produttori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 5 https://www.carmillaonline.com/2022/10/22/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-5/ Sat, 22 Oct 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73978 di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del [...]]]> di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. La convinzione e allo stesso tempo l’illusione, frutto di una visione storica evoluzionista, che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, stabilizzatisi pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo, avessero raggiunto un equilibrio non più “storicizzabile” e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più.

Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In altre parole, a un primo sguardo, la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte allo strutto sulle nostre tavole oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettiva che, a molti, più che criticabile si mostrava appetibile. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti versi, quella presenza “culturalmente” così diversa e in fondo pre – globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni tipiche della tarda modernità che, in qualche modo, continuavano a essere fastidiosamente presenti nei nostri mondi. Mentre le nostre società entravano nell’era cosiddetta del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.

Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense di prodotti al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drasticamente “scoperto” che, il capitalismo globale, per essere tale non può fare altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante trova la sua migliore esemplificazione, ha finito per modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Per questo il richiamo a una attualizzazione del “modello coloniale”, come forma di governo delle società attuali, rischia di essere in parte fuorviante. L’ambito coloniale agiva all’interno di uno scenario dove era lo Stato/Nazione, nella sua evoluzione imperialista, a tenere in mano il pallino, una cornice da tempo andata in frantumi. Quindi, se di colonialismo o neocolonialismo è lecito parlare, e noi crediamo lo sia, occorre farlo tenendo a mente lo scenario determinato dall’avvento del capitalismo globale. A ben vedere nelle società attuali i “governi nazionali” non sono altro che attori locali, fortemente depotenziati, posti sotto controllo da agenzie multinazionali. In questo scenario, allora, i retaggi coloniali possono agire come “suggestioni” operative per i governi locali, all’interno però di logiche diverse.

Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori a basso costo posti nella condizione di non nuocere il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa possibile prendere in considerazione il discorso sul “modello coloniale”. Si tratta però, oltre il paradosso, di un colonialismo senza colonie e in fondo de – territorializzato ed è in questa prospettiva che la forza lavoro salariata delle metropoli diventa l’ambito coloniale di cui il capitalismo globale non può fare a meno.

Oggi, mentre per le nuove leve proletarie il mondo dei diritti e delle garanzie è qualcosa che appartiene al museo della storia, la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro va a colpire tutte quelle sacche, più o meno corpose, di proletariato e classe operaia dove, i residui novecenteschi, giocavano ancora un qualche ruolo. A conferma di come, la storia, proceda sempre attraverso il suo lato cattivo assistiamo, con tempi e ritmi sempre più accelerati, alla disarticolazione di tutto ciò che resta della rigidità operaia e del potere che questa si porta appresso. Si consuma, in questo modo, un modello che, a partire dalla Grande rivoluzione, l’Europa aveva tenuto a battesimo. La popolazione e i suoi destini diventano inessenziali per le classi dominanti le quali, nei loro confronti, adottano il modello di governance la cui logica è del tutto subordinata alle procedure messe in atto attraverso le operazioni di polizia internazionale. Anche nei nostri mondi, tra proletariato e borghesia imperialista, va sedimentandosi una relazione che accantona ogni forma di eguaglianza per rimodellarsi sul piano dell’asimmetria.

Questo, come vedremo immediatamente, però è solo un aspetto della questione. La scena politica è ben più articolata e complessa di quanto, a prima vista, possa sembrare. Se, per tutta una fase storica, per l’imperialismo l’unica guerra da combattere era sembrata solo quella contro le popolazioni, esterne e interne, oggi alcuni tratti della guerra classica tornano a fare prepotentemente capolino sulla scena politica internazionale. La situazione si complica e aggroviglia.

Nelle pagine precedenti abbiamo focalizzato sguardo e attenzione sul tratto asimmetrico della guerra ma, tutto questo, non significa automaticamente che le forme più classiche e tradizionali del conflitto bellico si siano estinte. Sarebbe un errore, infatti, ipotizzare che, la fase imperialista globale, abbia definitivamente posto in archivio la guerra interstatuale tra blocchi imperialisti. Certo, nel corso di tutta una fase, quella inaugurata con la Prima Guerra del Golfo sino all’intervento in Libia a primeggiare è stato un modello che, del conflitto asimmetrico, aveva fatto il suo credo assoluto. Credo che poggiava sulla prosaica constatazione della pochezza politico – militare dell’avversario di turno. A partire da ciò il proliferare di tutta quella serie di interventi di stampo apertamente colonialista all’interno dei quali, per lo più, tra le diverse consorterie imperialiste a primeggiare sembravano essere più le affinità piuttosto che le contraddizioni.

In linea di massima si può affermare che la logica che governava i vari interventi di polizia internazionale trovava non poche assonanze con quella politica della “porta aperta” coltivata dalle potenze imperialiste nei confronti della Cina negli anni Venti del secolo scorso. In tali operazioni ognuno poteva ricercare il proprio tornaconto negoziando, volta per volta, la propria area di influenza. A conti fatti non c’era attrito o conflitto che non potesse essere risolto attraverso le normali relazioni politiche e diplomatiche.

La quantità del bottino a disposizione, del resto, era tale da sconsigliare eccessi di avidità. Certo, a differenza del passato, adesso, anche sul piano militare, la latente contraddizione tra il blocco imperialista statunitense e il nascente blocco imperialista europeo cominciava a farsi concreta e reale ma non a tal punto da provocare conflitti, nell’immediato, non mediabili. Tra Stati Uniti ed Europa il conflitto poteva essere tranquillamente posticipato anche perché, in apparenza, dopo l’89 sembrava che solo i Paesi Occidentali fossero in grado di operare sul piano militare tanto che, la conquista dell’intero pianeta, pareva cosa fatta. Come dire: piatto ricco, mi ci ficco, poi si vedrà.

Questa conquista finiva con il mettere tutti d’accordo coltivando, nel frattempo, l’ipotesi che, in un futuro prossimo si potesse giungere a un accordo, su basi maggiormente egualitarie, tra il vecchio drago americano e l’ipotetico nuovo leone europeo. Di ciò ne è in qualche modo testimone tutto il dibattito intorno alla NATO e alla sua funzione che le Cancellerie europee avevano da tempo posto all’ordine del giorno. Del resto la funzione della NATO, nata per “tenere fuori i russi e sotto i tedeschi”, nello scenario che si è delineato non è più in grado di assolvere a quella funzione. La dominanza germanica nella costituzione del polo imperialista europeo ha scompaginato per intero gli assetti geopolitici e geostrategici fuoriusciti dalla Seconda guerra mondiale. I cobelligeranti di oggi portano in loro i conflitti del futuro prossimo. Solo le rapine internazionali possono per ancora qualche tempo tenere insieme queste bande di gangster.

Un progetto di conquista e dominio variamente articolato attraverso operazioni militari dirette o, come nel caso delle innumerevoli “rivoluzioni colorate”, ponendo in atto piani di destabilizzazione politica al limite della guerra civile all’interno di tutte quelle entità politiche poco prone a sottostare ai diktat delle multinazionali e dei loro organi politici ed economici. A fronte di ciò un fatto è difficilmente oggetto di smentita: dopo l’89 tutti i potentati imperialisti hanno iniziato una continua e pressante campagna di conquista nei confronti di tutti quei territori non direttamente sottoposti alle imposizioni degli organismi economici internazionali. Una conquista che, per tutta una fase, non ha conosciuto ostacoli di sorta. All’interno di tale contesto sembrava essere stato accantonato in maniera definitiva quel conflitto interstatuale che tanto aveva pesato sulla storia del Novecento. Repentinamente tale scenario ha iniziato a modificarsi poiché, nel grande gioco geopolitico e geostrategico, potenze quali Russia e Cina sono intervenute pesantemente.

La Russia, forse troppo frettolosamente relegata a micro potenza regionale, ha mostrato di essere in grado di svolgere un ruolo centrale sulla scena internazionale mentre la Cina, che nel frattempo si appresta a diventare la prima potenza industriale del mondo, ha dimostrato di essere fortemente determinata a difendere le proprie aree di influenza non solo sotto il profilo economico ma anche politico e militare. L’entrata in gioco di queste due potenze ha ridefinito lo scenario geopolitico e geostrategico internazionale ma non solo.

Con l’entrata in gioco di queste la tendenza alla guerra propria di ogni crisi dell’imperialismo inizia ad assumere contorni diversi da quelli conosciuti tra la Prima guerra del Golfo e la disarticolazione dello stato libico. Quel tratto sostanzialmente coloniale che aveva accompagnato le varie operazioni di polizia internazionale è obbligato a modificarsi. Difficile, per non dire impossibile, svalutare e quindi ascrivere Russia e Cina nell’ambito dell’impolitico. Difficile relegare Russia e Cina a semplici realtà etniche. La loro forma politica e statuale non può essere posta in discussione, la presenza del nemico torna ad albeggiare con tutte le ricadute del caso. Di ciò diamo qui di seguito una sintetica ricapitolazione.

Le avvisaglie che qualcosa stava iniziando a cambiare si sono avute tra la notte del sette e dell’otto agosto 2008, quando la Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud. La reazione di Mosca, alleata dell’Ossezia del Sud, è stata immediata. Le truppe georgiane sono state immediatamente sconfitte e le truppe russe hanno occupato gran parte della Georgia la quale, immediatamente, ha chiesto l’intervento dell’alleato statunitense e della NATO. Intervento che non si è minimamente profilato lasciando la Georgia con il più classico dei pugni di mosche in mano. Nel momento in cui, USA ed Europa si sono trovati di fronte un avversario nei confronti del quale non era realisticamente possibile muoversi in maniera asimmetrica, questi Paesi hanno fatto un corposo passo indietro. Un piccolo incidente che, se isolato, non avrebbe significato più di tanto.

Quanto accaduto in Ossezia del Sud, però, si è ripetuto, e in maniera decisamente esponenziale, nel momento in cui Stati Uniti, Europa e Giappone hanno ipotizzato di attaccare la Siria. In quel caso non solo la Russia ma anche la Cina si è apprestata alla mobilitazione dichiarandosi pronta, in caso di intervento, a schierarsi militarmente al fianco di Damasco facendo seguire, a tali dichiarazioni, fatti quanto mai espliciti. Entrambi i Paesi hanno indirizzato verso il possibile scenario di guerra alcune unità della propria flotta attrezzate per contrastare e neutralizzare l’eccedenza tecnologica che le forze NATO potevano vantare nei confronti dell’apparato militare siriano. A quel punto, a differenza di quanto accaduto in Libia, il conflitto non avrebbe potuto giocarsi attraverso il dominio incontrastato dei cieli e del mare in modo da spianare, sul terreno, la via agli “insorti” di turno ma avrebbe comportato un coinvolgimento diretto, dagli esiti per lo meno incerti, di tutte le forze militari Occidentali. Uno scenario decisamente poco appetibile. Non per caso l’intervento diretto Occidentale è stato rimandato sine die e la guerra “appaltata” a forze locali che stanno dilaniando la Siria in un conflitto dai tratti sempre più endemici e con costi immani per le popolazioni. Nel frattempo, anche se forse poco osservato, vi sono stati tutta una serie di episodi, con protagonista la Corea del Nord, particolarmente degni di interesse.

La Corea del Nord, nonostante agli occhi dell’imperialismo Occidentale e giapponese vanti tutti i requisiti dello “Stato canaglia”, non è stata oggetto di alcun intervento eppure, la sua linea di condotta, lo avrebbe in più occasioni ampiamente sollecitato e meritato. La Corea del Nord, oltre alle continue scaramucce belliche con la Corea del Sud, la costruzione di un potenziale missilistico di media portata e la testazione di ordigni nucleari ha obbligato il Giappone a intraprendere alcune, per quanto limitate, operazioni militari difensive. Ve ne sarebbe abbastanza perché, almeno Stati Unti, Giappone e Corea del Sud, oltre a mai mancanti volenterosi compagni di merende del caso, intraprendessero nei suoi confronti un’operazione non troppo diversa da quella messa in atto in Iraq. Come è noto di ciò non si è mai avuto un qualche sentore. Pechino ha sempre dichiarato che un eventuale attacco alla Corea del Nord avrebbe comportato l’automatico coinvolgimento della Cina nel conflitto il che, per forza di cose, avrebbe ascritto l’intervento in Corea del Nord in qualcosa di ben diverso e distante dall’operazione di polizia. La presenza attiva della Cina avrebbe portato il piano del conflitto fuori dal modello coloniale, rendendo gli esiti della partita perlomeno incerti.

(fine quinta parte – continua)

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Il fiato del drago https://www.carmillaonline.com/2018/10/01/il-fiato-del-drago/ Mon, 01 Oct 2018 21:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48957 di Giovanni Iozzoli

Oh, il mistero arcano della creazione di valore. Oh, il mistero ancora più occulto della creazione di coscienza: i produttori di valore davanti all’incantesimo della merce, della ricchezza astratta, della potenza produttiva dispiegata. E della loro indecifrabile condizione dentro questa fantasmagoria.

Anche quest’anno, nonostante una discreta repulsione, sono stato arruolato tra i relatori di minoranza (di micro-micro minoranza) nelle assemblee congressuali della CGIL del mio territorio. Alcune cose vanno fatte anche se non sai più perchè. Fa un po’ parte del gioco.

La vecchia CGIL è un corpaccione molle, esanime su cui si proietta minacciosa l’ombra storica dell’inutilità. [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Oh, il mistero arcano della creazione di valore.
Oh, il mistero ancora più occulto della creazione di coscienza: i produttori di valore davanti all’incantesimo della merce, della ricchezza astratta, della potenza produttiva dispiegata. E della loro indecifrabile condizione dentro questa fantasmagoria.

Anche quest’anno, nonostante una discreta repulsione, sono stato arruolato tra i relatori di minoranza (di micro-micro minoranza) nelle assemblee congressuali della CGIL del mio territorio.
Alcune cose vanno fatte anche se non sai più perchè. Fa un po’ parte del gioco.

La vecchia CGIL è un corpaccione molle, esanime su cui si proietta minacciosa l’ombra storica dell’inutilità. Però una cosa buona la mantiene, almeno sul piano dei principi: i suoi congressi si decidono sui posti di lavoro, azienda per azienda, in una consultazione di massa che dovrebbe riguardare tutti i sui iscritti. Inutile dire che se il metodo è virtuoso, la prassi lo è molto meno. Senza parità di condizioni – com’è ovvio anche nello schema di ogni democrazia liberale – alla fine della conta prevale chi ha in mano le risorse, cioè gli apparati e le chiavi della cassa. Però ogni 4 anni, nel grigio tran tran quotidiano in cui si macinano essenzialmente ripiegamenti, si apre uno squarcio vero di vita sindacale e discussione: e finanche la piccola minoranza eretica e scombinata – l’unica rimasta in CGIL – ha il diritto statutario di andare a parlare direttamente con i lavoratori, tutti, senza eccezione, fin dove le sue modeste forze le consentono di arrivare.

Breve parentesi per i non addetti ai lavori: in CGIL sono sempre esistite una o più “sinistre sindacali” – e le si derubricava alla voce “diverse sensibilità”. E si usava proprio questo termine emotivo ed affettivo – sensibilità – per definirle come sfumature dentro il corpo sempre omogeneo della grande madre. Una quindicina d’anni fa, grazie a quella che fu allora l’anomalia Fiom – e alla iniziativa coraggiosa di Cremaschi e di un manipolo di giovani quadri operai – venne costituendosi un’altra area di sinistra sindacale: con la velleità non tanto di incarnare “una sensibilità” quanto piuttosto una rottura politica e culturale . La caratteristica principale di questa aggregazione era proprio quella di essere “fuori fuoco” rispetto alla storia paludata delle vecchie sinistre interne; parlava un linguaggio diverso e veicolava dentro il dibattito in CGIL, parole d’ordine e tematiche (dal salario garantito alla contrattazione senza vincoli, al sostegno al movimento no global) che erano essenzialmente estranee alla storia della Confederazione. Con buona ragione, i gruppi dirigenti bollavano quella sinistra come un “corpo estraneo”. E oggettivamente era vero, si trattava di una anomalia minoritaria, colorata e vivace che poco aveva a che vedere con il grigiore monocorde del sindacalismo concertativo degli anni ’90 – e le sue variegate “sensibilità”.

Ma torniamo al presente.

Mi capita di andare qua e là a fare queste assemblee, in aziende grandi e piccole, tecnologiche e arretrate. Ci vado quasi sempre controvoglia e con un groppo in gola. Non mi piace il format, sembra una recita davanti a platee distratte e disilluse – i dieci minuti a relatore, l’illustrazione dei due documenti: quello di maggioranza che invita alla ponderatezza e promette di rimettere mano a tutte le infinite sconfitte ingoiate negli anni senza combattere; e quello di minoranza, che sembra un ardito proclama rivoluzionario, ma è sonoramente avulso dal contesto: che è pur sempre quello di una semplice triste assemblea congressuale della CGIL, davanti a lavoratori abituati a sentir parlare da dieci anni essenzialmente di ammortizzatori sociali. Io faccio la mia parte, senza eccedere in lirismi. Bisogna rispettare questa gente che viene ancora a darti ascolto e mantiene un filo di contatto con quella cosa che si chiama “sindacato”. Si tratta spesso di lavoratori e lavoratrici piuttosto anziani, segno che vent’anni di controriforme hanno funzionato. In certe aziende, quando si presentano alle assemblee, hanno davvero l’aspetto dimesso dell’esercito sconfitto in ritirata: gli abiti scalcagnati da officina, le grosse scarpe antinfortunistiche che danno un’aria vagamente chapliniana, qualche sbuffo di grasso sulle mani o sul collo di chi non ha fatto in tempo a lavarsi, come i bambini che hanno raspato nella Nutella; e i delegati sessantenni, assennati e stressati, che non trovano ricambi per rinnovare le loro RSU, e le misteriose silenziose presenze di interinali e apprendisti, seduti in fondo, spesso alla loro prima assemblea, così diversi dai colleghi anziani – più giovani, curati, atletici, con le cuffiette e i tatuaggi – ma irrimediabilmente più fragili nella condizione, psicologica oltre che contrattuale, rispetto ai vecchi “indeterminati”.

Tutti ascoltano diffidenti, e sembrano rimproverare muti, solo con gli sguardi o le alzate di sopracciglia, le troppe assenze, i vuoti, le complicità di un sindacato che non li ascolta più da tempo. Tutto il campionario di una stagione di consapevole ritirata sindacale pesa sulle loro spalle.

Quando prendono la parola esprimono generalmente una incazzatura che parte dal proprio immediato vissuto e diventa subito eco corale: perché ho dovuto lavorare 5 anni in più grazie alla Fornero, perché Epifani è in Parlamento, perché con la crisi il padrone è più ricco e io sono diventato più povero? Non c’è neanche la spinta dell’invettiva – che comunque è qualcosa di vitale e incuba di solito una qualche speranza. No, c’è solo l’amara constatazione che gli anni passano impietosi, attaccati a una linea ipermoderna o a un vecchio tornio fa lo stesso: quello che era il mitico operaio emiliano – figura chiave e alfiere di una certa iconografia riformista – si ritrova vilipeso e abbandonato da tutti. Eccola qui, l’Italia profonda, l’Italia del 4 marzo: è tutta ordinatamente seduta in sala mensa davanti a noi, con le gambe accavallate, le fronti sudate, i nostri pomposi documenti congressuali usati per farsi fresco nell’afa settembrina che, come le sfighe, le zanzare e i pappataci, proprio non si decide a passare. Non c’è bisogno di chiedere a questi lavoratori per chi hanno votato alle elezioni, lo sappiamo bene. In qualche modo sono finalmente arrivati al governo – il modo peggiore, la delega ai venditori di fumo e di odio – ma se ne accorgeranno solo tra qualche anno. Per adesso restano in attesa – vediamo che succede, guardiamo che fa questo governo, e adesso sentiamo pure cosa hanno da dirci ‘sti due coglioni: la sera davanti alle loro Tv o adesso schierati in assemblea, sempre pubblico (pagante), sempre platea, mai protagonisti della loro storia.

Solo una volta ho avvertito un sussulto, una specie di fremito, di intensità. Non è stato quando ho inveito contro la Fornero (lo fanno ogni minuto dal 2012, senza i miei suggerimenti), né quando ho parlato di contrattazione o di 35 ore o di altre vette sublimi della retorica d’assemblea. No, è stato quando un lavoratore ha sbottato, dopo il mio intervento, in tono quasi dolente: ma voi, ma voi, ci vedete come siamo messi? Ma lo capite che noi non contiamo più niente, che ci hanno sconfitto, che siamo diventati gli ultimi della fila? Guardateci: che forze abbiamo? Chi siamo? A chi facciamo paura? Come dovremmo fare a riconquistare tutte queste belle cose che raccontate? Siamo finiti perché siamo deboli.

E tutti hanno drizzato le antenne – perché in quel momento la sincerità dolente del collega parlava in qualche modo a nome di tutti.

E allora ho mollato “il documento congressuale” e mi sono lasciato andare all’improvvisazione. E alle 14.30 di un pomeriggio stitico e assolato, davanti a una cinquantina di lavoratori nella sala mensa della CBR srl (componenti oleodinamica e autopompe) – ho rivelato niente meno che la sublime e nascosta verità della Storia.
Ho detto: ma voi, voi fanti sbrindellati della manifattura, voi che vi sentite formiche ignote e anonime, voi che siete grati al padrone se vi fa lavorare, voi che vi percepite come sommatoria di debolezze e solitudini, ma vi rendete conto, benedetti colleghi o compagni (o quel cazzo che siete), vi rendete conto che la ricchezza, oggi, ora, adesso, la state producendo voi? Ma lo capite che senza le vostre mani, la vostra testa, i vostri saperi professionali ricchi o standardizzati, senza la vostra attitudine a sgobbare per poco, senza la vostra perdurante buona condotta (che in fabbrica, a differenza della galera, non porta sconti di pena, semmai il contrario), lo capite o no che senza di voi non ci sarebbe produzione, non ci sarebbe Pil, non ci sarebbe Def, non ci sarebbero acronimi puntigliosi, statistiche, dividendi agli azionisti e compensi ai manager, niente di niente di niente? Senza la vostra ineluttabile fedeltà fiscale non esisterebbero risorse per pagare ospedali e scuole e ponti (che crollano), perché pagate tutto voi, con i mille prelievi tentacolari che avvolgono le vostre pidocchiose buste paga – lo sapete o no? E l’export, il Made in Italy, l’eccellenza italiana, le fiere a Pechino, gli scaffali stracolmi di merci che traboccano minacciose e ci sommergono? Ma chi la produce tutta questa roba? E non solo voi, anche i ragazzi che adesso stanno nell’ufficio progettazione e non possono venire giù, e forse non parteciperanno mai ad un’assemblea con voi; e le “signorine della contabilità” (i vecchi le chiamano ancora così le impiegate), e anche quelle che puliscono i cessi, che sono le più strategiche di tutti – vorrei vedere a lavorare senza di loro (cessi e cooperazione produttiva: buona traccia d’indagine neo-operaista). E anche i vostri colleghi in Cina o in Germania, anche loro sono come voi (ma qua bisogna fermarsi, la rivelazione completa del Segreto sarebbe troppo destabilizzante). Ma lo capite o no che siete voi ad avere in mano le chiavi del negozio, che ogni mattina tirate su la serranda e tenete in piedi questo baraccone, con generosa munificenza verso parassiti e imboscati che risiedono nell’attico? Lo capite che stringete in pugno questo paese, senza neanche sospettarlo? Vi rendete conto che siete ridotti come un elefante che ha paura dei topolini? Vi terrorizzano con le liste di cassintegrazione, le lettere di contestazioni, le rate del mutuo, gli sfratti, le minacce di delocalizzare, le bugie della pubblicità che serve a farvi sentire esattamente come vi sentite – dei roditori che girano sulla ruota inafferrabile del consumista perfetto, raggiungendo solo più alti gradi di frustrazione; e vi costringono a indebitarvi, per poi farvi sentire in colpa per i vostri irredimibili debiti, così da poter spremere da voi ogni residuo pezzettino di solvibilità. Non siete deboli. Non lo siete mai stati. È incredibile, ma è così, ragazzi.

Qui si sono guardati un attimo tra di loro – perplessi, in diagonale, come i piccioni. I più vecchi avevano sentito già parlare di questa cosa – che loro sono i produttori –, avevano l’espressione di chi ricorda una vecchia leggenda dimenticata. Echi lontani. L’angelo della Storia che non entra in sala mensa.

Uscendo all’aperto, col sole negli occhi, la malinconia ti stringe l’anima. Nel cuore rutilante del post-moderno, eravamo semplicemente scivolati 150 anni indietro, nella coscienza, nell’immaginario, nella capacità di leggere le cose, la realtà, nella cultura e nell’intelligenza collettiva. Mentre pensavamo di diventare tutti borghesi stavamo diventando tutti sottoproletari – e non solo in fabbrica, penso ai lumpen delle redazioni, delle università, delle sale professori, del pubblico impiego, del “cognitivariato diffuso”- sottoproletariato iperconnesso –, che generalmente sono messi anche peggio di questi metalmeccanici. Eravamo piombati in piena epopea bracciantile, ma senza lo slancio evangelizzatore dei primi socialisti, di cui non c’era traccia all’orizzonte. Davanti a queste desolazioni assembleari, non mi vengono in mente i classici della letteratura sociale o i miti prometeici. No, piuttosto ripenso a un altro libro.

Ne Il Gigante Sepolto, Ishiguro Kazuo (nobel per la letteratura) racconta la leggenda di un vecchio drago, il cui alito pestilenziale diffonde nell’aria una nebbiolina infida che cancella i ricordi, confonde le memorie, intorpidisce le coscienze. È un incantesimo che ha attribuito al fiato della bestia questo potere. E così tutti gli abitanti di quelle contee vivono cupamente, nella smemoratezza, nella fallace percezione di sé, nel tran tran quotidiano dove il passato è cancellato e quindi il futuro è inimmaginabile. Questa grama condizione sospesa è il prezzo da pagare per la pacificazione della Britannia.

Il drago del racconto finirà ucciso e la storia – terribile, dinamica e sanguinaria – si rimetterà in moto.

Il nostro drago è ancora all’opera, esala i suoi effetti a ogni sospiro, mentre le nebbie circondano cantieri, capannoni, magazzini, si insinuano attraverso le orecchie dentro la testa della gente. Il drago, probabilmente, giace nascosto dentro una qualche cavità naturale, nel cuore della pianura padana, qui nel centro esatto del nuovo triangolo industriale. È la sua nebbia che ti fa sentire debole, impotente, impedisce la presa d’atto della realtà, la consapevolezza. L’incantesimo continua. La pacificazione regge.

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