Prince – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Living Colour: Shade https://www.carmillaonline.com/2017/10/26/living-colour-shade/ Thu, 26 Oct 2017 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41278 di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro. Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente. Poi nel settore “Black music”, zero. Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour. Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop. Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà. È il 1989 e vi dipingo il quadro: [...]]]> di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro.
Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente.
Poi nel settore “Black music”, zero.
Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour.
Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop.
Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà.
È il 1989 e vi dipingo il quadro: non ho neanche vent’anni, ascolto un sacco di musica, tengo a distanza il metal ma ho una passionaccia per l’hard rock. Una trasgressione controllata, diciamo, borghese: partendo dai suoni nobili dei Cream e di Hendrix sono arrivato ai Thin Lizzy e agli UFO passando per Deep Purple e Led Zeppelin e altre band ancora.
E poi mi piace anche la musica nera, chiaramente. Molto.
Riguardo la politica ho lo stesso caos mentale in testa: grandi rivendicazioni in una confusione dove si mescolano echi passati e istanze attuali.
È in questo nebbione che un bel giorno, scanalando, su VideoMusic – la mai troppo rimpianta VideoMusic, casereccia ed originale molto più della futura MTV – mi capita tra capo e collo un video coloratissimo dove quattro neri pestano come maniscalchi, tra immagini di Martin Luther King, Kennedy e Mussolini.
Aspetta aspetta: mmh, curiosi.
Non c’era la Rete per andare a farsi un’idea o YouTube per rivedersi il video.
No, bisognava aspettare e incrociare le dita che ripassasse il video o magari beccare l’articolo giusto sul giornale – sicuramente all’epoca – giusto: il Mucchio Selvaggio. E allora scopro che esiste un quartetto di neri che picchia duro, che mette in musica rivendicazioni artistiche (e in fondo perché i neri non dovrebbero suonare hard rock?) e politiche, e che è prodotto e distribuito da una major.
E vai di acquisto di Vivid, acquisto che, allora, era un atto di fede: compravi un disco e ti doveva bastare per un po’: erano 15mila lire, 15 sacchi sudati facendo il baby sitter o il cameriere. Trovai solo una musicassetta, mezzo alquanto infelice per certi versi e felicissimo per altri: l’ascolto in una sequenza definita ti costringeva ancor più del vinile (dove le divisioni tra pezzi erano leggibili) a seguire il discorso dell’artista. Era un percorso obbligato e l’album andava assunto nella sua interezza, non per brani.
E questo era un album di debutto eccezionale, sponsorizzato da Mick Jagger e subito amato da critica e pubblico.
Come definirlo? Hard rock con venature funky e noise, echi di Hendrix e James Brown, accenni di hip hop e una produzione scintillante e levigata che esaltava i ritornelli pop. Mettiamoci una voce calda e suadente ma capace di urlare e una chitarra istrionica che poteva accarezzarti con arpeggi alla Curtis Mayfield e sfregiarti con contorsioni metalliche. E poi i testi: i Living Colour accedono ai piani alti della classifica di Billboard (il disco sarà due volte platino, raggiungendo il sesto posto) cantando di diritti negati, razzismo, homeless, fiducia cieca nei leader, consapevolezza nera e privilegio bianco, disoccupazione e yuppies plastificati.
Vernon Reid, chitarrista e leader della band, è cresciuto tra musica pop, Stax, il funk rock di Sly Stone, ovviamente Hendrix ma anche tanto jazz, da quello classico fino a Eric Dolphy e il Coltrane più cosmico, arrivando ai Defunkt.
Le sue linee chitarristiche sono un flusso di coscienza, come il dripping di un Jackson Pollock sulla tela imbastita dalla batteria potentissima di Will Calhoun e dal basso di Muzz Skillings, e in questo turbinio senti il groove micidiale dei Parliament, ma anche il punk dei Gang of Four e dei Clash, l’eredità del CBGB e il sound metropolitano dei Talking Heads.
Vengo conquistato in pieno e da lì rimango innamorato perso di quel sound e di quel discorso. Son venuti altri album, sempre riusciti e premiati dalla critica ma meno facili per il grande pubblico. Dopo l’acclamato Time’s Up (1991) e il durissimo e inesorabile Stain (1993, col nuovo bassista virtuoso, Doug Wimbish) la band scompare dalla luce dei riflettori: la democrazia interna ha portato all’implosione.
Seguono anni di silenzio fino a un insperato ritorno nel 2003, con Collideoscope, album che riprende un discorso effettivamente lasciato a metà.
All’epoca scrivevo per Rolling Stone e mi arriva la proposta di intervistare Reid. Un po’ per il mio inglese, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il compito mi sembra richieda una maggiore preparazione, lascio stare, ma vedo finalmente i Living Colour dal vivo, a Trezzo. Sono sotto il palco e quando i musicisti accedono direttamente dal camerino penso a un effetto speciale, vedendo la nube che li precede. Errore: ganja pura che ci stordisce e inebria durante un concerto fenomenale, cominciato con Back in Black degli AC/DC e punteggiato da tutti i pezzi fondamentali della band, oltre a una durissima Seven Nation Army dei White Stripes, qui da noi non ancora coro da stadio.
Dopo un album interlocutorio del 2009 (The Chair in the Doorway), il silenzio, interrotto l’anno passato da un singolo, una cover di Notorious BIG, Who Shot Ya, tristemente emblematica.
E finalmente, dopo tanta attesa, a settembre 2017 arriva il nuovo album, Shade.
Che è una badilata nei denti, con la chitarra spigolosa di Reid che detta ancora legge, e basso e batteria che hanno un piglio che non trovereste in tante band di biancuzzi arrabbiati. All’attacco crunchy dei Metallica si sovrappone la sinuosità di un Prince (e tantissimo altro ancora, ovviamente), cadenzando il clangore della rabbia di una battaglia per la dignità e il rispetto che sembrava fuori tempo trent’anni fa e che oggi è più rilevante ancora, mannaggia.
L’album – va detto – non è facile, né radiofonico. Qui non c’è nulla di danzereccio, al limite il groove leggero della cover di Inner City Blues, ennesimo omaggio (a Marvin Gaye) che dà le coordinate del lavoro, così come la giustamente trasfigurata Preachin’ Blues di Robert Johnson. Del resto Corey Glover da anni andava annunciando un disco blues. Solo che qui il blues è riletto secondo la lingua arroventata di questi cinquantenni incazzati: non aspettatevi le classiche dodici battute o shuffle allegrotti. Del blues c’è lo spirito, i testi amari aggiornati alla situazione del terzo millennio, c’è l’ossessività ritmica e l’incessante lavoro delle chitarre che non si vergognano di prendersi lo spazio per dei (misurati) assoli, eloquenti nell’esprimere rabbia e dolore.
È stata un’attesa ben ripagata, insomma. E quanto è commovente, dopo anni di lavorazione, trovare un disco eccezionale quando non esistono più i negozi dove venderlo?

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Hard Rock Cafone #3 https://www.carmillaonline.com/2015/11/26/hard-rock-cafone-3/ Thu, 26 Nov 2015 21:31:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26581 di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta [...]]]> di Dziga Cacace

…nell’intronata routine del cantar leggero

IggyPop-ER.CEA77-270-22Un Crodino per Iggy Pop
Ad animalesche performance rock siamo abituati, altroché: i concerti di mezzo mondo sono spesso animati da cani che si agitano. Ma è un apprezzabile scatto di originalità quando, a condividere il palco con i frontman, è un animale più o meno vero. Si narra di pipistrelli sgagnati e colombe masticate da Ozzy Osbourne e qualcuno è pronto a giurare che Ted Nugent, già protagonista di entrate in scena documentate in groppa a bisonti ed elefanti, abbia una volta disintegrato un piccione con la violenza del suo muro di amplificatori. Gli ZZ Top, da buoni bifolchi texani, si son portati il bestiame sul palco, in un classico corral, mentre Alice Cooper ha giochicchiato alla noia con un boa meno fortunato di quello strapazzato da Cicciolina (morto comunque male). Più facile approfittare di animali finti: Justin Hawkins dei cafonissimi Darkness ha recentemente sorvolato il pubblico a cavalcioni di una tigre siberiana di peluche. Decisamente più gore è invece risultato Blackie Lawless, dei poco ortodossi W.A.S.P., che ai bei tempi squartava un maiale di gomma inondando di sangue finto il pubblico festante (beh, simulava anche la violenza su delle suore, il gentleman). Ma la migliore spetta a Iggy Pop, anche se per una volta come vittima, non come perpetratore. Siamo nel dicembre 1973 e l’Iguana ha già abituato il suo pubblico a uno stage-act sconvolgente: autolesionismo con cocci di vetro, sodomia con microfoni assortiti (poi uno dice “cantare col culo”) e frequenti esibizione del pendaglio (routine che, per la cronaca, continua tuttora). Ma la sua carriera autodistruttiva è in declino e il non ancora parrucchinato Elton John, per lanciare la sua nuova etichetta Rocket Records, pensa a lui. Detto fatto: va ad ascoltarlo ad Atlanta a un concerto dei decotti Stooges. Il futuro sir ha del genio ed estroso come sempre si presenta allo spettacolo con un costume da gorilla, tipo Dan Aykroyd in Una poltrona per due. L’Iggy annata ’73 è scimmiato forte e quando, annebbiato e carico di PCP, speed e coca, si vede un gorilla festante venirgli incontro per abbracciarlo, non pensa che sia per offrirgli un Crodino: panico! L’Iguana fugge terrorizzato dal palco, con Elton John che lo insegue per spiegarsi, ingenerando ulteriori misunderstanding. Pubblico attonito, Stooges increduli e concerto completamente in vacca. Di Iggy Pop si avranno notizie due anni dopo grazie a Bowie, ma sicuramente non ha mai più suonato con Elton John. Bestiale.

hrc302Derek & the Dominos e altre canzoni d’amore assortite
Se avevate sette anni negli anni Settanta, un cavallo bianco in tivù, che galoppa felice sulla spiaggia al suono di un riffone per chitarra, per voi significa subito Layla, il capolavoro di Eric Clapton. Ma per arrivare al Doccia Schiuma, quel cavallo ne aveva fatta di strada. Provo a farla semplice e voi – vi assicuro – finirete con 4 o 5 album splendidi da procurarvi subito. Dunque: lui, Clapton, fino a 9 anni ha creduto che i suoi nonni fossero i genitori. Per cui ha e suona il blues, talmente bene che sui muri di Londra lo hanno definito God. È una rockstar riluttante, stufo di supergruppi come Cream e Blind Faith e per decomprimere va in tour nell’inverno ‘69 con Delaney & Bonnie, coppia canterina dixie che si accompagna a una band che urla gioiosamente soul, gospel, blues e rock sudista. Con la stessa compagnia e Leon Russell, Eric incide anche il suo primo album (omonimo, bellissimo). Poi Russell porta la band in tour con Joe Cocker (altro che il pelatone spompo che duettava con Zucchero; qui, live capolavoro: Mad Dogs and Englishmen). Invece Clapton torna a casa a piangere sul suo amore impossibile per la moglie dell’amico George Harrison, Pattie Boyd. Alcuni reduci di Cocker lo raggiungono e sono Bobby Whitlock (organo), Jim Gordon (batteria) e Carl Radle (basso): c’è da accompagnare Harrison nel suo All Things Must Pass (opera d’arte; il migliore e più venduto album di un ex Beatle). A questo punto, però, la ricetta è cotta a puntino: il quartetto si battezza Derek & the Dominos – come un gruppo doo wop anni Cinquanta – e va a Miami per incidere. Tra agosto e settembre 1970 Eric e amici s’imbottiscono di droghe e cazzeggiano in studio, sinché si unisce alla cumpa anche il chitarrista eccelso Duane Allman (diversi capolavori da procurare con la formidabile Allman Brothers Band, cari: troppi per elencarli, ma se non avete mai ascoltato At Fillmore East avete avuto una vita miserevole), che agisce da catalizzatore biologico dell’opera: nasce Layla and Other Assorted Love Songs, il miglior disco mai pubblicato da Clapton e un’enciclopedia del rock: ballate e sfuriate, tra riff e improvvisazioni. Seguirà poi un live micidiale e la fine prematura del gruppo, col leader che ci metterà un po’ prima di tornare in pista, tra alcol, amorazzi, canzoni pop da classifica e la consueta trafila di belinate tipiche delle rockstar. Ma così vitale, inventivo e selvaggio come su Layla non lo avreste ascoltato mai più. Raccontarlo in 2500 battute e rotti è stato come compilare un codice fiscale, lo so, ma adesso avete tutti gli elementi per capire come nasce un capolavoro, riedito anche in edizione super deluxe: doppio vinile, 4 cd, dvd, pop-up e memorabilia assolutamente inutili e perciò irrinunciabili. Pensateci. (Luglio 2011)

hrc303Prigioniero di Black Widow
In via del Campo a Genova non ci sta solo una puttana, ma anche Black Widow, un negozietto che può dare altrettanti orgasmi a ripetizione. Altro che Palermo New York Marsiglia: il triangolo della droga discografica passa da Genova e lo gestiscono Massimo, Giuseppe e Alberto, che conciliano la passione con il mercato. Qui i bluff dei gruppettini alla moda non hanno cittadinanza, ma tutto ciò che è hard, metal, psych, fuzz, acid, grunge, doom, punk e le altre pecore nere della famiglia del rock, beh, c’è. Per dire: trovate i dischi di gruppi clamorosi come i Black Merda (da Detroit, con inconsapevole infortunio nominale per il mercato italiano). Così come i magnifici specchi con l’effigie dei vostri idoli, una cafonata unica per il bagno di casa. I dischi si ascoltano e si commentano come al bar e quando si tratta di pagare c’è sempre uno sconto, parola che è oltraggioso riscoprire a Genova. E poi siccome a chi ha più di quarant’anni il panorama rock appare desolante, quelli di Black Widow pubblicano anche, e con successo: buona musica e confezioni eleganti, ovviamente nei limiti estetici di generi come il rock sepolcrale o la psichedelia da tavolette di acido come un Toblerone. L’apice s’è raggiunto con Not of This Earth, cofanetto di quattro CD in cui artisti hard rock and heavy hanno dato la loro lettura musicale del cinema storico di fantascienza. Nel catalogo della vitalissima etichetta, oltre a gruppi storici come High Tide, Hawkwind, Black Widow e Pentagram, anche nuove proposte, come l’ottimo Witchflower dei Wicked Minds. Un esuberante mix di prog e hard, con echi di Deep Purple e Pink Floyd. Praticamente l’album che andavate cercando da anni e che le vostre band preferite non hanno saputo licenziare allora. E il disco non esce dalla macchina del tempo, ma arriva da Piacenza (con annesso dvd e pacioccone video lesbo degno di una tivù privata, ma albanese). Se passate di qui, insomma, Black Widow merita una vista. Però attenti a non lasciarci la carta di credito. (Novembre 2006)

DCIM101MEDIAIl pantheon induista dei R.E.M.
Campane a morto per i R.E.M. e riposi in pace il loro soft rock studentesco venato di psichedelia e talvolta mandolini, okay. Però, senza malizia, vi consiglio di risentirvi il loro miglior esito che è una nota a margine in discografia: l’omonimo album sfornato a fine 1990 dagli Hindu Love Gods, cioè i R.E.M. senza Michael Stipe ma con Warren Zevon. Nulla contro la voce di Everybody Hurts, figuriamoci (semmai qualcosa contro i fighetti che conoscevano solo Shiny Happy People o Losing My Religion) ma in quest’album politeista di cover gli altri ¾ della band si divertono con chitarra, batteria, basso, coglioni e la voce catarrosa di un amico che ha avuto meno successo di loro. Funzionava così: i compagnoni si vedevano in coda a session dei loro progetti principali e lasciavano libero sfogo alla creatività, reinventandosi – buona la prima – i classici del blues in versioni elettriche senza fronzoli, urlate in yo’ face. E se c’era qualche sbavatura, dava solo muscoli, sangue e sudore. Vita, insomma, che poi è l’essenza del rock che ci piace. Peter Mills non si accontentava del suo jingle jangle e sfoderava anche qualche pentatonica cattiva, mentre gli altri pestavano duro e Warren era sempre lì lì vicino a scaracchiare (gli senti proprio il bolo verdastro sull’epiglottide, giuro), ruggendo i testi sacri di padrini come Muddy Waters, Robert Johnson e Willie Dixon. E pure Prince (la magnifica Raspberry Beret)! Warren Zevon, cantautore rock sottovalutato e bravissimo, con una carriera piagata da armi, alcol ed epic fails clamorose, è stato poi portato via nel 2003 da un tumore veramente maligno, ma non prima di averci lasciato un altro album magnifico a suo nome, The Wind, e averci ricordato – ospite al Late Show di David Letterman (di cui era fraterno amico) – il segreto per vivere meglio: “Enjoy every sandwich!”. Bene, dategli retta e cercate Hindu Love Gods, fondamentale per qualunque band che oggi si chiuda in garage per affondare i denti nella carne del rock. Il Cd è impossibile da recuperare ma per rigorosi e leciti motivi di studio magari ve lo scaricate da un blog della Rete, anche se io non vi ho detto nulla, eh? Del resto siamo o no tutti studenti del rock, noi eterni Trofimov? (Novembre 2011)

hrc305Glenn Hughes sta bene, anche troppo
“Dillo ai lettori di Rolling Stone! Glenn Hughes dovrebbe essere morto!”. L’ultima cosa che avrei pensato di sentire da un artista in giro da quarant’anni e che parla di sé in terza persona… Ma riavvolgiamo il nastro della memoria: già in cima al mondo nel 1973 come basso tuonante e cristallina seconda voce dei Deep Purple, il ventunenne Glenn imprime alla band una svolta nera molto funky. Del resto il suo idolo è Stevie Wonder che incontra casualmente nei cessi di uno studio di registrazione di L.A.: dopo la pisciata lo raggiunge e per Hughes “è il momento più alto della carriera!”. Ma arriva anche la mazzata: nel 1976 un’overdose si porta via il prodigioso chitarrista Tommy Bolin, spirito gemello subentrato nella band a Ritchie Blackmore. “Ero fattissimo di coca e avevo davanti Tommy, morto”, mi racconta. Riprendersi è dura e seguono anni di progetti interessanti, ma sfuocati, e Glenn indulge nelle polveri tanto che “dal 1977 al 1991 non ricordo niente, nebbia totale”. Finché non ci rimane quasi stecchito. Da lì riparte la sua carriera: blasonato dal titolo di Voice of Rock, Hughes compone, suona e canta una riga impressionante di dischi che diventano sempre migliori. L’amicizia fraterna col batterista dei Red Hot Chili Peppers Chad Smith è determinante e gli ultimi esiti – Soul Mover, Music for the Divine e F.U.N.K. (tutti con un’etichetta italiana, la Frontiers) – sono scariche di adrenalina che ormai il quartetto californiano si sogna, e dove Glenn ulula con un’estensione che sembra di sedici ottave. Oggi è in formissima, irsuto, loquace e felice. Introduce ogni risposta con un “Listen, Filippo from Rolling Stone!” e mi parla della sua vita spirituale: fa yoga, ascolta jazz, lavora come un matto e aborrisce droghe, alcol e nostalgia. Una reunion con i Deep Purple metterebbe a posto due generazioni di eredi (“Parliamo di milioni di euro, credimi”), ma non ne vede il senso. Ora vende bene e suona per un pubblico di tutte le età e di ambo i sessi, non è inscatolato in un genere per quarantenni panzuti, e in concerto a Milano dimostra un’energia che neanche un sedicenne sotto anfetamine. Ai nostalgici (pochi) regala solo due brani storici dei Deep Purple, per il resto fa ballare tutti con un repertorio funkyissimo, con vocalizzi, melismi e gorgheggi, passando dal borbottio grave fino al miagolio all’ultrasuono da incrinare il cristallo. A un certo punto annuncia che “Stasera Stevie Wonder non ce l’ha fatta!”, ma francamente Glenn se l’è cavata da dio anche da solo. (Maggio 2008)

hrc306Premiata Forneria Marconi: buon sangue…
Franz Di Cioccio ha due occhi chiarissimi, sinceri, vivi. Da oltre trent’anni è il batterista shaolin e il frontman della Premiata Forneria Marconi, per comodità PFM (acronimo che negli anni Settanta dei tour nordamericani veniva gabellato alle groupies credulone per Please Fuck Me…). Ma quest’uomo dal multiforme ingegno è stato ed è anche tante altre cose: scrittore, showman tivù, indimenticabile attore in Attila, Figlio di Bubba a Sanremo e pure autore assieme al bassista Patrick Djivas della sigla del Tg5. Un pomeriggio di quasi estate mi racconta cosa stanno preparando i ragazzacci della sua band, ancora inquieti dopo aver attraversato tutta la storia del rock che conta in Italia: Battisti, De André, Mina (“E anche Al Bano!”, aggiunge Franz). Hanno realizzato un sogno che risale a quando volevano far recitare Storia di un minuto – il loro primo splendido album – al Living Theatre di Julian Beck: finalmente hanno composto la loro “rock opera”, nella tradizione di Jesus Christ Superstar e Tommy. Il tema? Sanguigno: Dracula, da Bram Stoker ma con qualche sorpresa… Per ora esce un album (scusate, ma è bello chiamarli ancora così) con gli highlights interpretati dalla band; nella prossima primavera uscirà l’opera completa, cantata dal cast che la porterà in tournée nei teatri italiani. E opera rock mica tanto per dire: Franz mi fa ascoltare orgoglioso, sottolineando con l’air drumming il tripudio di pieni e vuoti orchestrali, i temi che si intersecano, le performance strumentali che volano alto sulla mediocrità pavida della musica d’oggi. La sfida, raggiunta, è di ottenere in studio il suono del live: questa è musica progressiva nel vero senso della parola, che si muove e che trova nel recupero di certe sonorità la sfida verso il futuro; in un mondo che divora immateriali mp3 e ha perso il valore del disco come oggetto, non rimane altro che “suonare suonare”. E mentre alcuni “autori” diventano nel frattempo Cavalieri della Repubblica (e in che compagnia!), alla PFM niente, perché il rock puzza di sudore e la signora Franca Ciampi non conosce Celebration. Del resto Franz mi rivela che quando un cantautore non fa niente, si tratta di una pausa di riflessione; se invece è un gruppo a star fermo per un po’, allora è una crisi creativa… Nel paese del melodramma, l’energia rock fa fatica a trovare un accreditamento culturale, ma piaccia o no, la PFM è il nostro marchio musicale più conosciuto all’estero, dagli States al Giappone, conquistati con concerti dirompenti. Ma per il sempre positivo Franz oggi è meglio che in passato: “Non abbiamo più il problema di dimostrare nulla”. E ci mancherebbe. (Ottobre 2005)

hrc307Megadeth: una band di carattere. Orrendo
Arrivano in questi giorni – il 4 marzo a Milano, il 5 a Pordenone – i Megadeth, gruppo che da più di vent’anni lascia il segno nella musica dura. E sempre nonostante il leader Dave Mustaine abbia fatto di tutto per rendersi la vita impossibile. Molti non sanno che nella formazione originale dei Metallica, alla chitarra c’era proprio lui, del resto co-autore di molti brani dei loro primi due album. Viene fatto fuori per abusi diversi – alcolici, chimici e verbali – e la ferita non sarà mai rimarginata, come dimostra il docu Some Kind of Monster dove Mustaine appare come un frignone (e Lars Ulrich come uno stronzo). Il desiderio di rivalsa è fortissimo e Dave nel 1984 mette su la sua band (possibilmente “più veloce e pesante dei Metallica”), caratterizzata da formazioni volatili come il suo caratteraccio. Resiste per più di vent’anni solo il bassista. Con gli altri si rapporta come fa con gli allenatori un Gaucci on speed: le cacciate sono sempre per i motivi soliti (divergenze e dipendenze varie) oppure francamente sorprendenti, tipo “capelli troppo corti”. Ma questo non impedisce a Mustaine di vendere milionate di dischi (siamo oltre la quindicina) e sfornare capolavori del thrash metal, genere che per l’ascoltatore non aduso è come una bocconata di cocci di vetro e ghiaia. So Far, So Good… So What! ebbe qualche effetto anche sulla prova di maturità del sottoscritto. Purtroppo. Ad ogni modo, intossicato e disintossicato più volte, passato indenne tra arresti e cause miliardarie e pure cacciato da un tour con gli Aerosmith (sul palco li sfotteva: “Matusa!”), Dave è metallaro dentro e la militia dei suoi fan gli crede ciecamente e lo tradisce solo quando lui tradisce loro, come con il molliccio Risk del 1999. Poi dopo il ritorno all’abituale durezza, nel 2002 l’annuncio che lascia tutti costernati: basta Megadeth, Dave non suonerà più la chitarra. Nel più fantozziano degli incidenti s’è lesionato un nervo del braccio sinistro dormendoci sopra in una posizione assurda. Ma il nostro è cocciuto: impara nuovamente a suonare e i Megadeth tornano in classifica più tosti che mai, mentre si vocifera di una (temuta) conversione a cristiano rinato: se non altro due anni fa Mustaine ha minacciato di annullare delle date in Grecia e Israele se avesse dovuto dividere il palco coi Rotting Christ (che dal nome…). L’ultimo United Abominations è andato bene anche da noi e ospite in duetto c’è la nostra bravissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. Chissà che a Milano, tra qualche sera, non salga anche lei sul palco. Però occhio all’acconciatura. (Marzo 2008)

hrc308Tolo Marton: Italians do it better
La Blues House, ai confini di Milano, dove la metropoli si confonde in quel tumore urbanistico che arriva fino al confine svizzero, è un juke joint frequentato da appassionati agée e giovani già preda del virus delle dodici battute. Stasera le suona uno dei migliori: Tolo Marton, italiano e bluesman per modo di dire, perché questo trevigiano sorridente e timido non suona il consueto shuffle, blaterando in cattivo inglese. Per Tolo il blues è la grammatica principale, ma la sua musica spazia dal progressive delle Orme (dove esordì giovanissimo) al country, al rock senza confini. E il concerto è com’è lui: parte piano, con delicatezza. Poi la pennata si fa più decisa e l’ampli urla, con la band che lo asseconda. Tolo non è mai diventato una rockstar per scelta sua: oltre trent’anni di carriera alle spalle, tutta improntata all’onesta intellettuale e alla ricerca artistica, a dispetto di qualunque piano di successo. E infatti per diversi anni ha svernato ad Austin, Texas, più apprezzato là che da noi e non ci vuole il pasoliniano Orson Welles de La ricotta per ricordarci che l’Italia ha la borghesia più ignorante d’Europa. Sentire quali suoni tira fuori dalla sua Strato è umiliante per chi come me non ha rinunciato all’idea di diventare un guitar hero: Tolo arpeggia, gioca col volume, percuote le corde, fa fischiare le note, coglie armonici e dipinge straordinari affreschi chitarristici lontanissimi dall’onanismo di altri virtuosi. E non è un caso che la sua versatilità l’abbia portato a collaborare con Marco Paolini a teatro e Alessandro Baricco in radio: Tolo scrive pezzi che potrebbero accompagnare bertolucciane scene madri o leonini spaghetti western e la passione per il cinema viene fuori anche attraverso omaggi alla Pantera Rosa e ai Blues Brothers o con un incredibile medley morriconiano: “Io il mio Oscar gliel’ho dato nel 1971!”. E dopo averti stupito con l’Almanacco del giorno dopo, Tolo annienta il pubblico con una serie di rock blues dove fonde Jimi Hendrix, Rory Gallagher, Jeff Beck e Doors in una sintesi personalissima. Dopo, a cena, parliamo di Siae (“E’ un blues tristissimo!”), di cover band che uccidono la musica live e di tutti i suoi progetti. Ha appena licenziato il bellissimo Guitarland con altri 5 amici chitarristi, è pronto Giubbox con “le cover di quando eravamo piccoli” e intanto lavora a un nuovo album solo strumentale. Nell’attesa vi consiglio di recuperare i suoi primi tre album riuniti in un doppio, Reprints, ricco di bonus e live tracks: sarà amore, credetemi. (Dicembre 2008)

(Continua – 3)

Le puntate precedenti sono qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter: #RadioCacace

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 62 https://www.carmillaonline.com/2014/09/18/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-62/ Thu, 18 Sep 2014 20:44:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17191 di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005 Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi [...]]]> di Dziga Cacace

Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?

ddv6201661 – Sesso, sangue e ricatto in Hostel di un sadico, USA 2005
Sono di passaggio da casa dei miei, a Genova, e la pigra scanalata serale – noi genitori non più adusi neanche all’accensione del televisore – ci cattura subito. Ogni film sembra una evasione liberatoria, anche la più clamorosa vaccata. Incappiamo in questo Hostel e intuiamo subito che da questa golosa porcatina sarà difficile staccarsi, come capita con quei fantastici snack malati, pieni di sale, zuccheri e colesterolo che se apri il pacchetto, dici «solo una» e poi te lo devi finire. La prima parte del film, preparatoria, è irritante nella sua linearità, con degli imbecilli studenti americani in Interrail e che hanno praticamente la patata tatuata in fronte. Beh, anch’io ero partito per il classico viaggio post liceo pieno di aspettative verso leggendarie valchirie pronte a sbranarsi il bel pezzo di manzo che ero. Invece era finita che m’ero messo con Barbara. Perlomeno fino a stasera, visto che durante la visione del film borbotta più volte. I protagonisti, comunque, beati loro, si fanno una drogata tappa copulativa ad Amsterdam e son tentati dal colpo grosso: sono attirati a Bratislava per trombare ancor più, alla grandissima. E trombano, con gran sollazzo di regia (Eli Roth) e spettatore lubrico: ci manca che Barbara mi asciughi la bavetta alla bocca. Però per troppa foga e amor di figa i due rimangono invischiati in un gioco mortale: il film allora prende quota e c’è una certa astuta cattiveria visiva e narrativa che non lesina pelle, sia nuda che lacerata e sanguinolenta. Il film si pretende sia ambientata in Slovacchia, ma siamo nella Repubblica Ceca e la fauna locale che appartiene alla categoria “macrognocche da infarto”, viene esibita abbondantemente senza nascondere la natura maschile e maschilistica di questo esercizio sadico, rivolto a un pubblico preciso. Son moralista? Macché! Mi piacciono pure le donne nude – pensa te – ma mi dà fastidio il ricatto quando è così scoperto, senza nessuna astuzia se non l’esibizione (in cui casco a piedi giunti, è chiaro. E capisco anche il protagonista: il chiavatone che si fa vale una mutilazione permanente). Comunque: ritorno in me e faccio il prof dalla voce nasale: il problema generale di Hostel è essere un film che fa dell’esposizione oscena la sua ragione. Un po’ come quella stronzata di Saw, horror efferato, cinematograficamente furbetto e di cui mai vedrò i seguiti, neanche sotto tortura, quella tortura. (Diretta Sky; 6/10/07)

ddv6202662 e 663 – L’ha scritto Balzac E.R. (Anno 3 e 4) di Michael Crichton e Aa.Vv., USA 1996/97
Vi è mai successo? Avete voglia di un bel filmone fluviale, una di quelle faccende che rimani nel buio della sala, o tramortito sul divano, e pensi: questi personaggi sono vivi. Io li conosco, gli voglio bene, devo sapere cosa gli accadrà domani. Perché per quella porzione di tempo che ti ha preso il film tu sei entrato nella loro vita, nei loro problemi, hai condiviso la loro felicità o i drammi, i dubbi, i successi e le sconfitte. Ecco: penso a La maman et la putain… Leaud dove sarà ora? Starà ancora parlando e parlando, indeciso su cosa fare della sua vita? Beh, avevo voglia di una cosa così e mai mi sarei aspettato di trovarla in un serial televisivo. Perché la tivù di solito banalizza, attutisce, tranquillizza, consola, distrae, addormenta. E invece ecco che quel E.R. che ho schifato per tanti anni mi dimostra che può avvenire anche il contrario. Intendiamoci, ero esaltato anche dalle prime due serie ma con queste terza e quarta stagione si ascende ad ancora più alte sfere celesti. Si tratta di un capolavoro. È la Commedia Umana del ventesimo secolo, il documento visivo più completo per capire cosa siano gli Stati Uniti, degli anni Novanta e di oggi: lavoro, Aids, razzismo, rapporti uomo donna, omosessualità, disgregazione della famiglia, assistenza sanitaria, classismo, ricerca medica, mutuo, povertà, droga, delinquenza, armi, consumi, le gang, gli homeless, il Capitale, la vita e la morte… c’è tutto, con uno sguardo democratico, mai estremista, talvolta cerchiobottista ma mai falso o moralista (è lo show, credo, più visto di tutti i tempi: queste serie viaggiavano su una media di 30 milioni di spettatori. No, dico: 30 milioni. Intesi?). Ottimo il cast, il montaggio, le musiche, il ritmo, la regia, la psicologia dei personaggi, la verosimiglianza quotidiana e anche esistenziale. Tutto. Perfetto. Quando lo vedeva solo Barbara mi stava sul cazzo (E.R., non lei), poi, visto in originale l’episodio pilota della prima serie, sono rimasto completamente schiavo. È l’optimum televisivo: l’Heimat che gli americani non sanno di aver prodotto. E so già che un giorno dovrà arrivare a conclusione. E dove finiranno tutti loro, eh? E io? Argh. (Dvd; ottobre e novembre 2007)

ddv6203665 – Il finto The Prestige di Christopher Nolan, USA 2006
A Genova, per un blitzkrieg weekend, con pupattola al seguito. Dopo cerimonie voodoo, scongiuri e pratiche animistiche per addormentarla, ci concediamo un film e papà ci precede, un po’ aggressivo, come a dire di non cominciare a rompere: “Ho un dvd ottimo, con responsi critici da favola”. Ahia, qui finisce a schifio. Lo produce dalla borsa e io faccio la faccia un po’ così, da vera merda. Siccome si irrita subito perché distruggergli i film che mi propone è il mio sport preferito, lo ammansisco dicendogli che anche l’amico Pif lo ha trovato splendido, per intreccio e sorprese. Lo vediamo e, invece, sarò io un genio, ma mi erano chiari tutti gli inghippi con abbondanti mezz’ore di anticipo. E siccome io NON sono un genio vuol dire che il film è una vaccata. E per la cronaca mio padre non ha invece capito una mazza e s’è pure addormentato. Messo in scena benissimo, The Prestige è però freddo e lunghetto e sembra il compitino di un primo della classe che vuole sempre stupirti, sennonché a Nolan il prestigio non viene per nulla, secondo me. Con Memento il regista ci riusciva prima di diventare noioso, qui no. Il cast gronda dollari e oltre ai divetti Hugh Jackman e Christian Bale ci sono anche il classico Michael Caine, l’elegante David Bowie e la fatalona Scarlett Johansson, che com’è fotografata qui sembra una caricatura: è alta un metro e un barattolo, la forma del viso ricorda quello di un divieto di sosta con labbra carnosissime e ha tette che la precedono di un quarto d’ora buono. No, non è sessismo mio, è sessismo loro, credetemi. Vabbeh, film che passa ma che delude anche. L’unica cosa che mi ha divertito è stato Bowie nella parte dello squinternato e geniale Tesla. Basta. Comunque Pif ha messo su un suo programma su MTV, Il testimone, ed è bellissimo, questo sì. Semplice nella forma, ricchissimo nella sostanza: un distillato di intelligenza del mio piccolo amico, uno che farà carriera, son sicuro. (Dvd; 7/12/07)

ddv6204666 – Una porcata, Homecoming di Joe Dante, USA 2005
Papà ci riprova e mi dice, mani avanti: “Oh, Joe Dante! Ci siamo capiti? Dante!”. Beh, ne ho letto qui e là e in effetti molti critici erano in erezione marmorea per ‘sto filmetto. L’idea di partenza è folgorante (i cadaveri dei soldati USA morti in Iraq riemergono da sottoterra perché vogliono votare contro Bush) ma lo svolgimento è paratelevisivo a voler essere generosi, con attori che non se li imbarcherebbero neanche i Legnanesi in una replica parrocchiale. Mamma mia che brutto, una schifezza umiliante. Siccome Dante è pur sempre Dante, gli perdonano qualunque cosa, ma già La seconda guerra civile americana era una stupidaggine che si sgonfiava dopo aver semplicemente letto il riassunto sui quotidiani. E anche stavolta c’è solo un’intuizione e non un adeguato sviluppo nonché una forma degna di tal nome. E poi mi hanno un po’ rotto il cazzo gli americani liberali che della guerra in Iraq si ricordano sempre le vittime statunitensi e mai i centomila civili iracheni stecchiti (a volare bassi con le stime). Più gli altri (soldati, ribelli, pure terroristi) che son uomini anche loro. Se per loro un filmetto così è buono per pulirsi la coscienza, io aggiungo che mi ci pulirei qualcos’altro. E dài, eh. (Dvd; 8/12/07)

ddv6205667 – L’inaspettato Munich di Steven Spielberg, USA 2005
Non pago, dopo due cocenti delusioni, papà insiste ancora con le sue proposte cinematografiche e stavolta fa centro nella maniera più inusitata. Vedo il dvd di Spielberg e comincio a lamentarmi. Perché diverse cose sue recenti mi hanno irritato e certa poetica infantile non mi piglia più, non so. Che poi sa mettere in scena – e chi dice di no – però, boh. “Ma lo guardiamo, papà, dài, non offenderti”, e… ammazza che film! Va come un treno, è sottilmente ambiguo, per nulla compiacente, ricco e pure appassionante, limpidissimo e zeppo di fughe di “genere”. Insomma: il capolavoro che non ti aspetti, snobbato dal grande pubblico al botteghino e rifiutato sdegnosamente dagli israeliani (il che fa capire molte cose). Voglio dire: quale azione terroristica è risultata mai più odiosa dei fatti di Monaco, dell’uccisione di quegli atleti israeliani nel luogo dove dovrebbe vigere la tregua olimpica? Quanto può aver allontanato dalla comprensione della causa palestinese quell’atto? Eppure Steven (ebreo, sempre attentissimo alla memoria del suo popolo) riesce a metterci anche il punto di vista *loro* e si sforza di capirlo e costringe lo spettatore a mettersi in discussione come il protagonista, chiedendosi il senso della vendetta, del sangue che non lava altro sangue, ma ne farà versare ancora. E dove siano la ragione e il torto. Oh: mai amato troppo Spielberg, ma un film così mi fa perdonare tante cose. Per me – in un ambito mainstream e con cotanta paternità – perfetto. (Dvd; 9/12/07)

ddv6206669 – Ancora un capolavoro: Grizzly Man di Werner Herzog, USA 2005
Film incredibile, scomodo, folle e irritante come sa essere la vita. E la morte. Lo sguardo glaciale di Werner, senza giudizi, sull’esistenza irregolare di Timothy Treadwell, un ambientalista sui generis che ha deciso di votarsi all’impossibile convivenza con dei grizzly, cari e buoni finché non han fame. La storia è perlopiù narrata attraverso i filmini che Treadwell ha realizzato (un centinaio di ore di materiale, accuratamente selezionato e montato), accompagnati dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto (l’ex fidanzata, la sorella, un medico, una guardia forestale), tipi che non paiono meno strani dell’oggetto dell’investigazione filmica. Ma Herzog, come sempre, sembra chiederci: qual è la normalità? E possiamo piegare la natura ai nostri desideri? Le immagini documentarie di Treadwell sono curiose e danno un sapore particolare e agghiacciante al racconto, anche se ci vengono negate le sequenze finali della sua vita, che viviamo solo attraverso lo sguardo allucinato della sorella che invece le vede. Scelta etica che diventa anche cinematograficamente potentissima. Gran film, tanto per cambiare, tra l’altro musicato da quel genio che è Richard Thompson, uno dei miei musicisti preferiti (definizione preferita: “suona come se Chuck Berry fosse uno scozzese cresciuto in Libano”; in Italia quanti saremo ad avere tutti, ma dico proprio tutti, i suoi dischi?). (Dvd; 14/12/07)

ddv6207672 – Droga tagliata un po’ male: 24 – Stagione quattro di Aa.Vv., USA 2005
Siccome sono rimbambito ho visto la quarta serie prima della terza. Amen, più mistero ancora. In realtà non si gioca tanto sui tradimenti, perché è una serie un po’ fascistona e schematica, con buoni e cattivi schierati, morale busheggiante e arabi amorali, pronti ad ammazzare i figli. Stavolta non c’è teoria del complotto, ma pura e semplice azione. Jack Bauer agisce trasgredendo ordini e protocolli, risolvendo quello che i burocrati culi di piombo affrontano con leggerezza, incompetenza e lentezza. E intanto fa secchi un centinaio di arabi (o simili, anche se sono iraniani per gli yankee è la stessa cosa) traspiranti e puzzoni, anche quando plurilaureati. Per salvare la faccia ci sono anche arabi buoni che denunciano le attività dei fratelli cattivi. Unica (involontaria?) contraddizione: il discorso del cattivone di turno, tale Marwan, alla nazione americana, che riassume in due frasi la rabbia di chi odia la politica USA. Lo fa in maniera così precisa e ficcante che dubito che chi l’abbia scritta non ne intravedesse la verità. Rispetto alle prime due serie è tutto un po’ raffazzonato: più di un personaggio è dimenticato durante la narrazione (puf! Scomparsi!), molte volte gli impicci nascono da leggerezze francamente incoerenti (mancanza di uomini, tecnologia o abilità) e lo schema narrativo (indizio, ricerca del personaggio, interrogatorio, tortura, successo) è ripetuto troppe volte. Grande adrenalina, poco fosforo. Me ne farò una ragione. (Dvd; dicembre 2007 e gennaio 2008)

ddv6208674 – Il tristanzuolo Kontroll di tale Antal Nimrod, Ungheria 2004
Un film autoriale ungherese che trovo poco risolto: quando si bordeggia la commedia si ride a denti così stretti che ti fai male. Nelle parti drammatiche o poetiche è invece tutto sfuggente o un po’ banalotto. Bellissima fotografia sotterranea (il film è ambientato nella metropolitana di Budapest), okay, qualche attore dalla faccia interessante, una certa tenerezza, ma non cerchiamo scuse: Kontroll risulta – stringi stringi – una magiara rottura di coglioni come poche. (Dvd; 26/1/08)

ddv6209681 – Lo storico Barbarella di Roger Vadim, Francia/Italia 1968
Siccome l’hanno visto in milioni, siccome di Jane Fonda manca poco che si veda anche una gastroscopia, siccome i costumi li ha disegnati Paco Rabanne, siccome la psichedelia fantascientifica arrivava alle masse (virata pop e vagamente cartoonish), siccome c’era la liberazione sessuale, siccome tutte queste cose, Barbarella è un film che va visto. Lo faccio e mi ritengo autorizzato a definirlo una cagata dove salvo solo il grandissimo Ugo Tognazzi, perché il timbro della sua voce è splendido e perché – perlomeno sulla scena – si bomba la Fonda. Mi direte: ma questo film aveva un senso allora, non oggi, e l’erotismo e bla bla. Okay, ma io l’ho visto adesso, c’è già YouPorn e son nervoso, per cui fatevene una ragione. (Dvd; 29/2/08)

ddv6210682 – Scappo in Madagascar, di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2005
Un filmetto piacevole che ci mette mezz’ora ad ingranare e poi cresce bene. Il tratto un po’ spigoloso non mi piace granché ma molte scene (per presenza di masse – la tribù di lemuri imbecilli –, o architetture – Grand Central Station) non sono niente male. Il gioco citazionistico è spinto al massimo per dare motivo d’interesse agli adulti a seguire una vicenda abbastanza esile e perfetta per i pupattoli. Talvolta funziona (La febbre del sabato sera) altre è pura menzione (Momenti di gloria). Ma Madagascar si fa vedere, coinvolgendoti con la stupidità assoluta dell’orgiastico Re Julien o della pattuglia di stolidi ed efficaci pinguini che vogliono tornare in Antartide. Tra miraggi carnivori, comicità demenziale e anche un’insospettabile scorrettezza politica, viene fuori un film per bambini e adulti rimbambiti. Per cui ottimo per me. Ricordo diverse critiche perché sostanzialmente gli animali, ritornati al loro habitat naturale, ripensano nostalgicamente alla cattività urbana: come sempre l’ironia è un vento gelido che sfiora i polemisti da quotidiano. (Diretta Tv, Italia1; 4/3/08)

ddv6211683 – L’incredibile Zardoz di John Boorman, Gran Bretagna 1973
Solamente gli anni Settanta potevano partorire una cosa così: un film magnificamente astruso nei dialoghi e nel racconto della società futura e contemporaneamente sempliciotto nello svolgimento narrativo (e comunque complicato da rivelazioni che arrivano poco a poco). Costumi tra l’inventivo e il risibile, scenografie di plexiglass coloratissime e una generale atmosfera psichedelica e drogata, esaltata da una fotografia splendente; Sean Connery irsutissimo e seminudo, con uno slippino in pelle molto sadomaso a infagottare il pacco, l’adorata Charlotte Rampling sempre splendida. Fu un insuccesso clamoroso e la cosa non mi stupisce. Però gli vuoi bene, perché un film costa miliardi e c’è un matto, Boorman, che li ha messi di tasca propria per concedersi questa follia che oggi ha un immenso valore nel raccontarci come si poteva far cinema allora. E cosa passa talvolta nella testa degli uomini. (Dvd; 8/3/08)

ddv6212684 – La mitologica visione di Medea di Pier Paolo Pasolini, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Assente Barbara per le vacanze pasquali, procedo a uno spietato repulisti della videoteca, valutando per ogni cassetta qualità della registrazione, futura obsolescenza, reperibilità con altre fonti. Sarà una banalità, ma ormai su Youtube trovi veramente di tutto, è la nastroteca virtuale galattica dove c’è ogni cosa. Per il resto, il proibito, connessione veloce e peer to peer e – mulo o torrente – trovi il resto. E se proprio non lo trovi vai su Amazon e non rompere più le palle, dài. Eliminando le vhs ho sacrificato decine di film e spezzoni di Springsteen, Negrita, Gialappa, Fuori orario, amenità varie e Blob… anche se qualcosa mi sono rivisto, non ho saputo resistere. Come Fede che mette le bandierine durante le regionali del 1995, i funerali di Falcone, l’arresto di Giovanni Brusca, di nuovo Fede in orgasmo durante l’attacco all’Iraq del 1991, Achille Occhetto che piange alla Bolognina, Giuliano Ferrara tracimante in ogni dove, il sonoro ceffone di Roberto D’Agostino a Vittorio Sgarbi, Enrica Bonaccorti che becca un concorrente telefonico che risponde (esattamente: “Eternit”) prima della domanda del cruciverbone, Antonella Clerici che dichiara che pensa sempre al cazzo… Poi, messo via Miracolo a Milano (regalato, non buttato, ma l’ho visto almeno 5 volte), ho pensato che voglio più bene a Vittorio De Sica (il primo De Sica) che a Rossellini (specialmente l’ultimo). E che Herzog è immenso, specie quando la sua vita finisce nei film in cui ne racconta altre (e le vhs di Werner le ho tenute tutte). E che come certo cinema sperimentale degli anni Venti e Trenta, così libero, inventivo e geniale non c’è stato più niente. Poi ho rivisto il corto The Waiting Room di Jos Stelling, piccolo capolavoro erotico, e a spizzichi e bocconi Sign ‘O’ the Times esagerato film concerto con Prince al top: tutto feeling e ritmo, che grande chitarrista! Ma qualcosa l’ho assunto anche integralmente, tanto da elaborare un giudizio più meditato: è il caso di questa Medea di Pasolini. E il giudizio è: epico stracciamento di palle. E poi – scusate – hai sempre la sensazione che le masse rurali, che PPP metteva davanti alla cinepresa, non capissero una mazza di quello che dovevano fare. Attori presi dalla strada, dell’Anatolia però. Vedi gente che a comando fa qualche movimento, con sguardi persi verso la cinepresa, e poi si ferma come ad aspettare un cenno d’assenso. Una sensazione straniante, se vogliamo salvare la regia; un effetto tra il comico e il tragico se dobbiamo dire la verità. Perché Pasolini era un genio, è chiaro. E se decidiamo che l’ingenuità registica e narrativa siano un valore, va bene, era anche un bravo regista (che io, personalmente, ho sempre amato). Però francamente preferisco che l’inquadratura sia un po’ più curata, magari non traballante; così come il montaggio. E gli attori, pure. Se no vedersi una cosa come Medea diventa un continuo giustificarsi col tuo angelo custode cinematografico che ti ricorda che dovrebbe essere un capolavoro. La scelta delle location è formidabile (specialmente la Piazza dei miracoli di Pisa), i colori e i costumi sono molto evocativi. La vicenda – se conosci il Mito – è abbastanza leggibile; altrimenti è un florilegio di dialoghi al contempo declamatori ma anche doverosamente esplicativi – se no non si capirebbe veramente una minchia – seguiti da ellissi siderali e silenzi agghiaccianti che menano gran strage di spettatori. Ritmo, manco a parlarne. Maria Callas appare in un’intervista prima del film e non è quel che si dice una strafiga, ma è simpatica, molto intelligente e soprattutto affascinante: sprigiona energia ed erotismo. Poi la vedi nel film ed è veramente mostruosa, truccata come un reperto archeologico, boh. Medea l’ho visto con impegno meritevole di miglior ricompensa dopo aver già rinunciato a Parigi ci appartiene di Jacques Rivette: al quindicesimo del primo tempo ho avuto il sospetto che mi stesse crescendo un terzo coglione e ho deciso che poteva bastare: dialoghi ammorbanti, montaggio sgradevole, attori con facce da culo, vicenda che non mi intriga e densa di nomi che dimentico appena sento. Sarà colpa mia, ma non ho più l’età. (Vhs da RaiDue; 16/3/08)

ddv6213685 – A bocca aperta davanti agli Appunti per un’Orestiade africana di Pier Paolo Pasolini, Italia 1970
L’idea è: cerchiamo nella giovane Africa libera gli attori e le location per girare il mito di Oreste. Accompagnati dalla voce del Poeta, il film gira quando PPP si dimentica di associare Oreste e company alle immagini e racconta ciò che vede. Quando invece spiega il delirante progetto a degli studenti africani a Roma ci sono momenti spiazzanti, da supercazzola. Del resto rispondere a Pasolini che chiede se sia meglio ambientare l’Orestiade nell’Africa di allora (1970) o della prima decolonizzazione (1960), sembra uno scherzo crudele, oltre tutto fatto a gente che parla l’italiano stentatamente. L’impressione fortissima è che con questa specie di documentario il Pierpa si sia pagato il viaggio in Africa (col nasale Alberto Moravia al seguito, sai che spasso), oppure abbia messo una pezza a un progetto finito (ma anche pensato) male ed astruso. La musica originale è di quell’altro mio idolo che è Gato Barbieri, che però a un certo punto è vittima di un pentimento della regia in corso d’opera. Non bastassero le difficoltà precedenti, Pier Paolo si chiede: e se la tragedia fosse cantata? Giuro. Così, su atonale e ululante musica free, due cantanti neri devono anche impersonare Agamennone che scazza con Clitemnestra, raggiungendo vette degne del prof. Biscroma di Bracardi. Questo filmettino da oltre 60 minuti l’ho visto perché buttare via un nastro registrato 12 anni fa senza neanche dargli una possibilità mi sembrava brutto. Diciamo che è stato un omaggio alla mia passata passione cinefila. Che, grazie a dio, è passata. (Vhs da RaiTre; 17/3/08)

ddv6214686 – La burla Echelon controllo totale di un cialtrone, Francia 2002
Il documentario che dovrebbe raccontarci come siamo controllati in ogni nostra mossa comunicativa: cellulari, Internet, Sms, etc. Solo che è tutto narrato (da tale David Korn-Brzoza) in modo fiacco senza neanche la cialtronaggine croccante di un Voyager televisivo, per dire (e non basta usare il widescreen per fare cinema: serve un’intenzione). La fatidica rivelazione del complotto mondiale contro la nostra privacy è gestita coi piedi, buttata lì, quasi non fosse importante. L’ho mollato dopo dieci minuti di improperi: non si fa così, se no poi diventa tutto teoria del complotto e le denunce vengono attribuite ai soliti paranoici, eh. (Vhs da Tele+; 17/3/08)

(Continua – 62)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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