Prometeo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La nostra guerra civile quotidiana: Athena https://www.carmillaonline.com/2022/10/12/una-tragedia-per-la-nostra-guerra-civile-quotidiana/ Wed, 12 Oct 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74272 di Sandro Moiso

«Guardate il dio incatenato e doloroso, il nemico di Zeus, il detestato da tutti gli dei, perché amò i mortali oltre misura» (Prometeo incatenato, Eschilo)

La guerra in Ucraina e, soprattutto, la disinformazione e la propaganda bellicista che la circondano sembra averci fatto dimenticare che in realtà una guerra altrettanto sfiancante e spietata percorre le strade e i quartieri periferici delle metropoli occidentali. Una guerra di classe tra lo Stato e i settori più disagiati della società che, ormai, non possono nemmeno più identificarsi collettivamente come “classe [...]]]> di Sandro Moiso

«Guardate il dio incatenato e doloroso, il nemico di Zeus, il detestato da tutti gli dei, perché amò i mortali oltre misura» (Prometeo incatenato, Eschilo)

La guerra in Ucraina e, soprattutto, la disinformazione e la propaganda bellicista che la circondano sembra averci fatto dimenticare che in realtà una guerra altrettanto sfiancante e spietata percorre le strade e i quartieri periferici delle metropoli occidentali. Una guerra di classe tra lo Stato e i settori più disagiati della società che, ormai, non possono nemmeno più identificarsi collettivamente come “classe operaia”. Ce lo ricorda, però, con forza il magnifico film Athena di Romain Gavras, prodotto e distribuito da Netflix, e co-sceneggiato con Ladj Ly già regista dell’altrettanto bello «Les Misérables».

La prima osservazione, la più semplice da fare, è che i giovanissimi protagonisti del film di Ladj Ly sono cresciuti, esattamente dello stesso numero di anni trascorsi tra quello (2019) e il film attuale (2022), e che la situazione di scontro e odio sociale in Francia, e nel resto delle periferie delle metropoli occidentali, non è affatto migliorata, anzi…

La trama prende le mosse dall’uccisione, dopo un alterco, di un giovanissimo ragazzo di origini nordafricane, Idir, ad opera di un commando vestito con le divise della polizia. Quando però il film inizia l’omicidio è già avvenuto e i rappresentanti delle forze dell’ordine cercano di rassicurare una folla preoccupata e nervosa e uno dei fratelli, Abdel (interpretato da Dali Benssallah), militare e veterano decorato delle guerre neo-colonialiste francesi nel Mali.

Il lancio di una molotov di un altro fratello più giovane, Karim (interpretato da Sami Slimane), è il segnale per un assalto al commissariato da parte dei giovani abitanti del quartiere ghetto di Athena.
Durante il quale gli assalitori riescono a portare via armi, mezzi, divise e caschi degli agenti, prima di ritirarsi tra le “mura” del ghetto. Da quel momento si dipana una autentica tragedia, ispirata sia a quella greca che a quelle shakespeariane.

Narrata per mezzo di lunghi piani sequenza in cui lo spettatore si trova coinvolto negli eventi, senza il tempo necessario per riflettere o decidere cosa sia effettivamente meglio fare, l’opera di Romain Gavras (classe 1981), figlio del regista Costa-Gavras e già autore di controversi e violente videoclip musicali e del lungometraggio Le monde est à toi (2018) oltre che di Our Day Will Come (Notre jour viendra) del 2010, si ispira infatti esplicitamente alla tragedia greca. Come ha affermato lo stesso regista:

Da sempre, sono ispirato dalla tragedia greca. Mi affascinano il suo significato metaforico, l’unità di tempo e il modo di trascendere la realtà. Era mio desiderio avvicinarmi a questo metodo di narrazione per tradurlo in immagini e creare una coinvolgente esperienza cinematografica.
Athena è una storia familiare ma racconta anche una storia più ampia: la forma della tragedia greca era quindi essenziale […] Crea l’impressione di svolgersi in tempo reale: come i personaggi in scena, neanche gli spettatori avranno il tempo di pensare. Sperimenteranno l’intensità del momento e lo vivranno a pieno. Il film abbraccia l’epico e il personale. […] Non ho paura dell’eccesso, dello spettacolo e della potenza delle immagini.

La funzione svolta dal coro nella tragedia greca viene qui svolta proprio dall’intensità e dal ritmo delle immagini che coinvolgono lo spettatore e lasciando allo stesso, se ne avrà il tempo, la possibilità di decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato nella sequenza degli avvenimenti.
Non tentano regista e co-scenggiatore, come era gia anche avvenuto con Les Misérables (recensito qui su Carmilla), di descrivere sociologicamente i fatti; quel che conta è penetrare all’interno dell’intreccio di sentimenti, passioni, interessi famigliari, di classe, criminali e istituzionali attraverso la rappresentazione “epica” e realistica allo stesso tempo dei fatti. Fatti sovra-determinati sì dalla situazione sociale, economica e politica delle banlieu francesi, ma allo stesso tempo guidati dalla hybris dei singoli protagonisti che, più che dar vita ad un’unica figura di eroe, mostrano le molteplici e disperate sfaccettature dello stesso. Inevitabilmente destinate tutte, come in Eschilo, alla sconfitta.
Un eroe, se si vuole, antico, tormentato dal dubbio e dal dolore oppure vinto dalla sua stessa superbia. Come nel caso di un altro dei fratelli, Mokthar (interpretato da Ouassini Embarek), che, pur colpito dalla perdita del fratello più piccolo, è interessato a perseguire i propri interessi criminali più che a essere partecipe della rivolta e della vendetta.

Toccherà a Abdel e, soprattutto, a Karim essere l’incarnazione metropolitana di Prometeo. Portatori del fuoco della violenza e della rivolta più che della conoscenza. Comunque e sempre incerta e tradita. Eroi orgogliosi e primordiali, annullati e azzerati dai fatti, lontani dall’immagine dell’Io borghese che troppo spesso accompagna le rappresentazioni degli stessi in altri contesti.

Le trame sfuggono di mano, le idee si confondono, le scelte sono dettate dal caso e dal momento, mentre l’unico che sembra perseguire una sua strategia di distruzione, pur fingendosi demente, è il militante radicale islamico. Unico ad essere lucidamente conscio del proprio e dell’altrui destino.
Mentre sullo sfondo della trama e dell’inconscio dei personaggi aleggia la figura di una Mater dolorosa magrebina che fin dai primi istanti sembra sapere che le sue sofferenze non solo non sono ancora terminate, ma destinate ad aumentare.

Un film lontano da ogni buonismo e da qualsiasi rigurgito ideologico che, pur poco o nulla pubblicizzato sui canali televisivi italiani durante l’ultima Mostra dell’arte cinematografica di Venezia di cui l’unica cosa che sembrava interessare erano le presenze delle star sul red carpet, proietterà tutti gli spettatori nelle contraddizioni, ineludibili e insanabili, di una società occidentale che si pretende ancora stabile, benestante e democratica. Riassunte tutte in un sintetico dialogo tra Abdel e la sorella, un attimo prima che la situazione precipiti:

«Qual è il tuo problema? Ti piace ancora obbedire agli ordini?»
«E’ meglio che non ci sia la guerra, specialmente qui.»
«Ma non capisci che è già cominciata la guerra?!»

(Qui il trailer originale del film)

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Il nuovo disordine mondiale / 14: Per disertare i due fronti, una riflessione https://www.carmillaonline.com/2022/05/12/il-nuovo-disordine-mondiale-14-una-riflessione-per-disertare-i-due-fronti/ Thu, 12 May 2022 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71871 di Sandro Moiso

In tempi cupi di guerra, in cui i paragoni e i paralleli tra guerra in Ucraina, Resistenza e guerra civile spagnola si sprecano e mentre le tentazioni da tifoseria calcistica si infiammano tra quegli stessi militanti che semplicemente alla guerra dovrebbero opporsi senza voler a tutti costi prender parte allineandosi a uno dei due fronti in lotta, potrebbe essere utile la lettura di una ricerca condotta alcuni anni or sono da Mirella Mingardo sul dibattito, e le conseguenti scelte politiche, che si svolse tra le fila dei militanti comunisti [...]]]> di Sandro Moiso

In tempi cupi di guerra, in cui i paragoni e i paralleli tra guerra in Ucraina, Resistenza e guerra civile spagnola si sprecano e mentre le tentazioni da tifoseria calcistica si infiammano tra quegli stessi militanti che semplicemente alla guerra dovrebbero opporsi senza voler a tutti costi prender parte allineandosi a uno dei due fronti in lotta, potrebbe essere utile la lettura di una ricerca condotta alcuni anni or sono da Mirella Mingardo sul dibattito, e le conseguenti scelte politiche, che si svolse tra le fila dei militanti comunisti italiani al deflagrare della guerra di Spagna.

In particolare la parte dedicata all’analisi che la Sinistra comunista italiana svolse in diretta sull’evoluzione dei fatti che avevano preceduto e accompagnato i primi momenti di quella guerra sulle pagine delle due riviste che la frazione italiana redigeva all’estero: «Prometeo» e «Bilan»1.

La Sinistra comunista, l’organizzazione che si richiamava al Partito comunista d’Italia negli anni della sua fondazione, prima che le imposizioni di Mosca ne cambiassero la natura, si poneva a sinistra del PCI. Quest’area, definita genericamente bordighista, con la scissione avvenuta al suo interno, nel luglio 1927, aveva visto una separazione tra il gruppo facente capo a Michelangelo Pappalardi – che si richiamava alle posizioni critiche di Rosa Luxemburg nei confronti del potere bolscevico – e la maggioranza facente capo a Ottorino Perrone, detto Vercesi, che per sfuggire alle persecuzioni fasciste riparò a Parigi nel 1926, divenendo il punto di riferimento dei compagni. Il gruppo di maggioranza, che si richiamava a Perrone, nel 1928 a Pantin, nelle vicinanze di Parigi, si costituì in frazione, e si definì “Frazione di sinistra del Partito comunista d’Italia”.

Il sollevamento degli operai spagnoli contro la rivolta militare che, nelle giornate di luglio del 1936, aveva dato inizio alla guerra civile, fu motivo di dibattito nella Frazione. Mentre una parte vedeva nell’insurrezione spontanea un inizio di rivoluzione, l’altra, al contrario, la riteneva un tumulto sanguinoso, impossibilitato a tramutarsi in una lotta rivoluzionaria. Tra i due gruppi prevalse quest’ultima corrente che, minoritaria da principio, divenne maggioritaria e faceva riferimento, oltre che a Perrone, a Virgilio Verdaro, che aveva partecipato alla fondazione del Pcd’I.

La maggioranza considerava la Spagna un paese capitalistico che, in quanto tale, avrebbe dovuto proiettarsi verso una rivoluzione comunista, ma mancava di un elemento essenziale: il partito rivoluzionario. Essa riteneva infatti che né il POUM né la CNT potevano dirsi forze realmente rivoluzionarie. Riteneva inoltre che il dirottamento delle masse proletarie, in rivolta contro la sollevazione nazionalista, nell’alveo del Fronte popolare e l’intervento dei paesi stranieri, Germania e Italia da una parte e URSS dall’altra, avevano ormai trasformato la guerra civile in guerra imperialista. Nel conflitto non vi erano due classi che si scontravano, ma due fazioni all’interno della stessa borghesia spagnola, con il sostegno dei due opposti blocchi imperialisti. Mentre Franco attaccava militarmente, le forze borghesi, che guidavano la Repubblica, manovravano e usavano i lavoratori, e li disarmavano ideologicamente.

In questo gioco il POUM e la CNT assumevano un ruolo importante nell’arruolamento degli operai per il fronte. Le due organizzazioni divenivano pertanto delle «pedine» nelle manovre del capitalismo che, per loro tramite, faceva «credere» al proletariato che si combatteva per il socialismo o l’anarchia. “Bilan”, il mensile della Frazione, pubblicato a Bruxelles dal 1933, metteva in luce come alla fine di luglio l’esercito repubblicano si fosse di fatto «dissolto», e come, invece, grazie al POUM, agli anarchici e al PSUC stalinista, il Partito socialista unificato della Catalogna, esso si fosse «ricostituito gradualmente con le colonne dei miliziani», il cui stato maggiore restava nettamente borghese.

Un motivo che, secondo la maggioranza della Frazione, induceva a sopravvalutare la sollevazione spagnola era dato soprattutto dagli esempi di collettivizzazione delle fabbriche e delle terre; in realtà questi episodi non potevano contribuire ad un rivolgimento sociale, in quanto non erano supportati da una rivoluzione politica per la conquista del potere sotto la guida del proletariato. «La socializzazione di un’impresa – ammoniva “Bilan” –, che lasci intatto l’apparato statale, costituisce l’anello di una catena che blocca il proletariato dietro il proprio nemico». Infine, le violenze e le distruzioni perpetrate contro i detentori di capitali, i preti, i proprietari fondiari, non avevano nulla di rivoluzionario: «La distruzione del capitalismo non è la distruzione fisica, anche se violenta delle persone che incarnano il regime, ma la distruzione del regime stesso».

In un momento in cui arruolarsi in difesa della libertà e contro il fascismo erano le parole d’ordine, il gruppo maggioritario contrapponeva, all’adesione al fronte repubblicano, la diserzione degli eserciti e invocava la fraternizzazione dei soldati, chiedendo di non andare ad offrire il proprio tributo nelle colonne internazionali e nelle milizie; raccomandava quindi di intraprendere la sola lotta possibile: la lotta contro la borghesia, favorendo l’insurrezione degli operai e la paralisi degli eserciti. «A chi ci dice che dobbiamo essere dove i proletari si battono, noi rispondiamo che combatteremo per ritirare fino all’ultimo operaio da queste armate di Unione Sacra, che lavorando accanitamente in Spagna e negli altri paesi, noi combattiamo per distruggere la macchina capitalista dell’oppressione, quella da cui sgorga fascismo ed antifascismo, per battere la borghesia, per cacciarla dalla comoda finestra che essa occupa attualmente e dove può fregarsi esultante le mani contemplando la carneficina del proletariato spagnolo ed internazionale.»

Un certo numero di militanti della Frazione, quelli che si ritrovavano nelle scelte della minoranza (sorta nel luglio del 1936 in occasione del dibattito sulla guerra in corso in Spagna, e facente riferimento ai napoletani Enrico Russo e a Mario De Leone, rifugiato a Marsiglia), partì invece per Barcellona dove fondò la Federazione Barcellonese della Frazione italiana della sinistra comunista e prese contatti con il POUM e con la CNT.

Giunto in Spagna, Enrico Russo, che era stato capitano durante la prima guerra mondiale, raccolse una cinquantina di compagni (circa venti trotskisti e una trentina di bordighisti italiani residenti in Belgio e in Francia), formando la “Colonna Internazionale Lenin” aderente al POUM, ne assunse il comando, andando a combattere sul fronte di Huesca. In agosto partì anche Mario De Leone, incaricato dalla Federazione marsigliese di recarsi in Catalogna come osservatore.

La minoranza di Russo e De Leone riteneva che le conquiste rivoluzionarie, economiche e sociali, delle giornate di luglio, fossero tali da imporre a ogni militante il dovere di battersi accanto al proletariato spagnolo contro il fascismo; poi la lotta sarebbe proseguita contro la democrazia e i suoi rappresentanti. Nella prima fase, scriveva un militante che si firmava Il Maremmano, «lotta armata contro la reazione che attacca e distrugge esistenze e organizzazioni, lotta politica contro la democrazia di fronte popolare e antifascismo denunziando al proletariato il ruolo che essa giuoca per salvaguardare le istituzioni borghesi ed i suoi privilegi, solo nella seconda fase quando il proletariato si sarà liberato della reazione di destra passare all’attacco frontale della democrazia che vorrà certamente opporsi alla distruzione completa delle istituzioni borghesi.»

Da principio, dinanzi a questa precisa scelta, non fu presa da parte della maggioranza, alcuna misura di espulsione. La minoranza, costituitasi in “Comitato di Coordinazione”, in un suo comunicato, approvava l’atteggiamento dei compagni che si erano recati in Spagna a difendere anche con le armi la rivoluzione, considerava già poste le condizioni per una scissione e rinviava la soluzione delle divergenze a un prossimo congresso. Ma in ottobre, con la militarizzazione delle milizie, i membri della minoranza che erano presenti in Spagna decisero di sciogliersi e, in seguito, la maggior parte di loro tornò in Francia2.

Quest’ultima parte è approfondita in un altro testo, di Augustín Guillamón Iborra, a cura del Centro Studi Pietro Tresso3, ma ciò che va qui sottolineato è che nel momento stesso in cui l’intervento dell’Internazionale Comunista stalinizzata e dell’URSS nella guerra spagnola iniziava a costruire strutture militari più rigide e autoritarie, mirando a inquadrare le formazioni militari “rivoluzionarie” all’interno di un esercito maggiormente controllato dalla borghesia spagnola e dagli inviati di Mosca, per i compagni che pur erano accorsi tra i primi a fianco dei proletari e contadini spagnoli apparve evidente il rintocco della campana a morto per tutta quella esperienza.

Campana a morto che risuonò tragicamente prima con le giornate di Barcellona durante le quali gli stalinisti imprigionarono e massacrarono i militanti del POUM e anarchici e, successivamente, nell’abbandono dei lavoratori spagnoli al loro destino dopo la sconfitta della Repubblica ad opera delle forze franchiste e la firma del trattato di non aggressione decennale Ribbentrop – Molotov, tra URSS e Germania nazista, il 23 agosto 1939.

Se in un primo momento il dibattito sviluppatosi all’interno della Frazione, i cui militanti dissidenti furono tra i primi a giungere in Spagna per combattere contro il fascismo di Franco, aveva dimostrato la complessità delle valutazioni di carattere tattico e strategico in un contesto in cui una guerra di carattere nazionalista e, successivamente, imperialista aveva contribuito alla sollevazione in armi degli operai e all’istituzione di consigli di fabbrica e comuni contadine che ridistribuivano le terre ai campesinos, la valutazione dell’abbandono del campo di battaglia da parte di coloro che pur avevano rotto con la Frazione agli albori della guerra dimostrò l’evidenza dell’inutilità della partecipazione ad una guerra che si era sviluppata a partire da esigenze borghesi o nazionaliste, in un contesto in cui i proletari e rivoluzionari, pur coraggiosissimi, avrebbero funzionato soltanto come carne da cannone.

Se tutto ciò è possibile dire oggi, ed era già possibile dire allora, in una situazione in cui l’attività e iniziativa proletaria e rivoluzionaria avevano per un periodo contribuito a determinare gli avvenimenti e ad accendere le speranze del proletariato europeo e internazionale, come si può pensare adesso, anche solo lontanamente, che lo stesso sacrificio possa essere messo in pratica da militanti, che si ritengono rivoluzionari, sia sul fronte del Donbass che su quello della “resistenza” ucraina, entrambi determinati da ben precisi interessi ed iniziativa di carattere imperiale, come l’altolà dato dal segretario generale della NATO Stoltemberg a Zelensky sulla possibilità di intavolare negoziati con la Russia ha confermato? Oppure si vuol ancora credere che nelle repubbliche indipendentiste sia in atto una nuova Comune, autonoma dalle scelte putiniane che hanno visto invece inquadrare nelle proprie operazioni militari le milizie di quelle due regioni?

Oltre tutto, l’unico parallelo che è oggi possibile tracciare con la guerra di Spagna è dato dal fatto che, esattamente come in quella, nell’attuale guerra si stanno sperimentando le tecniche, anche di comunicazione, e le armi destinate a contraddistinguere i futuri scenari di guerra europea e mondiale. Mettendo a confronto una tattica militare di carattere ancora novecentesco, come quella messa in atto dalle forze armate russe, con una più avanzata che gli Stati Uniti e i loro alleati più stretti hanno messo fino ad ora in atto soltanto su scala ridotta4, ma ora utilizzata su scala allargata nei confronti di un esercito regolare “tradizionale”.

Allora, meglio meno ma meglio per un movimento che voglia dirsi ancora antagonista e che, per rimanere effettivamente tale, dovrà affidarsi al buon vecchio antimilitarismo di classe. Quello che incita alla diserzione e all’affratellamento dei militari degli eserciti contrapposti e alla successiva o contemporanea rivolta sociale contro i rispettivi governi, di cui alcuni episodi avvenuti sul campo e la fuga di migliaia di giovani sia dalla Russia che dall’Ucraina per sfuggire alla chiamata di leva, sempre meno pubblicizzati, tenderebbero già a dimostrare una seppur remota possibilità5.

Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.

(Giuseppe Ungaretti – Mariano, 15 luglio 1916)

(14 – continua)


  1. Mirella Mingardo, I comunisti italiani e la guerra civile spagnola. La stampa clandestina (1936 – 1939), Quaderni di pagine marxiste – serie bianca, Milano 2016, pp. 246 – qui anche la sua versione disponibile on line  

  2. Sintesi delle pp. 99 – 104 del testo di Mirella Mingardo  

  3. Augustín Guillamón Iborra, I bordighisti nella guerra civile spagnola, in “Quaderni del Centro studi Pietro Tresso, Serie: Studi e ricerche, n. 27, 1993  

  4. Ad esempio l’uso su larga scala degli omicidi mirati tramite missili e droni, utilizzata precedentemente nei confronti di leader e comandanti militari iraniani, libanesi e palestinesi, ma oggi adottata nei confronti dei vertici militari russi  

  5. Si veda, a titolo di esempio, Daniele Raineri, Quei soldati ucraini allo sbando nel bosco. “Morale a pezzi, vogliamo andare a casa”, «la Repubblica» 30 aprile 2022 oppure i vari episodi riguardanti i militari russi che si rifiuterebbero di combattere sabotando i propri mezzi e disobbedendo agli ordini impartiti dall’alto o, ancora, il sabotaggio degli uffici di reclutamento in Russia – qui  

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L’opera aperta di Marx: un pensiero della totalità che non si fa sistema https://www.carmillaonline.com/2021/11/27/lopera-aperta-di-marx-un-pensiero-della-totalita-che-non-si-fa-sistema/ Fri, 26 Nov 2021 23:10:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69271 di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là [...]]]> di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là degli originari programmi di ricerca del rivoluzionario tedesco. Per comprendere questo carattere di apertura, sostiene Paolo Favilli nel suo ultimo libro A proposito de “Il capitale”, bisogna prendere in considerazione il rapporto tra la teoria marxiana e la storia, in un duplice senso. Da una parte bisogna comprendere fino in fondo la “fusione chimica” tra due dimensioni teoriche, quella economica e quella storica, che si intrecciano profondamente nella sua opera e in particolare ne Il capitale; dall’altra occorre capire come le vicende storiche concrete, e in particolare quelle del movimento operaio, abbiano inciso sulla ricezione, l’interpretazione e l’utilizzo del testo marxiano.

Per quanto riguarda il primo punto, bisogna partire dal fatto che per Marx dietro a ogni categoria, anche la più astratta,  c’è sempre una realtà concreta storicamente determinata, mai una realtà universale e eterna. La ricerca della logica specifica dell’oggetto specifico non può prescindere da un’incessante messa a punto degli strumenti concettuali che, per essere adeguati, devono con continuità consumare produttivamente una grande quantità di dati empirici.
D’altra parte Marx non è certo un empirista. Il capitale è, senza dubbio, un lavoro pensato attraverso la categoria di totalità anche se, ed è questo il punto su cui insiste l’autore, non si chiude mai nella costruzione di un sistema. L’opera del rivoluzionario tedesco è un “non finito” che combina Prometeo e Sisifo. 

Sforzo prometeico per abbracciare un insieme di relazioni tendenzialmente “totale” e nel contempo necessità di ritorni, ripartenze, modifica degli strumenti analitici per la comprensione della realtà del capitale in perpetuo mutamento.1

Detto altrimenti il pensiero di Marx è un pensiero della complessità, intendendo questa  categoria in due delle sue principali accezioni:

“complessità” come realtà multiforme, complicata, e “complessità” come realtà “complessiva”, un insieme costituito da parti intenzionalmente legate. … . Le parti non possono essere comprese se non nella prospettiva del tutto, e il tutto senza opera di ricerca empirica, teoricamente fondata, sulle specificità delle singole parti.2

Una complessità che possiamo vedere con chiarezza quando Marx si dedica allo studio di alcune aree coloniali e di marginalità nello sviluppo del capitalismo-mondo. Posto di fronte alla domanda del ruolo della comunità rurale russa per lo sviluppo del socialismo, Marx non fa predizioni sul corso necessario della storia, ma risponde con una serie di frasi ipotetiche. Solo se si fossero realizzate alcune condizioni storico-politiche per l’evoluzione della comunità di villaggio in un contesto di più alta civiltà si sarebbero potute materializzare traiettorie storiche diverse da quelle studiate nel caso del first comer (l’Inghilterra) e che erano servite come base per la costruzione del modello astratto marxiano.

Né la dissoluzione dell’obscina, né il suo sviluppo “come elemento rigeneratore” sono iscritte in una “fatalità” storica, bensì in una contingenza storica in cui operano elementi di determinismo, i diversi lineamenti di una storia di lungo periodo, e altri di volontarismo: le scelte politiche possibili.3

Nell’approccio di Marx, dunque, non abbiamo solo a che fare con la storia, ma anche con il presente come storia. Un presente il cui studio ci  permette di conoscere il  ventaglio di possibilità che ragionevolmente ci si può attendere dalle logiche dei processi in atto.
Ciò detto, non bisogna mai dimenticare che il Marx della maturità è soprattutto un economista politico. Tutto sta nel comprendere la peculiarità della sua concezione di questa materia. L’ambiente economico è sicuramente il primo piano del capitalismo, ma non è “disincarnato”. La riproduzione di rapporti sociali è comprensibile solo tramite l’indagine delle specifiche relazioni tra i membri della “società borghese”, gli “uomini in carne ed ossa”, e la catena delle mediazioni che li collega ai processi di accumulazione. Senza mai dimenticare il ruolo decisivo assegnato alla riproduzione delle forme ideologiche e di coscienza necessarie alla prosecuzione del processo di valorizzazione del capitale. La filosofia non è la strada principale per la critica marxiana delle categorie analitiche dell’economia classica, ma per questa critica rimane importante la “propedeutica dei concetti” e dunque l’utilizzo di una qualche forma di  pensiero filosofico, principalmente di tipo epistemologico.
Solo grazie a una concezione così articolata è possibile porre all’economia “questioni  di senso”, cosa che sarebbe insensata per la stragrande maggioranza degli attuali economisti. In questo contesto, per esempio, si può porre il problema dell’alienazione. Una questione che il giovane Marx pone in termini filosofici, ma che non scompare, pur tramutandosi, nel maturo critico dell’economia politica. Non bisogna però considerare l’alienazione come una situazione di scissione da un astratto ente generico, da una natura umana intesa in senso essenzialistico. Essa, piuttosto, va intesa come lo scontro, lo iato che si apre, all’interno della stessa modernità, tra le spietate logiche dell’accumulazione capitalistica e le potenzialità di realizzazione individuale e collettiva dischiuse dallo sviluppo delle forze produttive promosso dal capitale. Leggere il presente come storia apre alla comprensione delle diverse possibilità di emancipazione che si danno nel nostro mondo per le quali, però, non c’è alcuna garanzia di realizzazione. Consente di vedere lo scarto tra attualità e potenzialità del nostro presente. 

Da quanto fin qui detto appare chiaro che l’idea, spesso ripetuta, del marxismo come Bibbia del movimento operaio è quanto di più lontano possa esserci dagli obiettivi e dal metodo scientifico di Marx. Eppure questa idea è al tempo stesso vera se consideriamo la storia effettiva di un movimento che, nel momento della sua nascita, sentiva il bisogno di una conferma “scientifica”, di una garanzia “in ultima istanza” del suo “giusto” operare nella storia. E con questo arriviamo al secondo punto relativo al rapporto tra Marx e la storia cui abbiamo accennato all’inizio. Questo uso spesso distorto delle categorie di Marx si inscriveva comunque in un processo di crescita delle organizzazioni operaie e di consolidamento della loro autoconsapevolezza. Un processo che rientrava senza dubbio negli intendimenti di Marx. Il fraintendimento della sua opera, paradossalmente, era sempre  una forma di marxismo.
Alla fine dell’Ottocento, quando la maggioranza dei partiti socialisti si stavano costituendo dandosi un’identità “marxista”, il clima culturale e politico favoriva le logiche dell’“assoluta opposizione”. In molti paesi d’Europa nei loro confronti erano in vigore leggi fortemente restrittive, fino alla completa messa fuori legge. Anche i socialdemocratici  tedeschi, con una struttura solidissima e molti parlamentari tra le loro fila, si trovavano nella condizione di una nazione separata all’interno dello Stato. Non sorprende dunque che si sviluppasse una sorta di socialismo “integrale” che si proponeva di  elaborare strumenti concettuali a partire da una propria filosofia, una propria economia politica, una propria sociologia ecc. Un processo di separazione culturale di cui l’asse portante era il marxismo inteso non come una teoria del capitalismo, ma come una concezione complessiva del mondo che consentiva di individuare le tappe per l’affermazione del socialismo all’interno della società capitalistica.

I protagonisti del marxismo diventano movimenti sociali, movimento operaio organizzato, partiti socialisti, comunisti, poi addirittura “Stati socialisti”. Si tratta di marxismo strutturato che risponde a precise contingenze storiche. Semplificando, ma non troppo, si può dire che ciascuna delle “strutture” che ha necessità di assumere una “identità” marxista, s’inventa il marxismo di cui ha bisogno.4

Infine, a partire dalla rivoluzione russa, evento del tutto interno alla Grande guerra, il comunismo del Novecento assume per decenni le caratteristiche del “comunismo di guerra”. E la stessa lettura de Il capitale è soggetta alle leggi belliche. La correttezza della strategia politica e, talvolta, anche delle svolte tattiche, doveva essere dedotta direttamente dall’analisi scientifica. Arrivati a questo punto una “errata” interpretazione di Marx poteva portare alla fucilazione. Con il farsi stato del marxismo assistiamo ad uno scarto decisivo rispetto alla storia precedente che forse andrebbe sottolineato con maggiore forza di quanto faccia l’autore. La miscela instabile tra disciplinamento e autoemancipazione che aveva spesso caratterizzato le organizzazioni operaie, soprattutto quelle più strutturate, non regge più. Una funesta parodia del pensiero marxiano diviene instrumentum regni.
Rimane però il fatto che, a partire dalle vicende tragiche del comunismo di guerra, non si può ridurre la storia del comunismo stesso a una sequela di crimini. In questo modo, sottolinea Favilli, si dimenticherebbe che il pensiero critico ha potuto condizionare le tendenze totalizzanti e disumanizzanti dell’accumulazione capitalistica solo perché si è fatta resistenza reale, antitesi concreta al sistema dominante attraverso la storia del movimento operaio nelle varie forme politiche, sindacali, addirittura istituzionali. Insomma, nella storia dei comunismi sono presenti sia i momenti peggiori sia quelli migliori della storia umana: Gulag ed emancipazione.

L’incontro tra marxismo e movimento operaio, nelle molteplici forme in cui si è dato, non è il frutto di una necessità storica, ma il risultato di una possibilità. Anche se, a posteriori, possiamo dire si sia trattato di un’evenienza molto probabile, date le variabili in campo. Variabili che entrano in gioco in un preciso contesto, nazionale e internazionale. Per questo il ruolo del marxismo nel prossimo futuro non potrà essere, con ogni probabilità, quello del passato. Inutile invocare a ogni piè sospinto la ricostituzione di un autentico partito comunista quale deus ex machina in grado di risolvere tutti i nostri problemi.  Questo, però, non significa affermare che il pensiero di Marx non potrà avere alcun ruolo.
Conviene a questo punto seguire Favilli nella sua ricostruzione dell’evoluzione del pensiero politico di Marx che, dalla concezione quarantottesca di un partito d’avanguardia, passa, con l’adesione all’Internazionale, al tentativo di elaborare un quadro di riferimenti concettuali capace di allargare gli orizzonti del movimento reale, senza sovrapporsi alla sua effettiva esperienza. La forza dei testi scritti da Marx per l’Internazionale consisteva proprio “nella naturalità con cui venivano a coniugarsi il vissuto operaio nell’organizzazione di classe, la valorizzazione della sua esperienza, e gli orizzonti generali dell’emancipazione”.5
Resistenza e azione politica diventano i momenti centrali dell’elaborazione marxiana sull’organizzazione operaia. Si trattava di un modello di intervento intellettuale completamente interno al soggetto sociale che proponeva una “concezione forte di democrazia partecipativa, fondata su profondi e complessi processi di autoemancipazione collettiva”.6 Questo Marx, nota l’autore, potrebbe sembrare oggi quello più inattuale di fronte alla “crisi del soggetto della trasformazione, alla scomparsa della classe generale, e alla metamorfosi dell’attore sociale di massa in spettatore”.7 In effetti oggi l’antitesi ha perduto il nucleo centrale aggregante, la classe operaia dell‘Occidente industriale. L’antitesi però non è scomparsa e, soprattutto, non sono scomparse le condizioni per una sua ricostruzione.

Ora è possibile che la contraddizione capitale lavoro possa non essere percepita come centrale nel contesto della società liquida, ma è certo che nel suo ambito la ricostruzione dell’antitesi può avere funzione aggregante sull’intero panorama delle contraddizioni esistenti.8

Nel mondo contemporaneo assistiamo all’intrecciarsi di due differenti strati temporali: i flussi finanziari e informativi veicolati dalle reti informatiche globalizzate si intersecano con il ritorno su larga scala di forme di sfruttamento selvaggio non dissimili da quelle  sperimentate durante gli albori del capitalismo, quando la logica totalitaria dell’accumulazione non era contrastata da un’antitesi sufficientemente forte. Anche per questo c’è un elemento in comune tra il nostro presente e l’inizio della modernità nei riguardi della costruzione di questa antitesi: “senza la ‘resistenza’ non si inizia nessun percorso”. Oggi, come allora, la resistenza è necessaria contro il nuovo totalitarismo della funzione economica, contro il nuovo pensiero unico. Allora gli scioperi falliti, gli anacronismi di chi difendeva modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico crearono le organizzazioni nuove e il nuovo spirito collettivo. Nel capitale-totale del nostro tempo ci sono numerosi semi di quella stessa pianta e anche qualche germoglio. Non possiamo sapere quali daranno frutti. Sappiamo solo che in passato è successo e che certe condizioni di fondo del nostro lungo presente sono rimaste immutate. Per immaginare le possibilità che si aprono nel nostro futuro, dunque, possiamo certamente cercare di comprendere gli elementi di determinismo rintracciabili nella storia di lungo periodo, ma senza mai dimenticare il carattere in ultima istanza irriducibilmente antideterminista della storia.


  1. Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, p. 142. 

  2. Ivi, p. 356. 

  3. Ivi, p. 342. 

  4. Ivi, p. 233. 

  5. Ivi, p. 307. 

  6. Ivi, p. 310. 

  7. Ivi, p. 310. 

  8. Ivi, p. 526. 

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Gli Arditi del popolo, il PCd’I e l’irrisolta questione dell’organizzazione militare di classe https://www.carmillaonline.com/2019/12/11/gli-arditi-del-popolo-il-pcdi-e-lirrisolta-questione-dellorganizzazione-militare-di-classe/ Wed, 11 Dec 2019 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56642 di Sandro Moiso

Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro

Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)

In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa sott’olio e sigillata come le sardine che le promuovono, è sicuramente molto utile ripercorrere, [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Mantovani, Gli “Arditi del popolo”, il Partito Comunista d’Italia e la questione della lotta armata (1921-1922), Pagine Marxiste, 2019, pp. 184, 10,00 euro

Definitivo è il fallimento d’ogni programma di lotta costituzionale e morale (La catena, Emilio Lussu – 1929)

In tempi in cui le piazze “antifasciste” si riempiono di giovani inneggianti alla legalità, alla politica educata e non violenta e in cui la conflittualità di classe, ancora una volta, rischia di essere messa sott’olio e sigillata come le sardine che le promuovono, è sicuramente molto utile ripercorrere, dal punto di vista storiografico e politico, le vicende che portarono ad una netta distinzione tra l’organizzazione illegale del Partito fondato a Livorno nel 1921 e quella spontanea e diffusa, soprattutto in ambito proletario, di chi cercava di opporsi armi alla mano alla nascente minaccia fascista.

Una lezione, indipendentemente dai risultati conseguiti e dalle motivazioni politiche che alimentarono le differenti strategie e tattiche assunte dai principali protagonisti, che potrebbe rivelarsi ancora oggi decisiva per distinguere comunque il reale antifascismo da quello di facciata finalizzato soltanto a protrarre oltre ogni possibile limite la sopravvivenza dell’attuale ordine economico e sociale basato sul sopruso e l’oppressione di classe.
All’interno di un conflitto sociale che si muove oggi in un’aura già di guerra civile, nelle diverse aree del globo in cui si va manifestando, ma in cui una parte dei contendenti sembra ancora tardare nel prendere coscienza delle difficoltà e delle responsabilità che l’attendono nel confronto con la violenza dispiegata dagli Stati e dai loro apparati militari e repressivi.

Tale non secondario problema, evidentemente, nel periodo intercorso tra il 1919 e il 1921, fu invece centrale per l’organizzazione di chi, tornato dalla guerra oppure rimasto in officina, doveva fare i conti con la crisi economica successiva alla fine del primo conflitto mondiale e, soprattutto qui in Italia, con l’organizzazione della violenza armata delle milizie che, come quelle fasciste, affiancarono l’opera di controrivoluzione preventiva messa in atto dallo Stato nei confronti dei lavoratori e del proletariato e delle loro iniziative ed organizzazioni politiche e sindacali.

Certo, a differenza di oggi, l’idea della violenza ineliminabile da qualsiasi discorso sullo scontro di classe non era ancora stata cancellata dalla memoria di chi si opponeva all’esistente e alle condizioni di vita e di lavoro che ne conseguivano. E a questo avevano certamente contribuito anni di guerra e di macelli interimperialisti, la leva di massa, le sofferenze di coloro che erano rimasti a casa e la delusione dei reduci e dei sopravvissuti di un conflitto che aveva causato in Europa circa dieci milioni di morti e un’innumerevole quantità di feriti e dispersi tra le file dei soldati di ogni nazionalità.

L’uso delle armi era diventato massiccio e abituale per chi era stato al fronte, ma anche il corso degli avvenimenti precedenti e contemporanei al periodo di guerra (la settimana rossa, l’insurrezione di Torino dell’agosto del 1917, le rivolte per il pane e la terra e le occupazioni delle fabbriche del cosiddetto Biennio rosso) aveva determinato tra i proletari, gli operai e i militanti più decisi delle varie tendenze politiche contrarie al capitalismo una pratica diffusa di detenzione o una più semplice propensione all’uso delle armi per far valere i propri diritti oppure per difendere la propria vita, le manifestazioni, gli scioperi e tutte le strutture connesse all’organizzazione delle lotte (tipografie, sedi sindacali e di partito, case private dei militanti) dall’assalto delle forze della controrivoluzione preventiva: sia che si trattasse di quelle dello Stato che di quelle inquadrate nelle milizie fasciste.

Un’azione militare proletaria che ebbe nell’azione degli Arditi del popolo un’autentica punta di diamante nella risposta al Fascismo e che finì con lo scontrarsi sia direttamente sul campo che giuridicamente con gli apparati repressivi e militari dello Stato Regio.
Stato che sempre e comunque, ben prima della sua completa fascistizzazione, intervenne a difesa delle milizie nere sia a supporto della loro azione repressiva che per soccorrerle in caso di probabile o evidente sconfitta. Ragion per cui gli appelli successivi alla pacificazione o l’invito al ritorno alla tradizione democratica del parlamento e del governo, ancora nel 1924 dopo il delitto Matteotti oppure vent’anni dopo con gli appelli ai “fratelli in camicia nera” del 1938 o la formazione del CLN dopo la caduta del regime, sempre risuonarono, e non avrebbe potuto essere diversamente, come autentici tradimenti dell’iniziativa autonoma proletaria e dello spirito rivoluzionario che l’aveva spontaneamente animata fin dagli anni del primo dopoguerra.

Mantovani prende in esame, nel suo sintetico testo, un problema importante e significativo del rapporto tra organizzazione politica (il partito o i partiti) e azione autonoma del proletariato: quello dell’avvicinamento alle formazioni militari degli Arditi del popolo e del contemporaneo allontanamento di molti militanti dalla disciplina e dalle direttive degli stessi partiti, in particolare da quel Partito Comunista d’Italia che era nato da una scissione a sinistra dell’ormai decotto Partito Socialista.

Proprio la giovane dirigenza del partito, nato rivoluzionario sulla base delle indicazioni della Internazionale Comunista o Terza Internazionale, fu quella che con più decisione si oppose teoricamente e organizzativamente all’unione militare tra militanti del Partito, proletari non ancora inquadrati politicamente e ex-combattenti antifascisti e avversi a quell’ordine socio-economico che li aveva mandati al macello.

Questi ultimi avevano una composizione socio-politica molto diversificata al proprio interno: ex-militari di prima linea, volontari fiumani, anarchici, socialisti, repubblicani, comunisti provenienti da classi sociali diverse (studenti, piccoli borghesi, disoccupati, sottoproletari, lavoratori), ma uniti nel rifiuto dell’esistente e attivi nel rispondere alla minaccia e alle aggressioni fasciste.
Certo non potevano essere portatori di un programma politico ben delineato e definito e proprio da qui nacque l’equivoco, se vogliamo definirlo con un eufemismo, che portò l’allora segretario del Partito Amadeo Bordiga e buona parte del direttivo dello stesso ad opporsi alla pratica di collaborazione militare e a proporre un inquadramento militare, destinato soltanto ai militanti riconosciuti del partito stesso, all’interno delle strutture illegali del Partito.

Molti militanti non diedero ascolto a tali indicazioni (lo dimostrano le cifre delle adesioni agli Arditi del popolo di militanti definiti come comunisti) e ciò naturalmente causò irritazione negli organi dirigenti da una parte e dall’altra una serrata polemica tra la direzione del Partito e la Direzione dell’Internazionale e lo stesso Lenin, favorevoli invece ad una collaborazione militare tra il Partito italiano e le formazioni militari spontanee rappresentate dagli Arditi.

Mentre la dotta introduzione di Marco Rossi, già autore di diversi testi sul teme degli Arditi e del rifiuto della guerra, serve a inquadrare più generalmente il periodo e le pratiche spontanee di resistenza e di organizzazione paramilitare di chi, nel primo dopoguerra oppure durante la guerra stessa, si opponeva allo Stato borghese, al capitalismo, al nazionalismo e al fascismo, la ricostruzione di Mantovani si basa principalmente sulla documentazione e sui testi prodotti all’epoca dal Partito Comunista a direzione bordighiana e dall’Internazionale relativi al medesimo argomento.

E’ un lavoro interessante e, fortunatamente, critico delle formulazioni e delle pratiche messe in atto dal PCd’I in quei frangenti, ma nell’opera quasi ostinata di antologizzazione dei testi (molto ricca è infatti l’Appendice in cui si raccolgono i documenti, gli articoli e gli accesi contrasti tra Partito e Internazionale) rischia di cadere nello stesso errore di schematismo in cui caddero Bordiga e gli altri dirigenti del Partito (fatto forse salvo il caso di Gramsci) che ebbero come unico faro i compiti e i programmi del Partito stesso, senza tener conto delle proposte e delle nuove modalità organizzative e operative che giungevano dal basso e dalla società. Un dibattito che, per forza di cose, era destinato e sarebbe destinato tutt’ora, a rimanere racchiuso nel confronto ideologico e politico interno ad una minima frazione di proletariato e di militanti compresi all’interno del Partito di allora o di quello puramente immaginario di adesso.

In questo, però, occorre anche vedere anche un prolungamento di quelle pratiche bolsceviche e bolscevizzanti messe in atto proprio sulla base delle indicazioni provenienti dall’Internazionale per la formazione dei nascenti partiti comunisti: partiti di quadri e militanti rivoluzionari che dovevano guidare le masse in nome di un chiaro e ben definito progetto di azione tattica e strategica.
Una concezione dell’azione politica militante che non solo avrebbe portato nel giro di pochi anni alla degenerazione staliniana nell’Urss e nei partiti “fratelli”, ma che era riuscita di ostacolo persino agli inizi della rivoluzione russa quando, a febbraio, i rappresntanti del partio presenti a Pietrogrado si erano inizialmente opposti alle iniziative dal basso, di operaie, operai e soldati, che avrebbero portato nel giro di una settimana alla caduta dello Zar.

Una concezione e una pratica militare, quella ereditata dal partito bolscevico, più adatta all’azione armata ristretta delle fasi di difficoltà di un movimento (come quella attraversata dal partito bolscevico dopo la rivoluzione del 1905) piuttosto che all’azione generale di classe in un momento di guerra civile oppure pre-insurrezionale e rivoluzionario. Concezione ristretta che si sarebbe drammaticamente riverberata anche nei cosiddetti ‘anni di piombo’ e nelle tragiche e perdenti scelte operate dalle organizzazioni maggioritarie della lotta armata italiana a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.

Se non sbaglio, poi, l’autore dimentica una specie di autocritica che lo stesso Bordiga avrebbe poi fatto sulle pagine di Prometeo, la rivista teorica del Partito sopravvissuta pochi mesi all’azione fascista statalizzata, riconoscendo l’importanza che il movimento dannunziano e l’impresa di Fiume avrebbero potuto avere come momento di rottura all’interno della società italiana se questa fosse stata riconosciuta dai vertici della Sinistra come una possibile componente del movimento rivoluzionario. Ma questa “autocritica” in realtà tale non era poiché all’epoca del movimento dannunziano il Partito Comunista non esisteva ancora e, quindi, la responsabilità poteva essere rovesciata interamente sul Partito Socialista.

Il testo di Mantovani, edito da Pagine marxiste, è pertanto utile dal punto di vista della conoscenza e diffusione delle teorizzazioni, pro o contro, dell’epoca, ma pecca ancora di una mancata e approfondita analisi delle componenti sociali e degli immaginari che determinarono tali scelte. E questo non è poco in un momento in cui, a livello mondiale, torna a delinearsi uno scontro di classe variegato e contraddistinto dall’essere più guerra civile che non “rivoluzione pura” come alcuni vorrebbero, cosa che condannerà inevitabilmente questi ultimi a ripercorrere ancora le stesse orme lasciate da altre sconfitte nella neve insanguinata della Storia.

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La nostra breve eternità è finita https://www.carmillaonline.com/2014/12/23/nostra-breve-eternita-finita/ Tue, 23 Dec 2014 21:00:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19728 di Sandro Moiso

joeIl 2014 è stato un anno tristissimo per la musica. Alcuni autentici giganti di quella musica che aveva contribuito a fare grandi gli anni sessanta e settanta se ne sono andati, anche se non mi dispiace pensare alle meravigliose jam session che si staranno già svolgendo in qualche angolo dell’Universo non ancora raggiungibile dalle sonde della NASA. Soltanto negli ultimi mesi Jack Bruce, Ian McLagan e, nella notte di domenica 21, Joe Cocker.

Tutti e tre inglesi, tutti e tre figli della working class, tutti e tre, e per vie diverse, maestri nel far transitare per la nostra esistenza [...]]]> di Sandro Moiso

joeIl 2014 è stato un anno tristissimo per la musica.
Alcuni autentici giganti di quella musica che aveva contribuito a fare grandi gli anni sessanta e settanta se ne sono andati, anche se non mi dispiace pensare alle meravigliose jam session che si staranno già svolgendo in qualche angolo dell’Universo non ancora raggiungibile dalle sonde della NASA.
Soltanto negli ultimi mesi Jack Bruce, Ian McLagan e, nella notte di domenica 21, Joe Cocker.

Tutti e tre inglesi, tutti e tre figli della working class, tutti e tre, e per vie diverse, maestri nel far transitare per la nostra esistenza quella impercettibile musica delle sfere, di cui già parlavano Pitagora e Platone, destinata a tenere insieme il cosmo.
Una vibrazione che negli anni sessanta e settanta si fece carne e spirito di milioni di giovani, proiettandoli con le loro speranza nell’eternità.

Joe Cocker era nato nel 1944 a Sheffield, orrenda città dell’acciaio che avrebbe così confermato che è dalla merda che nascono i fiori, e da buon proletario, prima di diventare famoso come cantante rock-blues, aveva lavorato prima come apprendista e poi come idraulico.
Ma aveva già la testa piena di stelle, come gli stivali che avrebbe indossato durante la sua storica esibizione a Woodstock.

E lì, molto prima che i suoi meriti fossero premiati con riconoscimenti ufficiali del governo e della corona inglese, aveva toccato il cielo, le aveva prese in pugno e le aveva regalate a cinquecentomila giovani riuniti sulla prateria della Yasgur’s Farm.
Aveva celebrato un rito, con movenze da sciamano spastico che avevano rapito la mente, le orecchie e il cuore anche di chi lo aveva visto soltanto nelle immagini del film.

Quello è il Joe Cocker che abbiamo amato di più, non quello dei duetti o quello della riproduzione in sedicesimo fatta da Zucchero Fornaciari. In fin dei conti lo abbiamo sempre preferito, così sudato, disperato e barcollante, anche a Kim Basinger e al suo spogliarello sulle note di You Can Leave Your Hat On.
With A Little Help From My Friends era altro, anche rispetto alla versione originale dei Beatles. Lì era diventata un inno, perché tutti avevamo bisogno di un piccolo aiuto da parte dei nostri amici e dei nostri compagni.

Era stata, e rimane a distanza di anni, l’esibizione più potente di quel festival. Più di quella di Hendrix, più di quella degli Who, più di quella di chiunque altro.
Un corpo ed una voce che traboccavano energia, sudore, passione. Uno sguardo allucinato proiettato verso un punto lontanissimo, probabilmente di un altro mondo. Mani che cercavano uno strumento invisibile, probabilmente a corde ma non ancora inventato. Unico come quel giovane cantante, in bilico sull’orlo di un buco nero che solo lui poteva vedere.

Joe Cocker and the Grease Band, così si era presentato sul palco di Woodstock il 17 agosto 1969, domenica. Gli altri erano Chris Stainton alle tastiere, Henry McCullough alla chitarra solista, Neil Hubbard alla ritmica, Alan Spenner al basso e Bruce Rowland alla batteria. Gli stessi che lo avrebbero accompagnato, insieme ad uno stuolo dei migliori musicisti americani, nel suo secondo album, edito nel novembre del 1969 a soli sei mesi dal primo.

Primo album che, naturalmente, si era intitolato With A Little Help From My Friends non solo perché il brano di Lennon e McCartney ne costituiva il cuore, il centro e il capolavoro, ma anche per la presenza di una compagine di musicisti che comprendeva Jimmy Page, Matthew Fisher, Stevie Winwood, Mike Kellie (ovvero la crema dei musicisti rock inglesi della fine degli anni sessanta) oltre ai soliti Chris Stainton e Henry McCullough.

Poi venne la lunga e, probabilmente dal punto di vista alcolico e lisergico, estenuante tournée americana del 1970, che diede come risultato un film e un doppio album (registrato al Fillmore East di New York il 27 e il 28 marzo 1970): Mad Dogs & Englishmen. In cui Joe riprende tutte le sue cover, perché quasi tutti i suoi successi di allora erano cover di canzoni precedentemente scritte ed eseguita da altri, rivitalizzandole e rendendo una versione straziante di Bird On A Wire di Leonard Cohen. La band è ancora una volta stellare, con Leon Russell al pianoforte e alla chitarra, Chris Stainton alle tastiere, Don Preston alla chitarra ritmica, Carl Radle al basso, Jim Gordon e Jim Keltner alla batteria, Chuck Blackwell alle percussioni, Jim Price e Bobby Keys ai fiati e Rita Coolidge tra le coriste.

Un documento straordinario per forza e commozione che segna però anche la fine del primo ciclo del nostro eroe e, forse, ne chiude anche la fase migliore nonostante i successi che torneranno a partire dagli anni ottanta. Mentre Jack Bruce e Ian McLagan hanno continuato a suonare fino all’ultimo come nei primi tempi, con la stessa rabbia e la stessa inventiva, Cocker si era, nonostante tutto un po’ imbolsito. Certo è stato Bruce a prendersi gioco della Thatcher, la Lady di ferro, e della sua scomparsa ancora nell’ultimo disco, Silver Rails, con un brano intitolato Rusty Lady, la signora arrugginita. Ed è stato McLagan a suonare ancora meravigliosamente l’organo, come ai tempi degli Small Faces, nell’ultimo album di Lucinda Williams. Mentre Joe si era, per così dire, appannato. Si era ripetuto ed era diventato un po’ una copia scolorita di se stesso e soltanto la voce gli impediva di diventare l’ombra di ciò che era stato.

Ma ora che se ne è andato, un po’ di eternità se ne andata con lui. La nostra.
Perciò se qualcuno non potrà fare a meno di santificare le feste, si ricordi che ascoltare in ginocchio e ondeggiando ad occhi chiusi la sua voce nel brano in cui spera ancora in un aiuto dagli amici può essere ancora il modo migliore per pregare. Ringraziandolo per tutta l’energia che seppe, anche solo per un breve momento, rubare al cosmo per donarla, come un novello Prometeo, a tutti noi.

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