proletarizzazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Economia di guerra / 3 – Fase due: incubo sulla città contaminata https://www.carmillaonline.com/2020/04/29/economia-di-guerra-3-fase-due-incubo-sulla-citta-contaminata/ Wed, 29 Apr 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59702 di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo. Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione [...]]]> di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo.
Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione della pandemia ha generato un nuovo decreto presidenziale, pasticciato e, a molti tratti, incomprensibile. Che però conferma almeno una cosa: l’effettiva data di nascita della classe dirigente italiana.

Classe dirigente, politica ed economica, che nei decenni intercorsi dalla nascita della Repubblica ha cercato di darsi sempre nobili origini, sia che si trattasse di farle coincidere con il Risorgimento, con la Resistenza oppure con con il dibattito costituzionale intercorso nel biennio 1946-47. Mentre in realtà di tutt’altro si tratta, perché le mosse di questa classe dirigente concordano esattamente con quelle messe in atto l’8 settembre 1943. Una classe dirigente divisa allora e divisa oggi che concorda su un solo punto: colpire e schiacciare i lavoratori, i proletari e i cittadini. Destinati ad essere sempre, oggi come allora, abbandonati davanti al pericolo, da governanti in fuga e vili, capaci soltanto di cercare rifugio dietro alleati più potenti (ieri gli anglo americani o i nazisti tedeschi, oggi l’Unione Europea, i regimi autoritari caratterizzati dal nazionalismo oppure gli Stati Uniti di Trump), in grado di giustificare e appoggiare la repressione di ogni iniziativa di classe.

Nel caos di ordinanze, divieti, concessioni e regolamenti vari è chiara solo una cosa, che d’altronde era chiara anche prima: la priorità resta sempre il profitto e quindi l’unico motivo valido per uscire di casa è lavorare. Come se il Covid, al tavolo tra governo e parti sociali, avesse dichiarato di astenersi dal contagiare i lavoratori durante l’orario di attività1.

Per il resto, il distanziamento sociale permane pressoché invariato per tempi medio-lunghi. Oltre alle scontate ripercussioni sulla vita sociale e relazionale di tutta la popolazione e dei suoi “congiunti”, questa situazione apre scenari di profonda trasformazione delle nostre città e delle forme di vita e accumulazione che le attraversano.

Emerge adesso, come una delle contraddizioni centrali, la questione dello spazio pubblico e della sua agibilità: l’attraversamento delle città e l’accesso alle sue infrastrutture viene ora ridotto all’osso, come fossero un corridoio di connessione tra la casa e i luoghi di lavoro e approvvigionamento. Uno spazio svuotato quindi di ogni connotazione sociale e che, pertanto, mette in crisi tutte quelle articolazioni del mercato che ne permeano lo svolgimento quotidiano.
Per essere più chiari: quanti esercizi commerciali tra bar, ristoranti, pub, botteghe e piccoli negozi che vivono proprio di quel flusso, e che costituiscono una fetta enorme dell’occupazione italiana, possono vivere o anche solo sopravvivere di asporto e giravolte tra un’ordinanza e l’altra (con le loro immancabili multe, ammende e chiusure)? Quante di loro, già nell’immediato, dovranno liberarsi dei loro dipendenti per ridurre i costi di gestione?

Ecco servito un primo terremoto sociale: presumibilmente una fetta molto importante della sempreverde classe media italiana è ora sull’orlo di un precipizio chiamato proletarizzazione. Negozi chiusi con gestori e dipendenti costretti a trovarsi un nuovo sgobbo in un mercato del lavoro asfittico e reso ancora più stretto da una compressione dei consumi provocata dall’abbassamento dell’occupazione e delle retribuzioni. O, ancora, negozi indipendenti che per sopravvivere entrano nella filiera di quelle catene di franchising che possono ora fare la parte degli squali in un mare di pesciolini smarriti. In un caso o nell’altro, a lavoro perso o lavoro sotto nuovo padrone, un grosso pezzo di Italia domani si riscoprirà proletaria, forza lavoro che vende tempo e fatica al migliore offerente. Le serrande chiuse non si conteranno, quelle che porteranno nuove insegne, identiche tra loro, saranno sempre più comuni.

Probabilmente è finito il sogno dell’autoimprenditorialità per quella massa di persone che avevano deciso di vivere dei frutti del piccolo commercio. Rimane, ben più misera, la realtà dell’autosfruttamento implicito nello strato basso del popolo delle partite Iva, come manodopera senza sindacato e senza tutela pronta per un mercato del lavoro più feroce di prima.
Tra loro si troveranno anche le migliaia di nuove leve di corrieri, riders, facchini e fattorini, nuovi operai massa delle piattaforme di e-commerce e delivery, che correranno per le strade delle città a rifornire i consumatori di quei beni che non saranno più sugli scaffali del negozio, ma a portata di click e stretti nei loro imballaggi. Una figura finora relegata al rango di “lavoretto” da studente, che diventa ora una prospettiva di occupazione stabile.
Di una stabilità fatta di cottimo, rischi non assicurati, corsa alle briciole e arroganza padronale, di invisibilità nei tavoli di trattativa dei sindacati, una forma di sfruttamento d’avanguardia che si riverserà presto nello spazio di quei “garantiti” che credono ancora in una qualche forma di equità e tutela sociale.

Come il lavoro, lo spazio pubblico delle città è privato ulteriormente della sua linfa vitale e reso ancor di più terreno di caccia per i grandi capitali. Nulla di sconvolgente in realtà. La crisi non inventa quasi nulla, i processi erano in nuce o già in moto, più semplicemente si è schiacciato forte sul pedale dell’acceleratore.
Stanno prendendo forma nuove fratture, nuove condizioni di vita, nuove forme di sfruttamento e nuovi soggetti prodotti dal movimento del capitale che si rinnova e prende le forme del suo attuale contenitore pandemico.
Nuove forme di lotta e nuovi nemici ci sentiamo di aggiungere.

Ci si pongono davanti lavoratori insindacalizzabili che hanno come controparte diretta piattaforme informatiche che se ne fottono di qualsiasi mediazione, lavoratori che dagli uffici sono stati relegati in casa, atomizzati e ultraprecarizzati e con il costo di manutenzione del proprio lavoro sulle spalle, una classe media sventrata e al collasso, un corpo sanitario che dopo essere stato incensato vedrà una scure di tagli alla spesa abbattersi sulle loro condizioni lavorative, una torma difficilmente quantificabile di disoccupati e sottoccupati con un accesso scarso o nullo alle risorse e al lavoro.
Quali forme di lotta e parole d’ordine emergeranno in seno a questi soggetti è ancora tutto da scoprire, quel che è certo è che si rende necessaria una nuova composizione di classe in grado di muovere un conflitto a 360 gradi a quest’ennesima ristrutturazione emergenziale del capitale e che un terreno di lotta comune si darà già nell’attraversamento dello spazio pubblico e dell’accesso alle risorse che esso conserva. L’eterno conflitto tra capitale e lavoro che i padroni hanno buttato fuori dalla porta, bisogna ricacciarglielo dentro dalla finestra.

È necessario cioè dare battaglia nei nodi dell’accumulazione frammentati nelle città e nei loro bordi: nei luoghi di lavoro dove ancora si concentrano i corpi e le merci, fabbriche uffici o magazzini che siano, è da trovare il primo terreno di lotta e organizzazione; fuori, agli angoli delle strade dove sostano i rider o nelle case dove si lavora al pc, è necessario riorganizzarsi e trovare altrettante forme di blocco del flusso di merce.
Ma soprattutto, un piano di ricomposizione che si dà oggi per queste figure e che incide proprio sull’accumulo di capitale, è quello del reddito indiretto, della distribuzione della ricchezza; nessuna campagna su fantasmatici redditi universali, ma battaglia per l’appropriazione dei beni: dal cibo alla casa, dai vestiti alla salute, dal consumo di socialità all’istruzione, se tutto è stato messo a valore e ci viene imposto di pagarlo, tocca riprenderlo con la forza. Questa decennale opera di messa a valore della vita ha trasformato la città in merce, allora è venuto il momento di espropriarla. Questo significa riprendersi lo spazio pubblico: agirlo per impossessarsi della ricchezza prodotta, torcerlo da luogo di mercato a base d’organizzazione politica. Costruire sulle necessità di vita la linea di rottura.

L’autorganizzazione per fare fronte ai bisogni reali deve quindi uscire definitivamente, una volta per tutte, dall’alveo della solidarietà umana e iniziare a darsi una sua forma politica e antagonista, e per farlo non può prescindere dalla verità del vecchio slogan “riprendersi la merce”: solo mettendoci in condizione di prendere i beni lì dove sono, di imporre le priorità della vita su quelle del profitto, possiamo costruire una forza reale che non è solo mutualità, ma guerra di classe e crescita delle opportunità, nonché una prospettiva e un’attitudine adatta a tutti quei soggetti che fino a ieri la spesa potevano farla e che oggi non si vogliono certo rassegnare al pacco alimentare.
E se le manifestazioni e gli assembramenti sono vietati per limitare il contagio, se gli scioperi ledono l’irrinunciabile interesse nazionale, praticare rotture del dispositivo e recuperare una tendenza all’azione autonoma e anche illegale diventa più un’ovvia necessità che una enunciazione. E qui la radicalità trova il suo terreno di coltura e la creatività popolare il suo campo di sperimentazione.
È necessario allora sgomberare il campo dalle ambiguità in via preliminare e sganciarsi fin d’ora dalla retorica dell’unità nazionale che tutela solo i grandi affari: non possiamo negare la realtà della pandemia in virtù dei diritti individuali, ma di certo dobbiamo rompere con l’immobilità imposta da divieti la cui indecifrabilità fa il paio con l’abuso di potere.

L’aumento vertiginoso dei casi di arbitrio poliziesco e di violenze gratuite delle forze dell’ordine sarà certo figlio diretto di un caos giuridico, ma configura la nuova forma di rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini. In barba tanto ai garantisti democratici quanto ai fan della divisa, quello che la popolazione civile sperimenta oggi, è il volto della democrazia riservato finora agli antagonisti, agli ultras, ai migranti e ai marginali. Il nemico interno non è più un’esigua minoranza. Il nemico si annida in chiunque si muova in strada (o anche tra le mura domestiche, perché no?), in chiunque incappi negli spazi in cui l’arbitrio dello Stato può agire il suo pugno di ferro. Questa è la nuova configurazione dell’ordine pubblico democratico. È anche qui che la radicalità deve e può crescere. Poche lagne, non si pianga sulle botte della polizia, si riconosca una volta per tutte allo Stato il diritto a esercitare la violenza (che poi, tanto, non chiede mica il vostro permesso) per riconoscere finalmente il nostro diritto all’autodifesa e all’autonomia d’azione.

È finalmente arrivato il momento di finirla con i politicismi, con le figure sociali astratte, con le battaglie di principio; il nemico sta superando l’impasse ed è già passato all’offensiva e sotto attacco ci siamo tutti. Non c’è più spazio per moltitudini cognitarie, fratellanze e favolosità varie; è di fame e freddo, di sangue e merda che si parla adesso. E chi pensa ancora di poter stare a fare le sue disamine di lana caprina, mentre c’è la tempesta fuori dalla sua porta, o è un ottuso o è in malafede, in ogni caso non è qualcuno a cui prestare l’orecchio.

La normalità di ieri è bella che morta e un abisso si apre davanti a noi, è ora che lo si capisca bene, e non si creda nemmeno di essere arrivati alla fine della Storia, alla resa dei conti. Niente è finito e niente finirà mai da solo: una nuova normalità, peggiore di quella di ieri, può mettersi comoda tra i nostri giorni e assuefarci di nuovo al suo triste spettacolo. L’unica possibilità che abbiamo adesso è tuffarci dentro l’abisso e liberare un maelstrom che inghiotta questo presente, con le sue normalità ed emergenze, una volta per tutte.


  1. Come ha affermato Paolo Giordano nell’editoriale del Corriere della sera del 27 aprile, La fase 2 e noi:

    “Alla vigilia dell’8 aprile, quando è stato revocato il lockdown di Wuhan – un lockdown molto più rigido del nostro –, la Cina intera dichiarava 62 nuovi casi, la maggior parte dei quali importati. Il giorno precedente 32. Ieri, in Piemonte […] i nuovi infetti confermati erano 394. Nella Lombardia limitrofa 920.
    Però apriamo. O meglio, iniziamo ad aprire, perché lo fanno anche gli altri, perché si avvicina l’estate e sotto sotto speriamo che il caldo ci dia una mano; perché ci auguriamo di aver imparato una serie di norme e di mantenerle a lungo, perché il virus forse, chissà, si dice, è diventato meno aggressivo. In realtà, abbiamo chiuso in ritardo per salvaguardare il comparto produttivo e apriamo adesso, raffazzonati, per salvaguardare il comparto produttivo.

     

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ADDIO AL LAVORO? https://www.carmillaonline.com/2017/10/04/addio-al-lavoro/ Wed, 04 Oct 2017 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40843 di Alessandro Mantovani

Ricardo Antunes, Addio al lavoro? Le trasformazioni e la centralità del lavoro nella globalizzazione, Venezia, Edizioni Cá Foscari, 2015.

“Un cataclisma, e il suo lucido narratore” si intitola la bella introduzione di Pietro Basso alla nuova edizione del volume del brasiliano Ricardo Antunes. La prima uscì nel 1992 per le edizioni BFS (Biblioteca Franco Serantini) di Pisa. Rispetto a quella, la recente edizione è notevolmente arricchita e gode di una traduzione completamente rivista, e di una nuova, densa Prefazione dell’autore. Ordinario di Sociologia presso l’Università di Campinas, non molto [...]]]> di Alessandro Mantovani

Ricardo Antunes, Addio al lavoro? Le trasformazioni e la centralità del lavoro nella globalizzazione, Venezia, Edizioni Cá Foscari, 2015.

“Un cataclisma, e il suo lucido narratore” si intitola la bella introduzione di Pietro Basso alla nuova edizione del volume del brasiliano Ricardo Antunes. La prima uscì nel 1992 per le edizioni BFS (Biblioteca Franco Serantini) di Pisa. Rispetto a quella, la recente edizione è notevolmente arricchita e gode di una traduzione completamente rivista, e di una nuova, densa Prefazione dell’autore. Ordinario di Sociologia presso l’Università di Campinas, non molto conosciuto e tradotto in Italia, Antunes è ben noto, a livello internazionale, a quanti abbiano seguito il dibattito, ormai pluridecennale, intorno al lavoro e alla marxiana legge del valore nel contesto della globalizzazione.

Il cataclisma in questione è, appunto, quello che – con l’affermarsi del “neoliberismo” o del “post-fordismo” che dir si voglia – ha violentemente investito la condizione dei proletari; d’un lato mutandone radicalmente lo “statuto” nei paesi fino al secolo scorso patria quasi esclusiva del capitalismo, dall’altro estendendone e allargandone la presenza a livello internazionale, nell’area asiatica soprattutto.

I due sviluppi, nel libro di Antunes, già tradotto in molte lingue, sono posti sotto il comune orizzonte teorico della globalizzazione, giacché, giustamente, essi sono complementari e si spiegano e sostengono a vicenda. Colti nella loro totalità, infatti, essi permettono di rispondere alla domanda Addio al lavoro? con un deciso no! Non solo non è in corso nessuna “fine del lavoro” ( come altresì sostengono Jürgen Habermas, Jeremy Rifkin ed altri), anzi, il numero dei salariati è enormemente cresciuto alla scala globale.

Anche nei paesi di capitalismo (stra)maturo, del resto, non assistiamo affatto ad una “sparizione” – come pretende ad es. André Gorz nel suo Adieux au prolétariat (1982) – della classe lavoratrice. Se da un lato la diminuzione (non certo scomparsa) degli operai di fabbrica è innegabile, dall’altro ha luogo una “salarizzazione”, ossia tendenziale proletarizzazione, “delle classi medie” (p. 67), ma soprattutto dilagano precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, ed il sorgere di nuove forme di appropriazione del pluslavoro attraverso lavori atipici, falso imprenditorialismo, false cooperative, lavoro gratuito (vedi stage) e così via,

Tutto ciò costituisce per Antunes una “nuova morfologia del lavoro”, che vede dunque nascere e crescere quello che qualcuno (ad es. Robert Kurz) ha chiamato “proletariato post-industriale”, e che molto più semplicemente, ma più correttamente, Antunes definisce “proletariato precario moderno” (malgrado la spinta finanziarizzazione dell’economia capitalistica contemporanea, e l’importanza assunta dalle produzioni “immateriali”, siamo infatti lungi, anche nei paesi avanzati, da una società senza produzione industriale). Di questo proletariato fa parte anche la crescente quota di lavoratori del settore dell’informazione e dell’informatica, il cosiddetto cybertariato (definizione di Ursula Huws) o infoproletariato, una parte del quale, e non la più numerosa, si trova al vertice della gerarchia di questa nuova morfologia del lavoro, mentre una percentuale crescente di lavoratori (inclusi i cyber-infolavoratori) subisce una situazione di crescente instabilità e privazione di diritti.

Differentemente da Kurz e (aggiungiamo noi) da Toni Negri, che però curiosamente qui non viene mai citato da Antunes, quest’ultimo ritiene che l’apparizione di tali forme di proletarizzazione, incluse quelle legate all’informatizzazione, non implichino il venir meno della legge marxiana del valore, e tanto meno una forma di emancipazione del cosiddetto “lavoro cognitivo”:1

“L’ampio processo di ristrutturazione del capitale, scatenato su scala globale agli inizi degli anni Settanta, ha un carattere multiforme: da un lato presenta tendenze all’intellettualizzazione della forza lavoro […], dall’altro accentua, su scala globale, i livelli di precarizzazione e informalità […]. La nostra ipotesi centrale è che nel mondo capitalistico contemporaneo, lungi dall’esserci una contrazione o un allentamento della legge del valore, sta avvenendo un significativo ampliamento dei suoi meccanismi di funzionamento, nel quale è emblematico il ruolo svolto dal lavoro – è ciò che definisco la nuova morfologia del lavoro.
Un’analisi del capitalismo nell’era della sua mondializzazione e finanziarizzazione ci obbliga a comprendere che le forme vigenti di valorizzazione del valore portano in sé nuovi meccanismi generatori di pluslavoro, nello stesso tempi in cui espellono dalla produzione un’infinità di lavoratori che diventano eccedenti, scartabili e disoccupati […] il che riduce ancora di più la remunerazione della forza lavoro su scala globale […].
In parallelo con l’ampliamento di grandi contingenti di lavoratori che diventano intensamente precari o perdono il loro impiego, stiamo assistendo anche all’espansione di nuovi modi di estrazione del pluslavoro e del plusvalore […]
Questa nuova morfologia del lavoro, mentre abbraccia i più distinti modi di essere dell’informalità, amplia l’universo del lavoro reso invisibile, mentre potenzia nuovi meccanismi generatori di valore, seppure sotto l’apparenza del non-valore, utilizza nuovi e vecchi meccanismi di intensificazione (ed anche di auto-sfruttamento) del lavoro. […]
In questo modo, l’informalizzazione della forza lavoro diventa il meccanismo centrale utilizzato dall’ingegneria del capitale per aumentare l’intensificazione dei ritmi e dei movimenti del lavoro e ampliare il suo processo di valorizzazione. E così facendo scatena un importante elemento propulsore della precarizzazione strutturale del lavoro” (pagg. 24-26).

“Pertanto, la mia ipotesi è che la tendenza crescente (ma non dominante) del lavoro immateriale esprima, nella complessità della produzione contemporanea, differenti modalità di lavoro vivo e, in quanto tale, partecipi […] al processo di valorizzazione del capitale. […]
Per richiamare un pensiero di Jean Marie Vincent (1993), l’immaterialità diventa espressione del lavoro intellettuale astratto, e non porta all’estinzione del tempo sociale medio del lavoro per la configurazione del valore ma, al contrario, inserisce crescenti coaguli di lavoro immateriale nella logica dell’accumulazione, inserendoli nel tempo sociale medio di un lavoro sempre più complesso, assimilandoli alla nuova fase di produzione del plusvalore” (pagg. 35-36).

Certo, il terremoto all’origine di questa nuova morfologia del lavoro, ossia la rivoluzione tecnologica che ha messo in crisi il modo di produzione fordista a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, ha implicazioni di grande portata: la crisi della centralità politica e sociale della fabbrica nella lotta di classe contemporanea si accompagna su vasta scala alla crisi dell’organizzazione e (almeno pro tempore) della capacità di organizzazione che il proletariato aveva allora espresso, mentre le nuove forme del lavoro salariato, disgregate e multiformi, e i sempre più numerosi disoccupati, non hanno ancora trovato la strada per esprimere in forma organizzata, continua e coerente, il proprio malessere sociale.

In sostanza, il processo di crescente “eterogeneità, complessità e frammentazione della classe lavoratrice” (p. 63) che Fine del lavoro? descrive, appare come la causa profonda della sua attuale incapacità di reagire all’attacco che da ormai quarant’anni il capitale le ha scatenato contro. Il che si esprime, in vari paesi di capitalismo maturo, nel crollo del numero dei lavoratori sindacalizzati e degli scioperi (peraltro ostacolati da una legislazione sempre più autoritaria) e nel momentaneo prevalere di una mentalità individualista tra proletari in feroce concorrenza nell’ambito di un mercato del lavoro sempre più ristretto e spietato, solo qua e là interrotta da episodi di resistenza (quali, non solo in Italia, quelli della logistica, un settore in grande espansione a livello globale).

Orbene: questi pur interessanti episodi prefigurano veramente – come sarebbe da augurarsi – la via che consentirà in futuro alla classe salariata di tornare alla lotta e all’antagonismo rivoluzionario? Nella visione marxiana, il proletariato non è classe rivoluzionaria per il suo angusto livello di reddito (che esso condivide con la piccola borghesia e il contadiname impoveriti, e che lo vede comunque in vantaggio rispetto al sottoproletariato), né soltanto in quanto classe produttrice del valore e della ricchezza sociale, e nemmeno, di per sé, in quanto il salario è antagonista del profitto nella distribuzione del reddito; tutto ciò – per Marx – non basterebbe se la classe proletaria non potesse trarre dalla concentrazione industriale ed urbana la forza sociale necessaria ad affrontare la borghesia ed il suo Stato, mentre la “disciplina della produzione” la educa e la predispone all’organizzazione; laddove il sottoproletariato, al contrario, per la sua socialità disgregata e precaria, sempre secondo Marx, non è in grado di esprimere un autentico antagonismo rispetto alla società borghese.

Se così è – visto che il processo descritto da Antunes potrebbe essere definito, volendo lanciare una formula provocatoria, come processo di “lumpen-proletarizzazione” (lui stesso parla di “de-proletarizzazione”) di vaste quote di lavoratori – , sorge allora la domanda: sarà davvero ancora in grado questo “proletariato precario moderno”, disgregato e frammentato, di rappresentare un fattore antagonista e rivoluzionario rispetto alla società presente? Non è domanda alla quale rispondere con leggerezza o formule ereditate dal passato.

“[..] nei contrasti scatenati dai lavoratori e dagli strati sociali esclusi, dotati di una certa dimensione anticapitalista – afferma Antunes – è possibile rilevare una maggiore potenzialità e centralità degli strati più qualificati della classe lavoratrice […]. O, al contrario, il polo più fertile dell’azione anticapitalista è costituito proprio dai segmenti sociali più esclusi, dagli strati più precarizzati? Non ritengo sia possibile rispondere pienamente, oggi, a questa domanda. Le metamorfosi sono state (e sono) di tale intensità che qualsiasi risposta sarebbe prematura. L’approccio più corretto è enfatizzare, sin d’ora, una necessità perentoria: che questi segmenti dell’eterogenea classe lavoratrice accettino la sfida di cercare i meccanismi necessari a rendere possibile la confluenza e l’unione di classe” (pagg. 97-98).

Tra questi meccanismi, Antunes indica, a nostro avviso acutamente, la capacità di “strutturare un sindacalismo orizzontale, meglio preparato per includere l’intera classe-che-vive-di-lavoro, superando così il sindacalismo verticale che ha predominato nell’era del fordismo” (p. 83).

Pur simpatizzando per “altre modalità di lotta sociale (come quella ecologica, femminista, dei neri, degli omosessuali, dei giovani, ecc.)” (p. 95), egli non ritiene che esse rappresentino le nuove forme centrali della lotta anticapitalista: si tratta, piuttosto, a suo avviso, di coniugare in modo corretto la lotta immediata dei salariati con la tendenza al superamento della società capitalistica. In particolare egli collega la rivendicazione immediata della riduzione radicale e generalizzata della giornata di lavoro, che considera fondamentale, con quella di una società che abbatta la barriera tra tempo di lavoro e tempo libero. Respinge infatti le concezioni che fanno del “rifiuto del lavoro” e della conquista del “tempo libero” gli obiettivi dell’emancipazione umana.

Purtroppo la sua formulazione positiva delle modalità di realizzazione delle rivendicazioni di cui sopra è ambigua: sposando infatti la parola d’ordine della riduzione della giornata di lavoro con “la lotta per l’impiego” per tutti (p. 120) e il pronunciamento del “diritto al lavoro” (che già Marx aveva criticato), senza specificare che queste rivendicazioni potrebbero realizzarsi appieno solo in un contesto rivoluzionario, Antunes – forse al di là delle sue intenzioni – lascia aperta la porta ad una strategia riformistica del movimento proletario.2

Malgrado ciò la sua critica ai teorici del rifiuto del lavoro è pertinente e (benché mediata da Luckács) tutto sommato fedele al dettato marxiano: i corifei del “no al lavoro”, innanzitutto, non ne colgono il valore ontologico, ossia costitutivo dell’essere umano (il quale, fin dalla preistoria, è anche un prodotto evolutivo del proprio lavoro, volto al soddisfacimento dei bisogni umani, ovvero naturali e sociali al tempo stesso); inoltre non ne colgono l’ ineliminabilità in quanto mediazione e scambio tra la natura e l’uomo.

Qui Antunes scrive le sue pagine migliori, avanzando quello che a nostro avviso è un contributo teorico alla definizione della futura società socialista: seguendo una suggestione di Ágnes Heller, sulla base della distinzione marxiana tra work e labour, il primo inteso come lavoro concreto, il secondo come lavoro quotidiano (il lavoro alienato dei Quaderni economico-filosofici di Marx), egli – tenendo conto della lezione di Istvan Mészáros – approfondisce l’aporia tra lavoro concreto, utile, originario (costitutivo dell’essere umano), produttore di valori d’uso, e lavoro astratto, indifferenziato, ossia quella misura sociale del lavoro, che è l’unica ad interessare il capitale, il quale se ne appropria, indifferentemente dal suo contenuto specifico (sia esso armi, droga, software o grano), ai fini dell’estrazione del pluslavoro e del plusvalore.

Su questa base, il socialismo può essere definito come la società in cui il lavoro (collettivo) è esercitato come lavoro concreto, utile, e perciò – in quanto emancipato dalla produzione di plusvalore – libero e in armonia con l’essenza creativa dell’essere umano 3

Questo suo contributo, per nulla banale, permette, tra l’altro, una critica delle società del “socialismo reale”, e del “produttivismo” (che per la verità era stata avanzata fin dagli anni ’50 da Amadeo Bordiga), anche se Antunes, che sembra in questo caso non rendersi conto delle stesse implicazioni del proprio discorso, ha a proposito dei “socialismi” storici idee non del tutto risolte: se infatti coglie giustamente una ragione del loro fallimento nell’arretratezza e nell’isolamento, e pur essendo consapevole dell’impossibilità del socialismo nazionale, ritiene, curiosamente, che essi siano “divenuti” capitalisti, a contatto col mercato mondiale, laddove in realtà essi “socialisti” non sono mai stati4

Ci troviamo comunque di fronte ad un testo di grande densità teorica. Proprio per questo, ci si aspetterebbe che l’autore, dopo averle enunciate, si apprestasse a dimostrare le proprie tesi con l’ausilio, se non di ricerche autonome, quanto meno di congrui dati, il che purtroppo non avviene: Antunes preferisce citare esempi sicuramente significativi, ma la cui generalizzabilità – pur ammissibile – è tutta da dimostrare e, quando, saltuariamente, ricorre ai dati, lo fa per lo più di seconda mano. In questo modo, la sua critica ai sostenitori della “fine del lavoro” (e/o del lavoro salariato) non può dirsi conclusiva. Ci auguriamo che questo compito possa trovare presto soddisfazione, e comunque Addio al lavoro? è un potente stimolo in questa direzione.

Detto questo a livello generale, e nell’impossibilità di esaminare da vicino tutti i nodi teorici da Antunes affrontati, ci pare tuttavia utile soffermarci almeno su uno di essi. Data l’importanza epocale dei cambiamenti intervenuti in quello che è stato chiamato anche, in modo generico, passaggio dal “fordismo” al “post-fordismo”, giustamente, il nostro autore avverte l’esigenza di una ridefinizione del concetto di classe proletaria. Parliamo infatti, nientemeno, che della transizione da un modo di produzione “rigido”, in cui predominavano i salariati industriali e le grandi concentrazioni proletarie, e che richiedeva una relativa stabilità della forza lavoro nonché un correlato grado di welfare, e che presentava un basso tasso di disoccupazione, ad un mercato del lavoro flessibile e frammentato, caratterizzato da una riduzione del lavoro stabile e da un esteso e strutturale esercito industriale di riserva, oltre che da una brutale riduzione dei diritti e dei servizi sociali di cui i salariati – sempre più precari ed instabili – godono. Si pone cioè il problema di come definire e descrivere questo nuovo proletariato, in cui il precariato è già oggi una percentuale importante, verosimilmente destinata a crescere. Ecco le parole di Antunes:

“Utilizzo l’espressione classe-che-vive-di-lavoro come sinonimo di classe lavoratrice, con questa espressione intendo enfatizzare il senso contemporaneo della classe lavoratrice (e del lavoro). Essa include:
1) tutti coloro i quali vendono la propria forza lavoro, includendo sia il lavoro produttivo, sia quello improduttivo (nel senso inteso da Marx);
2) i salariati del settore dei servizi e il proletariato rurale;
3) il proletariato precario, senza diritti, e i lavoratori disoccupati, che costituiscono l’esercito industriale di riserva;
4) esclude, naturalmente, i manager e gli alti funzionari del capitale, che ricevono redditi elevati e vivono di interessi.
Questa espressione include integralmente l’idea marxiana del lavoro sociale combinato, come presentata nel Capitolo VI inedito [del I Libro del Capitale].” (p. 172).

Parlare di “ classe-che-vive-di-lavoro” o lavoratrice, invece che di proletariato, non risolve tuttavia l’arduo problema. Si tratta di una definizione che affonda le sue radici nel socialismo d’antan e che risulta troppo generica, in quanto, presa letteralmente, includerebbe tutti i lavoratori, compresi dunque i proprietari dei propri mezzi di produzione (quali “artigiani”, contadini autonomi, ecc.), i bottegai, e quant’altro. È ben vero che Antunes specifica che così non è, ma in questo modo, appunto, la sua definizione della classe potenzialmente rivoluzionaria non corrisponde alle figure sociali che egli individua come sua parte. Anche l’inclusione “d’ufficio” dell’esercito industriale di riserva, che certo risale a Marx, non appare del tutto scontata se diciamo, come il nostro autore correttamente afferma, che un’ampia disoccupazione diventa un fatto strutturale, per mezzo del quale una parte crescente di questo potenziale esercito industriale di riserva è di fatto esclusa a vita dal processo di produzione, e rinuncia a (o perde la capacità di) farne parte (in altre parole si “de-proletarizza”).

Basso, nella già citata introduzione, senza direttamente criticare la formula di Antunes, preferisce il termine salariati, anche per il fatto che oggi “non pochi salariati rinunciano ad avere prole”. A nostro avviso parlare di salariato è sicuramente più appropriato che non di lavoratore. Si potrebbe obiettare tuttavia, da una parte che la forma “salario” include anche molte categorie non proletarie, dal poliziotto al funzionario statale, al dirigente, e così via; dall’altra che tale definizione tenderebbe ad escludere ciò che Antunes invece include, come nuove forme di lavoro quali cooperative fasulle, falsi lavoratori autonomi, ecc. le quali, pur non ricadendo sotto la forma del lavoro salariato, rappresentano forme di estrazione di pluslavoro

In attesa di una migliore definizione, quella di Marx, proletariato, senza essere mai stata perfetta, ci appare ancora quella che, al di là del suo significato etimologico, per il valore che ha storicamente assunto nel dibattito politico, traccia tutto sommato meglio i fluidi e mobili confini dei possibili becchini del sistema capitalista.


  1. Negri ed Hardt vengono citati una sola volta da Antunes in Il lavoro e i suoi sensi a p. 149, dichiarando il suo accordo con loro, il che è sorprendente, dal momento che essi si collocano appunto tra quanti considerano non più vigente la legge del valore come formulata da Marx  

  2. Senza superare del tutto queste ambiguità, ne Il lavoro e i suoi sensi. Affermazione e negazione del mondo del lavoro, 2016, Milano (la precedente edizione uscì nel 2006 per la Jaka Book col titolo Il lavoro in trappola, la classe che vive di lavoro) Antunes sembra propendere verso una prospettiva radicale e non gradualista e si sofferma più di quanto non faccia in Fine del lavoro? su questioni centrali del dibattito teorico contemporaneo quali il cosiddetto “lavoro immateriale” e il “lavoro produttivo”, con definizioni a mio avviso discutibili.  

  3. In verità, Antunes, anche per l’oggetto stesso del suo saggio, non svolge appieno tutte le implicazioni che la distinzione tra lavoro necessario e lavoro astratto apre. Fugaci – anche se non assenti – sono infatti, almeno in questa sede, i suoi cenni al carattere distruttivo della produzione capitalistica, non solo verso l’ambiente, ma anche nel senso di spreco di lavoro sociale in produzioni dannose o inutili e in lavori superflui, e sono oggi forse la maggioranza (questi temi sono comunque presenti ne Il lavoro e i suoi sensi, cit.). Assente invece il tema della dilapidazione di ricchezza sociale dovuta (indipendentemente e al di fuori delle crisi) alla costante sovrapproduzione e sproporzione fra i vari settori che è carattere essenziale della produzione fondata sul capitale.  

  4. Come anche Basso nota nella sua penetrante introduzione, Antunes definisce i paesi del “socialismo reale” quali paesi “post-capitalistici”, “società ibride, né capitaliste né socialiste” (p. 151) le quali, malgrado i propri “tratti interni anticapitalistici, come l’eliminazione della proprietà privata, del profitto e del plusvalore accumulati privatamente”, sono state soffocate dal mercato mondiale vivendo, a partire dal 1989, “un processo di ritorno al capitalismo” (p. 150). In realtà, come ha ad esempio dimostrato Amadeo Bordiga fin dagli anni ’50 del secolo scorso, tutte le categorie capitalistiche non sono mai venute meno nell’economia “sovietica”, non essendo la proprietà statale confondibile con il socialismo (cfr. in tal proposito, ad es., i segg. volumi, che raccolgono scritti di quegli anni: Amadeo Bordiga, Struttura economico-sociale della Russia d’oggi, Milano, Edizioni Il programma comunista, 1976; Amadeo Bordiga, Proprietà e capitale, Milano, Edizioni Iskra, 1980).  

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L’Internazionale Situazionista: merce, desiderio e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2017/07/17/linternazionale-situazionista-merce-desiderio-rivoluzione/ Mon, 17 Jul 2017 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39328 di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo [...]]]> di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.

Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
Nel corso degli anni Marelli ha pubblicato sull’argomento “L’ultima internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica” (Bollati Boringhieri 2000) e “Una bibita mescolata alla sete” (BFS Edizioni 2015). Inoltre ha curato, per il secondo volume de “L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico” (Jaca Book 2011), la voce “L’Internazionale Situazionista” ed ha sviluppato la sua riflessione sulla stessa attraverso una grande varietà di saggi e contributi pubblicati in volumi collettanei e su riviste, sia cartacee che online.

A darci la cifra della passione dell’autore per l’argomento basterebbero le poche parole poste al termine del Prologo, quando ricordando lo smarrimento provato in seguito alla notizia del suicidio di Guy Debord, che del movimento era stato il profeta e il leader indiscusso, mentre si trovava a Parigi con la speranza (vana?) di incontrarlo, scrive: “Improvvisamente il tempo, a Parigi, era cambiato. Faceva freddo e da allora non smise più”.

Ma la passione di Marelli si lega pure ad una grande lucidità che, a differenza di altri tardivi o antichi estimatori dell’Internationale Situationniste, gli permette di analizzare quanto è rimasto di vivo e quanto invece è stato riassorbito dalle logiche del potere e dalla società capitalistica di quella, pur vivacissima, esperienza. Come lui stesso ha affermato; “L’amara sconfitta del situazionismo e il bisogno di evitare la noia di un REFRAIN pro-situazionista sono concetti tutt’ora validi. Si tratta di ANDARE OLTRE. Come, del resto, avrebbe voluto lo stesso Guy Debord.

L’esperienza situazionista era nata dai fermenti dell’arte d’avanguardia successiva al secondo conflitto mondiale e dalle teorie critiche che, già dalla seconda metà degli anni ’40 del Novecento, avevano aggredito violentemente sia le passate esperienze surrealiste e dadaiste che l’urbanistica razionalizzante di Le Corbusier e la banalità della vita quotidiana, ridotta a sopravvivenza e a trionfo dell’ordine economico e sociale borghese, che i riti del consumo e le stesse strutture urbanistiche finivano con l’esaltare.

Un percorso che dal Lettrismo di Isidore Isou passerà, tramite rotture, separazioni ed espulsioni che ne caratterizzeranno sempre il cammino fino alla dissoluzione formale, attraverso la successiva Internazionale Lettrista (in cui sarà già preminente la figura di Debord), il movimento COBRA e il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista. Sarebbero stati questi tre movimenti, inizialmente separati, ad incontrarsi con altri artisti nel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi, tenutosi ad Alba dal 2 all’8 settembre 1956, e a porre le basi per la Conferenza del 1957 da in cui l’Internationale Situationniste sarebbe poi nata.

E’ una storia di correnti artistiche e urbanistiche radicali e di uomini, spesso di singoli individui, quella che caratterizza le origini del Situazionismo. E questo aspetto viene sottolineato dall’autore che, al contempo però, rifiuta di ricostruire le singole vicende individuali per dare più spazio invece alle formulazioni teoriche prodotte e ai risultati raggiunti dall’insieme dei suoi componenti (spesso momentanei).

Certo non mancano le figure di rilievo nella ricostruzione di Marelli. Dallo stesso e onnipresente Debord a Pinot Gallizio, dall’olandese Constant, a Raoul Vaneigem, Asger Jorn, Gianfranco Sanguineti e molti altri che occuperebbero qui, in una recensione, troppo spazio se fossero tutti elencati. Ma come ha scritto Marelli in altro contesto: ”La tendenza a raccontare non più LE PERSONE CHE FANNO STORIA (ce ne sono, fidatevi) ma LA STORIA DELLE PERSONE, ha impresso alla memorialista un carattere confidenziale, da fotoromanzo, che esaspera l’intimità personale fino a farla USCIRE DA SÉ IN UN’ESTASI ESPLICATIVA DEL TUTTO COLLETTIVO, così da “finalmente comprendere come i fatti andarono per davvero”. La problematica va trattata GENTILMENTE, sostenendone l’importanza, evidenziandone la particolarità, cogliendone le ambiguità, ma senza mai scadere nell’OLEZZO DI LENZUOLA STROPICCIATE”.1

Il personalismo delle vicende narrate conta per quanto ha potuto influire sul percorso e le rotture in seno al movimento e non certo per stuzzicare il voyeurismo del lettore. In fin dei conti l’”ultima” Internazionale era nata in un ambiente artistico ed intellettuale ristretto in cui le mire e le aspirazioni personali, anche se travestite in alcuni casi da critica radicale, finirono spesso col determinare quelle rotture e dimissioni di cui si è precedentemente parlato ancor più che le vicende del contesto socio-politiche circostante.

Vicende storiche e politiche che, però, non furono mai estranee alle vicende del Movimento. Basti pensare che le tre fasi più significative della storia dello stesso incrociarono fatti e vicende estremamente significative per il successivo sviluppo dei movimenti rivoluzionari.

Il 1956 con la rivolta d’Ungheria e la crisi “formale” dello Stalinismo corrispose a quel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi che vide i partecipanti esprimersi, in alcuni casi, contro gli apparati burocratici e senescenti dei partiti presunti proletari e a favore di una visione consiliarista della lotta politica.

Il 1968 con l’insurrezione generalizzata degli studenti e dei giovani prima e di una parte significativa del mondo operaio poi, che vide il trionfo delle teorie situazioniste sulla necessità di fare la rivoluzione a partire dal rovesciamento delle strutture della vita quotidiana e dal rifiuto della mercificazione di ogni attività umana.

Gli anni compresi tra l’inizio dei Settanta e il 1977, periodo in cui il Situazionismo si sgretolò organizzativamente proprio nel momento in cui le sue idee sembravano diffondersi sempre più attraverso i mille rivoli e le mille formulazioni dei movimenti di rivolta che avevano, in alcuni casi, superato le divisioni causate dalle camarille politiche e sindacali falsamente di sinistra. Troppo spesso falsamente estremiste.

E’ un ben strano destino quello che vede il Situazionismo agonizzare proprio nel periodo in cui le sue critiche più audaci agli ambienti “militanti” dell’estremismo parolaio sembravano aver maggiormente attecchito a livello di massa . Ma anche quello fu solo un momento nel lungo cammino della liberazione della specie visto il rapido riformarsi delle sette e delle burocrazie (spesso clandestine) proprio all’apice di quei movimenti. Il quotidiano tornava in cantina e le “organizzazioni” in quanto partiti o gruppi armati riprendevano il sopravvento.

Ora, anche se nel testo l’attenzione per il “fallimento” degli ideali situazionisti e dei loro rappresentanti occupa un discreto spazio (si pensi soltanto all’aggettivo “amara” che accompagna la parola “vittoria” nel titolo), vale forse la pena qui di sottolineare almeno alcuni degli elementi che caratterizzano ciò che l’autore definisce come L’oro situazionista, ovvero l’eredità che Vaneigem sintetizzò così ironicamente: “tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo [che] si trova ripreso ovunque, tranne l’essenziale”.2

In mezzo ai tanti credo valga la pena di riprenderne almeno quattro, i primi due già presenti nel Rapport sur la construction des situations e sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste internationale, scritto da Debord nel maggio del ’57 e stampato a Bruxelles nel giugno, in vista della Conferenza di unificazione del luglio successivo.

1) La Borghesia in fase di liquidazione

All’epoca una critica delle difficoltà della borghesia e del capitalismo di mantenere in vita i propri valori attraverso una cultura, un’arte e scelte politiche ormai superate, anche e proprio quando volevano presentarsi come “moderne”. Un concetto che superava in qualche modo e allo stesso tempo arricchiva la concezione marxista della crisi del capitalismo inteso come mero fatto economico e che coinvolgeva nella sua critica sia i paesi del “capitalismo avanzato” che quelli del “socialismo reale”. Una concezione che oggi, a sessant’anni di distanza, non mostra solo la sua utilità sul piano della critica culturale ma, e soprattutto, nel momento in cui gli strumenti di rappresentanza del potere politico borghese (i parlamenti, i governi e gli stati nazionali) sembrano aver perso qualsiasi valore effettivo. Trasformandosi soltanto in mere ed appassite funzioni del capitale finanziario sovranazionale. Liquidati definitivamente non dalla rivoluzione proletaria, ma dalla globalizzazione che ha dimostrato l’inutilità dei confini e delle separazioni nazionalistiche.

2) Far retrocedere dappertutto l’infelicità

Contro l’idea di felicità borghese, fin dagli inizi il situazionismo rivendicò l’enorme potenziale di scoperta di nuovi desideri e reali motivi di felicità insita nelle lotte e nelle rivolte. Nel détournement dei significati e nella costruzione di situazioni soggettive, e molto meglio se collettive, tese a ribaltare e ad utilizzare differentemente gli spazi della vita quotidiana, architettonici, urbani e psichici. La felicità connessa agli ideali borghesi e piccolo-borghesi non può rappresentare altro che la base reale dell’infelicità collettiva, soprattutto laddove l’alienazione umana legata al lavoro e al consumo (in tutti i suoi multiformi aspetti) viene mascherata da normalità o ancor peggio da “realizzazione soggettiva”. E’ chiaro quindi che la felicità vera può realizzasi soltanto nel momento in cui la lotta contro il modo di produzione capitalistico non si limita al mero fatto o rivendicazione di carattere economico-riformistico, ma trasforma l’ambiente sociale e le mentalità che ne sono il prodotto, rifiutandone in primo luogo la mercificazione. Una rivoluzione in permanenza dello stile di vita e dell’organizzazione culturale (intendendo qui il termine cultura nel suo senso più ampio di norme, conoscenze, abitudini, etiche ed estetiche) più che una monolitica rivoluzione politica è quella che si può intravedere nella proposta situazionista fin dalle origini. Proposta messa collettivamente ed inconsciamente in atto da tutti movimenti autenticamente rivoluzionari (dalla Comune a quelli del maggio ’68 e degli anni successivi). Una rivoluzione che vive e cresce nelle lotte, ma che è soffocata dai partiti e dagli Stati, anche quando si definiscono proletari o indipendenti.

3) La proletarizzazione del mondo

Secondo la concezione situazionista “la società del benessere, nel cercare di integrare il proletariato ai valori dominanti, aveva ampliato il proprio dominio sulla vita trasferendo all’esterno dei rapporti di produzione le condizioni di alienazione/separazione che la produzione della merce aveva da tempo sussunto nel lavoro, e che ora il consumo della merce prodotta replicava fedelmente nel tempo libero. Per i situazionisti, quindi, la stessa definizione di proletariato, non era più delimitata dall’attività lavorativa compiuta nel sistema produttivo capitalistico, ma riguardava ormai l’intera vita degli individui che era espropriata e sfruttata (al fine di riprodurla come merce) all’interno dei processi di valorizzazione e scambio della merce; ogni individuo espropriato della propria vita – vale a dire, ormai privo della possibilità di controllarla e guidarla oltre gli imperativi economici dettati dalla produzione e dal consumo capitalistico – era dunque un proletario, e la cosiddetta società del benessere non solo (come invece sostenevano i sociologi di «Arguments») non aveva migliorato, superandola, la condizione proletaria dei ceti subalterni, ma addirittura aveva proletarizzato l’intera società.[…] l’Internationale Situationniste osservava che il processo di proletarizzazione della società concerneva non soltanto il diffondersi di questa divisione nel mondo produttivo, ma ben più l’affermarsi di un sistema economico che creava condizioni di alienazione/separazione del vissuto quotidiano, quali fattori di dominio totalizzante compiuto dalla merce nel mondo.3 La proletarizzazione completa dei paesi a capitalismo avanzata passa dunque attraverso il consumo (di merce, tempo libero, spettacolo) più che attraverso il bisogno e torna a trasformare il proletariato in classe deprivata (oggi anche del potere di consumare) pronta a lavorare in qualsiasi condizione e per qualsiasi salario.

4) La società dello spettacolo

Resta per molti questo l’assunto fondamentale della teoria situazionista, magistralmente esposta nel testo di Guy Debord dallo stesso titolo. Ciò che più conta in esso, e che spesso non è colto a fondo, è il fatto che tale spettacolarizzazione della realtà sociale non tocca soltanto la fascinazione esercitata dalla merce o l’azione giaculatoria ed ossessiva esercitata dai media in tutti i campi ma, e soprattutto, l’immagine e il ruolo del proletariato all’interno della società.
La nozione di spettacolo – adottata dai situazionisti per definire la società contemporanea e il suo sistema di dominio diffuso (nei regimi capitalisti), e concentrato (nei regimi totalitari) – concretizzò il concetto per cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»; di modo che l’alienazione/separazione degli individui dalla propria vita quotidiana espresse nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione della merce nel mondo, divenuto il mondo della merce. Lo spettacolo – vale a dire «il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori» – divenne quindi la chiave interpretativa della realtà contemporanea che consentì ai situazionisti di elaborare una teoria critica della vita quotidiana quale cartina di tornasole per rilevare la necessità del proletariato di assurgere a classe della coscienza; classe della coscienza delle proprie condizioni di alienazione, separazione, prodotte dalla società dello spettacolo e perpetuate grazie – soprattutto – ai suoi rappresentanti di classe, il partito e il sindacato. Il processo di estraniazione rifletteva così la condizione proletaria sia nei confronti del sistema di dominio, sia nei confronti del sistema ad esso antagonista, rappresentato dalle istanze “rivoluzionarie” dell’ideologia marx-leninista, che specularmente separavano il proletariato dalla propria coscienza per divenirne i padroni della sua coscienza; rappresentato dal partito-guida, il proletariato era così alla mercé dei “rivoluzionari di professione”, il cui compito non era l’abolizione del proletariato in quanto classe del capitale, ma l’affermazione del proprio potere di classe burocratica sul proletariato. Ecco perché, a parere dei situazionisti, la critica ai regimi comunisti non poteva essere una critica che si limitava a correggere gli errori compiuti dal partito nella gestione dello stato, ma doveva essere una critica che individuava nel partito, nello stato i medesimi processi di alienazione/separazione che il proletariato subiva nella società capitalista, perché speculari – anche se in negativo – alla stessa rappresentazione spettacolare del proletariato che doveva essere combattuta sia nei paesi capitalisti, sia nei paesi «socialisti».4

Alla fine i fili si riannodano tutti: critica del quotidiano, dell’estraniazione, del lavoro coatto, della merce e della reificazione dell’esistenza, in un quadro in cui “La necessità di «reinventare la rivoluzione» divenne per l’Internationale Situationniste il criterio prioritario per riconoscere le forze agenti che avrebbero trasformato il mondo, riconoscendosi, di conseguenza, nella pratica radicale delle loro azioni. I fenomeni che nelle società industrialmente avanzate raffiguravano il rifiuto ai valori della produzione e del consumo, così come la disaffezione nei confronti delle forme rappresentative della politica (il partito, il sindacato, lo stato) furono assunti dai situazionisti come conferma delle proprie ipotesi teoriche, anzi come realizzazioni pratiche delle idee elaborate. Il «rifiuto del lavoro», che gli strati marginali e giovanili nella metà degli anni ’60 – soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni – manifestavano come forma di contestazione radicale al sistema, catturò l’interesse dei situazionisti al punto che essi vi videro una conferma parziale (in quanto non ancora organizzata) delle possibilità di superamento rivoluzionario delle condizioni economiche attuali.5.

Forse alcuni di questi assunti sembrerebbero giovare al capitalismo odierno, eppure, eppure…
Nonostante i transfughi, nonostante i fallimenti, nonostante tutto ciò che ha potuto essere riassorbito e riciclato dal modo di produzione dominante, e che Marelli segnala con lucidità a tratti spietata, un po’ di oro è rimasto e proprio questo libro può aiutarci a riscoprirlo per trarne l’essenziale.

Il recensore si scusa in anticipo per i limiti imposti dallo spazio di una recensione, ma il testo di Marelli resta indispensabile ancora oggi e sarà anche compito del lettore individuare e magari utilizzare ancora nel presente, apparentemente così lontano e contemporaneamente così simile al mondo in cui l’Internationale Situationniste ebbe modo di sparare le proprie bordate e di affermarsi come strumento fondamentale della critica radicale, oltre a quelli fin qui accennati, molti altri temi ancora utili per demolire le mitologie più perniciose e stridenti dell’esistente e della sua pretesa e fasulla modernità.


  1. Valga come esempio, per tutti, il recente testo di Donatella Alfonso, Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione nasce il Situazionismo, il melangolo, Genova 2017. Un libro che sembra considerare la fondazione dell’I.S. un incidente casuale durante un’allegra bisboccia, il cui capo era solito fin dal mattino bersi almeno un litro di vino. Narrando così che, in uno sperduto e spopolato paesino dell’entroterra savonese, improvvisamente le cantine furono prese d’assalto da uno sparuto manipolo di situazionisti. Magari sbagliando anche la data e fissando la Conferenza nel luglio del 1958 invece che del 1957!  

  2. cit. in Marelli, pp.423-424  

  3. Marelli, pp. 404–405  

  4. Marelli, pp. 404-405  

  5. Marelli, pag. 405  

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