profilazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Attenzione e potere nell’era della distrazione digitale di massa https://www.carmillaonline.com/2024/04/09/attenzione-e-potere-nellera-della-distrazione-digitale-di-massa/ Tue, 09 Apr 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81514 di Gioacchino Toni

Emanuele Bevilacqua, Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 221, € 17,00 edizione cartacea, € 9,99 edizione ebook

Attenzione e potere di Emanuele Bevilacqua offre una panoramica ragionata sul rapporto fra concentrazione umana e media digitali, mostrando come, paradossalmente, mentre da un lato l’universo digitale, con la sua frenesia di riversare “attrazioni” in quantità, tende a diminuire la soglia di attenzione degli utenti indirizzandoli ad una sorta di “superficialità di sopravvivenza”, dall’altro è costretto ad ottenerla, con ogni mezzo necessario, in quanto merce preziosa per i grandi [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Bevilacqua, Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 221, € 17,00 edizione cartacea, € 9,99 edizione ebook

Attenzione e potere di Emanuele Bevilacqua offre una panoramica ragionata sul rapporto fra concentrazione umana e media digitali, mostrando come, paradossalmente, mentre da un lato l’universo digitale, con la sua frenesia di riversare “attrazioni” in quantità, tende a diminuire la soglia di attenzione degli utenti indirizzandoli ad una sorta di “superficialità di sopravvivenza”, dall’altro è costretto ad ottenerla, con ogni mezzo necessario, in quanto merce preziosa per i grandi colossi come Google, Amazon e OpenAi, dunque per i media d’informazione, le inserzioni commerciali, i servizi online e, non ultima, la propaganda politica. Quella tratteggiata dal libro è una vera e propria battaglia per l’attenzione nell’economia e nella politica digitali.

Se da un lato, come ricorda Emanuele Trevi nella postfazione al volume di Bevilacqua, la lentezza rappresenta la più grande alleata dell’attenzione, è pur vero che quest’ultima rischia di non favorire la curiosità. Concentrare in maniera settoriale l’attenzione rischia di vincolare l’individuo all’interno di una “bolla” che lo isola da ciò che vi sta attorno impedendogli di “scoprire” ambiti e punti di vista non ancora esplorati.

Si pensi a come le piattaforme che ricorrono a sistemi algoritmici di raccomandazione automatica tendano a mantenere l’utente all’interno dell’ambito verso cui ha, appunto, concentrato la sua attenzione limitando, di fatto, la possibilità di aprirsi verso l’esterno di quella bolla che finisce per essere vissuta come comfort zone perpetuante i “suoi” convincimenti, interessi, punti di vista e, in definitiva, il suo immaginario sempre più “algoritmico”. Netflix ed Amazon, ad esempio, riescono a indirizzare circa l’80% delle “scelte” degli utenti, pur all’interno di un meccanismo di negoziazione, come spiega Massimo Airoldi1, attuato attraverso un feedback loop tra i sistemi di machine learnign e gli esseri umani.

Del deficit di attenzione con cui ci si rapporta al mondo digitale – il tempo medio di permanenza sui siti e sulle piattaforme spesso si misura nell’ordine dei secondi – si sono presto accorti gli analisti, i produttori di contenuti digitali e, soprattutto, gli inserzionisti pubblicitari che a fronte di numeri elevati di visitatori faticano ad ottenere quella soglia minima di attenzione per cui vale la pena “investire”.

I sofisticati sistemi di profilazione degli utenti digitali hanno mostrato agli operatore del settore dell’informazione – su cui concentra la sua attenzione Bevilacqua – come sia poco spendibile l’elevato numero di visitatori digitali se non si ottiene una soglia di attenzione – di cui il tempo di permanenza è condizione necessaria ma di certo non sufficiente – paragonabile all’esperienza pre-digitale. Quotidiani come il “Guardian” si sono pionieristicamente dotati di sistemi di monitoraggio in tempo reale che permettono ai giornalisti di seguire costantemente come i contenuti vengono presi in esame dagli utenti.

Gli snodi fondamentali che hanno sancito nel corso del primo decennio del nuovo millennio il repentino passaggio all’universo della comunicazione digitale contemporanea secondo lo studioso sono riconducibili: alla centralità assunta dal web nella vita quotidiana delle persone; all’avvio dei processi di datificazione operati dai grandi colossi del web; all’espansione online dei media tradizionali nella convinzione che la pubblicità li avrebbe “automaticamente” seguiti; alla crisi economica e alla bolla dei subprime che hanno toccato anche l’industria dei media determinando ristrutturazioni e ridimensionamenti; all’emergere delle app come alternativa ai siti web ed al massiccio spostamento verso gli smartphone. A modificare il panorama dell’informazione hanno contribuito in maniera rilevante i social che hanno decentrato l’informazione ampliando enormemente gli ambiti di produzione e diffusione delle notizie ponendo, inoltre, problematiche in ordine all’affidabilità delle fonti e delle notizie trasmesse.

Rivelatosi estremamente fragile, il sistema dei media si è trovato a dover fare i conti con il paradosso digitale che, a fronte di un numero esorbitante di utenti, vede però una scarsa propensione al pagamento dei contenuti online ed una superficialità di fruizione scarsamente profittevole se non per i grandi colossi del web.

A fronte di tale stato di crisi, la riduzione dei costi operata da tanti organi di informazione ha inevitabilmente condotto verso un abbassamento della qualità e dell’affidabilità dei contenuti. La transizione al digitale operata dai media è avvenuta in un contesto caratterizzato da: una sovrabbondanza di contenuti digitali di scarsa qualità; una difficoltà di misurazione dell’attenzione degli utenti; un’ossessiva ricerca di attenzione comportante un consumo sempre più superficiale; una personalizzazione logaritmica dell’offerta che ha condotto a una limitazione dell’esposizione diversificata di informazioni; una qualità dell’attenzione sempre più passiva e distratta.

Numerosi studi scientifici hanno dimostrato i limiti della lettura digitale rispetto a quella cartacea in termini di attenzione profonda, di comprensione del testo, dunque di apprendimento. Analisi dettagliate hanno mostrato come come la lettura digitale tenda a ridurre il tempo dedicato a processi come inferenza, analisi critica ed empatia, fondamentali per il processo di apprendimento. D’altra parte, gli studi di Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno evidenziato come gli individui nel prendere decisioni – persino in ambito economico – siano sempre più indotti a ricorrere al “pensiero veloce” (Sistema 1), facilmente condizionabile dalle emozioni, che prevede scorciatoie mentali basate su un numero estremamente limitato di informazioni, anziché fare ricorso al “pensiero lento” (Sitema 2) che prevede regole logiche e la presa in esame di tutte le informazioni disponibili.

Al fine di ottenere lettori “più concentrati” sugli articoli, alcuni quotidiani – es. “Guardian”, “News UK”, “Times” e “Le Monde” – hanno deciso di ridurre la produzione online provando a sottoporre ai lettori una offerta meno dispersiva e più curata ottenendo maggiore attenzione, come dimostrano anche i tempi di permanenza sugli articoli decisamente più lunghi ed un incremento degli abbonamenti. Bevilacqua analizza anche le strategie messe in atto da alcune testate esclusivamente digitali – es. “Vox”, “Medium” e “Substrack” – al fine di conquistare una maggiore attenzione da parte degli utenti, inoltre si sofferma sul ricorso sempre più massiccio alle newsletter.

L’ultima parte di Attenzione e potere è dedicata al ruolo dell’intelligenza artificiale nel panorama editoriale contemporaneo ponendo l’accento su alcune questioni di particolare rilievo come il ricorso a sistemi di editing e correzioni automatizzati, l’affinamento della personalizzazione dell’offerta, l’autenticità, la responsabilità e la tendenziale omogeneità dei contenuti generati da IA e, non da ultimo, l’impatto occupazionale che l’introduzione massiccia di sistemi di intelligenza artificiale comporta.

Sebbene il volume di Bevilacqua sia incentrato sul problema dell’attenzione in relazione soprattutto all’ambito informativo-mediatico, offre non pochi spunti di riflessione validi anche per l’universo educativo-scolastico, ambito in cui la problematica dell’abbassamento della soglia di attenzione è quanto mai evidente e lo sarà a maggior ragione man mano che procedono i processi di digitalizzazione e di introduzione di IA generativa nella didattica.


  1. Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024. Si veda a tal proposito Gioacchino Toni, Per una sociologia degli algoritmi. La cultura nel codice e il codice nella cultura, in “Carmilla online”, 7 marzo 2024. 

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Linea del colore, sorveglianza razzializzata, controllo sociale https://www.carmillaonline.com/2023/12/06/linea-del-colore-sorveglianza-razzializzata-controllo-sociale/ Wed, 06 Dec 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80229 di Sandro Moiso

Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.

William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.

In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, [...]]]> di Sandro Moiso

Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.

William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.

In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, saggista, poeta, iscritto dal 1961 al Partito Comunista degli Stati Uniti, parlava soprattutto della situazione interna alla sua patria d’origine dove, nel 1868, era nato nel Massachusetts; ma la sua profetica previsione si è in seguito rivelata fondata, sotto molti punti di vista, ben oltre le linee temporali del secolo passato.

Quella intuizione, che avrebbe fatto sì che W.E.B. Du Bois si battesse per tutta la vita per il riconoscimento dei diritti degli afro-americani ha alimentato le riflessioni sul problema della separazione razziale e del razzismo ad essa intrinsecamente connesso fino ai nostri giorni, spesso affiancata al pensiero di Frantz Fanon. Esattamente come, indirettamente, sottolinea l’opera di Simone Browne pubblicata ora anche in Italia da Meltemi nella collana «Culture radicali» sotto la direzione del Gruppo Ippolita, gruppo di ricerca indipendente che si occupa di cultura digitale, critica della rete e tecnopolitica.

In Materie oscure/Dark Matters, Simone Browne, che si occupa di diaspora nera, media digitali e sorveglianza presso il Dipartimento di Studi Africani e della Diaspora Africana dell’Università del Texas, dove insegna Black Studies, fa parte del collettivo cyber-femminista “Deep Lab” ed è direttrice di ricerca del “Critical Surveillance Inquiry”, un gruppo di lavoro che prende in esame le implicazioni sociali ed etiche delle tecnologie di sorveglianza, traccia una genealogia delle tecnologie e delle pratiche di sorveglianza contemporanee, mostrando come queste derivino da una lunga storia di discriminazioni razziali perpetuate dagli oppressori bianchi per controllare le vite e i corpi delle persone nere schiavizzate.

In questo suo primo libro, esamina e mette in relazione la sorveglianza digitale, la schiavitù transatlantica e le tecnologie biometriche. Le fonti prese in esame sono molteplici: dal progetto della nave negriera Brooks al Panopticon di Jeremy Bentham, fino alla biometria e ai bias algoritmici delle piattaforme digitali.

La sorveglianza è una pratica discorsiva e materiale – sostiene Browne – che reifica i margini, i confini e i corpi lungo le linee della razza. La sorveglianza della nerezza è stata e continua a essere una norma sociale e politica da contrastare. Ma, come ancora indirettamente dimostra la presente opera, le tecniche usate per definirla e controllarla si sono ampliate oggi a tal punto da far sì che la profilazione degli individui e dei corpi sociali riguardi ormai una gran parte, se non la totalità, degli esseri umani sottoposti alla vigilanza del capitale e dei suoi scherani, armati o meno che siano.

Browne ci ricorda come, ancora una volta, sia stato proprio Frantz Fanon a intuire, durante le lezioni che ebbe modo di tenere all’Università di Tunisi, dopo che nel gennaio del 1957 le autorità francesi lo avevano espulso dall’Algeria per aver collaborato con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, che la modernità potesse essere caratterizzata dalla profilazione dell’essere umano.

Nonostante di queste lezioni non rimangano altro che pochi appunti, le osservazioni di Fanon sul monitoraggio delle chiamate e sui sistemi di telecamere a circuito chiuso sono essenziali. Grazie a questi appunti possiamo comprendere l’analisi che Fanon propone dell’alienazione e degli effetti della modernità e la sua lettura critica sulla sorveglianza e le relative forme di resistenza1.

Le ricerche dell’autrice rivelano, fin dalle prime pagine del libro, come per i servizi di sicurezza e spionaggio americani Frantz Fanon rimanga, a più di sessant’anni dalla morte, ancora «materia innominabile: anche da morto, a quanto pare, rimane una minaccia “a oggi propriamente classificata”, così come “le prove che possano attestare l’esistenza o la non esistenza” di un registro riguardante Fanon “sono informazioni che fanno parte di fonti e procedure protette dalla divulgazione”».

La documentazione relativa a Fanon consultabile grazie alla legge sulla libertà di informazione fa parte di una lunga storia di pratiche di spionaggio riguardanti un largo numero di radicali, artisti, attivisti e intellettuali neri tenuti sotto controllo dall’FBI. Questa lista include Assata Shakur, James Baldwin, Lorraine Hansberry, Stokely Carmichael, il Comitato studentesco per la coordinazione non-violenta, i Freedom Riders, Martin Luther King Jr., Elijah Muhammad e la Nation of Islam, Claudia Jones, Malcolm X, Fred Hampton, William Edward Burghart DuBois, Fannie Lou Hamer, Cyril Lionel Robert James, Mumia Abu-Jamal, Angela Yvonne Davis, Richard Wright, Ralph Ellison, Josephine Baker, Billie Holiday, le Pantere Nere, Kathleen Cleaver, Cassius Clay, Jimi Hendrix, Russell Jones aka Ol’ Dirty Bastard dei Wu-Tang Clan, e molti altri ancora2.

Tutti accomunati, come si può facilmente notare da un’unica caratteristica: la nerezza e l’esser afro-americani. Questa osservazione ci permette così di entrare nel merito del discorso sviluppato da Simone Browne e già parzialmente anticipato prima. In cui si rileva che

piuttosto che pensare alla sorveglianza come qualcosa di inaugurato dalle nuove tecnologie, come ad esempio il riconoscimento facciale o i veicoli a guida autonoma (o i droni), è necessario intenderla come un processo che affonda le proprie radici nel passato e che continua a svilupparsi nel presente. Questo permette di ribadire la necessità di tenere in considerazione quanto il razzismo e l’anti-nerezza siano elementi strutturali e una delle basi delle varie intersezioni delle sorveglianze contemporanee3.

Sostanzialmente la mentalità razzista, che sovrintendeva alla tratta atlantica degli schiavi e all’organizzazione del loro controllo e trasporto da un parte all’altra del mondo, di fatto ha anticipato le norme del controllo sociale contemporaneo attraverso la registrazione, la marchiatura e l’assicurazione sugli stessi per garantirne la proprietà dei “bianchi”. Cosicché l’opera di catalogazione giudiziaria, razziale, economica, sociale, mercantile, di genere e di classe che risulta dagli attuali processi di profilazione diffusa attraverso l’uso di strumenti di controllo non solo polizieschi ma, e forse soprattutto, volontari per mezzo dei social media e delle disparate piattaforme di comunicazione personale e commerciale, trova le sue origine in pratiche messe in atto fin dal XVIII secolo.

Questi corpi, ridotti a pacchetti di informazioni, vengono stoccati in immensi database in cui confluiscono tutti i dati raccolti su larga scala. Storicamente, cronache di simili pratiche di contabilità possono essere trovate nelle distinte delle navi negriere, nelle polizze assicurative ai proprietari degli schiavi, nella marchiatura come tecnologia di tracciamento della nerezza, per garantire che quei corpi venissero identificati come proprietà privata4.

Da qui deriva anche il titolo del libro poiché quel Dark Matters fa riferimento alla razza: «dove la razza, come sostiene Howard Winant, “continua a essere la materia oscura, la sostanza il più delle volte invisibile che struttura l’universo della modernità”»5. Un universo-mondo strutturato secondi rigidi schemi divisivi che, però, pian piano si sono espansi ben al di là della funzione di controllo della schiavitù per diventare norma esistenziale per gli appartenenti ai gruppi sociali classificati come potenzialmente pericolosi poiché caratterizzati dalla nerezza secondo lo sguardo indagatore del sistema “bianco”
e capitalistico.

Sguardo indagatore che a partire dall’osservazione sociologica canonica «avrebbe contribuito a trasformare ‘l’osservazione’ in una tecnica epistemologica ‘oggettiva’, a vantaggio del potere statale moderno. In questa maniera è stato possibile definire la sorveglianza come una pratica scientificamente accettabile e socialmente necessaria. Ciò faceva sì che il sociologo, in quanto osservatore, si sentisse al sicuro e separato dalle pratiche oscene degli uomini, delle donne e dei bambini afroamericani»6.

Un processo che, però, si è andato progressivamente allargando a tutto il corpo sociale, occorre dirlo, anche non caratterizzato dalla “nerezza”. In cui lo sguardo inizialmente rivolto allo schiavo o, per dirla con Ralph Ellison, all’uomo invisibile si è rovesciato anche contro l’osservatore primigenio.

Osservazione, quest’ultima, che, più che sminuire la traccia specifica della ricerca di Browne riguardante la condizione determinata dalla “nerezza”, intende invece sottolineare come la scarsa o nulla capacità della classe operaia bianca di accogliere le istanze del proletariato nero e farsene portatrice in nome di una comune lotta per la liberazione reciproca, sia di classe che di genere, ha finito col condizionarla fino a renderla incapace di difendere i propri interessi materiali e politici.
Proprio come, già nel XIX secolo, Marx ed Engels avevano previsto quando rimproveravano gli operai inglesi, incapaci di difendere gli operai irlandesi immigrati e sottomessi e, per questo motivo, destinati a veder inscritti nei propri comportamenti la condanna e l’immancabile sconfitta. Economica, sociale e politica.

Comunque fin dall’origine del sistema di fabbrica con «i timbracartellini che tengono traccia del tempo trascorso dagli operai in fabbrica, fino a forme più onnipresenti di osservazione, monitoraggio della produttività e raccolta di dati, come la visualizzazione remota del desktop o il software di monitoraggio elettronico che tiene traccia dell’uso di Internet da parte dei dipendenti al di fuori del lavoro»7 i metodi di sorveglianza dei comportamenti sul lavoro e nella vita privata hanno costituito un elemento essenziale dell’ordinamento sociale e statale di stampo capitalistico. Destinato ad ampliarsi sempre più nei confronti di ogni categoria e classe sociale.

Il termine “ordinamento panottico” di Oscar Gandy designa i processi attraverso i quali la raccolta di dati relativi a individui e gruppi come “cittadini, dipendenti e consumatori” viene utilizzata per identificare, classificare, valutare, ordinare o comunque “controllare il loro accesso ai beni e ai servizi che caratterizzano la vita nella moderna società capitalista”. Un esempio è l’applicazione di punteggi di fiducia da parte degli istituti di credito, per valutare l’affidabilità creditizia dei consumatori o per il marketing mirato delle offerte di finanziamento per speculare grazie a prestiti ad alto tasso di interessi. L’ordinamento panottico privilegia alcune persone, penalizzandone altre. Questi concetti – sospetto categorico, selezione sociale, società di massima sicurezza, guinzaglio elettronico, controllo partecipato, ordinamento panottico – insieme a quello di “assemblaggio del soggetto sorvegliato”, sono alcuni dei modi in cui la ricerca è giunta a teorizzare la sorveglianza. L’assemblaggio del soggetto sorvegliato vede il corpo umano osservato prima “scomposto, perché sottratto al suo contesto territoriale”, e poi riassemblato altrove (ad esempio, in una banca dati per la rendicontazione del credito) per essere usato come un “doppio digitale” fatto di dati o come strumento di confronto. Ne sono un esempio i calcoli per l’affidabilità creditizia o le analisi delle urine nei test antidroga, in cui il campione biologico viene raccolto e analizzato per verificare l’uso di sostanze8.

Per questo motivo, prendendo a modello l’opera di Foucault in cui «lo sguardo disciplinare del Panopticon è l’archetipo del potere della modernità», fin dal primo capitolo l’autrice sottolinea che «anche la nave schiavista deve essere intesa come un’operazione del potere della modernità e come parte della violenta regolamentazione della nerezza» e prende in esame il Panopticon (1786) e il progetto della nave schiavista Brooks (1789) per ciò che svelano sulla sorveglianza, sulla razza e sulla produzione di conoscenza. Mentre nei capitoli successivi il discorso sulla sorveglianza viene approfondito attraverso l’analisi del Book of Negroes, un registro del XVIII secolo che elenca tremila ex schiavi che una volta emancipatisi dalla schiavitù si imbarcarono principalmente su navi britanniche; le tecnologie biometriche e il loro ruolo nella formazione della razza afroamericana, a partire dalla marchiatura degli schiavi, che, come la tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali e le scansioni della retina, “riducono la carne a pura informazione”; fino all’«ondata di dirottamenti aerei [che] all’inizio degli anni Settanta portò infine alla legge antidirottamento o Air Transportation Security Act del 1974, firmata da Nixon il 5 agosto 1974, quattro giorni prima delle sue dimissioni», introducendo il concetto di bagaglio razziale per descrivere quanto la razza e il razzismo pesino su determinate persone in aeroporto.

Una rassegna storica, sociale e politica che permettere di cogliere in profondità le radici e le forme del controllo che pervadono la società nel suo insieme e opprimono le sue componenti razzializzate in particolar modo. Un testo lucido che può mettere in discussione non solo le esigenze di controllo spacciate come esigenze di sicurezza nazionale o sociale, ma anche le più recenti teorie del controllo collegate alle proteste contro il green pass e le vaccinazioni. Utile, quindi, come tutto ciò che permette di superare criticamente l’effimero stato delle cose presente e le sue illusioni, di regime oppure solo superficialmente antagoniste.


  1. S. Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 14-15.  

  2. S. Browne, op.cit., pp 9-10.  

  3. Ivi, p. 19.  

  4. Ivi  

  5. Ivi, p. 20.  

  6. R. Ferguson, Aberration in Black Toward a Queer of Color Critique, University of Minnesota Press 2003, p. 77 cit. in S. Browne, op. cit., p. 22.  

  7. S.Browne, pp. 35-36.  

  8. Ivi, pp. 31-32.  

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Culture e pratiche di sorveglianza. Il nuovo ordine mediale delle piattaforme-mondo https://www.carmillaonline.com/2022/01/12/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-il-nuovo-ordine-mediale-delle-piattaforme-mondo/ Wed, 12 Jan 2022 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70009 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

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di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

Se c’è un settore in cui emerge con chiarezza l’importanza assunta da tale modello questo è il comparto dei media ed è proprio a questo che si riferisce il volume di Luca Balestrieri, Le piattaforme mondo. L’egemonia dei nuovi signori dei media (Luiss University Press, 2021), in cui vengono descritte le trasformazioni culturali e industriali dei media che il “centro del mondo” – che, attenzione, significa certo Stati Uniti ma anche Cina – sta imponendo alle sue periferie.

In generale, quando si parala di “piattaforma” si fa riferimento a «uno spazio per transizioni o interazioni digitali che crea valore attraverso l’effetto network, il quale si manifesta tramite la produzione di esternalità positive» (p. 14). Visto che la creazione di valore deriva soprattutto dalla conoscenza dei clienti e del mercato, diventa fondamentale la capacità di estrazione e di interpretazione dei dati comportamentali dei consumatori.

Essendo la piattaforma a organizzare i flussi di informazione all’interno del network, la sua forza risiede proprio in questa sua capacità di connettere e ottimizzare gli scambi di informazioni tra gli elementi che coinvolge che prima erano invece disseminati lungo una filiera lineare. Si tratta pertanto di una forma organizzativa meglio capace di sfruttare le potenzialità offerte dall’intrecciarsi di intelligenza artificiale, cloud computing e connessioni ultraveloci e che, strada facendo, ha dato luogo a quelle che l’autore definisce come vere e proprie “piattaforme-mondo”:

ecosistemi che organizzano in rete produzione e consumi, sviluppano e gestiscono la tecnologia con cui governano i mercati e tendono a espandersi attraverso il controllo dei dati. La piattaforma diventa mondo, tende a dilatare sena limiti i suoi servizi e le opportunità che offre. È la versione dell’one stop shop sviluppata, con il massimo di rigore e coerenza, per le prime dalle grandi piattaforme cinesi. Una sorta di paese dei balocchi nel quale il consumatore, idealmente, non deve cercare altrove per soddisfare digitalmente ogni suo bisogno (p. 19).

Si sta parlando di colossi statunitensi come Alphabet (gruppo Google), Amazon, Facebook, Apple e Microsoft e cinesi come Baidu, Alibaba e Tencent. A un livello inferiore in questa gerarchia di potenza si collocano invece piattaforme come Netflix e Spotify in quanto impegnate in un segmento di mercato limitato, audiovisivo la prima e musicale la seconda. Per dare un’idea della potenza di fuoco di cui dispongono tali colossi si pensi che nel 2021 tra le dieci imprese a maggior capitalizzazione mondiale figuravano ben sette piattaforme-mondo.

Per comprendere come le piattaforme si siano evolute da semplici sistemi informatici nell’infrastruttura chiave dell’economia globale in grado di erodere le sovranità nazionali, sfruttando la capacità di ottenere ed elaborare dati, lo studioso ritiene sia necessario partire dalle “guerre dello streaming” per il controllo dell’industria audiovisiva statunitense che si sono scatenate negli anni Dieci del nuovo millennio. A una prima fase in cui le piattaforme S-VOD (sevizi video-on-demand richiedenti un abbonamento per una visione senza limiti dei contenuti) sferrano il loro attacco alla televisione multicanale uscendone vincitrici, succede una seconda fase in cui queste piattaforme si scontrano tra di loro per il dominio del mercato in una competizione giocata sul volume di dati raccolti e sull’ampiezza dei servizi che tali dati permettono di proporre in maniera profilata ai consumatori.

Per oltre un trentennio, a partire dagli anni Novanta del Novecento, il sistema della tv via cavo statunitense ha regnato sul sistema mondiale dei media grazie soprattutto alla sua indubbia capacità creativa (che ha portato a fare della serialità la narrazione privilegiata della contemporaneità e del suo immaginario) e all’aver messo in piedi un efficace sistema produttivo e di aggregazione di media company capace di integrare il comparto hollywoodiano tanto a livello creativo che organizzativo. Ne corso degli  anni Dieci le piattaforme streaming hanno dunque saputo assimilare e prendere il controllo tanto della creatività seriale che della base produttiva sviluppata nel frattempo dal sistema della tv via cavo.

A risultare vincente, scrive Balestrieri, non è dunque il prodotto in sé (la serialità), che le piattaforme hanno trovato già strutturato dalle cable tv, ma il rapporto con il consumatore, che nello specifico significa la fruizione on demand e la valorizzazione della libertà di scelta. Quando compare Netflix, ad esempio, la cosiddetta complex tv2– la tv della complessità narrativa – era già un dato di fatto così come, almeno parzialmente, le sue innovative modalità produttive. Si potrebbe dire che Netflix arriva quando HBO ha già cambiato la serialità.

Esiste dunque una contiguità ideativa e realizzativa a livello di prodotto; ciò che le piattaforme on demand hanno innovato è la modalità di fruizione e la rapidità con cui il pubblico statunitense si è convertito a questa sembra essere derivata dalla possibilità di controllare autonomamente il tempo di consumo svincolandosi così dal flusso imposto dai palinsesti: «è lo stesso bisogno di differenziare e personalizzare il consumo audiovisivo che, due decenni prima, aveva determinato la rivoluzione creativa e la diversificazione produttiva della tv via cavo e che, negli stessi anni, aveva portato al boom prima dei videoregistratori e poi del Dvr» (pp. 27-28).

A risultare vincenti sono le piattaforme che rinunciano a richiedere il pagamento per ogni singolo atto di consumo – come avveniva nelle prime sperimentazioni on demand – e che propongono invece all’utente, tramite abbonamento, l’esperienza di consumare senza vincoli e senza limiti: «la bulimia di esperienze fictional, di universi narrativi e di immagini che ne deriva è l’atto fondante di un nuovo tipo di consumatore mediale» (p. 29). Nell’offrire allo spettatore immediatamente tutti gli episodi di una serie si sollecita un cambiamento radicale delle abitudini di fruizione allontanandolo ulteriormente dalle proposte delle tv a palinsesto tradizionali, broadcast o cavo/satellite.

Oltre alla possibilità di consumare un’intera serie nei tempi preferiti, il consumatore si trova a poter disporre di una sorta di luna park all’interno del quale può attingere liberamente vivendo un’esperienza di assoluta libertà nella scelta. Si tratta di un’offerta che ha fatto breccia sopratutto tra le generazioni più giovani, e non è forse un caso che gli stessi sistemi educativi, da qualche tempo, siano sempre più inclini a sostituire un’istruzione pianificata in maniera strutturata a “palinsesto”, con una proposta sempre più a “buffet”, ove lo studente vive la sensazione di poter scegliere liberamente tra una molteplicità di offerte formative sempre meno strutturate e bilanciate tra di loro.

Le piattaforme hanno vinto perché, sostiene lo studioso, sono state abili nel creare il consumatore a loro più funzionale.

La piattaforma non mette astrattamente in contatto i soggetti che vi partecipano, ma li plasma e li ridefinisce in funzione dell’ottimizzazione delle loro interdipendenze – in termini di valore per i partecipanti e, soprattutto, per la piattaforma stessa. L’innovazione investe il prodotto, il soggetto che lo offre e il consumatore, educato a scoprire e apprezzare un’esperienza di fruizione diversa. La piattaforma, insomma, è al contempo il legislatore e l’educatore del mondo nuovo che costruisce (pp. 66-67).

Essendo che le piattaforme estraggono valore dall’offerta di servizi regolati dalla profilazione e dall’elaborazione dei dati derivati dal consumatore, quest’ultimo deve essere educato alla fruizione del maggior numero di servizi possibile all’interno di uno spazio digitale unico e alfabetizzato celermente alle regole della piattaforma in maniera che le viva come del tutto naturali inducendolo a comportamenti automatici vissuti come spontanei.

Il consumatore deve essere progressivamente portato a ricercare all’interno di quello spazio il soddisfacimento di bisogni originariamente eterogenei, quali l’informazione e la creazione di comunità, l’esplorazione ludica e l’autoaffermazione, il contratto di vicinanza e lo sguardo sul mondo. I social propongono una user experience facile, immersiva, senza strappi: facilità e immersività apparentemente simili a quelle del flusso televisivo, ma in realtà con un rovesciamento del rapporto tra soggettività e flusso, perché la passività dello spettatore televisivo è trasfigurata in (apparente) protagonismo e l’esperienza sembra ruotare attorno a continue scelte del fruitore attivo (p. 69).

Al di là della percezione del consumatore, modi e forme della partecipazione attiva alla creazione dell’esperienza immersiva sono in buona parte diretti dalle strutture logico-tecnologiche della piattaforma; «quello che sembra un percorso di naturale espansione degli interessi e della socialità del singolo segue un tracciato di messa a valore dei dati estratti e analizzati nell’insieme dello spazio digitale della piattaforma» (pp. 69-70) che lavora incessantemente per ottenere una vera e propria bulimia di contatti e di consumo. Le piattaforme social, in particolare, educano il loro fruitore a una particolare centralità visuale che lo lusinga di essere lui l’oggetto della cultura visiva:

i selfie che intasano i social mostrano i fruitori al centro di spiagge, di montagne, di luoghi di socialità, a riprova che – mentre la televisioni parlava di altro, al più, poteva suggerire un’identificazione con altri, come nei reality – adesso le piattaforme parlano del fruitore stesso, del consumatore che si specchia nell’immagine di sé. Si ottiene così l’effetto network da cui la piattaforma estrae valore. Per questo, l’autoreferenzialità dell’immagine deve essere condivisa e il narcisismo deve diventare contenuto di comunicazione attraverso i like o i retweet (p. 72)

Balestrieri si sofferma particolarmente nell’evidenziare l’asimmetria di potere esistente tra le piattaforme-mondo e i sistemi mediali nazionali.

Il flusso televisivo, nel Novecento e nel passaggio al nuovo secolo, ha svolto una fondamentale funzione costitutiva della socialità e dei percorsi identitari, contribuendo a disegnarne le forme espressive e i valori comunicativi, sostituiti dalle ideologie nella mappatura dello spazio politico e generatrici di rappresentazioni del contemporaneo e del suo significato. Anche nella sua banalità quotidiana, e forse proprio grazie a questa, il flusso televisivo raccontava una grande storia di appartenenza e di identità. Adesso questa capacità di racconto si è logorata, e solo in occasioni eccezionali riesce a trovare nuova potenza emotiva e forza aggregante. La società segue in generale percorsi di soggettività plurime, sempre più estranei alla cultura di massa ereditata dal Novecento, di cui la televisione era elemento costitutivo (pp. 58-59).

Per certi versi, sostiene lo studioso, l’indebolimento della tv broadcasting spodesta la televisione dal ruolo di cerniera e organizzatrice della creatività mediale che aveva assunto; «la crisi della televisione costituisce il segno più evidente della disarticolazione della centralità nazionali della cultura e della creatività» (p. 91). Dunque, il particolare processo di globalizzazione mediale imposto dalle piattaforme-mondo, secondo Balestrieri, pone una pietra tombale sulla «possibilità di esercitare, attraverso un autonomo sistema dei media, una consapevole, trasparente ed efficace gestione dello spazio in cui si forma i discorso pubblico e si producono dinamiche culturali che in una comunità creano identità (al plurale)» (p. 93).

Se le realtà locali non sembrano davvero più in grado di dare forma alla cultura di massa creando o adattando contenuti pensati quasi esclusivamente in funzione di un consumo interno, soppiantate come sono dalle piattaforme-mondo capaci di assimilare tratti culturali locali per poi manipolarli in maniera da renderli appetibili al mercato mondiale, non sono mancati casi di “resistenza” locali che, per qualche tempo, hanno saputo anche oltrepassare i confini nazionali.

Balestrieri ricordata ad esempio la capacità in America Latina di dar vita a un prodotto originale come la telenovela capace di insinuarsi nel mercato internazionale; si pensi a come la telenovela brasiliana negli anni Sessanta abbia saputo trasfigurare in modalità melodrammatiche la quotidianità e il senso di appartenenza e di comunità all’interno di un contesto autoritario sapendo trasformarsi nel corso del decennio successivo al pari della società che stava faticosamente uscendo dalla dittatura.

Nei decenni finali del vecchio millennio e nell’inizio del nuovo permane una certa dialettica tra sistemi nazionali e circuiti internazionali, tra centro e periferie a riprova di ciò si pensi al successo del fenomeno “format” soprattutto negli anni Novanta: «formidabile sintesi di globalizzazione del prodotto audiovisivo e di persistenza del mercato nazionale: si prende un’idea che ha avuto successo da qualche parte nel mondo e la si traduce in un contenuto vicino alla cultura del pubblico di un altro Paese» (p. 107). Ebbene, continua lo studioso, le piattaforme operano in maniera inversa: trasformano contenuti locali in prodotti globali e lo fanno forti dell’incredibile potenza di fuoco economica di cui dispongono nell’operare investimenti.

L’era del trionfo delle piattaforme-mondo ridisegna l’universo mediale riconfigurando anche le modalità di globalizzazione sia a livello di organizzazione industriale delle filiere e dei consumi che delle ibridazioni cultuali. Alla centralità dei flussi internazionali di capitali e prodotti propria della prima fase del processo di globalizzazione si sovrappone l’internazionalizzazione dei servizi al consumatore e delle infrastrutture tecnologiche. Il servizio è venduto direttamente al consumatore di ogni angolo del pianeta «disintermediando le filiere che si articolano nei sistemi nazionali dei media. La raccolta delle risorse e le decisioni strategiche sul loro reimpiego passano di mano e saltano il livello locale, lasciando a quest’ultimo magari il ruolo subalterno di fucina creativa a comando. Benvenuti nella globalizzazione mediale 4.0» (p. 109).

Se è pur vero che l’offerta audiovisiva di colossi come Netflix (che nel 2021 vantava oltre 200 milioni di abbonamenti disseminati in ben 190 paesi) o come Amazon è in buona parte fatta di contenuti statunitensi, sarebbe errato secondo Balestrieri vedere in queste piattaforme una semplice prosecuzione del processo di americanizzazione culturale del mondo iniziato con Hollywood.

Nella fase attuale, nella quale l’internazionalizzazione riguarda i sevizi diretti all’utente, lo scopo di un soggetto che opera globalmente come Netflix o Google non è vendere prodotti statunitensi sugli altri mercati, ma vendere il proprio servizio, che può benissimo prevedere anche la valorizzazione dei prodotti locali. Le piattaforme non vogliono americanizzare il consumatore globale, ma creare una nuova specie di consumatore mediale, impegnato nell’ibridazione dei propri linguaggi, valori estetici, strutture narrative all’interno delle interazioni e transazioni governate dalle piattaforme stesse (p. 124).

Attenzione, avverte lo studioso, ciò non significa affermare che le multinazionali non hanno nazionalità; tutt’altro, rispetto alle piattaforme di inizio millennio, nelle odierne il «governo dello sviluppo industriale e dei flussi culturali è ancora più localizzato negli Stati Uniti» ma non si tratta più di un controllo di tipo novecentesco dei mercati contraddistinto da merci culturali vendute e investimenti per acquisire la proprietà dei media, bensì di un controllo delle piattaforme-mondo che «innovano i flussi culturali e creano i propri consumatori attraverso la vendita diretta di servizi, personalizzati sul profilo di fruizione dei singoli individui» (p. 125). Queste piattaforme non necessitano per forza di acquistare media; spesso è sufficiente svuotarli e riconfigurarli all’interno dei propri ecosistemi reindirizzando le catene di distribuzione economiche e culturali in direzione transazionale.

Gli Stati Uniti non sono soli nella creazione di piattaforme-mondo; ad essi si aggiunge la Cina, Paese che ha saputo sfruttare le economie di scopo offerte dalla datification. Si tenga presente, sostiene Balestrieri, che in Cina le piattaforme-mondo non hanno dovuto ingaggiare una battaglia interna nei confronti del vecchio mercato dei media; in buona parte lo hanno creato. Nel paese asiatico si può dire che il sistema dei media sia nato con la digitalizzazione e l’industria audiovisiva con le piattaforme. In Cina lo streaming è infatti giunto diffusamente alla popolazione prima ancora delle sale cinematografiche: nel 2010 si contavano nel paese di un miliardo e trecento milioni di persone poco più di seimila schermi in duemila sale concentrate nei grandi agglomerati urbani. Il cinema nelle sale è arrivato praticamente insieme alle piattaforme strizzando l’occhio a una popolazione giovane nativa digitale che nel primo decennio del nuovo millennio ha imparato a consumare audiovisivi soprattutto attraverso queste piattaforme.

La densità di servizi offerti dagli ecosistemi delle piattaforme-mondo cinesi si traduce anche in un accelerato sviluppo della base produttiva e delle industrie creative che alimentano questa totalizzante user experience. Senza l’ingombro d un robusto sistema dei media preesistente, le piattaforme hanno potuto costruire secondo le proprie esigenze le fabbriche dei contenuti e i bacini di professionalità necessari, sfruttando al massimo le sinergie offerte dalla crescente complessità e articolazione degli ecosistemi (p. 136).

In generale, statunitensi o cinesi che siano, le piattaforme-mondo vivono della conoscenza del consumatore in modo non solo da poter estendere la gamma di sevizi da offrirgli ma anche di poter anticipare e guidare le decisioni dell’utente sia nell’ambito del consumo/acquisto che nelle connessioni sociali. L’obiettivo è dunque quello di plasmare il consumatore.

In chiusura di volume, Balestrieri si concentra sul potere acquisito dalle piattaforme-mondo a proposito del controllo delle tecnologie che alimentano la quarta rivoluzione industriale. In un panorama in cui la capacità di incidere su economia, società e cultura di queste piattaforme sembrerebbe ormai essere sfuggita al controllo statale, quest’ultimo sembra del tutto intenzionato a rifare capolino dopo decenni di inerzia più o meno pianificata. Si pensi che Amazon fornisce servizi cloud a ben 6500 agenzie governative che vanno dal settore della difesa a quello dell’educazione fino ai tanti apparati governativi.

Le tecnologie che in misura significativa cadono sotto il controllo delle piattaforme-mondo costituiscono il nucleo essenziale della sovranità digitale e politico-istituzionale» (p. 163) e quando ciò si è “improvvisamente” palesato, il potere statuale è sembrato svegliarsi dal torpore con l’intenzione di imporre una rinegoziazione del livello di autonomia concedibile. Insomma, la questione geopolitica è sembrata voler riguadagnare il primato che ritiene le aspetti rispetto alla mera efficienza di mercato. Una delle conseguenze di questa volontà di riallineamento delle piattaforme alle esigenze geopolitiche sembra essere «la fine dell’ideologia della globalizzazione neutrale: le piattaforme sono americane o cinesi, al massimo le prime si vestono del ruolo di campioni dell’occidente, o campioni delle autodefinite tecno-democrazie contro le cosiddette tecno-autocrazie (p. 163).

Se in Cina, dopo un decennio di deregolamentazione che ha riguardato tanto l’ambito finanziario quanto quello delle piattaforme, lo Stato ha potuto ribadire la propria supremazia celermente, negli Stati Uniti, dopo diversi decenni di neoliberismo spinto, il confronto tra piattaforme e Stato appare più travagliato. Resta il fatto che dalla negoziazione anche aspra tra piattaforme-mondo, preoccupate a non perdere competitività sui mercati internazionali, e Stati, con annessi interessi geopolitici, sembrerebbe derivare la presa d’atto che interessi economici e sovranità possono andare di pari passo: i primi hanno necessità di accedere ai dati di cui è in possesso lo Stato (sanità, istruzione ecc.) mentre i secondi necessitano degli efficientissimi oligopoli tecnologici che consentono la sovranità digitale.


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Cfr. Nick Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, Roma 2017. 

  2. Cfr. Jason Mittel, Complex TV. Teoria e tecnica dello Storytelling televisivo, Minimum fax, Roma 2017. 

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Culture e pratiche di sorveglianza. Costruzione identitaria e privacy tra rassegnazione digitale e datificazione forzata https://www.carmillaonline.com/2021/12/03/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-costruzione-identitaria-e-privacy-tra-rassegnazione-digitale-e-datificazione-forzata/ Fri, 03 Dec 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69431 di Gioacchino Toni

Riferendosi all’età contemporanea, le scienze sociali tendono ad assegnare una certa importanza al ruolo dei social media nella “costruzione del sé”, nella “costruzione antropologica della persona”. Nel recente volume di Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021) [su Carmilla], l’autrice evidenzia come, nell’era del capitalismo della sorveglianza, con la possibilità offerta dalle piattaforme digitali di raccontare storie personali negoziando la posizione che si occupa in società, sorgano alcune importanti questioni su cui vale la pena riflettere.

Innanzitutto si opera nell’impossibilità di controllare il contesto in cui le informazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Riferendosi all’età contemporanea, le scienze sociali tendono ad assegnare una certa importanza al ruolo dei social media nella “costruzione del sé”, nella “costruzione antropologica della persona”. Nel recente volume di Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021) [su Carmilla], l’autrice evidenzia come, nell’era del capitalismo della sorveglianza, con la possibilità offerta dalle piattaforme digitali di raccontare storie personali negoziando la posizione che si occupa in società, sorgano alcune importanti questioni su cui vale la pena riflettere.

Innanzitutto si opera nell’impossibilità di controllare il contesto in cui le informazioni personali vengono condivise e ciò, sottolinea la studiosa, determina il collasso dell’integrità contestuale, dunque la perdita di controllo nella costruzione del sé in quanto non si padroneggiano più le modalità con cui ci si presenta in pubblico. Si tenga presente che alla creazione dell’identità online concorrono tanto atti coscienti (materiali caricati volontariamente) che pratiche reattive (like lasciati, commenti ecc.) spesso in assenza di un’adeguata riflessione.

Nel costruire la propria identità online si concorre anche alla costruzione di quella altrui, come avviene nello sharenting, ove i genitori, insieme alla propria, concorrono a costruire l’identità online dei figli persino da prima della loro nascita. In generale si può affermare che manchi il pieno controllo sulla costruzione della propria (e altrui) identità online visto che si opera in un contesto in cui ogni traccia digitale può essere utilizzata da sistemi di intelligenza artificiale e di analisi predittiva per giudicare gli individui sin dall’infanzia.

Se a partire dalla fine degli anni Ottanta la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha posto l’accento su come i bambini non debbano essere intesi come individui subordinati agli adulti e bisognosi di protezione ma piuttosto come soggetti autonomi dotati di specifici diritti, il capitalismo della sorveglianza [su Carmilla], evidenzia Barassi, li ha nei fatti privati della loro autonomia. Sia perché il “consenso dei genitori” diviene il grimaldello per trattare i loro dati che perché le loro tracce digitali sono prodotte, raccolte e condivise da altri soggetti ben al di là del consenso e del controllo genitoriale. Ciò avviene in svariati ambiti – istruzione, intrattenimento, salute… – e le tracce digitali dei bambini prodotte tanto da loro stessi quanto da altri [su Carmilla] vengono utilizzate per indagare i loro modelli comportamentali, per fare ipotesi circa le loro tendenze psicologiche e per costruire storie pubbliche relative alla loro identità.

Essendo che le tracce digitali hanno a che vedere con l’identità sociale, nell’era del capitalismo digitale, sostiene Barassi, i social media sono divenuti un terreno di conflitto e negoziazione per le famiglie. Insistere tuttavia quasi esclusivamente sulle responsabilità dei genitori smaniosi di condividere dati sui figli rischia di mettere in secondo piano le responsabilità delle multinazionali della raccolta-elaborazione dei dati. Piattaforme dedicate all’infanzia come Messanger Kids di Facebook condividono le informazioni raccolte con terzi e ciò avviene perché tutte le principali Big Tech stanno investendo parecchio nella profilazione dell’infanzia e lo stanno facendo davvero con ogni mezzo necessario aggirando facilmente le legislazioni in materia.

Sebbene a proposito dell’impatto dei social media sul benessere psicologico dei bambini vi siano posizioni differenti all’interno dell’ambito accademico, non è difficile immaginare come tali piattaforme possano perlomeno contribuire a rafforzare culture e stereotipi negativi. Alcuni studi hanno mostrato, ad esempio, come le bambine siano indotte a conformarsi a stereotipi sessualizzati al fine di essere accettate socialmente. Trattandosi di strumenti espressamente realizzati per facilitare la raccolta, il tracciamento e la cessione dei dati ad altri soggetti, non è difficile immaginare come tutto questo materiale raccolto ed elaborato possa incidere sulla vita degli individui.

In una società ad alto tasso di digitalizzazione sono molteplici le modalità con cui si raccolgono dati sui bambini. La studiosa mette in evidenza come dietro ad alcune pratiche, spesso fruite come del tutto innocue e non intrusive, si nascondano vere e proprie strategie di profilazione. Si pensi non solo ai dati raccolti sui bambini dalle piattaforme didattiche utilizzate nelle scuole, di cui non è affatto chiara la gestione da parte delle aziende fornitrici del “servizio”, al tracciamento facciale a cui sono sottoposti sin da piccoli negli aeroporti e persino all’ingresso di parchi giochi come Disneyland, ove vengono loro fotografati i volti all’ingresso motivando blandamente tale pratica, nei rarissimi casi in cui i genitori ne chiedano il motivo, come un’operazione volta alla sicurezza, come ad esempio facilitare il loro rinvenimento in caso di smarrimento. Sebbene cosa ne faccia il colosso Disney delle foto scattate ai volti dei bambini non è dato a sapere, certo è che si tratta di dati estremamente sensibili essendo la fotografia del volto a tutti gli effetti un dato biometrico unicamente riconducibile all’identità di un individuo al pari dell’impronta digitale e della voce.

Altri sistemi di profilazione con cui entrano in contatto facilmente i bambini sono i giochi scaricati sugli smartphone o su altri dispositivi – che in alcuni casi, nota la studiosa, questi continuano a carpire immagini tramite la la videocamera dell’apparecchio anche quando il gioco non è in funzione –, i dati raccolti da piattaforme di intrattenimento come Netflix che, non a caso, lavorano sulla creazione di profili ID univoci. Persino le ricerche effettuate dai genitori attraverso i motori di ricerca online a proposito di disturbi o malattie dei figli concorrono all’accumulo di dati sensibili utili alla costruzione della loro identità digitale sin da bambini.

Tutto ciò non può che porre importanti interrogativi circa il concetto di privacy tenendo presente come questo derivi da uno specifico contesto politico, sociale e culturale. Buona parte del dibattito attorno alla privacy rapportata alle nuove tecnologie ruota attorno all’idea di una necessaria e netta distinzione tra una sfera pubblica (visibile) e una privata (riservata). Se l’avvento dei social media, su cui si è indotti a esibire/condividere tutto di se stessi [su Carmilla], sembra annullare sempre più la distinzione tra pubblico e privato, conviene secondo Barassi soffermarsi sull’importanza di tale dicotomia in quanto «consente di capire la filosofia individualista – e problematica – che definisce l’approccio occidentale verso la privacy e la protezione dei dati» (p. 89). La dicotomia tra ciò che è pubblico e ciò che è privato nella cultura occidentale «suggerisce che c’è una chiara differenza tra la sfera collettiva e quella personale, tra Stato e individuo, tra ciò che è visibile e ciò che è segreto» (p. 89).

Il concetto di privacy occidentale ha le sue radici nell’idea che «che dobbiamo proteggere il nostro interesse personale e le nostre famiglie nucleari prima di pensare alla dimensione pubblica/collettiva» (p. 89). Ed è in tale filosofia individualista della privacy che secondo la studiosa si annida il vero problema:

rapportare il concetto di privacy a quello di interesse individuale porta sempre a una riduzione del suo valore una volta che la privacy viene posta di fronte all’interesse collettivo. Questo è chiaro se pensiamo ai dibattiti sul riconoscimento facciale, sul contact tracing o su altre tecnologie implementate in nome dell’interesse collettivo. Dall’altra parte, intendere la privacy come fenomeno individuale ci porta a cercare soprattutto soluzioni individualiste a problemi che sono invece di natura collettiva (p. 90).

Circa la privacy dei bambini, dall’indagine svolta da Barassi emerge con forza nei genitori una sorta di “rassegnazione digitale”, dettata dall’impressione di non aver altra scelta, di cui approfitta il capitalismo della sorveglianza che però, nota la studiosa, si avvale anche della “partecipazione digitale forzata”. I soggetti fornitori di servizi a cui ricorrono quotidianamente le famiglie, dai servizi sanitari alle istituzioni educative, sempre più si affidano alla raccolta e all’analisi dei dati personali.

È attraverso la partecipazione digitale forzata a una pluralità di istituzioni, private e non, che i bambini vengono datificati, ed è per questa ragione che dobbiamo andare oltre la privacy come interesse privato dei bambini per studiare invece cosa voglia dire crescere in una società dove siamo continuamente costretti ad accettare termini condizioni di utilizzo, e dove i dati dei nostri figli vengono raccolti e condivisi in modi che sfuggono alla nostra comprensione e la nostro controllo. Solo così riusciremo a fare luce sulle ingiustizie e sulle ineguaglianze della nostra società datificata, e sul fatto che il mondo in cui pensiamo al valore della privacy nella vita di tutti i giorni dipende spesso dalla nostra posizione sociale […] C’è qualcosa di profondamente ingiusto nel diverso impatto che queste trasformazioni hanno avuto sulle famiglie altamente istruite o ad alto reddito da un lato, e su quelle a basso reddito o meno istruite dall’altro (pp. 94-95).

La diseguaglianza sociale in effetti, sottolinea la studiosa, gioca un ruolo importante nelle modalità in cui viene vissuta e affrontata la datificazione a cui si è sottoposti quotidianamente. I sistemi automatizzati di intelligenza artificiale tendono ad amplificare tale ingiustizia. Nelle società a forte datificazione i dati raccolti ed elaborati finiscono per essere utilizzati per profilare e indirizzare le vite degli individui. Piuttosto che concentrarsi esclusivamente sul problema della privacy, occorrerebbe piuttosto indagare quanto «la sorveglianza digitale e la datificazione di massa [siano] strettamente interconnesse con la giustizia sociale» (p. 97).

Sebbene spesso si parli di profilazione riferendosi al ricorso a tecnologie e algoritmi per l’analisi predittiva, in realtà, sottolinea Barassi, si tratta innanzitutto di «un processo antropologico che si estende oltre il mondo digitale e che ha a che vedere con la classificazione e la creazione di categorie, di raggruppare persone, animali, piante e cibi sulla base delle loro similitudini e differenze. È attraverso la creazione di categorie che definiamo le regole sociali» (p. 103). Tale pratica viene utilizzata anche per identificare il rischio. «Nella società moderna la profilazione è anche storicizzatone connessa al controllo della popolazione e all’oppressione razziale e sociale» (p. 103). La profilazione ha finito per far parte della vita quotidiana tanto nel farvi ricorso quanto nell’esservi sottoposti [su Carmilla]; «la profilazione è per definizione una pratica di correlazione di dati che serve per formare un giudizio» (p. 104).

Sebbene la profilazione sia un fenomeno sociale, antropologico e personale in atto ben da prima della trasformazione digitale, è nel passaggio di millennio che si determinano cambiamenti sostanziali: l’avvento di nuove tecnologie ha comportato tanto un aumento spropositato della quantità di informazioni personali che possono essere raccolte e intrecciate, quanto di strumenti utili a ottenerle al fine di realizzare profilazioni sempre più sofisticate. Nel saggio Big Other: Surveillance Capitalism and the Prospects of an Information CIvilization (2015) pubblicato sul “Journal of Informatin Technology” (30 gennaio 2015), Shoshana Zuboff ha spiegato come a suo avviso sia più efficace indicare tale contesto come “Big Other”, piuttosto che “Big Data”, in quanto tale dicitura rende meglio l’idea dell’architettura globale – composta da computer, network, sistema di accordi e relazioni… – di cui si avvale il capitalismo della sorveglianza nello scambiare, vendere e rivendere i dati personali.

Barassi evidenzia come un ruolo centrale all’interno di tale Big Other sia svolto dai “data broker”, aziende che raccolgono informazioni personali sui consumatori, le aggregano sotto forma di profili digitali per poi venderli a terzi. La raccolta di dati avviene sia dai registri pubblici che dalle piattaforme digitali e dalle ricerche di mercato, oltre che acquistandole dalle aziende che gestiscono app e social media. Un data broker può identificare, ad esempio, un individuo anche in base al suo aver manifestato interesse all’argomento diabete non solo per vendere l’informazione a produttori di alimenti senza zucchero, ma anche alle assicurazioni che, in base a ciò, lo classificheranno come “individuo a rischio” alzando il prezzo della sua polizza. Analogamente gli individui vengono profilati sulla base del reddito, dello stile di vita, dell’etnia, della religione, dell’essere o meno socievoli o introversi e così via agendo di conseguenza nei loro confronti. La raccolta di questi dati avviene in un regime da Far West a partire dalla più tenera età così da poter aggiornare costantemente e affinare il profilo individuale.

La studiosa sottolinea anche come i dati raccolti dalle Big Tech in ambito domestico non siano soltanto personali/individuali ma raccontino anche la famiglia intesa come gruppo sociale a partire dai contesti socioeconomici, valoriali e comportamentali e tutto ciò può condurre a gravi forme di discriminazione. Un’inchiesta di ProPublica, organizzazione no-profit statunitense, ha rivelato come Facebook consentisse pubblicità mirate discriminatorie rivolte alle sole “famiglie bianche”. Barassi sottolinea come tali meccanismi possano imprigionare i bambini in stereotipi discriminatori e riduzionisti limitandone la mobilità sociale; si rischia di divenire sempre più prigionieri delle classificazioni assegnate al proprio profilo digitale.

Dal 2019 Amazon raccoglie informazioni fisiche ed emotive degli utenti attraverso la profilazione della voce, mentre Google ed Apple stanno lavorando da tempo a sensori in grado di monitorare gli stati emotivi degli individui e tutti questi dati vanno ad aggiungersi a quelli raccolti a scopo di profilazione quando si cercano informazioni sulla salute su un motore di ricerca. Come non bastasse, le Big Tech affiancano alla raccolta dati sulla salute ingenti investimenti nell’ambito dei sistemi sanitari. Qualcosa di analogo avviene nel sistema scolastico-educativo ed anche in questo caso le grandi corporation tecnologiche hanno saputo approfittare dell’emergenza sanitaria per spingere sull’acceleratore della loro entrata in pompa magna nel sistema dell’istruzione.

I media occidentali da qualche tempo danno notizia con un certo allarmismo del sofisticato sistema di sorveglianza di massa e di analisi dei dati raccolti sui singoli individui e sulle aziende messo a punto dal governo cinese tra il 2014 e il 2020 al fine di assegnare un punteggio di “affidabilità” fiscale e civica in base al quale gratificare o punire i soggetti attraverso agevolazioni o restrizioni in base al rating conseguito. All’interesse per il sistema di sorveglianza cinese non sembra però corrispondere altrettanta attenzione a proposito di ciò che accade nei paesi occidentali, ove da qualche decennio «governi e forze dell’ordine stanno utilizzando i sistemi IA per profilarci, giudicarci e determinare i nostri diritti» (p. 122), impattando in maniera importante soprattutto sul futuro delle generazioni più giovani.

Sebbene non sia certo una novità il fatto che governi e istituzioni raccolgano dati o sorveglino i comportamenti dei cittadini, la società moderna ha indubbiamente “razionalizzato” tale pratica soprattutto in funzione efficientista-produttivista rafforzando insieme alla burocrazia statale gli interessi aziendali. In apertura del nuovo millennio, scrive Barassi, anche sfruttando l’allarmismo post attentati terroristici che hanno colpito gli Stati Uniti e l’Europa, molti governi hanno iniziato ad integrare le tecnologie di sorveglianza quotidiana dei dati con i sistemi di identificazione e autenticazione degli individui.

Alcuni studi hanno dimostrato come le pratiche di profilazione digitale messe in atto in diversi paesi, oltre ad essere discriminatorie, minino alle fondamenta i sistemi legali in quanto determinano in segreto quanto un cittadino sia da considerare “un rischio” per la società senza concedergli la possibilità di usufruire di un’adeguata tutela legale. Altro che “giusto processo”; soprattutto grazie alle leggi anti-terrorismo emanate dopo l’11 settembre 2001 ci si può ritrovare “condannati” senza nemmeno conoscerne il motivo.

Barassi riporta il caso della Palantir Technologies, vero e proprio colosso privato della sorveglianza e profilazione dei cittadini, capace di offrire servizi di raccolta e analisi dei dati ai governi e alle aziende private soprattutto occidentali. Ai sevizi di tale azienda, creata nel 2003, ricorrono le principali agenzie governative statunitensi (dall’FBI alla CIA, dal’Immigration and Customs Enforcement al Department of Homeland Security ed al Department of Justice). Attiva in oltre 150 paesi nel 2010, la Palantir Technologies ha saputo sfruttare abilmente l’attuale pandemia per diffondere i sui servizi in Europa.

La profilazione digitale dei cittadini si rivela strategica per molti paesi occidentali in cui istituzioni governative e apparati di polizia ricorrono sempre più a sistemi di IA, il più delle volte gestiti direttamente da aziende private, per prendere decisioni importanti sulla vita dei cittadini. Barassi sottolinea anche come numerosi studi abbiano dimostrato come le tecniche per il riconoscimento facciale, ad esempio, siano tutt’altro che attendibili e come le stesse tecnologie per l’analisi predittiva, oltre che non affidabili, tendano ad amplificare i pregiudizi e ad alimentare la diseguaglianza sociale. Una ricerca del 2019 pubblicata su “Science”, ad esempio, ha rivelato come il sistema sanitario statunitense ricorra ad algoritmi razzisti nel prendere decisioni in merito alla salute pubblica.

«Nell’era de capitalismo della sorveglianza non esistono più dati “innocui”, perché i dati che offriamo come consumatori molto spesso vengono utilizzati per determinare i nostri diritti di cittadini» (p. 133). Il software CLEAR, ad esempio, attinge dati di oltre 400 milioni di consumatori da un’ottantina di società che si occupano di bollette domestiche di vario tipo per poi rivenderli ad istituzioni governative che si occupano di frode fiscale e sanitaria, di immigrazione e riciclaggio di denaro o di prendere decisioni relative all’affidamento di bambini. «Senza che se ne rendano conto, i dati che gli utenti […] producono in qualità di consumatori domestici possono venire incrociati, condivisi e utilizzati per investigazioni federali» (p. 134). Altro inquietante caso riportato da Barassi riguarda Clearview AI, società produttrice di software per il riconoscimento facciale. Un inchiesta del “New York Times” del 2020 ha evidenziato come in alcune giurisdizioni statunitensi le forze di polizia utilizzassero tale software per confrontare le fotografie di individui ritenuti sospetti con gli oltre tre miliardi di immagini presenti online, soprattutto sui social.

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È di questi giorni la notizia delle sanzioni comminate in Italia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a due tra le maggiori Big Tech

Tra gli utenti di Apple e Google e le due aziende esiste “un rapporto di consumo, anche in assenza di esborso monetario“. Perché “la controprestazione”, cioè il pagamento, “è rappresentata dai dati che essi cedono utilizzando i servizi di Google e di Apple”. È con questa premessa che l’Antitrust ha multato i due gruppi per un totale di 20 milioni di euro – 10 ciascuno, il massimo edittale – per due violazioni del Codice del Consumo, una per carenze informative e un’altra per pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali (Apple e Google, multa Antitrust da 20 milioni: “Informazioni carenti sull’uso dei dati personali degli utenti e pratiche aggressive”, “Il Fatto Quotidiano”, 26 novembre 2021.

Nel Comunicato stampa emesso dall’AGCM il 26 novembre 2021 viene evidenziato come nella fase di creazione dell’account, Google «l’accettazione da parte dell’utente al trasferimento e/o all’utilizzo dei propri dati per fini commerciali» risulti pre-impostata consentendo così «il trasferimento e l’uso dei dati da parte di Google, una volta che questi vengano generati, senza la necessità di altri passaggi in cui l’utente possa di volta in volta confermare o modificare la scelta pre-impostata dall’azienda». Nel caso di Apple, prosegue il Comunicato stampa, l’architettura di acquisizione «non rende possibile l’esercizio della propria volontà sull’utilizzo a fini commerciali dei propri dati. Dunque, il consumatore viene condizionato nella scelta di consumo e subisce la cessione delle informazioni personali, di cui Apple può disporre per le proprie finalità promozionali effettuate in modalità diverse». Nel dettaglio si vedano: Testo del provvedimento GoogleTesto del provvedimento Apple

Alla luce di quanto detto in precedenza, è difficile immaginare che tutti questi dati sugli utenti raccolti subdolamente, legalmente o meno, vengano sfruttati “solo” a livello commerciale. Intanto si accumulano, poi potranno essere messi sul mercato ed essere elaborati e utilizzati per gli scopi più diversi.

È il capitalismo della sorveglianza, bellezza. E tu non ci puoi far niente! Se ci si deve per forza rassegnare a tale ennesimo adagio impotente, occorrerebbe allora riprendere anche l’efficace titolo di un recente film italiano: E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021, di Pierfrancesco Diliberto “Pif”).


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Culture e pratiche di sorveglianza. Tracciati e profilati fin da prima della nascita https://www.carmillaonline.com/2021/11/25/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-tracciati-e-profilati-fin-da-prima-della-nascita/ Thu, 25 Nov 2021 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69175 di Gioacchino Toni

«Dal momento in cui i bambini vengono concepiti, le loro informazioni mediche sono spesso condivise su app di gravidanza o sui social media, e dopo essere venuti al mondo tutti i loro dati sanitari e educativi vengono digitalizzati, archiviati e molto spesso gestiti da società private. A man mano che crescono, ogni istante della loro vita quotidiana viene monitorato e trasformato in un dato digitale […] I dati dei nostri bambini vengono aggregati, scambiati, venduti e trasformati in profili digitali, e verranno sempre più utilizzati per giudicarli e per decidere [...]]]> di Gioacchino Toni

«Dal momento in cui i bambini vengono concepiti, le loro informazioni mediche sono spesso condivise su app di gravidanza o sui social media, e dopo essere venuti al mondo tutti i loro dati sanitari e educativi vengono digitalizzati, archiviati e molto spesso gestiti da società private. A man mano che crescono, ogni istante della loro vita quotidiana viene monitorato e trasformato in un dato digitale […] I dati dei nostri bambini vengono aggregati, scambiati, venduti e trasformati in profili digitali, e verranno sempre più utilizzati per giudicarli e per decidere aspetti fondamentali della loro vita» (p. 10)

Così scrive Veronica Barassi nell’ambito di una  sua ricerca, pubblicata originariamente da MIT Press in lingua inglese, volta ad approfondire come la trasformazione digitale in atto, grazie anche all’apporto degli sviluppi dell’intelligenza artificiale, stia conducendo alla datificazione di ogni traccia lasciata dall’individuo sin da prima della sua nascita. Per comprendere meglio la portata di tale trasformazione secondo la studiosa conviene concentrarsi sulla prima generazione che ha subito il processo di datificazione digitale sin da prima di venire al mondo. Tale ricerca è stata tradotta e pubblicata in italiano nel volume da poco disponibile in libreria: Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita (Luiss University Press, 2021).

Se è difficile individuare un momento preciso in cui tutto ciò ha preso il via, secondo l’autrice si possono tuttavia individuare due momenti chiave che hanno permesso l’avvio di tale processo. Un primo momento può essere individuato nella svolta neoliberista thatcher-reaganiana a cavallo tra anni Settanta e Ottanta nel suo porsi alla base di quei processi di globalizzazione che, con le relative ricadute economiche, politiche e sociali, hanno fatto da premessa al secondo fenomeno che ha determinato la trasformazione di cui si sta parlando, ossia la nascita negli anni Novanta di quel capitalismo della sorveglianza di cui ormai si palesano gli effetti in termini di controllo e sfruttamento [su Carmilla].

Nonostante le tecnologie Internet siano nate nel corso degli anni Settanta da reti militari, universitarie, scientifiche, ludiche e alternative, il vero e proprio punto di svolta è riconducibile all’avvento del World Wide Web a metà anni Novanta che ha radicalmente cambiato e influenzato il modo di organizzare e rendere accessibili le informazioni in rete. È tale trasformazione ad aver permesso la nascita di quel capitalismo digitale che, con lo spostamento della produzione industriale nei paesi con un costo della forza lavoro più contenuto, ha dato vita nei paesi tecnologicamente più avanzati a un’economia sempre più incentrata sul marketing, sulla pubblicità e sulla distribuzione supportata da una sempre più marcata flessibilità dei rapporti di lavoro e da un’evidente erosione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero.

Nonostante gli intenti utopistici che avevano accompagnato la nascita del web, il processo di privatizzazione non ha tardato ad arrivare sotto forma di browser e business dot.com. È dall’implosione di tale economia, naufragata con la bolla speculativa al passaggio di millennio, che è nato il web 2.0 costruito sulla partecipazione attiva degli utenti; non a caso le prime grandi piattaforme 2.0 sono state i social media (Facebook dal 2004, YouTube dal 2005, Twitter dal 2006 ecc.) e a tali standard si sono presto adeguate le piattaforme tradizionali di Google e Amazon a cui si sono poi aggiunte Airbnb (dal 2007) [su Carmilla] e Uber (dal 2009).

Sebbene a ridosso del passaggio tra primo e secondo decennio del nuovo millennio le piattaforme social hanno oggettivamente svolto un ruolo importante nel supportare numerose proteste, l’entusiasmo nei confronti delle nuove tecnologie della connettività ha dovuto fare i conti con il palesarsi del loro operare nella raccolta e nello sfruttamento dei dati personali che con la l’inadeguatezza di queste allo sviluppo duraturo di esperienze di antagonismo sociale [su Carmilla].

Se il web 2.0 ha permesso la raccolta di una quantità di dati prima inimmaginabile, occorre sottolineare come parallelamente a tutto ciò siano avanzate le ricerche nell’ambito dell’intelligenza artificiale ed è dall’intrecciarsi di questi due ambiti che è scaturita quella vera e propria riformulazione della vita quotidiana di cui forse soltanto ora ci si accorge, anche alla luce dell’emergenza pandemica.

Non è azzardato affermare che per il capitalismo della sorveglianza Google ha avuto un ruolo non dissimile da quello esercitato dalla Ford Motor Company e dalla General Motors nello sviluppo del capitalismo industriale [su Carmilla] ed è proprio attraverso colossi come Google che si è diffusa l’analisi predittiva in tutti gli ambiti dell’esistenza; dalle scuole alle banche, dalle assicurazioni alle agenzie interinali, dall’assistenza sociale agli apparati di polizia.

Nell’era del capitalismo della sorveglianza non c’è più confine tra i dati del consumatore, raccolti per proporre pubblicità personalizzate, e i dati del cittadino, raccolti per decidere se possiamo avere accesso o meno a determinati diritti […] Il Capitalismo della sorveglianza ci sta trasformando tutti in cittadini datificati e se davvero vogliamo capire questa trasformazione dobbiamo concentrarci sui bambini nati nell’ultima decade: la prima generazione datificata fin da prima della nascita (p. 19).

È pertanto sui nativi datificati che si concentra la ricerca di Veronica Barassi. Sui bambini datificati cioè sin da prima di nascere anche a causa della condotta dei genitori che condividono sui social informazioni circa il futuro nascituro, dai resoconti sull’attesa alle loro ecografie, proseguendo poi, una volta venuti al mondo, con la diffusione di immagini e racconti dettagliati dei loro istanti di vita quotidiana a cui si aggiungono i dati raccolti dalle tante app utilizzate dai genitori per monitorare la salute e la crescita dei bambini e dalle apparecchiature smart sempre più diffuse all’interno delle abitazioni [su Carmilla]. Poi il profilo dei bambini sarà aggiornato delle piattaforme educative e da tutto l’armamentario di cui dispone il capitalismo della sorveglianza.

In particolare la studiosa si sofferma su quattro tipologie principali di raccolta dati relativi ai bambini: quelli raccolti dagli “assistenti virtuali” presenti nelle abitazioni in cui vivono; quelli immagazzinati dalle scuole attraverso le piattaforme educative on line; quelli relativi alla salute aggregati tanto attraverso app private quanto attraverso l’informatizzazione del sistema sanitario pubblico; quelli raccolti dai social media. Risulta pertanto palese la volontà delle Big Tech di raccogliere il maggior numero di dati personali per poterli aggregare in profili digitali riconducibili a singoli individui attraverso sistemi, anche biomedici, di identificazione e profilazione.

La recente pandemia, ricorda Barassi, ha di certo spinto sull’acceleratore del capitalismo della sorveglianza già in atto, palesando il livello di dipendenza dalle tecnologie digitali e la sempre più difficile distinguibilità tra ambiti privati e pubblici e tra tempi e spazi lavorativi e ricreativi.

Se il tracciamento medico del nascituro non è una novità, scrive Barassi, esistono però almeno due grandi differenze rispetto al passato: un’inedita possibilità di concentrazione dei dati raccolti dalle famiglie (informazioni mediche, psicologiche e relative alla routine quotidiana, agli stili di vita e di consumo ecc.) e un’altrettanto inedita diffusione di tali dati attraverso condivisioni su app e social con ciò che ne consegue in termini di profilazione aziendale. Non a caso, come ha esplicitato l’ONG Electronic Frontier Foundation nel report di Quintin Cooper, The Pregnancy Panopticon (2017), Facebook e Google stanno investendo sulla compravendita dei dati raccolti delle app che accompagnano la gravidanza.

In generale, sostiene Barassi, le Big Tech, oltre a raccogliere dati da terzi, stanno investendo in settori pubblici come la salute e l’educazione (es. Google for Education, che la recente emergenza pandemica ha enormemente contribuito a diffondere anche nel sistema educativo italiano). Sebbene negli USA e in Europa vi siano leggi che proibiscono alle aziende private di vendere a terzi dati raccolti nell’ambito dell’educazione, non è poi così difficile per tali piattaforme aggirare i vincoli legislativi e aggregare i dati sotto un unico profilo ID in grado di seguire l’individuo lungo la sua intera esistenza.

Una ricerca del 2019 pubblicata dal “British Medical Journal” ha mostrato come buona parte delle app relative alla salute condividano i dati raccolti con fornitori di servizi che a loro volta li girano soprattutto a società di ambito tecnologico, pubblicitario e persino ad agenzie di credito: anche i dati raccolti prima della nascita possono concorrere all’ottenimento o meno di un credito in età adulta.

Circa i motivi che spingono tante famiglie a ricorrere a tali app di tracciamento, le interviste sul campo condotte da Veronica Barassi indicano come l’entusiasmo per tali applicazioni derivi soprattutto dalla sensazione di sicurezza e controllo che esse sembrano offrire. Il fenomeno del sharenting, ossia l’ossessione dei genitori di condividere sui social informazioni relative ai figli, spiega la studiosa, sembra derivare dal tentativo di sconfiggere tutte quelle ansie e quelle paure che si proiettano sull’essere genitori per la prima volta attraverso la creazione di un’identità digitale dei figli il più possibile idilliaca. Durante l’inchiesta è emerso come le medesime motivazioni di controllo e sicurezza siano alla base anche del ricorso volontario a tecnologie di tracciamento reciproco, ad esempio tramite smartphone, tra i genitori.

Alla luce dell’incremento esponenziale nell’ultimo decennio di tecnologie di intelligenza artificiale tra le pareti di casa, Barassi invita a chiedersi quale tipo di valori culturali questi dispositivi incorporino e come vengano trasmessi. «Cosa vuol dire far crescere i nostri figli con dispositivi di intelligenza artificiale che insegnano loro a relazionarsi con un oggetto come se fosse una quasi-persona? Che tipo di dati vengono raccolti da queste tecnologie e che impatto hanno sulla privacy dei nostri figli?» (p. 46).

L’idea di intelligenza artificiale, ricorda la studiosa, è nata negli anni Cinquanta del Novecento con riferimento alla possibilità di far eseguire alle macchine cose che necessiterebbero dell’intelligenza umana. Oggi si tende a parlare di intelligenza artificiale tanto in maniera “hollywoodiana” (che la vuole dotata di coscienza e autonomia, in grado di provare emozioni e ingannare l’essere umano), quanto rapportandola all’apprendimento automatico da dati esistenti, alle reti neurali e all’analisi predittiva, cioè a tutto ciò che sta realmente trasformando la realtà quotidiana. «Se davvero vogliamo capire il ruolo dell’intelligenza artificiale nelle nostre case dobbiamo cominciare proprio dalle sensazioni e dalle emozioni che proviamo quando interagiamo con “macchine intelligenti”, e da come molto spesso le nostre interazioni con queste tecnologie siano definite dall’illusione dell’intimità artificiale» (p. 52).

Diverse ricerche sul campo hanno dimostrato come gli individui si relazionino con queste tecnologie come se si trovassero di fronte a esseri umani (ad es. vi si rivolgono con forme di cortesia del tipo “per favore”, “grazie” ecc.) e si rapportano con gli “assistenti virtuali” avendo la sensazione di dialogare confidenzialmente con una persona amica. Sebbene tale sensazione venga maggiormente percepita confrontandosi con robot antropomorfici, è comunque bene presente anche nel rapporto con gli assistenti virtuali con cui sono possibili soltanto forme di interazione vocale.

A partire da tali premesse diviene importante chiedersi che tipo di relazione strutturino i bambini con agenti dotati di intelligenza artificiale. Sebbene non vi sono al momento risposte univoche da parte degli studiosi a proposito del tipo di interazione che i bambini sviluppano con l’intelligenza artificiale, quanto il rapporto possa divenire intimo e personale, di certo però occorre non dimenticare che tali tecnologie domestiche sono pianificate con preconcetti culturali e sociali, dunque è importante domandarsi quale tipo di valori trasmettano ai bambini. Di certo Alexa e Google Assistant sono progettati per incentivare e facilitare il consumo, ma quali preconcetti culturali trasmettono? La scelta della voce femminile in molto tecnologie smart, ad esempio, rafforza il pregiudizio culturale che vuole la donna “assistente” e “servizievole”.

Uno dei casi che più hanno fatto discutere, e su cui si sofferma l’autrice, riguarda Hello Barbie: una bambola rivelatasi in grado di registrare le conversazioni casalinghe per la profilazione dei bambini e dei famigliari. Non meno inquietante è stato l’uso e lo stoccaggio da parte di Amazon dei dati raccolti dai bambini attraverso Echo Dot Kids. Al di là dei prodotti appositamente realizzati per raccogliere dati sui bambini, occorre tener presente anche il rapportarsi di questi ultimi con tecnologie domotiche presenti nelle abitazioni – la studiosa ha in particolare monitorato l’uso di Amazon, Google, Apple e Samsung – che hanno accesso a informazioni relative al contesto socio-economico e agli aspetti valoriali e comportamentali della famiglia. Si tratta di raccolte che avvengono sempre più anche sfruttando la ricognizione vocale.

Un’impronta vocale è esattamente come un’impronta digitale, è un dato biometrico che può essere facilmente associato all’individuo. Questo significa che le aziende che raccolgono i dati dalle nostre case possono integrarli con informazioni biometriche da utilizzare per la creazione di profili ID unici che […] possono essere utilizzati per trarre una varietà di conclusioni sensibili sull’individuo: dal contesto socio-economico in cui vive al suo stato di salute mentale (p. 61).

Oltre a soffermarsi sull’inchiesta del 2019 condotta dalla tv belga VRT NWS venuta in possesso di un migliaio di registrazioni di Google Assistant che includevano conversazioni in camera da letto registrate senza che fosse stato pronunciato “Hey Google”, dunque all’insaputa degli utenti, Barassi riporta le inquietanti ammissioni di un impiegato di Apple rilasciate all’inglese “Guardian” nel 2020 a proposito della pratica diffusa in azienda di far ascoltare ai dipendenti le registrazioni di Siri.

Negli Stati Uniti vi sono già stati diversi casi in cui le registrazioni ottenute tramite Alexa sono state utilizzate in tribunale mentre il “Washington Post” ha ricostruito come l’Immigration and Customs Enforcement (la polizia di controllo dell’immigrazione) si avvalga del database CLEAR di proprietà di una multinazionale canadese contenente oltre 400 milioni di nominativi, indirizzi e dati vari raccolti da un’ottantina di aziende che si occupano di utenze domestiche, internet, telefonia ecc.

Il volume I figli dell’algoritmo di Veronica Barassi dedica uno spazio importante anche al ruolo dei social media nella costruzione contemporanea del sé e alla questione della privacy mettendo in luce, in quest’ultimo caso, come tale concetto sia contingente al contesto politico, sociale e culturale e come il grande limite del concetto di privacy in Occidente derivi dall’essere inteso come fenomeno individuale che induce a cercare soluzioni individualiste a problematiche in realtà di natura collettiva. Occorrerà tornare su questi ultimi aspetti affrontati dalla studiosa.


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Culture e pratiche di sorveglianza. L’ossessione della trasparenza https://www.carmillaonline.com/2021/09/23/culture-e-pratiche-della-sorveglianza-lossessione-della-trasparenza/ Thu, 23 Sep 2021 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68218 di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla “confessione pubblica” di un fatto o di un’esperienza personale, si lega all’ossessione della trasparenza che da qualche tempo ha fatto breccia nell’immaginario collettivo nella convinzione che non si ha, né si deve avere, “nulla da nascondere”. Se da un parte la propensione all’outing è certamente mossa da una volontà orgogliosamente rivendicativa di condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, dall’altro la smania alla visibilità e alla trasparenza in età contemporanea risponde a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata a richieste sociali prestazionali e mercificate1.

In un tale contesto, in cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, magari conteggiato a suon di like, si è indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da “piacere” il più possibile a tutti. Insomma, l’ossessione della trasparenza – rafforzata dalla crescente smaterializzazione di luoghi e spazi abitativi e di lavoro – sembra aver dato luogo a una vera e propria macchina di controllo sociale partecipato.

David Lyon2 nell’approfondire la questione della trasparenza prende il via dalla critica mossa da Michel Foucault3 nei confronti tanto dell’idea rousseauiana che voleva uguaglianza e libertà derivare dalla trasparenza, quanto del panopticon proposto da Jeremy Bentham come modello di controllo perfetto attuato attraverso l’autodisciplina. In entrambi i casi è nella trasparenza che si cerca la cura per i mali della società.

Se a proposito di sorveglianza in generale la cultura novecentesca ha teso a lamentarsi tanto nei confronti della segretezza quanto del “portare alla luce” questioni che dovrebbero restare private, occorre constatare che ad essere presa di mira è stata soprattutto l’assenza di trasparenza da parte dei sorveglianti mentre per i sorvegliati il controllo a cui sono sottoposti è stato tutto sommato meno probelmatizzato: “niente da nascondere, niente da temere”. Nella cultura della sorveglianza contemporanea, sostiene Lyon, mentre si esige maggiore trasparenza da parte di organizzazioni e governi anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, si tende a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicandola inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo.

L’idea di una democratica “trasparenza reciproca” fa parte ancora oggi degli slogan ripetuti insistentemente negli ambienti della Silicon Valley. Secondo Alice Marwick4 tale scena tech, messa in piedi soprattutto da pionieri giovani, bianchi e maschi, non smette di idealizzare quella trasparenza e quella creatività che nei fatti si realizzano sotto forma di partecipazione imprenditoriale votata al far coincidere vita e lavoro in cui i social network svolgono un ruolo fondamentale. Una visione in tutti i modi viziata non solo dal pensare l’intero globo composto da repliche della loro “comunità” di giovani, bianchi e maschi ma anche dal tralasciare l’asimmetria nel potere di accesso alla trasparenza: quando mai verrebbe concesso a un comune cittadino di chiedere trasparenza reciproca, ad esempio, alle forze di polizia?

Riprendendo il convincimento di Gary Marx5 che vede nelle narrazioni, così come nelle immagini, una componente importante di quella cultura della sorveglianza che poi si riverbera sulla quotidianità, Lyon approfondisce le questioni relative alla trasparenza contemporanea ricorrendo ad alcuni prodotti di fiction indaganti a loro volta la questione, riferendosi in particolare al romanzo Il cerchio (The Circle, 2013) di Dave Eggers – da cui è stato tratto un film (2017) diretto da James Ponsoldt – e all’episodio Caduta libera (Nosedive, ep. 1, serie 3, 2016) della serie Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix) ideata da Charlie Brooker. Lo studioso si concentra su come l’ascesa della sorveglianza sociale e la sua fusione con la quella dello Stato e delle corporation influisca sia sugli immaginari che sulle pratiche degli individui mettendo in evidenza le contraddizioni della visibilità del quotidiano e la disponibilità che soprattutto le corporation vengono ad avere della sfera privata e degli immaginari degli utenti-clienti.

Il romanzo di Eggers narra di un’azienda-comunità della Silicon Valley che persegue l’imperativo della trasparenza totale in cui i dipendenti, oltre ad abitare edifici in cui attraverso l’ampio ricorso a vetrate si tende ad annullare la differenza tra interno ed esterno, sono sottoposti a un controllo continuo attraverso un costante monitoraggio partecipativo a cui essi stessi concorrono condividendo rigorosamente tutto ciò che li riguarda all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente lavorativo. Una perenne esposizione che richiede a tutti di inscenare una performance continua che non consente “momenti d’ombra”6.

Il romanzo segue l’esperienza della giovane assunta Mae Holland narrando la sua entusiastica adesione alle direttive aziendali e le difficoltà che incontra nel rapportarsi con chi non fa parte di quella che si rivela essere una vera e propria comunità chiusa. La parte forse più interessante del romanzo riguarda i meccanismi che rendono attraente la trasparenza totale. «Diventeremo onniveggenti, onniscienti» declama Bailey, uno dei cofondatori dell’azienda, in stile Steve Jobs, davanti a un pubblico estasiato dalle nuove videocamere “SeeChange” che presenta. Un “vedere” e un “sapere” che, sottolinea Lyon, risultano «prosciugati e trasformati in dati». Con i Big Data che assumono l’aura del Sacro Graal.

Per quanto possano apparire estremizzate le cose narrate dal romanzo, non sono pochi gli oggetti e le pratiche che si ritrovano nella realtà contemporanea. Basta digitare “dropcam” su un motore di ricerca – tanto per fornire altri dati di profilazione a Google & C. – per vedere le versioni reali già disponibili delle “SeeChange” del romanzo: videocamere sempre più piccole ed economiche, semplici da installare con cui è possibile raccoglie immagini volendo anche senza che nessuno se ne accorga.

Il campus-azienda de Il cerchio non è poi molto dissimile dalle smart city che si stanno sperimentando e costruendo un pezzo alla volta con un certo entusiasmo diffuso e non c’è bisogno di ricorrere a romanzi distopici nemmeno per imbattersi nel tracciamento dei movimenti tramite smartphone o veicoli (già diverse assicurazioni installano dispositivi in grado di tracciare con precisione i movimenti dell’automobile) o per individuare nei social network quella sorta di dipendenza da condivisione che porta a condividere tutto di se stessi7. «Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi» viene detto alla giovane neoassunta per incentivarla a condividere se stessa sulla rete assecondando l’imperativo aziendale della trasparenza totale.

Mae, la protagonista del romanzo di Eggers, si rende pian piano conto di prendere parte a forme di sorveglianza partecipativa essendo al contempo controllata e controllore. Si tratta di un fenomeno che Alice Marwick8 definisce “sorveglianza sociale”: i social network, nella loro duplice natura di piattaforme in cui si consumano e producono informazioni, creano una modalità simmetrica di sorveglianza in cui gli osservatori si attendono di essere a loro volta osservati e, frequentemente, desiderano entrambe le cose.

A differenza di altre tipologie, nella sorveglianza sociale «il potere è coinvolto in ogni rapporto sociale, la sorveglianza è praticata tra individui più che dalle organizzazioni, e inoltre è reciproca perché entrambe le parti sono insieme osservatori e osservati»9. L’effetto finale di ciò, sostiene Marwick, è un addomesticamento generale delle pratiche di sorveglianza. Nel caso della sorveglianza sociale l’interesse è rivolto agli altri utenti e sebbene la gerarchia appaia appiattita (come nel caso degli “amici” dei social) le gerarchie non tardano a ricomparire all’interno dei rapporti all’interno del gruppo: le pratiche stesse della sorveglianza sociale si mostrano orientate a una “ricerca di potere”. Il ricorso ai social è spesso dettato da una ricerca di visibilità, di una dimostrazione di esistenza ed è a tale fine che gli individui inscenano deliberatamente una performance pubblica costruendosi un’identità che, non di rado, proprio per ottenere consenso, è votata al conformismo.

Se la sorveglianza, in generale, agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, la sorveglianza sociale secondo Marwick produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza è interiorizzato, pertanto agisce sulle pratiche degli “amici” coinvolti. Ciò è reso evidente tanto nel romanzo Il cerchio che nell’episodio Caduta libera di Black Mirror in cui gli utenti partecipano con le loro valutazioni a stilare nei fatti i profili da cui la macchina del potere sceglierà a chi affidare i diversi ruoli. Insomma, le valutazioni espresse sui social si rivelano a tutti gli effetti potere.

Il graduale passaggio «dalle identità dei lavoratori novecenteschi incentrate sulla “disciplina” alle identità dei consumatori del Ventunesimo secolo caratterizzate dalla “performance”, che è trasparente per tutti»10 è assolutamente rafforzato dai social. La visibilità, soprattutto in tali ambiti di condivisione, è «un sito strategico in cui tentiamo di scegliere come ci presentiamo e di contestare come siamo visti, nel tentativo di plasmare e gestir questo processo. È essenziale per una politica del riconoscimento, per ottenere un trattamento equo delle differenze. Essere visibili o invisibili coinvolge capacità morali e pratiche ma in sé non significa oppressione o liberazione»11.

Nonostante i dati raccolti, come risulta evidente alla protagonista de Il cerchio, non dicano “tutto”, la loro raccolta ed elaborazione risulta strategica al “capitalismo della sorveglianza”12. Rovesciando le modalità della sorveglianza tradizionale, ora la sequenza diviene: prima tracciare, poi individuare. L’universo della rete – tanto all’“interno degli schermi” quanto nell’“Internet delle cose” – si rivela un sistema perfetto per ottenere informazioni dagli utenti senza particolari resistenze se non addirittura con entusiastica partecipazione.

È fin troppo chiaro che le attuali disposizioni politico-economiche significano povertà per la maggior parte della popolazione globale e producono alienazione, repressione, competizione, conflitto, relazioni frugali e separazioni per tutti, ricchi e poveri. E la sorveglianza di oggi senza dubbio contribuisce a questo mondo, lo favorisce. Nello sviluppo attuale della sorveglianza, il sospetto prende il posto della fiducia, la categorizzazione produce svantaggi cumulativi e le persone vengono trattate in base alla loro caratterizzazione in dati disincarnati e astratti13.

Esiste una via d’uscita da tutto ciò praticabile qua ed ora? Non si troveranno risposte circa il che fare nei romanzi come Il cerchio di Eggers né negli episodi di Black Mirror, certamente però la fiction di questo tipo ha il merito di allarmare non tanto di un pericolo potenziale ma del fatto che quanto ci racconta è già realtà. Meglio non sottovalutare la fiction; questa può rivelarsi un ottimo paio di occhiali sul modello di quelli di They Live (1988) di John Carpenter. Sul che fare, però, ci si deve arrangiare.


Bibliografia

  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault Michel e Perrot Michelle, Marsilio, Venezia 1983.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Marwick Alice, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012.
  • Marx Gary T., Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

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  1. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  2. Cfr. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020. Su Carmilla

  3. Cfr. Michel Foucault, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 1983, p. 14. 

  4. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012. 

  5. Gary T. Marx, Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016. 

  6. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  7. Cfr. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021. Su Carmilla. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit. Su Carmilla

  8. Cfr. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, op. cit. 

  9. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 162. 

  10. Ivi, p. 167. 

  11. Ivi, p. 168. 

  12. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  13. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 175. 

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Cultura della sorveglianza https://www.carmillaonline.com/2021/09/09/cultura-della-sorveglianza/ Thu, 09 Sep 2021 20:30:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67967 di Gioacchino Toni

Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare [...]]]> di Gioacchino Toni

Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare volentieri con qualche “servizio” offerto dal web o qualche piattaforma social attraverso cui supplire a una sempre più marcata carenza di rapporti sociali e di azione fuori dagli schermi, ma tale propensione più che riconducibile alle debolezze umane sembra piuttosto essere il risultato di alcune importanti trasformazioni – non solo tecnologiche – che hanno segnato gli ultimi decenni.

Se la digitalizzazione di numerosi servizi ha praticamente imposto il costante ricorso a Internet – tanto da discriminare nettamente la componente più anziana della popolazione, meno capace di ricorrere alla tecnologia digitale, e quella più svantaggiata economicamente, inevitabilmente meno dotata delle risorse necessarie – non di meno è oggettivamente difficile sottrarsi da quelle piattaforme digitali che sembrano offrire gratuitamente una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità e di protagonismo, tanto che vi viene fatto ricorso anche per protestare contro quel controllo sociale a cui si sta contribuendo immettendo dati in rete. Gli utenti delle tecnologie digitali sono «materie prime, merci e macchine produttive da dirigere, impiegare, scansionare e assemblare […]. Nel capitalismo digitale il soggetto-consumatore di beni e servizi è sempre al lavoro perché produce informazione incessantemente»1. Poco importa cosa le persone si scambiano on line, vanno benone anche le proteste più accese e radicali; ciò che conta è che si producano dati in grande quantità.

Quello che è stato chiamato “capitalismo della sorveglianza”2 fuoriesce dagli schermi ed entra nel reale non solo attraverso le applicazioni e le piattaforme che si utilizzano quotidianamente ma anche grazie all'”Intenret delle cose”3, agli oggetti connessi digitalmente con la rete, e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti agli individui dalla “società della prestazione”4; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri5; la parcellizzazione dell’apprendimento6; l’accesso selettivo alle informazioni utili a immediate esigenze di relazione7; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sui comportamenti degli individui8; le politiche progettuali e amministrative che strutturano e finalizzano le tecnologie9; il primato dell’appropriazione temporanea dell’utente sul contenuto nell’ambito di un contesto in cui è la tecnica a delineare i confini delle nuove modalità di una conoscenza sempre più orientata al conformismo10. Si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio e predizione comportamentale mai visto all’opera nella storia e buona parte di tali pratiche di controllo e manipolazione sociale non sono in possesso degli Stati, ma di aziende private, le nuove superpotenze11.

Sarebbe importante approfondire il sempre più marcato passaggio di mano della tradizionale funzione censoria, di indirizzo etico, un tempo prerogativa degli Stati, alle grandi piattaforme private di comunicazione e commercio; la partecipazione in rete è sempre più sottoposta alla regolamentazione aziendale piuttosto che alla legislazione degli Stati, tanto che, come si è visto, gli stessi leader politici, se vogliono usufruire delle piazze virtuali per comunicare, devono adeguarsi ai parametri censori decretati dalle corporation. Anche questo è sintomo di un passaggio di consegne divenuto inevitabile nel momento in cui si è incrementata la propensione all’abdicazione della politica all’economia.

È ormai chiaro che il concetto di superpotenza non può essere applicato esclusivamente a uno Stato dotato di un forte apparato militare ma deve contemplare anche l’ambito cibernetico. Se una superpotenza cibernetica per dirsi tale deve poter avere ampio accesso alla rete esercitando un certo controllo dei flussi di dati, allora tale definizione risulta oggi riferibile a colossi come Google, Microsoft, Apple, Amazon e le più importanti aziende fornitrici di tecnologie infrastrutturali e produttrici di microprocessori. Nella riunione sulla sicurezza informatica del G7 del 2017, tenuta ad Ischia sotto la presidenza italiana, accanto ai leader dei sette paesi più potenti del mondo hanno preso posto i rappresentati dei colossi del web e dell’informatica sancendo, ancora una volta, il ruolo sempre più importante di queste grandi corporation sul panorama politico mondiale.

Oggi il 90% delle ricerche su Internet avviene attraverso Google. La stessa Google, insieme a Facebook, controlla oltre il 90% della pubblicità on line. I sistemi operativi di Apple (iOS) e Google (Android) equipaggiano il 99% degli smartphone. Ancora Apple, ma questa volta con Microsoft, forniscono il 95% dei sistemi operativi nel mondo. Il 95% degli under trenta che usano Internet (cioè tutti) ha un profilo Facebook o Instagram (che è sempre di Facebook). Amazon controlla la metà delle vendite on line degli Stati Uniti. Nei paesi occidentali ormai una persona su tre utilizza un assistente vocale come Alexa (Amazon) o Siri (Apple). Un orecchio sempre attivo che ascolta, ascolta, ascolta e immagazzina informazioni. Numeri simili riguardano servizi come la classiche e-mail, le mappe, lo sviluppo di intelligenza artificiale o di auto a guida autonoma12.

A spartirsi gli spazi cloud, ove sono presenti informazioni di ogni tipo, sono Amazon, che controlla quasi la metà del mercato globale, Microsoft – che vanta un rapporto privilegiato con il Pentagono – e Google.

Insomma, “la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” è stata in realtà realizzata da queste grandi corporation private che stanno ulteriormente rafforzando la loro capacità di dominio13.

Può pertanto risultare contraddittorio inveire in Internet contro le pratiche di sorveglianza o farlo in una piazza con uno smartphone in tasca, quando non impugnato per digitalizzare prontamente la realtà e diffonderla sui social quasi a volerla certificare all’interno di quel mondo vissuto sempre più come primario. Se è innegabile che la digitalizzazione ha allargato e intensificato la sorveglianza, più difficile è dire quanto questa stessa tecnologia, in un tale contesto, possa essere utilizzata con finalità davvero altre14.

Ad insistere su come siano cambiate negli ultimi decenni l’esperienza e la percezione della sorveglianza è il libro di David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori (Luiss University Press 2020), uscito originariamente in inglese nel 2018. Con l’espressione “cultura della sorveglianza”, Lyon si riferisce a tutti quegli ambiti di interesse propri solitamente dell’antropologia, come gli usi e i costumi, le abitudini e le modalità con cui si guarda e si interpreta il mondo. Piuttosto che sui centri di potere politico-economico interessati al controllo, l’autore preferisce soffermarsi sulle modalità con cui la sorveglianza viene immaginata e vissuta dagli individui, su come le più banali attività quotidiane siano influenzate dalla sorveglianza e come a loro volta la influenzino e su come si tenda a promuoverla o a prendervi parte rendendola parte del proprio stile di vita.

La sorveglianza non è più soltanto qualcosa di esterno che influisce sulle “nostre vite”. È anche qualcosa a cui i cittadini comuni si conformano – volutamente e consapevolmente o meno –, che negoziano, a cui oppongono resistenza, a cui prendono parte e, in modi nuovi, a cui danno inizio e che desiderano. Da aspetto istituzionalizzato della modernità o modalità tecnologica di disciplina sociale, ora la sorveglianza è stata interiorizzata in modi nuovi. Permea le riflessioni quotidiane sulla realtà e il repertorio delle pratiche quotidiane […] La cultura della sorveglianza è sfaccettata, complicata, fluida e piuttosto imprevedibile15.

La cultura della sorveglianza contemporanea parrebbe dunque caratterizzarsi, rispetto al passato, per una maggiore partecipazione attiva alla propria e all’altrui sorveglianza, in quest’ultimo caso occorre sottolineare che se si possono controllare agevolmente le vite altrui attraverso i social, ciò avviene anche perché i “controllati” fanno di tutto per permetterlo, ossessionati come sono dall’esibirsi sulla rete senza che ciò venga loro direttamente imposto, anche se è chiaro che i sistemi presenti sul mercato, come le piattaforme web, sono esplicitamente progettati per incoraggiare tutto ciò.

Da un parte, il coinvolgimento dell’utente nei confronti di dispositivi e piattaforme come smartphone e Twitter crea dati usati nella sorveglianza delle organizzazioni. E dall’altra gli utenti stessi agiscono come sorveglianti quando controllano, seguono e danno valutazioni ad altri con i loro “like”, le loro “raccomandazioni” e altri criteri di valutazione. Quando lo fanno, non interagiscono solo con i loro contatti online, ma anche con modi subdoli in cui le piattaforme sono create per favorire particolari tipologie di interscambio16.

Circa la consapevolizza della sorveglianza occorre dire che se l’intreccio tra gli ambiti militari, statali e aziendali nelle pratiche di controllo si è palesato nettamente negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, successivamente il dilagare dei social network ha piuttosto evidenziato un tipo di sorveglianza aziendale volta a estrarre valore dai dati personali. A rafforzare tra la popolazione la percezione del controllo diffuso è stata poi la diffusione nel 2013 da parte di Edward Snowden di documenti relativi a pratiche di sorveglianza telefonica e Internet di massa tra Stati Uniti e Unione europea.

Nonostante l’essere tracciati dalle corporation risulti secondo diverse ricerche tra le maggiori preoccupazioni degli statunitensi, ciò non sembra aver modificato granché la loro partecipazione alla grande macchina di raccolta dati; le stesse rilevazioni Snowden hanno sì generato indignazione e preoccupazione ma non hanno modificato in maniera sostanziale le abitudini dello “stare in rete” e dell’autoprofilazione via social. Come qualsiasi altra cultura, anche quella della sorveglianza si sviluppa in modalità diverse e, soprattutto, tende a trasformarsi rapidamente a maggior ragione in contesti di crescente liquidità sociale.

Per tratteggiare lo sviluppo della cultura della sorveglianza nel libro vengono riportati alcuni esempi di profilazione dei clienti da parte di catene come Tesco e Canadian Tire da cui si apprende che persino l’acquisto di feltrini da collocare sotto le sedie potrebbe influire sulla concessione di un presito. Altro ambito indagato è quello degli aeroporti ove gli individui sapendo di essere osservati modificano il proprio comportamento partecipando così al “teatro della sicurezza”; nell’approssimarsi ai controlli i passeggeri si atteggiano al fine di fornire un’immagine di sé affidabile e trasparente a maggior ragione se appartengono a “categorie” considerate a “rischio” (in cui si può rientrare anche soltanto per avere una determinata tonalità di pelle o per portare la barba)17.

Dopo l’11 settembre negli Stati Uniti l’agenzia statale che sarebbe poi diventata la Homeland Security ha palesato tra le sue priorità quella di strutturare collaborazioni con le società private attive nella raccolta dati dei propri clienti per meglio individuare potenziali terroristi. Si potrebbe dunque essere fermati in aeroporto anche in base a qualche fantasiosa associazione prodotta da un algoritmo che riprende il monitoraggio relativo agli acquisti nei supermercati o ai termini inseriti in un motore di ricerca sul web.

Se non mancano atteggiamenti di resistenza o almeno di ritrosia alla sorveglianza, vi sono anche casi in cui questa viene adottata dai singoli ad esempio attraverso: la “condivisione” del tracciamento tramite GPS di “smartphone amici” (perlopiù in ambito famigliare); il controllo di conoscenti o vicini di casa attraverso le informazioni da loro caricate sui social; i baby monitor utilizzati per controllare la babysitter; i sistemi di telecamere degli allarmi anti-intrusione nelle abitazioni; il monitoraggio delle attività online dei figli attraverso software; più in generale tutti gli oggetti connessi a Internet. Secondo Lyon tutto ciò contribuisce a rafforzare la convinzione che la sorveglianza sia diventata parte di uno stile di vita, un modo con cui ci si rapporta al mondo.

A conocorrere alla grande macchina della sorveglianza sono anche le “automobili senza guidatore” che non solo accumulano dati sugli itinerari e sulle abitudini dei passeggeri ma che, per interagire con essi, necessitano di conoscere numerosi dati che li riguardano, tenendo inoltre presente che tutte queste informazioni verranno sempre più messe in rete con quelle di altri utilizzatori al fine di gestire la viabilità urbana. Le stesse “smart cities” – sul modello che si sta sperimentando a Songdo, nei pressi di Seul in Corea del Sud – possono essere lette, suggerisce Lyon, come veri e propri incubatori della cultura della sorveglianza.

A partire dallo smartphone, con cui soprattutto i più giovani strutturano un rapporto di interazione strettissimo, basato sulla concessione dei dati personali18, le tecnologie di comunicazione digitale si configurano ormai come sensori nella routine quotidiana vissute come del tutto “naturali”. A permettere che quanto è divenuto familiare possa essere vissuto come normalità concorre una cultura che propaganda in maiera martellante l’individualismo e l’autopromozione.

La smania di trasparenza degli ambiti sia privati che pubblici, tanto fisici che digitali, fa leva sull’idea che non si ha “nulla da nascondere”, inoltre a incentivare l’esposizione è il bisogno di percepirsi parte di una comunità. Il desiderio di trasparenza insomma sembra indirizzare a una società di “schiavi della visibilità” in cui ci si sottopone volontariamente al controllo sociale, in un sistema di coercizione dell’individuo impegnato a fornire e a gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali mercificate.19.

É soprattutto grazie alle tecnologie interattive digitali che avviene il passaggio da una sorveglianza fissa a una fluida.

I dati del contatore dell’elettricità smart mostrano se siete in casa o no. Il vostro smartphone registra la vostra posizione e i vostri “like” oltre alle persone che contattate Ma ciò avviene all’interno di un contesto culturale più ampio, in cui calcolare rischi e opportunità è centrale, precedere il futuro è un obiettivo fondamentale e ovviamente la prosperità economica e la sicurezza dello Stato sono strettamente collegate20.

Ne deriva l’inseparabilità della sorveglianza smart da ciò che lo studioso definisce “social sorting”, ossia lo smistamento sociale sulla base dei dati raccolti sulla rete con lo scopo di profilare gli individui e di sorvegliarli costantemente.

Le tecnologie integrate, indossabili e mobili si infilano facilmente nelle routine e nei regimi della vita quotidiana. Vengono acquistate da persone a cui offrono vantaggi seducenti e convenienti, tra cui miglioramenti personali. L’aspetto più ovvio, con i cellulari e poi con gli smartphone, è che il dispositivo diventa parte della vita, un oggetto personale, non solo uno strumento di comunicazione. Ma più in generale, con lo sviluppo dell’“ubiquitous computing” e dell’Internet delle cose, sia i programmatori che gli “utenti” sono maggiormente consapevoli della necessità di “interfacce” appropriate che diminuiscano la “distanza” tra gli utenti e le loro macchine. Da qui, per esempio, gli accessori di abbigliamento con sensori che troviamo anche in dispositivi di tracciamento personali come Fitbits21.

Se le forme di sorveglianza convenzionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, difficilmente sono associate a “piaceri estetici” e tendono a generare ansia, le nuove forme familiari e quotidiane che la sorveglianza sta adottando si rivelano non solo abili nell’evitare impatti ansiogeni ma riescono persino in diversi casi a rendersi desiderabili e tali tipi di sorveglianza percepita come soft comportano una maggior propensione alla complicità nella sorveglianza di se stessi e degli altri.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • Del Corno Mauro, Dalle riunioni online “obbligate” al caso Trump: così i 5 colossi del web hanno aumentato ricchezza e potere. “Ormai contano più degli Stati”. Ecco scenari ed effetti, il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2021.
  • DeNardis Laura, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma, 2021.
  • Del Rey Angélique, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano 2018.
  • Drusian Michela, Magaudda Paolo, Scarcelli Cosimo Marco, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online, Meltemi, Milano 2019.
  • Giannuli Aldo, Curioni Alessandro, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Grespi Barbara, Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei, in Guerri Maurizio (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano 2018.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Milano, Ledizioni 2012;
  • Id., Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016;
  • Id., Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Milano, Meltemi 2017.
  • Id., Il lato oscuro di Google, Milieu, Milano 2018.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Murri Serafino, Sign(s) of the times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale, Meltemi, Milano 2020.
  • Toni Gioacchino, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021.
  • Veltri Giuseppe A., Di Caterino Giuseppe, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

  1. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  2. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  3. Cfr. Laura DeNardis, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma, 2021. 

  4. Cfr. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  5. Cfr. Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Milano, Ledizioni 2012; Id., Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016; Id., Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Milano, Meltemi 2017. Su Carmilla; Id., Il lato oscuro di Google, Milieu, Milano 2018. Su Carmilla

  6. Cfr. Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano 2018. Su Carmilla

  7. Cfr. Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

  8. Oltre al volume citato di Shoshana Zuboff, si vedano: David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020 e i testi prodotti dal collettivo precedentemente citati. 

  9. Cfr. Laura DeNardis, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit. 

  10. Cfr. Serafino Murri, Sign(s) of the times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale, Meltemi, Milano 2020. 

  11. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla 

  12. Mauro Del Corno, Dalle riunioni online “obbligate” al caso Trump: così i 5 colossi del web hanno aumentato ricchezza e potere. “Ormai contano più degli Stati”. Ecco scenari ed effetti, il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2021. 

  13. Per le tematiche sin qua tratteggiate si rimanda a Gioacchino Toni, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

  14. Cfr. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, op. cit. Su Carmilla

  15. David Lyon, La cultura della sorveglianza, op. cit., p. 26. 

  16. Ivi, p. 35. 

  17. Cfr. Barbara Grespi, Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei, in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano 2018. Su Carmilla

  18. Cfr. Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online, Meltemi, Milano 2019. Su Carmilla

  19. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  20. David Lyon, La cultura della sorveglianza, op. cit., p. 105. 

  21. Ivi, p. 106. 

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Nemico (e) immaginario. Gli algoritmi della politica https://www.carmillaonline.com/2021/01/10/nemico-e-immaginario-gli-algoritmi-della-politica/ Sun, 10 Jan 2021 22:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64057 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica (elèuthera 2020), si apre con le parole con cui Gilles Deleuze, un decennio prima del cambio di millennio, sembrava cogliere la portata di quella trasformazione digitale, all’epoca agli albori, che il sistema economico saprà mirabilmente piegare ai propri interessi indirizzandola verso un surplus di asservimento volontario, impedendole così di contribuire a processi di soggettivazione creativi capaci di sottrarsi al controllo.

«Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa […] il potere [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica (elèuthera 2020), si apre con le parole con cui Gilles Deleuze, un decennio prima del cambio di millennio, sembrava cogliere la portata di quella trasformazione digitale, all’epoca agli albori, che il sistema economico saprà mirabilmente piegare ai propri interessi indirizzandola verso un surplus di asservimento volontario, impedendole così di contribuire a processi di soggettivazione creativi capaci di sottrarsi al controllo.

«Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa […] il potere è allo stesso tempo massificante e individualizzante, cioè costituisce come corpo coloro sui quali si esercita, e modella l’individualità di ciascun membro del corpo […]. Nelle società di controllo, viceversa, la cosa essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra […] Il linguaggio numerico del controllo è fatto di cifre che contrassegnano l’accesso all’informazione o il diniego. Non si ha più a che fare con la coppia massa-individuo. Gli individui sono diventati dei “dividuali” e le masse dei campioni, dati, mercati o “banche”. Forse è il denaro che esprime al meglio la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre rapportata a monete stampate che racchiudevano l’oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a scambi fluttuanti, a modulazioni che come cifra fanno intervenire una percentuale delle differenti monete» Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo)

Apertosi attorno ad alcune riflessioni di Gilles Deleuze, Gli algoritmi della politica si chiude invece sulla spiegazione proposta, sin dalla metà degli anni Settanta, da Michel Foucault a proposito di come la vita e il corpo siano divenuti un oggetto del potere e come quest’ultimo sia alla costante ricerca di un meccanismo in grado di controllare l’individuo e al contempo favorire il processo economico. «Come sorvegliare qualcuno, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile».

È proprio a partire da tali ragionamenti di Foucault che Vaccaro, nell’epilogo finale, sottolinea come il «doppio corpo», un tempo prerogativa dei monarchi assoluti (quello del sovrano-emblema regale dell’autorità politica e quello della persona), si sia esteso «a chiunque si connetta con la sfera del virtuale, acquisendo posture, stili di condotta, gestione dei tempi e degli spazi di esistenza, modi di percezione, addirittura identità digitali, diverse e ben distinte da quella corporea vera e propria».

Tra l’incipit e l’epilogo del volume, tra i ragionamenti deleuziani che spiegano l’avvento delle società di controllo e quelli foucaultiani relativi ai meccanismi con cui il potere sorveglia e rende profittevoli i soggetti, Vaccaro delinea il ruolo assunto dalle attuali tecnologie mediatiche nell’ambito dell’esercizio del potere. Un potere però che «non è solo repressivo e ostativo, anzi tutt’altro, non fa che ampliare le capacità di conoscenza e di sapere, le forme e i modi del nostro comportamento online e offline, sino a divenire quasi tutt’uno: onlife». In una sorta di cortocircuito in cui la «vita permanentemente connessa, appunto onlife, alimenta e moltiplica a sua volta le opportunità di potere e controllo, grazie al servizio fornito da ciascuno di noi nell’uso del digitale in ogni suo apparato – nuova forma di servitù volontaria che ci fa capire meglio l’enigma di de La Boétie – e alla governamentalità algoritmica che ne incanala gli usi opportuni, anche al fine di espandere mercati, creare nuovi business e nuove imprese, accrescere profitti e più in generale beneficiare l’economia».

Una volta raccolti i dati disseminati dagli utenti durante la loro presenza online, le imprese che controllano il web procedono alla profilazione dei soggetti ricorrendo ad algoritmi. Non si tratta però soltanto di marketing commerciale, sottolinea lo studioso; in base al comportamento online del soggetto, gli algoritmi consentono di elaborare una previsione circa le sue future condotte e di predisporre piani di intervento mirato volti a rafforzare e modificare convinzioni e comportamenti. Si tratta di forme di condizionamento inedite «che incidono sulla libertà stessa, sia come immaginario singolare e sociale, sia come pratica individuale e collettiva», nei cui confronti, secondo Vaccaro, il soggetto fatica a rapportarsi in tenimi critici.

Vaccaro si chiede se sia possibile scindere accumulazione e uso dei dati, se ci si possa accontentare della distinzione ipotetica tra un loro uso corretto ed uno deviato (speculativo e manipolatorio). La politica, che attiene al controllo della vita associata, può assumere in base alle esigenze tanto forme di rigida verticalità che di orizzontalità. Il ricorso ai dati «è strettamente connesso all’uso del potere come istanza di sorveglianza e controllo, di disciplinamento sociale, e come predeterminazione delle condizioni ideali con cui segnare lo spazio-tempo secondo un indirizzo ben preciso, orientato dall’élite governante».

Oltre ad attuare pratiche di surveillance, al potere interessa «la surwilling, ossia la sovradeterminazione della volontà umana che muta l’autonomia della coscienza in “eteronomia tecno-politica e sociale”. In altri termini, è più funzionale, oltre che economico, precostituire le condizioni obbliganti attraverso le quali l’output viene “naturalmente” come esito “necessario”, anziché forzare conflittualmente una soluzione che potrebbe però essere sconfitta da alternative risultate vincenti».

Appoggiandosi all’esattezza della misura matematica, la politica si dota di un’aura di indiscutibilità. «La misura infatti si presenta non come un sapere contestuato come ogni altro, bensì come “nudo fatto”, spoglio da pre-giudizi e pre-visioni costitutive, e in virtù di tale forza in grado di orientare un’intera società secondo una data matrice algoritmica che la riveste a mo’ di postura estetica. Viene pertanto a smarrirsi il sostrato “ideologico” tramite cui inevitabilmente si costruisce tale algoritmo, sottraendosi così alla percezione acritica, ossia neutralizzata a fronte di ogni discorso eccentrico, dissonante e tangenziale».

La sovranità digitale contemporanea costruita sulla datificazione (datification), sostiene Vaccaro, «non designa solamente una nuova e specifica biotecnologia politica che spalanca orizzonti inediti di data mining, di data targeting e via dicendo nell’anglicismo hightech; essa forclude altresì un immaginario che si espone a un’adorazione verso un “determinismo algoritmico”, un immaginario facilmente preda di pseudo-verità fasulle, solcato da suggestive mitologie contemporanee di brand luccicanti o di eroi del digitale dietro ai quali si cela un duro lavoro concreto e cognitivo sottratto dalla scena del successo e dalle gratificazioni economiche».

La raccolta di dati viene effettuata con la complicità degli utenti del web; «e a ogni like scambiato non corrisponde una cifra di remunerazione, bensì un dono camuffato, fittiziamente reciproco, poiché quel like contiene una miniera di dati, catturati attraverso una resa volontaria, che saranno utilizzati per fini esorbitanti la sua emissione specifica. E il cui plusvalore biopolitico da essi estratto arricchirà innanzitutto i big five delle imprese digitali dell’hightech […] e poi a cascata ogni imprenditore privato che ne acquisterà una fetta per utilizzarli a propri fini, commerciali o politici. Questo significa, diremmo appunto in soldoni, “affidare la nostra vita sociale a un algoritmo”!».

Di fronte a questa nuova biopolitica digitale che configura inediti assetti di potere, secondo Vaccaro occorre saper intercettare le faglie di resistenza agli effetti di potere propri della tecnologia politica e sperimentare nuove forme di conflitto che sappiano rapportarsi con «il divenire-digitale delle nostre società e delle nostre vite».


Nemico (e) immaginario serie completa

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L’informatica del dominio e la profilazione dell’immaginario https://www.carmillaonline.com/2018/09/04/linformatica-del-dominio-e-la-profilazione-dellimmaginario/ Mon, 03 Sep 2018 22:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48234 di Gioacchino Toni

Ippolita, Il lato oscuro di Google. L’informatica del dominio, Milieu edizioni – Ippolita, Milano, 2018, pp. 191 € 16,90 (*)

«La profilazione dell’immaginario non è che l’ultima tappa del processo di colonizzazione capitalistica delle Reti che abbiamo chiamato onanismo tecnologico» (Ippolita)

Dagli elettrodomestici ai capi d’abbigliamento, dai giocattoli ai sex toys, sono sempre di più le merci costruite al fine di monitorare e catturare dati relativi ai consumatori e alle loro abitudini. Secondo le stime della compagnia d’analisi Business Insider Intelligence riportate da Rosita Rijtano su «Repubblica» (“Quanto spiano quegli [...]]]> di Gioacchino Toni

Ippolita, Il lato oscuro di Google. L’informatica del dominio, Milieu edizioni – Ippolita, Milano, 2018, pp. 191 € 16,90 (*)

«La profilazione dell’immaginario non è che l’ultima tappa del processo di colonizzazione capitalistica delle Reti che abbiamo chiamato onanismo tecnologico» (Ippolita)

Dagli elettrodomestici ai capi d’abbigliamento, dai giocattoli ai sex toys, sono sempre di più le merci costruite al fine di monitorare e catturare dati relativi ai consumatori e alle loro abitudini. Secondo le stime della compagnia d’analisi Business Insider Intelligence riportate da Rosita Rijtano su «Repubblica» (“Quanto spiano quegli oggetti smart: sanno tutto di noi”, 24/09/2018) entro il 2025 potrebbero essere 55 miliardi i dispositivi montati sulle merci in grado di monitorare gli utilizzatori e inviare i dati a distanza alle agenzie di analisi. Già sono diversi gli oggetti finiti sul mercato in grado di profilare i clienti: si va dai bambolotti della Genesis Toys che si sono rivelati in grado di raccogliere informazioni sulle famiglie per una compagnia legata alle agenzie governative d’intelligence, ai sex toys della Standard Innovation, condannata nel 2017 per aver raccolto dati a distanza circa i gusti sessuali degli utilizzatori senza che questi ne fossero informati, fino agli impianti nel campo della domotica costantemente “in ascolto” per rispondere ai “bisogni degli utenti”.

In un’epoca caratterizzata dalla vetrinizzazione, per dirla con Vanni Codeluppi [su Camilla], in cui gli individui sembrano costantemente alla ricerca di gestire la propria identità catturando l’altrui attenzione attraverso un costante adeguamento agli standard di rappresentazione sociale egemoni nella società, non è affatto scontato che il proliferare di pratiche di profilazione sia percepito negativamente.  In un contesto in cui milioni di individui forniscono volontariamente dati che li riguardano sui social network, uno degli strumenti di profilazione degli utenti, senza che questi ne siano del tutto al corrente, e forse nemmeno infastiditi, è sicuramente Google e ad esso, e al mondo del Web in generale, è dedicato il libro Il lato oscuro di Google. L’informatica del dominio, scritto dal “gruppo di ricerca e formazione indisciplinare” Ippolita.

«Le parole, come le tecnologie, incarnano le credenze, le idee, le ideologie, i pregiudizi e gli obiettivi delle persone che le hanno costruite, ma anche e soprattutto di chi le propaganda per fini egemonici. In questo senso ogni tecnologia è necessariamente orientata, ed è per questo che non esistono e non possono esistere tecnologie neutrali. La tecnologia implica sempre un certo potere, quanto meno il “poter fare” qualcosa grazie ad essa. L’uso di strumenti tecnologici implica una competenza che è il risultato di saperi specializzati. Anche se si tratta di conoscenze poco o per nulla formalizzate [es. l’uso dei social network], in ogni caso l’utente si trova implicato in una dinamica di potere, in una dimensione di potere» (p. 7).

Le stesse parole che vengono utilizzate in riferimento a tali tecnologie non sono neutre; parlare di Open Source Economy è ben altra cosa, nonostante le apparenze, rispetto a parlare delle libertà su cui si è fondato il movimento Free Software, sottolinea il gruppo Ippolita.

Premesso ciò, nel volume si passa a spiegare  come, nonostante le promesse  di “verità oggettive” e di poter gestire l’intero universo delle conoscenze presenti in internet, dietro a Google si celino in realtà sofisticate strategie di marketing e di propaganda al fine di produrre e propinare pubblicità personalizzate in base alla profilazione degli utenti. In altre parole «lo sfruttamento ad ogni livello dell’economia relazionale messa in moto nei confronti degli utenti» (p. 173).

Proponendo agli utenti il materiale che essi stessi hanno fornito alla rete, Google è davvero una macchina che si costruisce sfruttando l’utilizzo che ne fanno gli utenti. «I dati degli utenti sono diventati un enorme patrimonio economico, sociale e umano. Soprattutto sono rilevanti i metadati, ciò che descrive i dati e ne consente l’interrelazione. Ciò che sta attorno ai contenuti, ovvero le relazioni dei contenuti con altri contenuti, il luogo in cui sono stati generati, il tipo di dispositivo e così via» (p. 174).

Dietro alla narrazione esaltante la molteplicità dell’offerta volta alla personalizzazione dei servizi non è difficile individuare l’intenzione di «diffondere una forma di consumismo adatta all’economia internazionale: la personalizzazione di massa delle pubblicità e dei prodotti. Il capitalismo dell’abbondanza di Google procede a un’accurata schedatura dell’immaginario dei produttori-consumatori (prosumer), a tutti i livelli. Infatti gli utenti forniscono gratuitamente i propri dati personali, ma anche suggerimenti e impressioni d’uso dei servizi; gli sviluppatori collaborano all’affermazione degli strumenti “aperti” messi a disposizione per diffondere gli standard di Google, che rimangono sotto il vigile controllo di Mountain View; i dipendenti di Googleplex e degli altri datacenter si riconoscono pienamente nella filosofia aziendale dell’eccellenza. La profilazione dell’immaginario non è che l’ultima tappa del processo di colonizzazione capitalistica delle Reti che abbiamo chiamato onanismo tecnologico. La mentalità del profilo si ammanta di dichiarazioni a favore della “libera espressione degli individui”, salvo poi sfruttare quelle “espressioni” per vendere luccicanti e inutili prodotti personalizzati» (pp. 174-175).

Certo, ricorda il collettivo Ippolita, i social network hanno avuto un ruolo importante anche in alcune sollevazioni nordafricane, arabe, asiatiche e in fenomeni come Occupy Wall Street ma, nonostante le mitizzazioni che individuavano nei social network incredibili potenzialità democratiche capaci di produrre e sedimentare confronti orizzontali, occorre constatare che, oltre all’indubbio ruolo avuto nel chiamare a raccolta nelle piazze, le piattaforme sociali commerciali, in tutti questi casi, non sembrano aver sedimentato dibattito e attivismo duraturi.

Se insomma il mondo di Google – e dintorni – appare come un’abile macchina di profitto basata su abilità comunicative e tecnologiche (spesso derivate dalle ricerche open source), per invasività nulla è forse paragonabile a Facebook, tanto da meritare da parte di Ippolita l’appellativo di «fuoriclasse del controllo sociale». A tutto ciò il gruppo Ippolita non risponde invocando azioni di boicottaggio nei confronti di Google o dei vari social network presenti sulla rete, ma proponendo percorsi di autoformazione per un uso critico delle fonti e delle tecnologie imperanti in internet; la consapevolezza come prerequisito utile a sottrarsi dal dominio tecnocratico.


(*) Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/4.0/deed.it o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA


Tra i saggi pubblicati da Ippolita:

Anime Elettriche; La Rete è libera e democratica. FALSO!; Nell’acquario di Facebook; Luci e ombre di Google; Open non è free.

Su Carmilla:

Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale (Meltemi – Ippolita, 2017)

[qua le Istruzioni per l’uso contenute nel manuale]

 

 

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