.

Inevitabilmente lo scandalo della Linea avrà pesanti conseguenze sulla campagna e sulle stesse elezioni. Alejandro Sinibaldi, candidato presidenziale per il PP, ha pubblicamente rinunciato alla candidatura ed ha rassegnato le proprie dimissioni dal partito, dando a questo un ulteriore scossone.

Altro fatto curioso è che il caso sia stato reso pubblico proprio durante la breve assenza dal paese del principale indagato nonché leader dell’intera organizzazione. Inoltre risulta che Monzón non avesse mai accompagnato la Vicepresidentessa in altri viaggi e la consegna di una laurea honoris causa a quest’ultima non sembra essere una ragione che ne motivi la presenza. È stato poi sottolineato come le indagini della CICIG siano state rese pubbliche proprio nel periodo in cui si stava discutendo sulla possibilità di non richiedere all’ONU il rinnovo dell’accordo che regola l’esistenza della Commissione e come, in seguito, il Presidente sia stato invece obbligato ad inoltrare frettolosamente tale domanda al Segretario delle Nazioni Unite, data l’emergenza del caso.

Ad uno scenario storico piuttosto oscuro e controverso si aggiunge quindi una serie di contingenze che lasciano a dir poco perplessi. In ogni caso, non sorprenderebbe l’eventualità che tutto possa concludersi in una grande bolla di sapone, pronta a scoppiare in qualsiasi momento, senza lasciare traccia di sé. Ma è auspicabile che questi eventi lascino, invece, nella memoria del popolo guatemalteco un’impronta indelebile, che risvegli la voglia di organizzarsi contro i quotidiani abusi provenienti dall’alto.

PS. [L’8 maggio 2015 (mentre stava per uscire questo articolo) la Viceprensidentessa Rossana Baldetti ha rassegnato le proprie dimissioni. L’annuncio è stato fatto dal Presidente Otto Peréz Molina durante una rapida conferenza stampa in mattinata. Il Presidente ha affermato che non si tratta di una decisione presa a causa delle pressioni ricevute, bensì di una scelta che ha lo scopo di facilitare le indagini. La Baldetti rinuncia quindi all’immunità di cui il ruolo di vicepresidente gode. Restano in programma le manifestazioni previste per questo fine settimana e per il prossimo.]

NOTE:

* Le foto sono di Moysés Zúñiga Santiago (tranne la prima e le ultime due)

[1]“Poderes ocultos, Grupos ilegales armados en la Guatemala post conflicto y las fuerzas detrás de ellos”, Susan C. Peacock y Adriana Beltrán

[2]es.insightcrime.org

[3]www.cicig.org

[4]Quotidiano Prensa Libre, 22 aprile 2015

[5]www.partidocomunistadeguatemala.blogspot.com

[6]Quotidiano Prensa Libre, 17 aprile2015

[7]www.nómada.gt, 17 aprile 2015 e www.cmiguate.org (centro de medios indepedientes), 17 aprile 2015

[8]Quotidiano Prensa libre, 29 aprile 2015

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Parte l’EuroCarovana per i Desaparecidos di Ayotzinapa e del Messico https://www.carmillaonline.com/2015/04/16/parte-leurocarovana-per-i-desaparecidos-di-ayotzinapa-e-del-messico/ Thu, 16 Apr 2015 20:27:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21958 di Fabrizio Lorusso

EuroCaravana43 AyotzinapaNarcos e stato, conniventi, compenetrati. Una strage. 30mila desaparecidos in un decennio. 100mila morti per la narcoguerra. La repressione sociale legittimata e potenziata dalla guerra alle droghe. Casi irrisolti: il 97%. Il Messico è anche questo. Il 17 aprile parte una carovana per denunciare, ricordare, ottenere giustizia. Dopo un mese negli Stati Uniti, ora tocca all’Europa: 13 paesi in 33 giorni. Eleucadio Ortega, uno dei genitori delle vittime della strage degli studenti di Ayotzinapa, Omar García, sopravvissuto all’attacco del 26 settembre scorso e portavoce del Comitato [...]]]> di Fabrizio Lorusso

EuroCaravana43 AyotzinapaNarcos e stato, conniventi, compenetrati. Una strage. 30mila desaparecidos in un decennio. 100mila morti per la narcoguerra. La repressione sociale legittimata e potenziata dalla guerra alle droghe. Casi irrisolti: il 97%. Il Messico è anche questo. Il 17 aprile parte una carovana per denunciare, ricordare, ottenere giustizia. Dopo un mese negli Stati Uniti, ora tocca all’Europa: 13 paesi in 33 giorni. Eleucadio Ortega, uno dei genitori delle vittime della strage degli studenti di Ayotzinapa, Omar García, sopravvissuto all’attacco del 26 settembre scorso e portavoce del Comitato studentesco della scuola rurale normale di Ayotzinapa, e Román Hernández, del Centro per i Diritti Umani della Montagna Tlachinollan, sono partiti il 15 aprile da Città del Messico alla volta di Oslo, prima tappa di un lungo tour per denunciare la grave crisi dei diritti umani in Messico e chiedere giustizia. Il 28 aprile saranno a Milano e il giorno dopo a Roma.

Il 26 settembre 2014, a Iguala, nel meridionale stato del Guerrero, la carneficina di studenti della scuola rurale di Ayotzinapa e la sparizione forzata, cioè la desaparicion, di 43 di loro ha scosso il paese e il mondo intero. A quasi 7 mesi dai fatti di Iguala non è stata fatta giustizia, la procura messicana ha praticamente chiuso il caso, e allora restano le istanze internazionali. Collettivi e comunità, studenti e lavoratori, organizzazioni civili e sindacali, movimenti sociali e difensori dei diritti umani, media alternativi e indipendenti hanno unito i loro sforzi per realizzare una carovana con le vittime e i portavoce di Ayotzinapa, esigere la presentazione in vita dei desaparecidos e la fine della repressione contro il loro movimento.

La carovana, che si può seguire su Twitter con l’hashtag #EuroCaravana43, ha diversi scopi.

Lo stato messicano deve farsi responsabile dei crimini di lesa umanità e delle violazioni ai diritti umani che i propri apparati incessantemente commettono in una quasi totale impunità: l’esigenza che siano ritrovati vivi i desaparecidos, in questo senso, non è pura retorica, né un grido disperato senza speranza, ma rappresenta la denuncia più forte e tagliente dell’inettitudine statale e della sua complicità nella crisi umanitaria del paese. Per questo: “Vivos se los llevaron, vivos los queremos”, “Vivi li han portati via, vivi li rivogliamo”, perché non è possibile che la procura non abbia potuto dare risposte plausibili e che se la cavi con l’arresto di alcuni narco-poliziotti (forze dell’ordine al soldo dei narcos e di narco-politici).

Dietro alla mattanza di Iguala c’è molto di più: frammenti di narco-stato, volontà politica di annichilamento della dissidenza sociale, difesa di interessi economici locali e transnazionali, militarizzazione dei territori, mantenimento dei patti d’impunità tra le élite politico-economiche.

Si chiede all’Unione Europea di mantenere sotto osservazione internazionale gli atti di repressione contro i movimenti sociali messicani e di fornire un sostegno concreto per costruire vere garanzie di “non-ripetizione” delle violazioni, di rispetto e accesso pieno ai diritti dell’uomo e di riparazione del danno. “Cerchiamo garanzie reali di non-ripetizione e le dobbiamo costruire tra di noi, con i popoli e le comunità, insieme alle organizzazioni sociali e ai collettivi. Queste garanzie non le possiamo chiedere alle stesse istituzioni del governo da cui vengono le violazioni ai diritti umani”, spiega Omar García.

I partecipanti puntano a informare la comunità internazionale sulla lotta dei genitori che continua e sfida le versioni ufficiali degli inquirenti che, invece, danno per chiuso il caso e sostengono che gli studenti sono stati bruciati nella discarica di Cocula da un gruppo di narcotrafficanti. Ciononostante le voci di studiosi ed esperti che, dati alla mano, negano categoricamente questa possibilità sono state ignorate. L’attenzione mondiale non può spegnersi e adeguarsi a mezze verità ufficiali.

Per questo la carovana percorrerà l’Europa, specialmente la Otra, l’Altra Europa, organizzata dal basso: da Londra a Madrid, da Berlino a Helsinki, da Zurigo a Parigi e tante altre città sono previste camminate, manifestazioni, incontri pubblici, atti di denuncia, sit-in fuori da consolati e ambasciate messicane. La brigata di Ayotzinapa condividerà quasi sette mesi di resistenza, lotte e organizzazione.

Gli inquirenti messicani non hanno aperto nessuna indagine sull’Esercito e sulla polizia federale, né hanno previsto di imputare il reato di “sparizione forzata” ai funzionari e in stato d’arresto. Perché? Perché implicherebbe riconoscere le responsabilità dello stato stesso. La brigata chiede a gran voce che le indagini vadano a fondo anche se questo significa investigare il nucleo malato e corrotto delle istituzioni.

Sono tanti i governi e i paesi europei che hanno firmato accordi e trattati con Il Messico che includono capitoli sul rispetto dei diritti umani, ma resta debole la pressione in tal senso. S’implementano più efficacemente, invece, gli accordi sui temi della sicurezza e del commercio, sulla vendita di armi e la formazione di polizia ed esercito, anche se poi parte di queste risorse finisce per essere canalizzata verso la repressione e rifocilla le leve della criminalità organizzata. I genitori di Ayotzinapa denunciano anche queste complicità.

“I nostri interlocutori in Europa in questa occasione sono le organizzazioni sociali, i collettivi, i media liberi, o come si chiamino, la società civile organizzata. Veniamo a ringraziarvi per tutto il vostro sostegno e a insistere sul fatto che è necessario che come comunità e società dal basso continuiamo a organizzarci per trasformare una volta per tutte questo sistema di potere e corruzione fondato sulla spoliazione, il disprezzo, lo sfruttamento e la repressione contro le nostre genti. Dobbiamo farlo insieme, dai nostri luoghi d’origine, coordinati e organizzati, perché così come i potenti hanno globalizzato il saccheggio, noi abbiamo il dovere sacro di globalizzare la resistenza, la degna rabbia e l’allegra ribellione”, chiarisce García. La carovana si concluderà il 20 maggio e la brigata ripartirà per il Messico da Londra.

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Natale di lotta per #Ayotzinapa e Festival zapatista delle Resistenze e Ribellioni https://www.carmillaonline.com/2014/12/24/natale-di-lotta-per-ayotzinapa-e-festival-zapatista-delle-resistenze-e-ribellioni/ Tue, 23 Dec 2014 23:00:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19738 di Fabrizio Lorusso 

Ayutla protesta vs ejercito2Anche se il Messico sembra essere in vacanza, non è così. Lontano dai grandi centri turistici all inclusive e dalla riviera maya, il paese non smette di protestare e di mostrare al mondo la sua vera faccia. Quella degli oltre 130 mila morti in 8 anni e della guerra alle droghe e ai narcos che s’è trasformata in una specie di guerra civile sanguinaria e in un conflitto contro la stessa società. Quella dei 27 mila desaparecidos che ormai superano le cifre delle sparizioni forzate dell’ultima dittatura argentina. Si moltiplicano e continuano [...]]]> di Fabrizio Lorusso 

Ayutla protesta vs ejercito2Anche se il Messico sembra essere in vacanza, non è così. Lontano dai grandi centri turistici all inclusive e dalla riviera maya, il paese non smette di protestare e di mostrare al mondo la sua vera faccia. Quella degli oltre 130 mila morti in 8 anni e della guerra alle droghe e ai narcos che s’è trasformata in una specie di guerra civile sanguinaria e in un conflitto contro la stessa società. Quella dei 27 mila desaparecidos che ormai superano le cifre delle sparizioni forzate dell’ultima dittatura argentina. Si moltiplicano e continuano le iniziative per i 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, un caso che ha fatto e continua a fare il giro del mondo per la sua crudeltà ed efferatezza, rese ancor più drammatiche dalla certezza che si tratti di un crimine di stato e non di un conflitto tra bande o un problema “politico” di indole locale e circoscritta.

Dall’inizio di ottobre gli eserciti guerriglieri dello stato messicano del Guerrero, in primo luogo l’EPR e l’ERPI, hanno emesso più di dieci comunicati che denunciano le implicazioni dell’esercito nella sparizione dei 43 studenti normalisti a Iguala lo scorso 26 settembre. I loro appelli sono passati quasi inosservati, anche se nelle scorse settimane sono state numerose le dichiarazioni dei genitori degli studenti e dei membri della UPOEG (Unione Popoli Originari Stato del Guerrero), di cui fanno parte anche alcuni familiari dei normalisti, che hanno indicato i militari, specialmente nel 27esimo battaglione che si trova a solo un chilometro e mezzo da dove sono stati sequestrati i ragazzi della scuola di Ayotzinapa, come possibili responsabili. In uno striscione o narcomanta, un metodo di comunicazione sui generis usato dai narcos o da altri ignoti “interlocutori” per mandare messaggi al governo, ai gruppi rivali o all’opinione pubblica, il 31 di ottobre erano stati denunciati due ufficiali di quel battaglione: si facevano addirittura i nomi del tenente Barbosa e del capitano Crespo. Firmato: il capo Gil, del cartello dei Guerreros Unidos.

All’inizio di dicembre i genitori dei ragazzi di Ayotzinapa hanno chiesto esplicitamente alle autorità e alla Procura Generale della Repubblica di investigare la presunta partecipazione delle forze armate nella strage e nella sparizione dei 43 ragazzi, il che significa rastrellare le caserme in cerca di prove e rompere il muro d’inaccessibilità e protezione di cui da sempre godono i militari, soprattutto nel Guerrero. Storicamente, infatti, hanno rappresentato “il potere forte” nelle regioni in cui operavano e operano i gruppi guerriglieri e sono stati i fautori e gli autori della politica repressiva della guerra sucia, la guerra sporca, che consisteva nella sistematica desaparicion degli avversari politici, nell’intimidazione delle basi d’appoggio e delle comunità indigene e contadine, nel controllo e occupazione militare dei territori e nella copertura delle autorità locali, come le polizie municipali e statali, che potevano agire indisturbate contro la popolazione. Questa situazione pare non essere cambiata anche se la guerra fredda è finita da un pezzo.

Frasi del ministro della marina

Ayutla protesta vs ejercitoIl ministro della Marina messicana, Vidal Francisco Soberón, ha pronunciato una serie di frasi in difesa del governo e, allo stesso tempo, ha contribuito a sviare l’attenzione e a criminalizzare la protesta sociale: “Mi fa arrabbiare ancora di più che manipolino i genitori delle vittime, cioè che manipolino quelle persone, perché è questo ciò che stanno facendo, li stanno manipolando anche per non fargli riconoscere il governo o per continuare a far crescere questa cosa [le proteste]. E mi viene più rabbia pensando che questa gente che manipola i genitori non è interessata a loro, né ai ragazzi, non gli interessa, gli importa solamente di raggiungere i propri obiettivi, del gruppo o del partito”. Le dichiarazioni rilasciate in novembre dal presidente Peña, che ha parlato di “tentativi di destabilizzazione”, ricordando i discorsi del repressore Diaz Ordaz nel 1968, erano in assonanza perfetta con le frasi del ministro.

“Credo che sia perfettamente chiaro: sì ci sono dei gruppi e, nello specifico, gruppi e persone che sono quelli che si fanno vedere sempre affianco a loro, credo che non c’è bisogno di dirti esattamente chi sono, li vediamo in TV e c’è il loro nome lì, e questo gruppo che sta dappertutto, chiudendo strade e tutto il resto, cerca un altro tipo di cose, no? E sui partiti, non ho fatto riferimento a nessun partito…”, ha precisato Vidal, sostenendo l’idea, comune e per niente nuova, spesso usata per screditare i movimenti sociali, che coloro che protestano lo fanno sotto il controllo o la manipolazione di qualcun altro che utilizza il loro dolore per altri fini. Ecco un’altra maniera di distrarre l’attenzione dal problema: anche se decine di persone sono finite in prigione, in attesa di un processo, non ci sono ancora dei responsabili certi per la strage di Iguala e le desapariciones, e soprattutto le versioni della procura tendono a deviare l’attenzione e lo sguardo dei media dalla ricerca di altre piste, di altre possibili spiegazioni, che possono coinvolgere appieno i militari, la polizia federale e altri livello di governo che la procura cerca di proteggere.

Una delle madri ha risposto al ministro. “E’ una persona insensibile, generale di alto rango che ci si deve prendere cura di noi e ora ci sta chiedendo di dimenticare il caso. A questa persona non augurerei mai di avere un figlio desaparecido, mai, nemmeno per un minuto o un secondo, perché in quel caso saprà cosa si sente, qui nessuno è manipolato, io non avrò pace finché non rivedrò i miei due ragazzi a casa loro, insieme al loro cugino, dato che tutti e tre sono spariti, tutti e tre volevano studiate e i tre sono entrati a scuola insieme. L’unica cosa che ci sta manipolando è la sete di giustizia, il dolore”. La donna ha anche chiesto con forza che sia indagato il 27esimo battaglione che “non ha fatto niente dopo gli attacchi e nemmeno hanno aiutato a cercarli dopo la loro scomparsa”. Murillo Karam aveva detto “meno male che l’esercito non è intervenuto quella notte perché lo avrebbe fatto dal lato della polizia” e ora risulta che forse è intervenuto, e proprio dal lato della polizia.

Desaparecidos MEXICO infograficaSeñor Matanza

In molte occasioni le forze armate hanno operato come agente antinsurrezionale con la “scusa” della lotta contro il comunismo o, attualmente, contro le droghe e i narcos. Basta ricordare la mattanza di contadini e presunti guerriglieri condotta dall’esercito a El Charco nel 1998, quando Angel Aguirre, governatore del Guerrero che si è da poco dimesso in seguito ai fatti di Iguala, esercitava come governatore ad interim. E’ un dato di fatto che la militarizzazione promossa dall’ex presidente Felipe Calderón (2006-2012) e mantenuta da Peña ha accresciuto il protagonismo, il potere, le risorse e le competenze d’azione della marina e dell’esercito e ha peggiorato la di per sé precaria situazione dei diritti umani nel paese, come lo dimostrano i casi emblematici di Ernestina Ascencio, anziana indigena della città di Zongolica, probabilmente violentata e uccisa nel 2007 da un gruppo di soldati di cui non sono state chiarite le responsabilità, e di Tlatlaya, località nei dintorni di Città del Messico in cui il 30 giugno 2014 i militari hanno ammazzato 22 persone.

Di fatto, proprio nel Guerrero, il caso dell’attivista Rosendo Radilla Pacheco, arrestato il 25 agosto 1974 e “desaparecido” dopo essere stato condotto nella caserma di Atoyac, fu la causa della prima storica condanna della Corte Interamericana dei Diritti Umani contro lo stato messicano nel 2009. Il 28 novembre, in un’intervista alla rivista Variopinto (Link), iel Generale José Francisco Gallardo ha parlato di manovre dell’esercito e del suo coinvolgimento nella sparizione dei 43 normalisti, visto che “tutto questo show – prendere il sindaco, trovare un colpevole unico – è per non far puntare lo sguardo sull’esercito”, ha spiegato. E ha denunciato anche la crescente militarizzazione, in termini di formazione e azioni, dei corpi di polizia, tanto locali come statali e federali.

desaparecidos Mexico infografica 2 por presidenteNel sondaggio condotto recentemente dall’ex direttore del CISEN (Centro d’Investigazioni e Sicurezza Nazionale) Guillermo Valdés, il 25% degli intervistati attribuiscono la responsabilità della mattanza e per i desaparecidos di Iguala all’esercito ma anche a individui (ex governatore Aguirre, il presidente Peña, l’ex sindaco di Iguala Abarca e sua moglie Maria Pineda), a partiti politici (in primis il PRD, di centrosinistra, ma anche gli altri), al crimine organizzato (Guerreros Unidos) e alle forze di polizia. Questo mostra che l’idea di una collusione a più livelli tra varie istituzioni ha fatto breccia nella popolazione. Già nel 2011 HRW (Human Rights Watch) denunció la desaparición di sei persone in un club notturno di Iguala, alle 22:30 del primo marzo 2010: nonostante le registrazioni e le testimonianze dirette che accusavano l’esercito le ricerche della procura durarono poco e il caso passò nelle mani dei tribunali militari che lo insabbiarono.

Controllo sociale, protezione dell’economia e gli investimenti

Un paio di settimane fa Obama ha dichiarato di voler aiutare il Messico a portare a termine le ricerche sul caso Ayotzinapa. Il business della guerra è uno dei più redditizi per il “gran vicino” statunitense come lo dimostra l’implementazione del Plan Merida e l’introduzione in massa di armi in Messico, in modo lecito e non. Non c’è dubbio che tra i vari beneficiari della situazione attuale di guerra di bassa intensità e stato d’assedio in molte zone, dal Michoacan al Tamaulipas, al Chiapas e al Guerrero, ci siano anche i settori castrensi e non importa molto se le operazioni di controllo sociale si devono giustificare come operazioni contro il narcotraffico o presentare come piani di sicurezza per la protezione del turismo e dell’infrastruttura economica. L’importante è garantire la “pace” alle multinazionali minerarie. Di fatto, dopo l’estate, il presidente aveva annunciato proprio la creazione della gendarmeria nazionale per svolgere queste funzioni, per proteggere gli investimenti e i trasporti. L’idea lanciata in dicembre dal presidente per cui si dovrebbe creare un corridoio di sviluppo e delle zone economiche speciali per far crescere il Sud del Messico è piuttosto vecchia e riprende il Piano Puebla Panama dell’epoca di Vicente Fox (2000-2006), limitandolo solo al Messico meridionale, ora “protetto” da migliaia di poliziotti, gendarmi e militari. In questo contesto di conflitto sociale e per le risorse la presenza militare acquista nuove ragioni per essere rinforzata.

Il parlamento unito, tranne il PRD, ha approvato modifiche alla costituzione per permettere agli stati di legiferare sulla “libertà di movimento” delle persone per garantire questo diritto, il che significa che, sottilmente, i parlamentari stanno autorizzando azioni repressive delle polizie locali, statali e federale e dei governi degli stati e dei comuni contro chi scende in piazza a manifestare e, così facendo, impedisce a terzi di godere del “diritto alla libera circolazione”. E’ una violazione palese della libertà d’espressione e di altri articoli della stesa costituzione messicana, ma poco importa. Il segnale è chiaro.

pedregal santo domingo ayotzinapaRepressioni e manifestazioni

Il governatore di Sinaloa, Mario Lopez, l’ha chiarito senza mezzi in termini in una scellerata dichiarazione in cui ha minacciato di far arrestare chiunque protesti per strade. Ma non c’è bisogno di manifestare per essere aggrediti, basta anche solo organizzare un concerto. E’ successo nella capitale del Guerrero, Chilpancingo, lo scorso 14 dicembre, alle cinque del mattino, quando militanti e cittadini si apprestavano a montare un palco per un concerto in favore dei genitori e del movimento per Ayotzinapa nella piazza centrale e sono stati attaccati da un gruppo di federali ubriachi. Un giornalista di Radio Regeneracion è finito all’ospedale e rischia di perdere un braccio. Il saldo è di 11 feriti, due gravi, e il concerto è stato sospeso. Nonostante la repressione, le iniziative continuano in tutto il mondo e in Messico. Il 17 dicembre c’è stata una spettacolare camminata, organizzata dagli abitanti della zona e dal collettivo dei Pedregales de Santa Domingo, nel quartiere popolare noto anche come SantOcho o Sant8, nella periferia sud della capitale. Qualche migliaio di persone ha percorso le strade del barrio chiedendo la “restituzione in vita” degli studenti. Il corteo s’è ingrandito via via che si faceva sera e i lavoratori del rione tornavano a casa. Al comizio finale hanno parlato alcuni genitori degli studenti e rappresentanti della società civile del quartiere: il parroco, i commercianti, gli studenti della UNAM (Univ. Nacional Autonoma de Mexico) e i membri dei comitati dei Pedregales.

Ad ogni modo, così come l’ha espresso l’avvocato dei genitori di Ayotzinapa, Vidulfo Rosales, la paura dei movimenti sociali e, in generale, delle organizzazioni della società civile e per la difesa dei diritti umani è che, una volta che si saranno spenti i riflettori sul caso Ayotzinapa, non solo tutto torni come prima, ma che l’attacco governativo, mediatico e poliziesco contro chi protesta e manifesta diventi sempre più dura, esplicita e decisa, coi soliti metodi delle desapariciones forzadas e della fabbricazione di colpevoli. Per ora sono stati sventati o denunciati vari casi di abusi della polizia nei cortei e, in generale, contro gli attivisti e gli universitari, ma è da vedere se la “resistenza” potrà continuare efficacemente. Le vacanze di Natale, in questo senso, sono un toccasana per il governo che riesce a respirare e a distrarre l’attenzione soprattutto della classe media, proprio in un periodo in cui il movimento studentesco è più debole per la chiusura delle scuole a tutti i livelli. Intanto la capitale del Guerrero e Acapulco sono state invase da 2000 e 1500 poliziotti federali rispettivamente per “garantire sicurezza” ai turisti, secondo la versione ufficiale. In realtà si tratta d’indebolire la forte risposta sociale per la mattanza di Iguala e il sostegno crescente che i genitori di Ayotzinapa e il movimento stanno acquisendo all’estero.

Ombre e nuove rivelazioni

WP_20141217_048Oltre ai vari dubbi sollevati sulla versione ufficiale della notte di Iguala del procuratore, Jesus Murillo Karam, ci sono anche due reportage, dei giornalisti Anabel Hernandez e Steven Fisher sul settimanale Proceso, che propongono altre piste credibili. In sintesi i due reporter mostrano e intrecciano prove, nuove testimonianze, foto, video e dichiarazioni registrate dalla stessa procura secondo le quali si evidenziano le responsabilità della polizia federale, che avrebbe addirittura partecipato direttamente, e persino dell’esercito nella strage degli studenti, negli attacchi subiti per oltre tre ore nella notte del 26 e nella sparizione di 43 di loro. Inoltre Proceso denuncia le torture, risultanti da atti della procura e da dichiarazioni degli imputati, sofferte dai detenuti, accusati di aver ucciso i 43 studenti e di appartenere al cartello dei Guerreros Unidos, arrestati in ottobre e novembre, il che ne inficerebbe la credibilità e attendibilità come testimoni o presunti colpevoli. Infine Hernandez e Fisher denunciano il fatto che il procuratore non abbia ancora aperto delle indagini sulle forze armate e sul 27esimo battaglione a Iguala e che si difenda coprendo le responsabilità di esercito e federali per sostenere l’ipotesi che si tratti di un “caso locale”, circoscritto.

C’erano molte perplessità sulla storia ufficiale già prima della pubblicazione dei due reportage (il 21 e 14 dicembre): le piogge che sarebbero cadute su Iguala nella notte del 26 fanno pensare che sia stato impossibile brucare 43 corpi in quelle condizioni; ci sono segnalazioni di incendi in zone vicine ma non nella discarica di Cocula, dove i presunti narcos e il procuratore Murillo dicono che sarebbero stati cremati i ragazzi; l’atteggiamento ostile dei soldati nella notte del 26, raccontato dai sopravvissuti, e il loro non-intervento per evitare quanto stava accadendo; stesso discorso per la polizia federale, che seguiva le mosse degli studenti già dal pomeriggio ed era informata via radio degli spostamenti dei bus su cui viaggiavano; e infine la dichiarazione dei periti forensi argentini che hanno confermato l’identificazione dei resti di Alexander Mora, uno degli studenti scomparsi, che è arrivata un paio di settimane fa da un laboratorio a Innsbruck, ma hanno anche  sollevato dubbi perché non è stato possibile certificare come e quando esattamente le borse coi resti calcinati e le ceneri sono state ritrovate. Si sospetta che siano stati gli uomini della procura a portare le borse e i resti a Cocula, prelevandoli da un altro luogo sconosciuto.

L’11 dicembre alcuni esperti della Universidad Nacional Autonoma de Mexico e della Univ. Autonoma Metropolitana (UAM) hanno smentito la versione della procura sostenendo che “è impossibile che i corpi siano stati bruciati a Cocula e l’autorità adesso he dei guai seri perché se non son stati bruciati a Cocula, allora dove? E chi è stato?”, ha spiegato Jorge Montemayor, ricercatore dell’Istituto di Fisica della UNAM. Secondo gli studiosi per incenerire 43 corpi, ci vogliono 33 tonnellate di tronchi da quattro pollici di diametro, equivalenti a due camion pieni di legname e 53 kg di gas per ogni corpo. Se, come sostengono i narcos rei confessi e la procura, il rogo è stato alimentato con delle gomme, secondo gli scienziati delle università ci sarebbero volute 995 gomme di automobili per farlo, per cui stimano che l’ipotesi ufficiale non “ha nessuna base nei fatti fisici o chimici naturali”. Nel mese di luglio 2013 il portale dello stato del Guerrero ha riportato la sparizione forzata di 17 studenti a Cocula e, secondo alcuni testimoni, c’è stato il coinvolgimento diretto della polizia municipale. Anche in questo caso l’esercito non è intervenuto.

WP_20141217_014Il 22 dicembre il National Security Archive degli Stati Uniti ha reso pubblici dei documenti della procura messicana secondo i quali almeno 17 poliziotti sarebbero stati coinvolti in una delle peggiori mattanze degli ultimi anni, quella di 193 migranti centroamericani a San Fernando, nello stato orientale del Tamaulipas, avvenuta probabilmente nel marzo 2011. Già nell’agosto 2010 altri 72 migranti furono uccisi nella stessa località, in quella che è tristemente nota come la “prima” mattanza di San Fernando. In entrambi i casi la colpa della strage venne attribuita ai membri del cartello degli Zetas, i narcos che dominano le regioni centro-orientali del paese e la zona del Golfo del Messico. Oggi la versione ufficiale viene messa in discussione ed emergono indizi sul coinvolgimento della polizia, come a Iguala il settembre scorso.

Tutto ciò apre spazi per interpretazioni diverse che non possono escludere, come fa la procura, il coinvolgimento di altri attori nella mattanza, tra cui anche il battaglione 27 dell’esercito che per anni ha operato come se niente fosse in una zona piena di cadaveri, fosse clandestine, coltivatori di oppio e marijuana e narcotrafficanti in guerra. “Ricordate che durante la guerra sporca se c’era qualcuno specializzato a far sparire le persone, era proprio l’esercito”, ha detto Omar Garcia, studente della normale di Ayotzinapa e rappresentante del comitato degli studenti della scuola. Indizi e denunce per aprire indagini sull’esercito e la polizia federale ce ne sono, ma nulla si muove e Murillo dice che sarebbe assurdo procedere.

Francisco Javier García, sindaco di Chilapa, Guerrero, ha dichiarato due settimane fa che malgrado la forte presenza delle forze federali, il crimine organizzato continuano ad agire indisturbato nel territorio del comune, all’ombra dell’esercito. Ed è solo un altro esempio, recente. Anche il sindaco di Iguala, Abarca, era un “esempio” di connivenza istituzionale con la criminalità e non è stato fermato. Nemmeno sua moglie, già segnalata alle autorità e sorella di vari narcotrafficanti, è stata fermata in anticipo. Erano invece amici dei comandanti del distretto militare e del 27esimo battaglione che partecipavano a tanti loro eventi.

Dal Chiapas zapatista: Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni

In questo dicembre, per le “vacanze” di Natale, l’ombra di Ayotzinapa aleggerà sulla classe politica e dirigente messicana, in attesa di capire se nel 2015 si privilegeranno le soluzioni fast track autoritarie con “mano dura” e i beceri tentativi di chiudere il caso e superarlo rapidamente, come successo finora, o le opzioni di riforma profonda del sistema e di cambiamento che propongono la società, raccolta intorno ai familiari delle vittime, e i movimenti. Dal Chiapas gli zapatisti e il CNI (Consiglio Nazionale Indigeno) hanno organizzato il primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni contro il Capitalismo e hanno deciso di cedere ai genitori di Ayotzinapa i loro spazi durante l’evento che è itinerante e dura dal 20 dicembre al 3 gennaio. Le carovane sono già partite e la lucha sigue. Il 31 dicembre e 1 gennaio l’evento sarà nel caracol di Oventik e poi a San Cristobal de las Casas per la chiusura. Ecco la video-notizia dell’inaugurazione del Festival nei dintorni di Città del Messico.

Reportage precedenti su Ayotzinapa:

  1. La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica
  2. Il Messico e Ayotzinapa gridano: 43 con vida ya!
  3. Benvenuti in Messico: desaparecidos e morti di #Ayotzinapa #Fueelestado
  4. Due mesi dopo la strage: le vene aperte del Messico e #Ayotzinapa
  5. Identificati in Messico i resti di uno studente di #Ayotzinapa, proteste #1DMX #6DMX #Yamecanse2
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La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica https://www.carmillaonline.com/2014/10/10/la-strage-degli-studenti-in-messico-narco-stato-e-narco-politica/ Thu, 09 Oct 2014 22:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18018 di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi interrati di decine di studenti della scuola normale di Ayotzinapa, comune che si trova a circa 120 km da Iguala. Infatti, dal fine settimana precedente, 43 normalisti risultano ufficialmente desaparecidos. “Desaparecido” non significa semplicemente scomparso o irreperibile, significa che c’è di mezzo lo stato.

Vuol dire che l’autorità, connivente con bande criminali o gruppi paramilitari, per omissione o per partecipazione attiva, è coinvolta nel sequestro di persone e nella loro eliminazione. Niente più tracce, i desaparecidos non possono essere dichiarati ufficialmente morti, ma, di fatto, non esistono più. I familiari li cercano, chiedono giustizia alle stesse autorità che li hanno fatti sparire. Oppure si rivolgono ai mass media e a istituzioni che in Messico sono sempre più spesso una farsa, una facciata che nasconde altri interessi e altre logiche, occulte e delinquenziali. E nelle conferenze stampa, senza paura, dicono: “Non è stata la criminalità organizzata, ma lo stato messicano”.

La strage di #Iguala #Ayotzinapa

Marcha Ayotzinapa 8 oct 149 (Small)La sera di venerdì 26 settembre un gruppo di giovani alunni della scuola normale di Ayotzinapa si dirige a Iguala per botear, cioè racimolare soldi. Hanno tutti tra i 17 e i 20 anni. Vogliono raccogliere fondi per partecipare al tradizionale corteo del 2 ottobre a Città del Messico in ricordo della strage  di stato del 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 studenti e manifestanti in Plaza Tlatelolco. I normalisti decidono di occupare tre autobus. I conducenti li lasciano fare, ci sono abituati. Sono le sette e mezza, fa buio. Fuori dall’autostazione, però, ad attenderli c’è un commando armato di poliziotti. Fanno fuoco senza preavviso. Sparano per uccidere, non solo per intimidire. Hanno l’uniforme della polizia del comune di Iguala e sono gli uomini del sindaco José Luis Abarca Velázquez e del direttore della polizia locale Felipe Flores, entrambi latitanti da più di una settimana. Ma i pistoleri poliziotti non restano soli a lungo, presto sono raggiunti da un manipolo di altri energumeni in tenuta antisommossa. Il fuoco delle armi cessa per un po’, ma l’attacco è stato brutale, indignante e irrazionale.

La persecuzione continua. Partono altri spari. Muoiono tre studenti, altri 25 restano feriti, uno in stato di morte cerebrale. Per salvarsi bisogna nascondersi, buttarsi sotto gli autobus. Non muoverti, se no gli sbirri ti seccano. Alcuni cercano di scappare, scendono dai bus, il formicaio esplode nell’oscurità. Gli uomini in divisa caricano decine di studenti sulle loro camionette e li portano via. Pare che l’esercito, la polizia federale e quella statale abbiano scelto di non intervenire. Lasciar stare.

Intanto sopraggiungono altri soggetti con armi di alto calibro, narcotrafficanti del cartello dei Guerreros Unidos, una delle tante sigle che descrivono il terrore della narcoguerra e la decomposizione del corpo sociale in molte regioni del paese. Non contenti, i poliziotti, in combutta con i narcos, si spostano fuori città, pattugliano la strada statale che collega Ayotzinapa a Iguala e fermano un pullman di una squadra di calcio locale, los avispones. Assaltano anche quello, pensando che sia il mezzo su cui gli studenti stanno facendo ritorno a casa. Bisogna sparare, bersagliare senza tregua. E ora sono in tanti, narcos e narco-poliziotti, insieme, probabilmente per ordine de “El Chucky”, un boss locale, e del sindaco Abarca.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 234 (Small)Ammazzano un calciatore degli avispones, un ragazzo di quattordici anni che si chiamava David Josué García Evangelista. I proiettili volano ovunque, sono schegge di follia e forano la carrozzeria di un taxi che, sventurato, stava passando di lì. Perdono la vita sia il conducente dell’auto sia una passeggera, la signora Blanca Montiel. Il caso, la mala suerte si fa muerte. Poche ore dopo in città compare il cadavere dello studente Julio Cesar Mondragón, martoriato. Gli hanno scorticato completamente la faccia e gli hanno tolto gli occhi, secondo l’usanza dei narcos. La macabra immagine, anche se repulsiva, diventa virale nelle reti sociali. E si diffondono globalmente anche le testimonianze dirette dell’orrore che stanno rendendo i sopravvissuti.

Le reazioni alla mattanza

Dopo il week end del massacro a Iguala i compagni della normale di Ayotzinapa e i familiari delle vittime e dei desaparecidos si organizzano, reclamano, tornano sul luogo della strage e indicono una manifestazione nazionale per l’8 ottobre a Città del Messico per chiedere le dimissioni del governatore statale, Ángel Aguirre, la “restituzione con vita” dei desaparecidos e giustizia per le vittime della mattanza.

Cresce la pressione mediatica e popolare per ottenere giustizia. Arrivano i primi arresti. 22 poliziotti al soldo delle mafie locali e 8 narcotrafficanti sono imprigionati e la Procura Generale della Repubblica comincia a occuparsi del caso. Alcuni degli arrestati confessano i crimini commessi e parlano di almeno 17 studenti rapiti e giustiziati. Indicano la posizione esatta di tre fosse clandestine in cui sarebbero stati interrati. L’esercito e la gendarmeria commissariano l’intera regione e blindano le fosse comuni che non sono tre, sono sei. La morte si moltiplica. I corpi recuperati sono 28, non 17. I desaparecidos, però, sono 43.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 020 (Small)I numeri non tornano. I familiari non si fidano, chiedono l’invio di medici forensi argentini, specialisti imparziali e qualificati. Ci vorrà tempo per avere certezze, se mai ce ne saranno. I risultati dell’esame del DNA tarderanno ad arrivare almeno due settimane. Nel frattempo, il 7 ottobre, seicento agenti delle polizie comunitarie della regione della Costa Chica, appartenenti alla UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), hanno fatto il loro ingresso a Iguala per cercare “vivi o morti” e “casa per casa” i 43 studenti scomparsi. Altri gruppi della polizia comunitaria di Tixla, autonoma rispetto alle autorità statali, hanno scritto su twitter: “Con la nostra attività di sicurezza stiamo proteggendo la Normale di #Ayotzinapa“.

Dov’è finito il sindaco del PRD (Partido de la Revolución Democrática, di centro-sinistra) José Luis Abarca? E sua moglie, anche lei irreperibile? E cosa fa il governatore dello stato, il “progressista”, anche lui del PRD, Ángel Aguirre? Pare che lui conoscesse molto bene la situazione già da tempo. Il loro partito ha scelto di espellere il sindaco e sostenere il governatore per non perdere quote di potere in quella regione. Abarca ha chiesto 30 giorni di permesso e poi è sparito. Ora è ricercato dalla giustizia e vituperato dall’opinione pubblica nazionale. Aguirre, che non ha potuto impedire la strage né ha bloccato la concessione permesso richiesto dal sindaco prima di scappare, cerca di difendere l’indifendibile e, per ora, non presenta le sue dimissioni. Anzi, scambia abbracci e si fa la foto con Carlos Navarrete, nuovo segretario generale del PRD eletto domenica 5 ottobre.

Narco-Politica

La gravità della situazione è palese, anche perché è nota da anni e non s’è fatto nulla per denunciarla ed evitare la sua degenerazione violenta. José Luis Abarca, sindaco di Iguala al soldo dei narco-cartelli, ha un passato inquietante alle spalle, ma è riuscito comunque a diventare primo cittadino e a piazzare sua moglie, María Pineda, come capo delle politiche sociali municipali, cioè dell’ufficio del DIF (Desarrollo Integral de la Familia), e prossima candidata sindaco. Il giorno della strage la signora Pineda doveva presentare la relazione dei lavori svolti come funzionaria pubblica e, temendo un’eventuale incursione dei normalisti nell’evento, avrebbe richiesto al marito di “mettere in sicurezza” la zona.

Abarca avrebbe quindi lanciato l’operazione contro gli studenti con la collaborazione piena del capo della polizia municipale, suo cugino Felipe Flores. Costui era già noto per aver “clonato” pattuglie della polizia col fine di realizzare “lavoretti speciali” e per i suoi abusi d’autorità. La moglie del sindaco è sorella di Jorge Alberto e Mario Pineda Villa, noti anche come “El borrado” e “El MP”, due operatori del cartello dei Beltrán Leyva morti assassinati. Salomón Pineda, un altro fratello, sta con i Guerreros Unidos dal giugno 2013. In uno degli stati più poveri del Messico, Abarca e consorte prendono, tra stipendi e compensazioni, 20mila euro al mese che pesano direttamente sulle casse comunali.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 175 (Small)“Mi concederò il piacere di ammazzarti”, avrebbe detto nel 2013 il sindaco Abarca ad Arturo Hernández Cardona, della Unidad Popular di Guerrero, prima di ucciderlo, secondo quanto racconta un testimone di questo delitto per cui Abarca non è stato condannato, ma che è depositato in un fascicolo giudiziale.

Il 30 maggio 2013 otto persone scomparvero a Iguala. Erano attivisti, membri della Unidad Popular, un gruppo politico vicino al PRD. Tre di loro sono stati ritrovati, morti, in fosse comuni. La camionetta su cui viaggiavano venne rinvenuta nel deposito comunale degli autoveicoli di Iguala. Human Rights Watch, Amnesty Internacional e l’Ufficio a Washington per gli Affari Latinoamericani chiesero invano alle autorità federali di chiarire il caso, essendoci il fondato sospetto di un’implicazione delle autorità locali. Cinque attivisti sono tuttora desaparecidos.

I sicari con l’uniforme della polizia e quelli in borghese lavorano per lo stesso cartello, quello dei Guerreros Unidos che è in lotta con Los Rojos per il controllo degli accessi alla tierra caliente, la zona calda tra lo costa e la sierra in cui prosperano le coltivazioni di marijuana e fioriscono i papaveri da oppio, che qui si chiamano amapola o adormidera. Le bande rivali sono nate dalla scissione dell’organizzazione dei fratelli Beltrán Leyva, ormai agonizzante. Il 2 ottobre, mentre 50mila persone sfilavano per le strade della capitale per non far sbiadire la memoria di una strage, a Queretaro veniva arrestato l’ultimo dei fratelli latitanti, Hector Beltrán Leyva, alias “El H”, un altro figlio delle montagne dello stato del Sinaloa. “El H” era diventato un imprenditore rispettato. Originario della Corleone messicana, la famigerata Badiraguato, e antico alleato dell’ex jefe de jefes, Joaquín “El Chapo” Guzmán, che sta in prigione dal febbraio scorso, s’era costruito una reputazione rispettabile, onorata. Ma già da tempo il gruppo dei Beltrán s’era diviso in cellule cancerogene e impazzite secondo il cosiddetto effetto cucaracha: scarafaggi in fuga, un esodo di massa per non essere calpestati.

Ed eccoli qui che giustiziano studenti insieme ai poliziotti che, a loro volta, aspirano a posizioni migliori all’interno dell’organizzazione criminale, sempre più confusa con quella statale, e s’occupano della compravendita di protezione e di droga. L’eroina tira di più in questo periodo e Iguala è una porta d’accesso importante, una plaza di snodo. L’eroina bianca del Guerrero è un prodotto che non ha niente da invidiare, per qualità e purezza, a quella proveniente dall’Afghanistan. Anche per questo la regione è la più violenta del Messico da un anno e mezzo a questa parte e ha spodestato in testa alla classifica della morte altri stati in disfacimento come il Michoacan, il Tamaulipas, Sonora, il Sinaloa, Chihuahua, l’Estado de México e Veracruz.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 292 (Small)I responsabili del massacro di Iguala

I poliziotti detenuti accusano Francisco Salgado, uno dei loro capi, finito anche lui in manette, di avere ordinato loro di intercettare gli studenti fuori dalla stazione degli autobus. Invece l’ordine di sequestrarli e assassinarli sarebbe arrivato dal boss mafioso El Chucky. Chucky, come il personaggio del film horror “La bambola assassina” di Tom Holland. Il procuratore di Guerrero, Iñaki Blanco, ritiene che il principale responsabile della mattanza e della desaparición dei 43 normalisti sia il sindaco Abarca che “è venuto meno al suo dovere, oltre ad aver commesso vari illeciti”. Il procuratore parla solo di “omissioni”, promuoverà accuse per “violazioni alle garanzie della popolazione” e la revocazione della sua immunità, ma dal suo discorso non si capisce chi sarebbero tutti i responsabili né come saranno identificati e processati.

Chi ha ordinato ai (narco)poliziotti di fermare i normalisti e di sparare? Com’è possibile che il sindaco e il capo della polizia e delle forze di sicurezza locali, Felipe Flores, siano riusciti a fuggire? Perché i due, ma anche l’esercito e le forze federali, hanno lasciato gli studenti alla mercé della violenza? Perché la polizia prende ordini dai narcos e, anzi, fa parte del cartello dei Guerreros Unidos? Com’è possibile che tutto questo sia tragicamente così normale in Messico? Come mai nessuno l’ha impedito, se già da anni si era a conoscenza della situazione?

Infatti, ci sono prove del fatto che, almeno dal 2013, il governo federale e il PRD hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte all’evidenza: José Luis Abarca e sua moglie María Pineda avevano chiari vincoli col narcotraffico e con la morte di un militante come Arturo Hernández Cardona. Ma già dal 2009, quando il presidente era Felipe Calderón, del conservatore Partido Acción Nacional (PAN), la Procura Generale della Repubblica aveva reso pubbliche la relazioni della signora Pineda e dei suoi fratelli con il cartello dei Beltrán Leyva. La polizia di Iguala era in mano ai narcos e sono tantissime le realtà locali in Messico ove predomina questa situazione.

L’esperto internazionale di sicurezza e narcotraffico, il prof. Edgardo Buscaglia, ha parlato di Peña Nieto e di Calderón come figure simili tra loro, come coordinatori del patto d’impunità e della perdita di controllo politico nazionale: “Sono cambiate le facce, ma hanno lo stesso ruolo”.  Perciò, ha segnalato l’accademico, bisogna cominciare dal presidente per trovare i responsabili. Mentre la comunità internazionale “fa come se non stesse accadendo nulla”, nel paese “il denaro zittisce le coscienze collettive” e, secondo Buscaglia, “il sistema giungerà a una crisi e ci sarà una sollevazione sociale in cui si fermerà il paese e soprattutto il sistema economico”.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 129 (Small)Le scuole normali messicane

Resta il fato che sparuti gruppi di studenti, seppur combattivi, di un’istituzione rurale non sono pericolosi trafficanti né rappresentano minacce sistemiche. Perché annichilarli? Forse la storia ci aiuta a ipotizzare delle risposte. Le scuole normali messicane, nate negli anni ’20 e impulsate dal presidente Lázaro Cárdenas negli anni ’30 come baluardi del progetto di educación socialista per il popolo e le zone rurali del paese, sono considerate oggi dalla classe politica tecnocratica come un pericoloso e anacronistico retaggio del passato. Un’appendice inutile da estirpare per entrare appieno nella globalizzazione.

Di fatto i governi neoliberali, dai presidenti Miguel de la Madrid (1982-1988) e Carlos Salinas (1988-1994) in poi, hanno costantemente attaccato e minacciato la sopravvivenza del sistema scolastico delle normali che, ciononostante, ha saputo resistere. La funzione sociale di questi centri educativi è sempre stata fondamentale perché è consistita nell’istruire le classi sociali più deboli e sfruttate, specialmente i contadini e gli abitanti delle campagne, affinché potessero difendersi dai soprusi dei latifondisti e dei politici locali, secondo un chiaro progetto politico-educativo di emancipazione e ribellione allo status quo. L’alfabetizzazione della popolazione rurale e la formazione di maestri coscienti socialmente sembra essersi trasformata in un’anomalia per tanti settori benpensanti, politici e metropolitani.

Anche per questo gli studenti delle normali, in quanto portatori di modelli di lotta e di formazione antitetici rispetto a quelli delle élite locali e nazionali e dei cacicchi della narco-agricoltura e della narco-politica, sono già stati vittime in passato della barbarie e della repressione. Nel dicembre 2011 la polizia ne uccise due proprio di Ayotzinapa durante lo sgombero di un blocco stradale e di una manifestazione. Una violenza smisurata venne impiegata dalla Polizia Federale nel 2007 per reprimere gli alunni di quella stessa cittadina che avevano bloccato il passaggio in un casello della turistica Autostrada del Sole tra Acapulco e Città del Messico. Nel 2008 i loro compagni della normale di Tiripetío, nel Michoacán, furono trattati come membri di pericolose gang e, in seguito a una giornata di proteste e scontri con la polizia, 133 di loro finirono in manette.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 008 (Small)Tradizione stragista

La criminalizzazione dei normalisti va inquadrata anche nel più esteso processo di criminalizzazione della protesta sociale che incalza con l’approvazione di misure repressive, come la “Ley Bala”, che prevede l’uso delle armi in alcuni casi nei cortei da parte della polizia, con l’inasprimento delle pene per delitti contro la proprietà privata e l’ampliamento surreale delle fattispecie legate ai reati di terrorismo e di attacco alla pace pubblica. Tutti contenitori pronti per fabbricare colpevoli e delitti fast track. Il caso di Mario González, studente attivista arrestato ingiustamente il 2 ottobre 2013 e condannato, senza prove e con un processo ridicolo, a 5 anni e 9 mesi di reclusione, sta lì a ricordarcelo.

Ma la “tradizione stragista” e di omissioni dello stato messicano è purtroppo molto più lunga e persistente. Basti ricordare alcuni nomi e alcune date, solo pochi esempi tra centinaia che si potrebbero menzionare: 2 ottobre 1968, Tlatelolco; 11 giugno 1971, “Los halcones”; anni ’70 e ‘80, guerra sucia; 1995, Aguas Blancas, Guerrero; 1997, Acteal, Chiapas; 2006, Atenco y Oaxaca; 2008 y 2014, Tlatlaya; 2010 e 2011, i due massacri di migranti a San Fernando, Tamaulipas; 2014, caracol zapatista de La Realidad, Chiapas; 2014, Iguala; 2006-2014, NarcoGuerra, 100mila morti, 27mila desaparecidos…

La OAS (Organization of American States), Human Rights Watch, la ONU, la CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) si sono unite al coro internazionale di voci critiche contro il governo messicano. La notizia delle fosse comuni e della mattanza di Iguala sta cominciando a circolare nei media di tutto il mondo e si erge a simbolo dell’inettitudine, dell’impunità e della corruzione. In pochi giorni è crollata la propaganda ufficiale che presentava un paese pacificato e sulla via dello sviluppo indefinito.

“Estamos moviendo a México”

Marcha Ayotzinapa 8 oct 225 (Small)Gli spot governativi presentano un Messico che si muove, che sta sconfiggendo i narcos e che, grazie alla panacea delle “riforme strutturali”, in primis quella energetica, ma anche quelle della scuola, del lavoro, della giustizia e delle telecomunicazioni, si starebbe avviando a entrare nel club delle nazioni che contano: una retorica, quella delle riforme necessarie e provvidenziali, che suona molto familiare anche in Europa e in Italia e che, in terra azteca, copia pedantemente quella dei presidenti degli anni ottanta e novanta, in particolare di Carlos Salinas de Gortari. Dopo la firma del NAFTA (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) con USA e Canada, Salinas preconizzava l’ingresso del Messico nel cosiddetto primo mondo. Invece alla fine del suo mandato nel 1994 l’insurrezione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas, l’effetto Tequila, la svalutazione, indici di povertà insultanti e la fine dell’egemonia politica del PRI (Partido Revolucionario Institucional, al potere durante 71 anni nel Novecento) attendevano al bivio il nuovo presidente, Ernesto Zedillo (1994-2000).

Oggi Peña Nieto, anche lui del PRI, dopo aver approvato le riforme costituzionali e della legislazione secondaria in fretta e furia, cerca di vendere il paese agli investitori stranieri, mostrando al mondo come pregi gli aspetti più laceranti del sottosviluppo: precarietà e flessibilità del lavoro; salari da fame per una manodopera mediamente qualificata, non sindacalizzata e ricattabile; movimenti sociali anestetizzati; un welfare non universale, discriminante e carente; riforme educative dequalificanti per professori e alunni ma “efficientiste”; stato di diritto “flessibile”, cioè accondiscendente con i forti e spietato coi deboli.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 276 (Small)Il presidente annuncia lo sforzo del Messico per consolidare l’Alleanza del Pacifico, un’area commerciale sul modello del NAFTA per i paesi americani affacciati sull’Oceano Pacifico, e la prossima partecipazione di personale militare e civile alle “missioni di pace dell’ONU” come quella ad Haiti, la missione dei caschi blu chiamata MINUSTAH, che pochi onori e tante grane ha portato al paese caraibico e agli eserciti latinoamericani, per esempio il brasiliano, l’uruguaiano e il venezuelano, che vi partecipano attivamente.

Questa politica da “potenza regionale”, però, deve fare i conti con la cruda realtà. L’inserto Semanal del quotidiano La Jornada del 5 ottobre ha pubblicato un box con un piccolo promemoria: dal dicembre 2012 al gennaio 2014 ci sono stati 23.640 morti legati al narco-conflitto interno, 1700 esecuzioni al mese, con Guerrero che registra, da solo, un saldo di 2.457 assassinii, secondo quanto  riferisce la rivista Zeta in base all’analisi dei dati ufficiali. Nel 2011 Fidel López García, consulente dell’ONU intervistato dalla rivista Proceso (28/XI/2011), aveva parlato di un milione e seicentomila persone obbligate a lasciare la loro regione d’origine per via della guerra. Anche per questo il Messico rischia di trasformarsi in un’immensa fossa comune (e impune).

Ayo foto corteo lungoPost Scriptum. Il corteo.

“¿Por qué, por qué, por qué nos asesinan? ¡26 de septiembre, no se olvida!” (“Perché, perché, perché ci assassinano? Il 26 settembre non si dimentica”).  E’ stato il grido di oltre 60 piazze del Messico e decine in tutto il mondo nel pomeriggio dell’8 ottobre 2014.

“Gli studenti sono vittime di omicidi extragiudiziari, si sequestrano e si fanno sparire non solo studenti ma anche attivisti sociali e quelli che vanno contro il governo […] è una presa in giro verso il nostro dolore, non sappiamo perché fanno questo teatrino politico”. Così ha espresso la sua rabbia Omar García, compagno degli studenti uccisi, in conferenza stampa. L’esercito, che nei tartassanti spot governativi viene ritratto come un’istituzione integra, fatta di salvatori della patria e protettori dei più deboli, ha vessato gli studenti di Ayotzinapa che portavano con loro un compagno ferito:

“Ci hanno accusato di essere entrati in case private, gli abbiamo chiesto di aiutare uno dei nostri compagni e i militari han detto che ce l’eravamo cercata. Lo abbiamo portato noi all’ospedale generale ed è stato lì a dissanguarsi per due ore. L’esercito stava a guardare e non ci hanno aiutato”, continua Omar. “Il governo statale sapeva quello che stavamo facendo, non eravamo in attività di protesta ma accademiche ed è dagli anni ’50 che occupiamo gli autobus e la polizia se li viene riprendere, ma non deve aggredirci a mitragliate”.

Il normalista ha infine parlato del governatore Aguirre: “Il nostro governatore ha ammazzato 13 dirigenti di Guerrero e due compagni nostri nel 2011 e per nostra disgrazia questi sono rimasti nell’oblio. La Commissione Nazionale dei Diritti Umani, cha aveva emesso un monito, non ha più seguito la cosa e il caso è rimasto impune, chi ha ucciso è rimasto libero”.

Perseo Quiroz, direttore di Amnisty in Messico, ha spiegato che non serve a nulla che il presidente Peña si rammarichi pubblicamente dei fatti di Iguala perché “questi incubavano tutte le condizioni perché succedessero, non sono fatti isolati […] lo stato messicano colloca la tematica dei diritti umani in terza o quarta posizione e per questa mancanza di azioni accadono come a Iguala”.

Ayo Polizia comunitaria a AyotzinapaAnche il Dottor Mireles, leader del movimento degli autodefensas del Michoacán e incarcerato dal luglio 2014, ha mandato un messaggio dal carcere solidarizzando con i normalisti di Iguala. Il suo comunicato è importante perché sottolinea il doppio discorso e le ambiguità del governo: da una parte la connivenza narcos-autorità-polizia è la chiave di un massacro di studenti nel Guerrero, per cui i vari livelli del governo sono immischiati e responsabili; dall’altra si mostra una falsa disponibilità al dialogo con gli studenti del politecnico (Istituto Politecnico Nazionale, IPN) che hanno occupato l’università due settimane fa per chiedere la deroga del regolamento, da poco approvato alla chetichella dalle autorità dell’ateneo, che attenta contro i principi dell’educazione pubblica e dell’università. Nonostante le dimissioni della rettrice dell’IPN e l’intimidazione derivata dal caso Ayotzinapa, la protesta studentesca continua, chiede la concessione dell’autonomia all’ateneo (cosa già acquisita da tantissime università del paese) e mette in evidenza la scarsa volontà di dialogo dell’esecutivo.

A San Cristobal de las Casas, nel Chiapas, gli zapatisti hanno proclamato la loro adesione alle iniziative di protesta di questa giornata e in migliaia hanno realizzato con una marcia silenziosa alle cinque del pomeriggio.

L’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) ha emesso un comunicato in cui ha definito il massacro come un “atto di repressione e di politica criminale di uno stato militare di polizia”.

Il sindacato dissidente degli insegnanti, la CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación), era presente alle manifestazioni che sono state convocate in decine di città messicane e presso i consolati messicani in oltre dieci paesi d’Europa e delle Americhe. La Coordinadora ha anche dichiarato lo sciopero indefinito nello stato del Guerrero. Nella capitale dello stato, Chilpancingo, hanno marciato oltre 10mila dimostranti.

A Città del Messico abbiamo assistito a una manifestazione imponente, non solo per il numero dei manifestanti, comunque alto per un giorno lavorativo e stimato tra le 70mila e le 100mila persone, quanto soprattutto per la diversità e il forte coinvolgimento delle persone nel corteo. Hanno risposto alla convocazione dei familiari delle vittime e degli studenti scomparsi centinaia di organizzazioni della società civile, tra cui il Movimento per la Pace e l’FPDT (Frente de los Pueblos en Defensa de la Tierra di Atenco), che sono scese in piazza con lo slogan “Ayotzinapa, Tod@s a las calles” mentre su Twitter e Facebook gli hashtag di riferimento erano  #AyotzinapaSomosTodos e #CompartimosElDolor, condividiamo il dolore.

Ayotzinapa resiste cartelloNel Messico della narcoguerra le mattanze si ripetono ogni settimana, da anni, e così pure si riproducono le dinamiche criminali che distruggono il tessuto sociale e la convivenza civile. Solo che ultimamente non se ne parla quasi più. I mass media internazionali e buona parte di quelli messicani hanno semplicemente smesso d’interessarsi della questione, seguendo le indicazioni dell’Esecutivo.

La strage di Iguala e il caso Ayotzinapa stanno facendo breccia nella cortina di fumo e silenzio alzata dal nuovo governo e dai mezzi di comunicazione perché mostrano in modo contundente, crudele e diretto la collusione della polizia, dei militari e delle autorità politiche a tutti i livelli con la delinquenza organizzata. Sono i sintomi della graduale metamorfosi dello stato in “stato fallito” e “narco-stato”. Disseppelliscono il marciume nascosto nella terra, nelle sue fosse e nelle coscienze, nei palazzi e nelle procure. Smascherano la violenza istituzionale contro il dissenso politico e sociale, aprono le vene della narco-politica ed evidenziano omertà e complicità del potere locale, regionale e nazionale. Per questo Iguala e le sue vittime fanno ancora più male.

[Questo testo fa parte del progetto NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga]

P.S. Mentre stavo per pubblicare quest’articolo, il governo messicano, attaccato da tutti fronti per la strage di Iguala e i desaparecidos di Ayotzinapa, ha annunciato la cattura di Vicente Carrillo, capo del cartello di Juárez. Un altro colpo a effetto al momento giusto per distrarre l’opinione pubblica, ricevere i complimenti della DEA (Drug Enforcement Administration) e provare a smorzare gli effetti dell’indignazione mondiale. A che serve catturare un boss importante se continuano comunque le mattanze come a Iguala e tutto resta come prima?

Galleria fotografica della manifestazione a Città del Messico: LINK

Video Cori e Sequenze del Corteo: LINK

Riassunto Fatti di Iguala – Andrea Spotti/Radio Onda D’urto: LINK

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L’anno nero della stampa in Messico https://www.carmillaonline.com/2014/04/05/lanno-nero-della-stampa-messico/ Fri, 04 Apr 2014 22:00:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13761 di Andrea Spotti

Crimenes-periodistasUn’aggressione al giorno. E’ la media delle violenze subite dalla stampa in Messico durante l’anno appena trascorso, considerato uno dei più violenti della storia recente per i giornalisti. Il dato, che indica la sistematicità e la quotidianità delle intimidazioni, è fornito dal rapporto annuale di Article 19, associazione internazionale per la difesa della libertà di espressione. Si conferma così l’allarmante situazione che vivono gli uomini e le donne che cercano di raccontare il Messico militarizzato della guerra al narcotraffico. Una realtà in cui il dovere di [...]]]> di Andrea Spotti

Crimenes-periodistasUn’aggressione al giorno. E’ la media delle violenze subite dalla stampa in Messico durante l’anno appena trascorso, considerato uno dei più violenti della storia recente per i giornalisti. Il dato, che indica la sistematicità e la quotidianità delle intimidazioni, è fornito dal rapporto annuale di Article 19, associazione internazionale per la difesa della libertà di espressione. Si conferma così l’allarmante situazione che vivono gli uomini e le donne che cercano di raccontare il Messico militarizzato della guerra al narcotraffico. Una realtà in cui il dovere di cronaca si scontra troppo spesso con gli interessi di autorità, mafie e poteri forti. E dove fare giornalismo in modo critico può voler dire mettere a rischio la propria vita. Il rapporto, presentato lo scorso 18 marzo a Città del Messico, s’intitola “Dissentire in silenzio: violenza contro la stampa e criminalizzazione della protesta, Messico 2013”, e traccia un quadro assai preoccupante dello stato di salute dell’informazione nel Paese. Da una parte, denuncia l’impunità di cui riesce a godere chiunque abbia interesse a silenziare voci scomode grazie alla complicità o all’inazione dei differenti livelli di governo e di potere, e, dall’altra, la decisa tendenza alla riduzione del diritto alla protesta e alla copertura della stessa, in atto su tutto il territorio nazionale e in particolare nella capitale, governata da poco più di un anno dal sindaco di centrosinistra (PRD, Partido Revolución Democrática) Miguel Àngel Mancera.

Secondo Article 19, nonostante il numero dei reporter uccisi sia diminuito, passando da 7 a 4 rispetto al 2012, lo scorso anno è stato il più violento ai danni della stampa dal 2007 a questa parte. Da quando, cioè, l’ex presidente conservatore Felipe Calderòn, in seria crisi di legittimità dopo le elezioni del 2006, macchiate dal forte sospetto di brogli, ha lanciato una campagna armata contro la criminalità organizzata, militarizzando il territorio e scatenando un’ondata di violenza che ha causato almeno 80mila e 27mila desaparecidos. E che ha fatto del Messico uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i lavoratori e le lavoratrici dell’informazione, con un bilancio di 51omicidi e 20 sparizioni forzate accumulate negli ultimi 7 anni dalla categoria.

I primi 365 giorni dell’amministrazione di Peña Nieto, che ha sancito il ritorno al potere del PRI (l’autoritario Partito Rivoluzionario Istituzionale) dopo 12 di transizione mancata a guida PAN (il destrorso Partito d’Azione Nazionale), non hanno dunque segnato l’inversione di tendenza annunciata in campagna elettorale: s’è registrato, al contrario, un aumento del 59% degli attacchi, i quali hanno così toccato quota 330. Il che, rappresenta una media quasi quotidiana di un’aggressione alla stampa, per la precisione si tratta di un segnalamento ogni 26 ore e mezza.

Oltre ad essere stato il più violento per l’informazione in generale, il 2013 è anche l’anno che ha accumulato il più alto numero di aggressioni nei confronti sia delle donne giornaliste, con 59 denunce registrate, che delle sedi di organi informativi, che sono arrivate 39. Stiamo parlando, rispettivamente, del 20 e del 10% del totale delle intimidazioni documentate. Rispetto alle minacce, invece, il 2013 è secondo solo al 2009, che lo supera di una sola lunghezza, però, con 50 denunce segnalate.

Gli attacchi documentati alla libertà d’espressione sono di diverso tipo: si va dal sequestro intimidatorio alle botte, passando dagli assalti armati alle sedi dei giornali fino ad arrivare alla sparizioni forzate e agli omicidi. Il tutto, in un contesto di brutalità inaudita, in cui fosse clandestine, decapitazioni e corpi mutilati sono così all’ordine del giorno da non fare quasi più notizia.

Con l’importante eccezione della capitale, su cui torneremo, anche quest’anno le aggressioni hanno colpito soprattutto reporter e mezzi di comunicazione che lavorano a livello statale e municipale. In zone del paese in cui sono in atto scontri tra forze armate e criminalità organizzata, oppure faide tra cartelli di narcos per il controllo del territorio. In questo senso nel rapporto si sottolinea come significativo che la maggioranza delle aggressioni, oltre che le più serie, si siano concentrate negli stati di Veracruz, Tamaulipas, Chihuahua e Coahuila.

Tuttavia, secondo Article 19, è possibile osservare una tendenza “alla disseminazione della violenza verso altre entità amministrative”. E in effetti, nel corso del 2013, il contesto è stato particolarmente difficile e pericoloso per i giornalisti anche in Chiapas, Guerrero, Michoacan, Baja California, Tlaxcala, Durango, Quintana Roo e, non senza una certa sorpresa data la sua tradizione progressista, a Città del Messico.

Il dato più inquietante, però, ha a che fare con i protagonisti delle aggressioni denunciate, che vede primeggiare le autorità e i funzionari dello stato. Secondo Article 19, infatti, delle 274 occasioni in cui è stato possibile identificare il colpevole, in ben 146 si é trattato di un rappresentante dello stato; nella maggioranza dei casi, di poliziotti municipali.

Pur non potendo considerare i dati come esaustivi, in quanto molte aggressioni, soprattutto se provenienti dal narcotraffico, non vengono neppure denunciate e in alcune zone sporgere denuncia è più comune che in altre, si tratta comunque di numeri indicativi dell’estensione, nonché della gravità ,della situazione, dato che stiamo parlando di sei aggressioni su dieci perpetrate da chi dovrebbe tutelare il diritto a informare ed ad essere informati.

Article19 2014Per quanto riguarda gli omicidi, invece, la parte del leone la fanno i diversi narco-cartelli presenti sul territorio nazionale, responsabili di 20 dei 51 casi registrati dal 2007 ad oggi. In modo tale che, secondo l’organizzazione internazionale, chi esercita il giornalismo in Messico si trova preso in mezzo tra l’incudine delle intimidazioni provenienti dalle autorità e il martello rappresentato dalla violenza del crimine organizzato. Tutto questo, in una situazione in cui l’impunità è la regola in oltre il 90% dei casi, e l’autocensura rappresenta sovente “l’unica opzione per poter lavorare senza essere aggediti”.

Nella relazione, inoltre, vengono fortemente criticate le istituzioni create dallo stato nel corso degli ultimi anni per rispondere al crescendo delle aggressioni contro la stampa e all’indignazione che suscitavano, come la Procura Speciale per i Delitti Contro la Libertà di Espressione e il Meccanismo per la Protezione di Giornalisti e Difensori dei Diritti Umani. I quali, lungi dal garantire una qualche forma di appoggio a coloro che si sono trovati nel mirino di mafie o poteri forti, sono risultate essere mere operazioni di immagine per l’opinione pubblica interna e gli organismi internazionali. Per dirla con lo scrittore e giornalista Juan Villoro, che ha introdotto la presentazione del rapporto, il governo non solo è responsabile di negare la protezione e di non garantire il pieno esercizio del diritto all’espressione ai suoi cittadini, ma dimostra tutto il suo cinismo e la sua demogogia, in quanto, pur riconscendo a parole la gravità della problematica, nei fatti non fa nulla per intervenire concretamente. Affidandosi ancora una volta alla vecchia formula priista, il cui messaggio è: “Perché governare se posso limitarmi a dichiarare?”

In “Dissentire in silenzio”, infine, lo stato di Veracruz e la capitale del paese, meritano una menzione a parte. Il primo, perché rappresenta la regione in assoluto più pericolosa per la stampa. Qui, infatti, durante i primi tre anni di mandato dell’attuale governatore, il priista Javier Duarte, le aggressioni si sono triplicate e sono stati assassinati ben 10 operatori della comunicazione. La situazione è tale che decine di reporter sono dovuti fuggire a causa delle minacce e degli attacchi subiti, favoriti dal clima di impunità propiziato dal governo e dalla Procura locali, contro i quali hanno più volte puntato il dito varie associazioni per la difesa dei diritti umani, accusandoli di non fare gli sforzi necessari per tutelare i giornalisti e per trovare e castigare i colpevoli. Emblematico, in questo senso, è l’atteggiamento della Procura, che pare sempre guardarsi bene dal collegare omicidi e sparizioni forzate all’attività giornalistica delle vittime.

D’altra parte, a Città del Messico, si è assistito a un eccezionale aumento di aggressioni e detenzioni nei confronti di giornalisti impegnati a documentare le proteste che hanno riempito le piazze della capitale tra agosto e ottobre del 2013 durante le mobilitazioni contro le cosidette riforme strutturali. Secondo il monitoraggio di Article 19, a partire dal primo dicembre 2012, data di inizio dei mandati dei governi di Peña Nieto e di Mancera, sono state documentate 64 aggressioni da parte della polizia locale e 36 detenzioni arbitrarie, molte delle quali sono avvenute quando il giornalista o il fotografo fermato stava documentando violenze e abusi polizieschi. Infine, l’organizzazione per la libertà di stampa, mette in evidenza come, più in generale, le autorità della capitale, a parole sempre molto dialoganti e aperte al confronto, abbiano “nei fatti un’intenzione deliberata di reprimere la protesta” e non offrano sufficienti garanzie a chi la vuole raccontare.

Se il 2013 si é accaparrato molti primati negativi, non si può certo dire che l’anno in corso stia andando molto meglio. Tra gli eventi recenti possiamo infatti ricordare: il sequestro e l’omicidio di Gregorio Jiménez de la Cruz, cronista veracruzano ritrovato in una fossa clandestina lo scorso 11 febbrario; le aggressioni poliziesche ai danni dei cronisti del giornale El Noroeste, impegnati nel tentativo di ricostruire le relazioni impresariali del boss “Chapo” Guzman nei giorni successici al suo arresto, nel municipio di Mazatlàn, Sinaloa; la chiusura, da parte delle autorità federali, del sito 1dmx.org, nel quale si era costituito un vero e proprio archivio che documentava la violenza della repressione poliziesca durante le manifestazioni del 2013; e infine, l’arresto illegale di Fabiola Gutiérrez, collaboratrice del portale digitale Somos El Medio, ed il furto con scasso praticato ai dani della casa di Darìo Ramìrez, direttore di Article 19 per il Messico e il Centroamerica, proprio due giorni prima della presentazione di “Dissentire in silenzio” , entrambi avvenuti nel capitale.

Insomma, stando alla cronaca delle ultime settimane, c’é poco da stare allegri. Ed è difficile pensare ad un cambiamento del contesto nel futuro. Anche perché, la cosiddetta comunità internazionale, ben rappresentata da riviste come il Time o quotidiani come Repubblica (si vedano, rispettivamente, una recente copertina e le corrispondenze ai tempi della visita di Letta), sembra molto più entusiasta delle aperture fatte dal governo in termini di libertà di investimento che preoccupata per “il costante deterioramento” della libertà di stampa e del diritto al dissenso denunciato da Article 19. E finché l’entusiasmo sarà maggiore della preoccupazione, e continuerà il relativo disinteresse internazionale rispetto a questa problematica, sarà molto difficile stimolare la scarsa volontà politica del governo a fare la sua parte per combattere l’impunità e la violenza dilaganti.

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Il Comité Cerezo in Messico: intervista su diritti umani, narcoguerra e desaparecidos https://www.carmillaonline.com/2013/10/24/il-comite-cerezo-in-messico-intervista-su-diritti-umani-narcoguerra-e-desaparecidos/ Thu, 24 Oct 2013 02:43:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10268 di Fabrizio Lorusso

desaparecidos[Questa è un’intervista all’attivista e difensore dei diritti umani messicano Alejandro Cerezo. I fratelli Cerezo, Alejandro, Héctor e Antonio, sono stati prigionieri politici. Nel 2001 furono catturati, torturati e condannati a vari anni di prigione. I loro familiari e sostenitori fondarono un Comitato per la loro liberazione che oggi mantiene il loro nome e si occupa della difesa dei diritti umani delle vittime della repressione politica in Messico. Abbiamo parlato della loro storia, dei desaparecidos, dei movimenti sociali, delle eredità e continuità della guerra [...]]]> di Fabrizio Lorusso

desaparecidos[Questa è un’intervista all’attivista e difensore dei diritti umani messicano Alejandro Cerezo. I fratelli Cerezo, Alejandro, Héctor e Antonio, sono stati prigionieri politici. Nel 2001 furono catturati, torturati e condannati a vari anni di prigione. I loro familiari e sostenitori fondarono un Comitato per la loro liberazione che oggi mantiene il loro nome e si occupa della difesa dei diritti umani delle vittime della repressione politica in Messico. Abbiamo parlato della loro storia, dei desaparecidos, dei movimenti sociali, delle eredità e continuità della guerra al narcotraffico, della militarizzazione, delle recenti manifestazioni contro le riforme strutturali, provando anche a fare una diagnosi sulla situazione generale del Messico e del rispetto dei diritti in quel paese. Il dialogo è stato registrato il 17 ottobre 2013 presso la caffetteria del Comité Cerezo nella Facoltà di Filosofia e Lettere della Universidad Nacional Autónoma de México, F. L.]

 

Quali sono i precedenti del Comité Cerezo?

Non c’è un vero e proprio precedente, siamo un’organizzazione che sorge in seguito a un fatto specifico che è l’arresto dei tre fratelli Cerezo e altri accusati. In quel momento si uniscono le persone, si forma un gruppo grande che lotta per la nostra libertà fino a diventare il Comité Cerezo México.

Quanto tempo sei stato in galera?

Tre anni e mezzo, dall’agosto del 2001 al marzo 2005.

Con quale accusa?

Terrorismo, delinquenza organizzata, possesso di esplosivi, di armi d’uso esclusivo dell’esercito, danni alla proprietà altrui, più o meno queste.

E i tuoi fratelli?

Due di loro furono catturati, sono stati in carcere 7 anni e mezzo, e sono stati trasferiti in diversi istituti penitenziari lontani in momenti diversi: a Guadalajara, poi a Matamoros e infine nel Morelos. Da lì sono usciti, da un reclusorio o CeReSo (Centro di Riadattamento Sociale) normale.

E i coaccusati?

Erano Pablo Alvarado Flores e Sergio Galicia Max. Quest’ultimo esce con l’appello, dopo un anno e mezzo di prigione, soprattutto perché lavorava con la comunità ebrea della capitale e questa gli offrì degli avvocati buoni che non lo lasciarono solo legalmente. Pablo non aveva nemmeno un cane che lo aspettava a casa e abbiamo deciso di adottarlo come fratello, siccome stava nelle nostre stesse condizioni.

Quando è successo esattamente?

E’ stato durante il governo di Vicente Fox (2000-2006), l’arresto è stato il giorno 13 agosto, in seguito ad alcune esplosioni di piccoli petardi negli sportelli ATM di tre banche. Questo succede l’8 agosto e il 13 lo stato decide di fermarci e incolparci, non solo di quei fatti, ma di tutto quel che aveva fatto la guerriglia dal 1998 al 2001.

Parli dell’Esercito Popolare Rivoluzionario (EPR)?

Di tutti i gruppi in armi.

C’è un nesso con la vostra famiglia?

E’ quanto è venuto fuori a livello pubblico e storico sui giornali, quando i nostri genitori scrivevano lettere per mantenersi in contatto, siccome l’unico modo che avevano di farlo era  pubblicamente. Infatti, narrano che, dagli anni ’70, si dedicavano già all’attività politica e sociale e che, a un certo punto, hanno deciso di unirsi come militanti a quello che oggi conosciamo come EPR. Tutto ciò, più che altro, dipende da una lettera che loro hanno mandato spiegando un po’ la situazione.

Prima dell’arresto a cosa vi dedicavate?

Eravamo tutti studenti qui a Città del Messico, vivevamo in periferia, a Iztapalapa. Io sono andato via di casa a 16 anni e studiavo economia qui alla UNAM e sociologia alla UAM, quindi facevo lo studente a tempo pieno in pratica. I miei fratelli Antonio ed Héctor studiavano filosofia in questa facoltà e mia sorella Emiliana era psichiatra e mio fratello Francisco era a punto di finire la laurea in pedagogia.

Qual era la vostra attività politica in quegli anni?

In realtà non avevamo un’attività politica forte prima dell’arresto. I miei due fratelli avevano partecipato alle proteste del 1995 delle scuole superiori CCH (Colegios de Ciencias y Humanidades) e poi a quelle del 1997, che furono entrambe sconfitte. Io partecipai all’inizio dell’occupazione dell’università UNAM nel 1999.

logo comite cerezoNon avevate molta visibilità. Secondo te, quindi, perché se la prendono proprio con voi?

Ci sono varie ipotesi. Una è perché era come una lezione per tutti gli attivisti su quello che gli sarebbe successo se cominciavano a lottare. La nostra cattura ebbe un forte impatto, ci fu gente che si nascose o che se ne andò come conseguenza psicosociale dell’arresto. Un’altra cosa era generare paura contro il movimento studentesco affinché non si ristrutturasse. Ed era una lezione interessante per gli studenti perché noi non eravamo dei grandi attivisti, eravamo “gente normale”, per cui se alla gente normale può succedere ciò che è successo a noi, figurati ai militanti… Era un ragionamento. Dopo, col passare del tempo, durante il processo lo stato ha cominciato a far passare informazioni, presumibilmente di “intelligenza”, ai reporter e altre persone. Lo stato diceva in pratica che i nostri genitori sono membri dell’EPR e quindi anche noi. Quindi creavano una specie di organizzazione famigliare con zii, nonni, nipoti… Potrebbe essere un altro motivo nascosto, ma più che altro direi che s’è trattata di una vendetta di stato, come se dicessero “i tuoi non li ho potuti fottere ma te sì”.

Ma i vostri genitori non stavano più nella capitale?    

In realtà no. Da quando ho 16 anni vivo solo. I nostri genitori ci han sempre detto: “ va bene, ormai fumi, bevi e quindi vai a mantenerti coi tuoi vizi da una altra parte!”, affinché ci rendessimo indipendenti. Allora questo ci ha aperto una finestra per imparare dalla vita, ma c’ha anche lasciato un po’ così in un certo modo…

Quanta gente forma il Comité?

Pochi, circa 11, ma ci son molti collaboratori, tra 50 e 80. Cerchiamo di fare molti progetti e di organizzarci al meglio.

Dopo l’uscita di tutti i fratelli Cerezo nel 2009, il Comité continua a lavorare per i diritti umani e voi ricevete minacce anche di morte. Come ci convivete?

Molto depende da chi è minacciato e da come lo fanno. Nel nostro caso abbiamo imparato a vivere con le minacce come parte delle conseguenze dell’attività che svolgiamo e non si tratta solo delle minacce in sé, che sono state la cosa più significativa, soprattutto l’anno scorso, per esempio. Dipende molto anche dal vissuto di ciascuno, dai meccanismi per affrontare la situazione che abbiamo e dalla forza per farlo o no.

Parlami del vostro Rapporto pubblicato alla fine del 2012 sui Diritti Umani in Messico.

Un Rapporto è una raccolta dei fenomeni come gli omicidi extragiudiziari, le sparizioni forzate, la prigionia politica e le aggressioni subite da difensori dei diritti umani dall’aprile 2011 al maggio 2012, nella fase finale del governo di Calderón. Il seguente parte dal 2012 e arriva al 2013, all’inizio del governo di Peña Nieto. La situazione sta peggiorando, ci sono più attacchi. Nel Rapporto gennaio 2010-aprile 2011 abbiamo registrato 159 casi in 15 mesi, nel seguente sono 499 in anno le aggressioni a difensori di diritti umani che lo fanno in modo pacifico, definiti dalla ONU in questo modo.

Ci son stati cambiamenti col nuovo governo da fine 2012 secondo voi?

In realtà c’è una continuità della politica di sicurezza, ma c’è anche una politica con cui fan star zitti tutti i media. Se prima c’erano notizie di morti e decapitazioni ovunque, ora non è più così, ce ne sono altre e per esempio parlano delle larghe intese, del “Pacto por México” o d’altro. Questo assedio mediatico vuole tenere la gente tranquilla, ma ci sono zone, per esempio nello stato del Michoacán, in cui le mattanze sono terribili, ci si ammazza gli uni con gli altri. In questa strage continua, l’interesse economico che c’è si lega a megaprogetti che implicano lo spostamento di comunità intere dai propri territori. Quel che fa lo stato, soprattutto in questo governo di Peña Nieto, è principalmente ottenerlo con metodi giudiziari, ma senza smettere anche di farlo “extragiudizialmente”, facendo sparire le persone o minacciandole. E sì cambiano le tipologie: l’anno scorso il metodo di aggressione più riscontrato era la minaccia, nel 46% dei casi, mentre quest’anno scende la minaccia e aumenta l’avvicinamento diretto con aggressioni e provocazioni. Queste sono la maggioranza, quindi vuol dire che chi agisce ti vigila di più, ha più informazioni e dettagli su di te e che con questi ti attaccherà.

C’è una specie di strategia riguardante gli spostamenti più o meno forzati di persone che negli ultimi 6-7 anni hanno superato la cifra di 200mila?

Sì, in qualche modo. Si cerca un po’ di portare avanti i progetti economici di loro interesse. Abbiamo parlato di due casi l’anno scorso: uno a Ciudad Juárez, Chihuahua, nel Nord, e un altro nel Sud, a Oaxaca, dove volevano togliere la terra a una comunità. C’è un modello d’azione comune per cui tutti s’uniscono per un interesse, cioè esiste un beneficiario delle violazioni ai diritti umani. I beneficiari risultano essere imprese, per esempio, agricole o di energia alternativa. I rapporti di cui parlo sono nelle pagine Acudeeh-Acción Urgente para Defensores de Derechos Humanos (Link informes).

Parliamo della gran manifestazione del 2 di ottobre a Città del Messico, in commemorazione della strage di Tlatelolco del ’68, in cui ci sono stati oltre 100 arresti e scontri pesanti con la polizia. Voi avete pubblicato una lista dei detenuti molto completa che è stata riprodotta dai media principali.

La repressione del 2OTT è il risultato ormai di un modus operandi e di una strategia statale del Distretto Federale (Città del Messico) e della polizia federale (PF), un coordinamento di differenti corpi che includono la PF, la polizia giudiziaria, i granaderos e anche l’intelligenza militare e i militari stessi. Questo comincia con le proteste del primo dicembre 2012, poi il 10 giugno 2013, l’1S e il 2 ottobre. Anche il 13 settembre, giorno dello sgombero dell’accampamento degli insegnanti nella piazza centrale della capitale, anche se non era una manifestazione classica, si sono viste delle modalità particolari della repressione politica e nell’azione della polizia.

A quali modus operandi ti riferisci?

Uno è la cattura o la sparizione temporanea di studenti, presi su da camionette che passano, se li portano via, li prendono a botte, li rapinano e non li presentano mai alle autorità. Poi li scaricano da qualche parte. Non si sa esattamente che corpo di polizia stia realizzando queste operazioni, però ci sono indizi sul fatto che potrebbero essere i federali. Non ci sono prive perché i ragazzi presi nemmeno vengono interrogati. L’obiettivo è creare paura. Poi ci son sempre stati dei civili nelle camminate, dei poliziotti che sfilano in corteo e stanno lì, ma dal 1D 2012 si cominciano a vedere più provocatori, in borghese diciamo, che provocano le autorità, i granaderos, affinché rispondano e attacchino i ragazzi. Allora, non si deve fare confusione qui. Ci sono i provocatori così come c’è una parte della gente che decide che la sua manifestazione della protesta sarà violenta. Non li possiamo accusare o mettere insieme ai poliziotti perché quelli decidono di manifestare così, anche se sanno bene che commettono un delitto e che l’autorità può reagire. Ci sono altre modalità come la presenza di falsi giornalisti che si sa che sono informatori o agenti del CISEN, i servizi segreti, e si fanno passare per giornalisti, fanno foto ed è difficile identificarli a meno che tu non vada a varie manifestazioni e li riconosca. Poi c’è l’azione dei corpi antisommossa con questa tecnica che c’è da tempo ormai e consiste nell’incapsulare la gente e dopo picchiarla e fermarla. E prendono chi c’è lì vicino, a casaccio, ma non ai presunti gruppi violenti che esistono. E’ una modalità che va in aumento nella polizia della capitale da 3 o 4 anni, ma adesso gli stanno sciogliendo le briglie e gli ordinano di menare.

Che cosa ha fatto cambiare queste “modalità di azione”?

Bisogna considerare che questo tipo di comportamento è in sintonia col momento politico del paese. Viviamo ora in Messico un momento di crisi profonda, apertasi in tutto il mondo, con una serie di riforme che avranno un gran impatto sulla classe media, una serie di progetti eolici, uno scontento popolare molto forte, un aumento dei prezzi degli alimenti principali della dieta messicana come la tortilla e i fagioli, la minaccia di imporre l’IVA su medicine e alimenti, la riforma educativa. Insomma, c’è un fastidio generalizzato del popolo che ora sta manifestando un po’. Ciononostante bisogna essere sinceri. Sì è vero che ci sono le proteste dei docenti, ma c’è anche la solita classica Sezione XXII del sindacato che protesta, la stessa di sempre, e la XVIII s’è tirata fuori prima e così…

Però il risveglio c’è e si suppone che i professori in lotta della Coordinadora, la CNTE, sono differenti dal sindacato cooptato dal governo che è il SNTE.

Effettivamente c’è un risveglio, addirittura dentro lo stesso sindacato e in altri elementi che sono pro-governativi, ma che piano piano stanno capendo che verranno ridotti a zero dalla riforma educativa e vogliono a lottare per i loro diritti.

Dopo il 2 ottobre e l’aggressione della polizia contro oltre 80 giornalisti, avete lanciato un comunicato importante con altre 113 organizzazioni intitolato “Reprimere è un delitto, esprimersi è una libertà” C’è stata qualche risposta ufficiale alle vostre richieste di verifica dei fatti repressivi (LINK)?

La nostra reazione è stata decisa, non solo perché hanno picchiato i manifestanti, ma anche perché hanno aggredito i difensori dei diritti umani di una nota organizzazione, il Centro Miguel Agustín Pro Juárez Ass.Civile. Hanno colpito i loro osservatori. La polizia ha picchiato anche una ottantina di giornalisti e, anche se non è uscita pubblicamente quest’informazione, sono stati picchiati anche tre osservatori della Commissione dei Diritti Umani di Città del Messico, quella statale! Insomma, se picchiano loro, c’è da aspettarti che picchino pure noi, o no? Non c’è lo stato di diritto, il rispetto delle leggi. C’è una violazione atroce del diritto alla protesta sociale. Questa campagna che viene da lontano e si riassume con la frase Reprimere è un delitto, esprimersi è una libertà denuncia un problema che c’è e c’era prima, anche se a volte esplode di più e altre volte si minimizza. Quel che ora fa lo stato sono dei quadri legali per sbatterti in prigione e giustificare il tuo arresto.

La strategia della narcoguerra (2006-2013-2013), la militarizzazione, i 100mila morti, l’Iniziativa Merida (aiuti statunitensi alla lotta messicana contro i narcos). Che cambiamenti ci sono al riguardo in questo nuovo period di governo (20012-2018)?

Continua. C’è una politica di continuità e perfezionamento delle politiche di Calderón e l’unica cosa che cambia ´il discorso mediatico. Si perfezionano i meccanismi e oggi chissà come si chiamerà, ma continua la strategia e si creano gruppi specializzati per agire o gruppi paramilitari, secondo la stessa logica.

Un’altra eredità della narcoguerra, una realtà in aumento, sono i desaparecidos, un tema importante anche per il Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad (MPJD) e il suo portavoce, il poeta Javier Sicilia. Il Comité Cerezo e il grupo Hasta Encontrarlos hanno pubblicato un manuale su cosa fare in caso di sparizioni forzate: Manual: “¿Qué hacer en caso de desaparición forzada?

Dopo la nscita del MPJD, a cui abbiamo partecipato all’inizio, abbiamo realizzato attività di formazione per la loro commissione di documentazione. Quindi abbiamo osservato in quel movimento e nelle varie manifestazioni che c’erano carenze nelle pratiche di documentazione, mancava l’abitudine, e ora più o meno va bene. Quando l’anno scorso è venuto il relatore dell’ONU del gruppo sui desaparecidos, s’è riunito con le organizzazioni e la maggior parte dei casi che restano e che lui riprende come sparizioni forzate sono quelli che abbiamo documentato nell’ambito della campagna nazionale contro la sparizione forzata. Molti altri non sono passati perché mancavano dati.

Che cosa?

Mancava una documentazione e una spiegazione su che ruolo aveva lo stato. Perché la sparizione forzata è solamente quando lo stato partecipa in modo diretto o indiretto, perché c’è una concezione molto radicata che crede che il crimine organizzato non ha niente a che vedere con lo stato, mentre questa è una menzogna. A volte lo stato stesso è la delinquenza organizzata.

In che senso? Cos’è un desaparecido?

Beh, come in tutte le violazioni ai diritti umani, chi commette la violazione per definizione può essere solo lo stato in tre modi: “commette” la violazione, per esempio quando ordina direttamente a un suo gruppo repressore di farlo, “omette”, quando non fa nulla pur conoscendo le coordinate del pericolo per gli osservatori dei diritti umani o i cittadini in generale, oppure tollera per “acquiescenza”, quando realizza le violazioni o le tollera quando queste partono da singole persone, da privati fuori dalle istituzioni. Quel che si comincia a vedere qui è che proprio questa ipotetica delinquenza organizzata realizza omicidi e sparizioni, ma risulta che, nella maggioranza dei casi, c’è sempre un posto di blocco dell’esercito prima del posto in cui avviene il sequestro e non lo vedono mai, quando succede e quando se ne vanno. Allora c’è una complicità? Chiaro. Ti lascio passare, tu fai quel che vuoi e poi torni a casa. Così noi sembriamo sempre di più la Colombia, dove la cosa veramente difficile era documentare questa vicinanza dello stato alle forze paramilitari, il che fu molto evidente là a un certo punto. Qui non arriviamo ancora a un grado tale di evidenza, ma ci arriveremo a quel grado di cinismo delle forze armate…

Como documentate le sparizioni?

Facendo un lavoro con le famiglie, riempiendo un modulo pre-mortem CICR (Comitato Internazionale Croce Rossaa), uno post-mortem, registrando i motivi, il contesto, eccetera. Tra i casi di osservatori di diritti umani, se non ricordo male, tra il 2010 e il 2011, circa 29 o 30 di quelli che abbiamo certificato si riferivano a desapariciones.

In tutto il Messico?

No, quell’anno abbiamo potuto raccogliere i dati di solo 15 stati su 32, ma nell’ultimo rapporto dell’agosto 2013 abbiamo documentato 19 stati. Infine ci sono 2 stati nei quali non si sa che sta succedendo.

Ome avete vinto il Premio per la Pace di Aquisgrana in Germania?

E’ un premio che dà la città di Aquisgrana e va, in qualche modo, a contrastare un altro premio di quella stessa città che è per personaggi di destra. Dunque il riconoscimento viene dato da una giuria di 300 sindacati e intellettuali. Mandi la tua iscrizione, partecipi e lì si vede. T’intervistano qui in Messico, se ne vanno e decidono. Lo abbiamo ricevuto nel settembre 2012, la giuria ha scelto il Comité Cerezo e la mia persona come vincitori. Quindi siamo stati Germania, abbiamo fatto un piccolo tour, siamo stati alla manifestazione per la pace e ok. E’ un premio alternativo, molto conosciuto in Germania e un po’ in Francia. E’ andata bene, ma la conseguenza di questo premio è che non mi fanno più volare sullo spazio aereo statunitense. Sono in una lista di chissà che…

Quando te ne sei accorto?

Beh, mi han fatto scendere da un aereo per l’Europa. Non ho il visto americano, ma il volo era diretto. Solo che passava per lo spazio aereo statunitense.

Qual era la compagnia aerea?

Una, Iberia e l’altra non me la ricordo. Era passato un mese dal premio e dovevo andare a un altro incontro nell’Unione Europea. E’ successo quando ero ormai dentro all’aereo, come in un gioco perverso, dopo avermi controllato il passaporto e le verifiche di sicurezza. Andava tutto bene, mi han detto di passare, mi son seduto al mio posto e mi han chiamato per aspettare un’autorizzazione. L’aereo si muove, sta sulla pista e all’improvviso aprono la porta e mi dicono di scendere.

Che autorità te l’ha imposto?

Gli Stati Uniti, la homeland security. Però in Messico, nessuno mi ha avvisato. Siamo stati all’ambasciata USA, abbiamo chiesto tutto e nel dipartimento della homeland security abbiamo fatto tutto il possibile e quanto richiesto, mi hanno identificato, ma non è servito a niente. Lo abbiamo interpretato come una vendetta dello stato messicano per il premio ricevuto e perché io sono stato sempre qello che ha viaggiato di più all’estero per creare relazioni.

Como funziona il Comité dal punto di vista finanziario?

La sua base forte è la solidarietà della gente. Abbiamo un proverbio che dice che “la solidarietà con solidarietà si ripaga”. Che cos’è e come si manifesta? In tanti modi. Ci regalano vestiti, scarpe o la spesa, come organizzazione. Oppure ci regalano un sacco di riso e di fagioli, a volte fino a 70 kg che ci bastano per tutto l’anno! Tutto fa brodo. E poi c’è un’altra parte che ci sostiene quando questa solidarietà non basta e dobbiamo pagare cose in contanti. Quindi molti anni fa, abbiamo deciso di gestire una caffetteria come progetto economico che sostenesse il Comitato. Da quando sono uscito io, dal 2005, c’è questo spazio. Prima stavamo in un altro posto in cui si poteva ballare e organizzare concerti, lo spazio permetteva di tutto. Poi ci han mandato via e il collettivo che aveva questo spazio all’università, dove siamo ora, ci ha offerto di condividerlo. Siamo un’organizzazione piccola, ma la rete dei collaboratori è molto grande e ci permette di fare ciò che facciamo, cioè corsi, osservazione dei diritti umani, formazione, documenti, manuali, la Rivista Revuelta e le campagne di informazione e azione. Siamo tuti volontari, siamo un po’ della filosofia antica, direbbe la gente, per cui il compromesso è importante, è fondamentale lo stimolo morale e non quello economico. E c’è gente di ogni tipo, va detto. La caffetteria si chiama anche “macchina dell’umiltà” perché possiamo avere ruoli differenti tutti quanti, da chi fa il dottorato o è laureato.

 

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La lotta degli insegnanti in Messico https://www.carmillaonline.com/2013/09/07/la-lotta-degli-insegnanti-in-messico/ Sat, 07 Sep 2013 03:25:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9151 di Fabrizio Lorusso

EZLN warrior MegaMarcha 4S Mex DF 085 (Medium)

C’è un Messico in lotta contro le cosiddette “riforme strutturali” che scende in piazza (e ci resta). Il conflitto degli insegnanti con il governo e i parlamentari federali per la riforma educativa dura da alcuni mesi, ma nelle ultime due settimane ha raggiunto l’apice. Un presidio di insegnanti nel centro della capitale era presente già dall’8 maggio, ma pochi se n’erano accorti. Invece da agosto la CNTE, Coordinamento (Coordinadora in spagnolo) Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione, è in [...]]]> di Fabrizio Lorusso

EZLN warrior MegaMarcha 4S Mex DF 085 (Medium)

C’è un Messico in lotta contro le cosiddette “riforme strutturali” che scende in piazza (e ci resta). Il conflitto degli insegnanti con il governo e i parlamentari federali per la riforma educativa dura da alcuni mesi, ma nelle ultime due settimane ha raggiunto l’apice. Un presidio di insegnanti nel centro della capitale era presente già dall’8 maggio, ma pochi se n’erano accorti. Invece da agosto la CNTE, Coordinamento (Coordinadora in spagnolo) Nazionale dei Lavoratori dell’Educazione, è in sciopero indefinito e l’anno scolastico 2013-2014 non è ancora cominciato in migliaia di scuole. La combattiva Sección 22 di Oaxaca, forte di 74mila affiliati e già protagonista del conflitto del 2006, soffocato nel sangue dall’allora governatore dello stato di Oaxaca, Ulises Ruiz, rappresenta il gruppo più nutrito di professori in resistenza, ma i rinforzi questa volta sono arrivati da tutto il paese.

Il plantón

Dal 19 agosto il presidio dei maestri è diventato una tendopoli quindi l’attenzione mediatica s’è rivolta verso gli oltre 40mila occupanti, insegnanti di asili, scuole primarie e secondarie, che ormai vivono nella piazza principale del Messico. Ogni giorno realizzano atti di resistenza, bloccano le strade e l’aeroporto internazionale, chiudono le entrate dei palazzi del potere, fanno assemblee, sistemano le tende scardinate dai violenti acquazzoni di questa stagione piovosa e inclemente, e infine portano avanti le negoziazioni estenuanti con funzionari e parlamentari inviati dai partiti per fare melina. Le minacce avanzate da alcuni deputati della destra (PAN, Partido Accion nacional) di incarcerazione dei leader, che in realtà sono i “portavoce” del movimento, e di repressione violenta della protesta non hanno fatto desistere i docenti.

Ho provato a descrivere con una galleria fotografica (link qui), non solo con le parole, l’enorme tendopoli allestita dalla CNTE nella piazza centrale (lo zocalo) di Città del Messico. Nel plantón, il presidio-tendopoli, ore e ore di pioggia non spazzano via la speranza, anche se funzionano per scacciare i curiosi, i venditori ambulanti, in maggior parte commercianti della capitale, e le cattive notizie che arrivano dal Palazzo: nella notte dell’1S (primo settembre), con una sortita dei legislatori, è stata approvata dalla Camera dei deputati la Legge del Servizio Professionale Docente, oggetto delle negoziazioni tra i rappresentanti della CNTE, il governo e alcuni parlamentari. Uno sberleffo in piena regola.

Scene di vita e resistenza civile compongono un quadro di lotta metropolitana nella povertà e nella solidarietà, prestata da tanti abitanti della capitale e dalle famiglie dei maestri che da Oaxaca, dal Chiapas, dal Guerrero, dal Michoacan, dal Durango o dalla Bassa California, insomma da molto lontano, mandano viveri, sacchi a pelo, tende e vestiti, incoraggiamenti e affetto. Per i servizi igienici gli insorti si devono rivolgere ad alcuni abitanti della zona che prestano docce e bagni, a volte in cambio di piccole somme.

Nel pomeriggio del 31 agosto, quando sono stato per qualche ora in alcune tende del plantón, solo un gruppo ridotto di docenti, circa 10mila, si trovava a presidiare la zona visto che la maggior parte degli insorti era nelle rispettive comunità d’origine per il fine settimana. Mille insegnanti del Chiapas si sono integrati alla tendopoli in serata. Durante la settimana, anzi  già da domenica primo settembre in poi, sono state realizzate decine di manifestazioni.

MegaMarcha 4S Mex DF 472 (Medium)Ma che cos’è la CNTE?

C’è chi la vede come un vecchio rimasuglio di un mondo che fu, anacronistico e d’ostacolo per lo sviluppo e la “modernità” del paese, ma c’è chi la difende come ultimo baluardo contro il neoliberismo selvaggio, come un’organizzazione plurale e democratica a difesa dei veri interessi delle classi lavoratrici. Sicuro è che non va confusa con il SNTE, Sindacato Nazionale Lavoratori dell’Educazione, che è il sindacato ufficiale, allineato al governo.

Dall’aprile scorso la sua leader storica, Elba Esther Gordillo, è sotto processo per “uso di risorse dalla provenienza illecita” e attende la sentenza in prigione. E’ stata quindi sostituita da Juan Diaz, uomo fedele al presidente. La CNTE è un coordinamento, fondato nel 1979, che raccoglie gli insegnanti che hanno un pensiero critico nei riguardi del sindacato ufficiale. Questo è quasi un apparato paragovernativo del PRI (l’ex partito di regime tornato al potere nel 2012), mentre la CNTE si struttura come corrente democratica all’interno del SNTE e non è un sindacato a parte.

Fabrizio Mejía sulla rivista messicana Proceso del primo settembre spiega che “la CNTE è ciò che resta dei cosiddetti ‘coordinamenti di massa’, un tentativo di democratizzare i sindacati a partire dalle basi, in cui ogni sezione arriva ad accordi assembleari solo quando esiste un punto generale su cui si possono programmare azioni. Gli insegnanti, i lavoratori a cottimo ‘jornaleros’ e alcuni gruppi operai fecero parte, due decenni or sono, di questa dissidenza sindacale, ma oggi di tutto questo resta solo la CNTE”.

Attualmente la CNTE mantiene viva l’opposizione alla riforma educativa, che più che “educativa” pare una riforma (regressiva) del lavoro e dell’amministrazione, inviata al parlamento dal presidente Peña Nieto. Il Sindacato (SNTE) dorme. Anzi, fa spot a favore dell’iniziativa di Peña. La stragrande maggioranza dei mass media, TeleVisa e TV Azteca in testa, spara a zero sui maestri dissidenti, tacciandoli di “pigri e sovversivi” e mandando in onda programmi ridicoli atti a provocare ostilità da parte della popolazione della capitale, soprattutto della classe media imbambolata: interviste a conducenti incazzati per il traffico, bambini e genitori in lacrime perché la scuola non comincia, storie edificanti di maestri moderati e coraggiosi che sì “amano lavorare” e così via.

La riforma costituzionale

Dopo aver promosso la riforma degli articoli costituzionali riguardanti l’istruzione (il 3 e il 73) che è stata approvata dai tre partiti più grandi (PRD, PRI, PAN) nel febbraio scorso, il presidente ha spinto e ha ottenuto un’approvazione fast track delle leggi secondarie in parlamento. La riforma costituzionale di febbraio ha stabilito le basi per i cambiamenti nella carriera dei professori, nell’accesso a posti dirigenziali nella scuola e nel disegno e implementazione della politica educativa a livello primario e medio.

MegaMarcha 4S Mex DF 372 (Medium)Per esempio, è nato l’Istituto Nazionale per la Valutazione dell’Educazione e s’è stabilito che l’entrata nel “servizio docente” e la promozione a posti direttivi avverrà tramite valutazioni che garantiscano “l’idoneità delle conoscenze e delle capacità che corrispondono a ciascuna funzione”, e così gli stimoli e la permanenza in servizio dipenderanno dalla valutazione obbligatoria. Viene anche previsto, ed è un punto positivo, l’allargamento del tempo pieno, anche se buona parte delle strutture scolastiche attualmente non sono attrezzate a tal proposito. Molto polemica è stata l’approvazione di una specie di corresponsabilità gestionale ed economica per cui alunni, docenti e genitori, con il coordinamento della direzione, possono essere coinvolti (cioè dovrebbero in parte pagare di tasca propria) nel miglioramento delle infrastrutture, nell’acquisto dei materiali educativi e nella risoluzione di problemi operativi. Quindi le “quote volontarie” che versano per la scuola potrebbero diventare “obbligatorie”. Questi processi sono regolati dalle leggi secondarie che in questi giorni muovono la protesta nazionale.

Le leggi secondarie

A fine agosto quella sull’Istituto Nazionale per la Valutazione (INEE) e la Legge Generale sull’Educazione sono state approvate senza che l’opinione delle parti sociali e, soprattutto, degli insegnanti direttamente coinvolti nella riforma venisse presa in considerazione. In settembre è passata la terza legge, quella che tocca più da vicino la vita delle persone, dei maestri, e i diritti del lavoro acquisiti: la Legge sul Servizio Nazionale Docente.

In primavera mesi di dibattiti e convegni sul tema, in cui i docenti sono stati invitati a partecipare e hanno presentato le loro proposte dettagliatamente, non sono serviti a modificare la posizione dei parlamentari e del governo, per cui la CNTE ha provato a intavolare una discussione costruttiva, ma è stata scavalcata e beffata da false volontà di dialogo e prevaricazioni autoritarie. Dunque le ragioni delle manifestazioni sono molte e comprendono le richieste di migliori condizioni per le aule e i salari, oltre al nucleo costituito dalle tre leggi di riforma approvate frettolosamente.

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Settembre di piogge e manifestazioni: 1S e stato d’eccezione

Di nuovo come risposta all’indifferenza ufficiale, a Città del Messico il primo settembre c’è stata un’importante manifestazione di studenti, facoltà universitarie, organizzazioni sociali, parti del MoReNa (Mov. Rigenerazione Nazionale), semplici cittadini e alcuni gruppi anarchici contro la Riforma energetica e in sostegno degli insegnanti. Le iniziative in tutta la città e nel paese sono state tantissime. La manifestazione, nel primo pomeriggio, s’è unita a quella degli insegnanti della CNTE che si sono diretti a San Lazaro, sede della camera dei deputati messicana. Ci sono stati numerosi episodi di tensione, avvenuti durante la manifestazione e anche al termine della stessa, quando gli insegnanti, che formavano un cordone indipendente, stavano per ripiegare.

“L’imbottigliamento coatto” da parte della polizia puntava al controllo totale. L’effetto “collaterale” era quello di asfissiare e snervare, in particolare nei momenti in cui la doppia fila di granaderos in testa al corteo spezzava il ritmo della marcia e chiudeva i manifestanti, cosa che s’è ripetuta praticamente ad ogni curva. Nel contempo, gli scudi dei corpi antisommossa chiudevano la coda e i lati del corteo. E’ una modalità già sperimentata dal governo del presidente Peña Nieto e dai corpi di polizia della capitale a partire dalla giornata dell’1D, il primo dicembre 2012, in cui i poliziotti della capitale hanno serrato le file, chiuso ogni passaggio nel centro storico e infine hanno effettuato decine di arresti e pestaggi arbitrari. L’accerchiamento dell’intera massa popolare da parte della polizia (6mila elementi  in tenuta antisommossa) e l’enorme, sproporzionato, dispiegamento di forze rappresenta una strategia di contenimento che sfocia nella provocazione e nello stato d’eccezione. 

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La reazione della polizia dopo gli scontri s’è concentrata su “obiettivi casuali”, cioè persone individuate perché indossavano vestiti neri, o proprio senza criterio, che andavano fermate. Alla fine della giornata di protesta dell’1S ci sono stati sedici arresti di alcuni attivisti e giornalisti indipendenti. Nonostante la strategia intimidatoria, le manifestazioni vanno avanti e, va detto, per ora (per fortuna) non sono accaduti “incidenti” gravi né situazioni paragonabili a quelle vissute nel 2006 (terribili repressioni di Atenco e Oaxaca in particolare), ma non si può ancora prevedere come evolveranno la protesta e le forze in campo.

In questo video (LINK): l’arresto arbitrario di un giornalista dell’agenzia messicana indipendente Subversiones che ha filmato la propria cattura (leggi l’appello qui: lo stato sta imponendo cauzioni enormi per il suo rilascio!). Si chiama Gustavo Ruiz e stava filmando una squadra di poliziotti che trascinavano su una camionetta alcuni giovani e, come si fa in questi casi per evitare abusi o addirittura sparizioni e sequestri ai danni dei detenuti, stava chiedendo agli studenti i loro nomi e la facoltà di appartenenza. Come se niente fosse, all’improvviso, si ritrova lui “dall’altra parte”, viene strattonato, la sua videocamera cade e fa in tempo a registrare le sue urla e il suo nome.

4 settembre – 4S

La strategia di contenimento minaccioso e militarizzato della protesta non è stata applicata alle manifestazioni, durate oltre 8 ore, del 4 settembre organizzate nella capitale e in 22 stati. Questa galleria fotografica (Link qui per lo slideshow e foto) della manifestazione della CNTE è del 4 settembre (4S): dalle 10 del mattino oltre 30.000 insegnanti hanno manifestato a Oaxaca e 40.000 in Chiapas mentre in 20.000 hanno camminato per 8 ore nelle strade della capitale messicana, dall’Auditorio Nacional al palazzo del Senato. Proprio questa ramo del parlamento il giorno prima aveva approvato la Riforma Educativa dopo che la camera l’aveva fatto la settimana prima.

La cosiddetta riforma educativa è in realtà una riforma del lavoro dei docenti e dell’amministrazione di stampo neoliberista ed è parte del piano di riforme strutturali (lavoro, fisco, energia, educazione, politica) che il governo di Peña intende portare a termine entro i prossimi quattro mesi. Il grande scoglio, cioè queste proteste dei “maestri dissidenti”, gli unici per ora che abbiano saputo articolare un’opposizione vera, è stato superato, per ora, grazie a un falso dialogo depistante con i maestri e a una serie di votazioni notturne e blindate alle camere. Infatti, i tre principali partiti (PRI, PAN, PRD) stanno approvando riforme legislative e costituzionali in fretta e furia, nell’ambito delle larghe intese alla messicana, cioè dall’accordo di governo chiamato “Patto per il Messico” e sottoscritto dai loro leader all’inizio del governo di Peña 9 mesi fa. La CNTE ha fornito la cifra di 700.000 insegnanti mobilitati per il 4S a livello nazionale.

Quali sono gli elementi controversi della riforma da poco approvata dalle camere?

024 (Medium)Ormai esaurite le discussioni e approvazioni in parlamento, la CNTE ha chiesto al presidente di bloccarla con un veto perché:

Si applica retroattivamente contro chi già lavora nel settore educativo pubblico prescolastico, primario e secondario, in contrasto con l’articolo 14 della Costituzione, e colpisce tutti i lavoratori dell’insegnamento a livello federale, statale e comunale derogando i diritti acquisiti. Infatti, le autorità educative possono annullare i diritti dei lavoratori senza necessità di un intervento giudiziario e con la riforma il “lavoratore” diventa “soggetto amministrativo”, in contrasto con l’articolo 123 costituzionale.

Quattro questioni importantissime come il reddito/salario, la promozione, il riconoscimento e la permanenza nel posto di lavoro sono ora condizioni amministrative e smettono di essere considerati diritti lavorativi.

Si dà piena facoltà al Ministro della Pubblica Istruzione federale e al ministero (SEP), quindi anche al presidente della repubblica, di scavalcare la sovranità dei singoli stati per autorizzare i principi riguardanti i quattro punti precedenti e ordinare ai governatori locali di seguirli. Il ministero potrà imporre linee generali per la prestazione del servizio di assistenza tecnica alla scuola a livello di istruzione primaria.

Viene creato l’Istituto Nazionale per la Valutazione dell’Educazione (INEE) che potrà imporre e autorizzare, anche sorpassando l’autorità degli stati, i lineamenti ad ogni tipo di autorità educativa e organi decentralizzati per la valutazione riguardante le 4 questioni citate. La SEP e l’INEE potranno interpretare unilateralmente la legge per effetti amministrativi e l’INEE imporrà i processi di valutazione.

Non si contempla la partecipazione sindacale ai processi di osservazione delle valutazioni e si annulla l’intervento di qualunque associazione dei docenti. Le 4 tematiche di cui sopra (salario, promozione, riconoscimento e permanenza nel posto di lavoro) non saranno oggetto delle “Condizioni Generali del Lavoro” e il Lavoro Docente sarà sostituito dal Servizio Professionale Docente che implica la rappresentazione dell’insegnante come soggetto amministrativo isolato di fronte allo stato.

095 (Medium)I tribunali del lavoro sono sostituiti da tribunali amministrativi in caso di conflitto nei punti specificati. Scompare il posto fisso e si crea la figura dei contratti “a tempo fisso” di natura temporanea e quella dei contratti “provvisori” per coprire un vuoto, cioè un posto non occupato per meno di sei mesi. I contratti a tempo fisso e le vecchie “plazas”, i posti fissi a tempo indeterminato, saranno subordinati alle condizioni di questa legge e saranno assegnati solo dopo 6 mesi di servizio senza nessuna “nota negativa”.

Il cosiddetto “processo di compattazione” prevede contratti ad ore e così permette di frazionare il pagamento del salario ai maestri. Scompare il diritto di inamovibilità dal posto di lavoro. Chi decide di accettare un impiego o un incarico (anche nel sindacato) che gli impedisca di svolgere la sua funzione docente, o quella di supervisione o direzione, dovrà “allontanarsi dal servizio” senza ricevere il salario.

S’instaura un procedimento autoritario che permette il licenziamento o allontanamento immediato dalle funzioni docenti (con riassegnazione ad altre funzioni) senza che vi sia la garanzia di ascolto e contraddittorio prevista dalla legge sul lavoro. Inoltre si stabilisce come causa di licenziamento senza alcuna responsabilità da parte delle autorità il rifiuto di partecipare ai processi di valutazione, senza considerare il livello accademico e di esperienza/anzianità.

Stessa modalità anche nel caso in cui il docente non partecipi ai programmi di regolarizzazione docente o non ottenga un risultato soddisfacente nel primo o nel secondo processo di valutazione e non s’incorpori al processo di regolarizzazione. Se, nonostante la partecipazione ai programmi formativi, il maestro non supera il terzo processo di valutazione, viene escluso dalla docenza e riassegnato ad altre mansioni. Queste decisioni si considerano unilaterali.

Si cancella il diritto al reinserimento nel posto di lavoro o di indennizzo, tramite il pagamento degli stipendi sospesi, in caso di licenziamento ingiustificato Si stabiliscono 8 causali ulteriori per la cancellazione degli effetti della nomina senza responsabilità alcuna dell’autorità e senza previa risoluzione del Tribunale Federale di Conciliazione e Arbitrato. 

Infine è permessa la separazione dall’incarico quando il docente si assenta, senza una causa giustificata, per più di tre giorni consecutivi o tre non consecutivi in un periodi di 30 giorni: la separazione dal posto di lavoro è una decisione unilaterale e l’autorità che la applica è la stessa che decide circa la sua eventuale revisione, quindi è giudice e parte in causa. Dopo settimane di proteste il senato ha inserito una clausola all’ultimo momento, un semplice “contentino” per i maestri, che dice che il personale allontanato dal suo incarico per l’applicazione di questa legge potrà impugnare la decisione presso gli organi giurisdizionali competenti. Il quadro generale di precarietà del lavoro, però, non cambia.

176 (Medium)Cosa dice la CNTE?

La CNTE sostiene che l’entrata, la promozione e la permanenza dei docenti devono legarsi al diritto del lavoro e ai diritti sociali “senza banalizzare il processo etico e della pratica educativa” e in un manifesto d’opposizione alla riforma specifica alcuni punti fermi: la distinzione tra la CNTE e il sindacato SNTE di cui questa è parte ma come “corrente critica”, la difesa dell’istruzione pubblica e la sua trasformazione tramite una visione critica della realtà messicana, l’inutilità delle leggi in materia educativa per risolvere i veri problemi del paese come la disuguaglianza e la povertà, la costruzione di una controproposta è stata ignorata dalle autorità malgrado abbia visto la partecipazione di numerosi interlocutori, il riconoscimento dell’istruzione come un diritto sociale universale al di sopra di interessi privati, il rispetto dei diritti lavorativi, il compromesso con una formazione professionale docente iniziale e permanente che deve essere anche rispettato dal governo messicano, secondo le specificità di ogni regione del paese.

Sulla valutazione docente la CNTE ha proposto che 1) sia un processo formativo e qualitativo nelle sue tre modalità (autovalutazione, co-valutazione e valutazione dall’esterno, 2) rispetti la diversità culturale del Messico, basata su una pratica educativa integrale, che includa tutti gli attori educativi, 3) sia una valutazione intesa come mezzo e non come fine, che consideri le condizioni di vita dei bambini, dei giovani e degli adulti che formano l’universo degli studenti del paese, 4) che riconosca i bisogni di base della popolazione e 5) che migliori le condizioni dell’insegnamento e dell’apprendimento riconoscendo l’importanza dei loro contenuti universali.

Riguardo alla Legge Generale del Servizio Professionale Docente, la quale avrà effetto a partire dal 2015, la CNTE ribadisce il proprio impegno e compromesso con gli studenti e il popolo in generale per contribuire alla formazione di soggetti che sappiano reclamare per il rispetto alla propria forma di vita e sostiene che ha sempre rispettato le richieste e gli accordi pattuiti con il governo della repubblica attraverso il ministro degli interni. Infine, viene criticata la fretta con cui si vogliono legittimare leggi che non aiutano il miglioramento del processo educativo e lacerano il diritto sociale all’educazione. E di fatto camera e senato hanno approvato tutto (tre leggi secondarie) in un paio di settimane e hanno finto di negoziare con gli insegnanti che ora continuano ad occupare mezza città del Messico e minacciano di estendere la resistenza agli stati una volta che saranno tornati a casa.

Altro week end di fuoco

Marcha 1S Mex DF 032 (Medium)Sabato 7 è previsto il primo incontro nazionale degli insegnanti a Mexico City convocato dalla CNTE. Domenica 8 la CNTE, insieme ad altre organizzazioni sociali solidarie come gli studenti di YoSoy132 e Movimiento de los 400 pueblos di Veracruz, scenderanno in piazza per accompagnare l’evento dell’ex candidato presidenziale delle sinistre, Andrés Manuel López Obrador, e del suo Movimento di rigenerazione nazionale (MoReNa). Non è prevista un’adesione formale della Coordinadora all’evento, ma solo una libertà di scelta delle singole persone e un sostegno alla lotta più generale contro la riforma energetica. Non si sa ancora se l’occupazione dello zocalo di Città del Messico continuerà, ma è sicuro che la CNTE non abbandonerà la sua resistenza civile pacifica, dichiarata dopo l’approvazione della legge al senato il 4 settembre, che potrebbe trasferirsi nei diversi stati della federazione ed essere condotta a livello locale: disobbedienza civile, negoziazione di alcune condizioni stato per stato, proteste locali, riapertura del dibattito sulle leggi approvate, conquista progressiva della maggioranza all’interno del sindacato nazionale, aumenti salariali e scioperi sono alcune possibilità.

Marcha 1S Mex DF 063 (Medium)La CNTE ha comunque chiesto a Peña Nieto di porre un veto presidenziale sulle leggi e di ridiscutere, nell’ambito di un gran dibattito nazionale, l’intero sistema educativo. Ciononostante è poco probabile che il presidente segua il suggerimento dei maestri su una riforma che lui stesso ha proposto al parlamento…

Sono a rischio anche le famose “Feste patrie” per la celebrazione dell’indipendenza del 15-16 settembre che si svolgono nelle piazze centrali, presso la sede del potere politico nazionale o locale, in cui il sindaco della città o il presidente tengono un discorso e gridano il patriotico “¡Viva México!” per ricordare il grido lanciato dal prete Miguel Hidalgo che diede inizio al processo d’indipendenza dalla Spagna nel 1810. Quindi forse quest’anno il “grido” non sarà solo quello del capo di stato o dei governatori, ma risuonerà pure quello degli esclusi, quello del lavoro degno, quello della resistenza pacifica che sfida chi ormai non grida più e s’accontenta delle promesse.

 

 

 

 

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