Prima Linea – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:09:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Stefanino Milanesi, una vita per la lotta https://www.carmillaonline.com/2024/03/11/stefanino-milanesi-una-vita-per-la-lotta/ Mon, 11 Mar 2024 13:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81692 di Sandro Moiso

Uno dei più noti compagni e protagonisti delle lotte comprese tra gli anni Settanta e quelle odierne del popolo NoTav se n’è andato, improvvisamente, questa mattina. Stefano Milanesi, meglio conosciuto come Stefanino o “Ste”, classe 1957, ha dedicato la vita e ogni istante della sua esistenza alla contestazione dell’ordine esistente, a parole e nei fatti.

Motivo per cui la “Legge” e lo “Stato” non lo hanno mai dimenticato o ignorato, nemmeno negli ultimi anni. Così, nel settembre del 2020, era stato ancora arrestato per scontare una pena di cinque mesi agli arresti domiciliari per una condanna per [...]]]> di Sandro Moiso

Uno dei più noti compagni e protagonisti delle lotte comprese tra gli anni Settanta e quelle odierne del popolo NoTav se n’è andato, improvvisamente, questa mattina.
Stefano Milanesi, meglio conosciuto come Stefanino o “Ste”, classe 1957, ha dedicato la vita e ogni istante della sua esistenza alla contestazione dell’ordine esistente, a parole e nei fatti.

Motivo per cui la “Legge” e lo “Stato” non lo hanno mai dimenticato o ignorato, nemmeno negli ultimi anni. Così, nel settembre del 2020, era stato ancora arrestato per scontare una pena di cinque mesi agli arresti domiciliari per una condanna per resistenza a pubblico ufficiale, durante una protesta al cantiere della Torino-Lione del 17 settembre 2015.

Fin da giovane era stato militante del Collettivo studenti-operai della Valsusa, poi in Lotta Continua come studente dell’Istituto Tecnico Pininfarina e membro del servizio d’ordine della stessa, in seguito militante di Senza Tregua e Prima Linea, fino al suo arresto nel dicembre del 1977. Dopo la scarcerazione e un periodo trascorso in Messico, Stefanino aveva ripreso la sua attività all’interno del Movimento No Global e del centro sociale Askatasuna di Torino e nel movimento NoTav di cui è stato animatore e protagonista dagli inizi fino al suo ultimo giorno di vita.

E’ difficile riassumere in poche righe una vita “militante” come la sua e sicuramente il suo carattere schivo e, allo stesso tempo, roccioso non avrebbe gradito discorsi troppo lunghi o retorici. Amante della natura e della montagna, abitava con la compagna Ermelinda una casa isolata sul lato più soleggiato della valle, nella frazione Argiassera di Bussoleno. Rispettoso di chi era in difficoltà amava aiutare gli anziani che vivevano nelle frazioni vicine, gli animali domestici e selvatici e il cinghiale, da lui soprannominato Ugo, che ormai da tempo si recava sotto casa, quasi ogni sera, alla ricerca di cibo.

A chi scrive non resta che stringersi nel suo ricordo alla compagna, alla madre, Rosa, che negli anni della detenzione lo assistette, anche affrontando lunghe trasferte e vergognose soperchierie, in ogni carcere di cui fu “ospite” e a tutti i compagni della Valle e di altre mille esperienze che lo hanno conosciuto, rispettato e amato.
Ciao Stefanino, sarai sempre con noi!

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Alla fine dell’estate https://www.carmillaonline.com/2023/09/09/alla-fine-dell-estate/ Sat, 09 Sep 2023 05:53:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78935 di Edoardo Todaro

Alla fine dell’estate, gli anni della lotta armata in Italia, di Carlo Frattini, Red Star Press, 2021 pag. 217 – € 16,00,

Ci sono vari motivi per cui si affronta la lettura di un libro: titolo, copertina, aver letto i precedenti libri dell’autore, ecc … Motivazioni tutte legittime e tutte soggettive. Anche in questo caso c’è un qualcosa che non può non attrarre l’attenzione del potenziale lettore: il sottotitolo. GLI  ANNI  OTTANTA  DELLA  LOTTA  ARMATA  IN  ITALIA, e non è certo il riferimento alla lotta armata in generale, bensì appunto alla [...]]]> di Edoardo Todaro

Alla fine dell’estate, gli anni della lotta armata in Italia, di Carlo Frattini, Red Star Press, 2021 pag. 217 – € 16,00,

Ci sono vari motivi per cui si affronta la lettura di un libro: titolo, copertina, aver letto i precedenti libri dell’autore, ecc … Motivazioni tutte legittime e tutte soggettive. Anche in questo caso c’è un qualcosa che non può non attrarre l’attenzione del potenziale lettore: il sottotitolo. GLI  ANNI  OTTANTA  DELLA  LOTTA  ARMATA  IN  ITALIA, e non è certo il riferimento alla lotta armata in generale, bensì appunto alla lotta armata e agli anni ottanta. Perché, nonostante le difficoltà riscontrate dagli autori, in particolare in occasione delle presentazioni, l’editoria, almeno una parte di essa, si è dimostrata disponibile a pubblicare testi di appartenenti alla formazioni combattenti degli anni ’70,di coloro i quali Frattini definisce in modo perfetto,” figli dell’offensiva “.  

Basti pensare ad esempio a Pasquale Abatangelo con il suo “Correvo pensando ad Anna”; a Renato Curcio, con la sua produzione sociologica, pubblicata  in gran parte da “Sensibili alle Foglie”; a Barbara Balzerani ed i suoi numerosi testi personali/politici; a Salvatore Ricciardi, purtroppo deceduto poco tempo fa, sulla sua vicenda personale e sul pianeta carcere; alle analisi storiografiche di Paolo Persichetti ed ovviamente a Prospero Gallinari con “Un contadino nella metropoli” ed al famoso, e sempre attuale, “Brigate Rosse una storia italiana” di Mario Moretti. Tutti testi importanti per inquadrare un percorso che si è sviluppato ed ha attraversato l’Italia e che non ha avuto esempi paragonabili in altri paesi, attenendosi  alla lotta armata come tentativo di presa del potere e non alle esperienze di lotta di liberazione nazionale da dittature e/o occupazioni.

Nel primo caso mi riferisco al cosiddetto emisfero occidentale; nel secondo caso ai paesi “in via di sviluppo”, Africa, Asia, America centrale/Latina. Tutti testi riferibili all’esperienza armata che si prodotta negli anni ’70. Un percorso quello della lotta armata sul quale gli storici si arrovellano nel dare un inizio temporale. Ma, c’è un ma, che Carlo Frattini ci aiuta a conoscere e portare alla luce, cioè la lotta armata negli anni ottanta. Anni ottanta che sono legati in modo indissolubile con il cosiddetto filo rosso, con gli anni ’70. Pochissimo è stato scritto su quel periodo, su cosa ha voluto dire per chi praticava quel percorso, su come un militante politico arriva a decidere di esserne parte, di esserne protagonista, di un qualcosa che mette in discussione la propria vita, la propria esistenza.

L’importanza di un libro come “Alla fine dell’estate” risiede nello sfatare un principio dato per assodato, certezze provenienti da ricostruzioni limitate, volute o meno: la lotta armata in Italia è terminata alla fine degli anni ’80 continuando negli anni ‘80. Certo i protagonisti di quell’esperienza sono condannati al silenzio, anzi obbligati al silenzio, a futura memoria, perché non si sappia che il potere politico di questo paese ha traballato, è stato messo in discussione a tal punto che per salvarsi non si è fatto scrupoli a ricorrere alla tortura, nonostante voci più o meno autorevoli , alla Pertini, non lo ammettano; addirittura affermando che l’Italia “ha sconfitto il terrorismo grazie ai valori della carta istituzionale”. Mi spiace per i tantissimi/e estimatori di Pertini, “il presidente partigiano”, ma, diciamolo, mentì sapendo di mentire.

Quanto ci viene descritto da Carlo Frattini è un percorso soggettivo, è il famoso “il personale è politico”, uno vive dell’altro e viceversa, di un militante che si trova a fare i conti con le rinunce, umane come ad esempio le partitelle a calcio,al razionalizzare la spontaneità dei sentimenti, a partire da quelli affettivi, conseguenti alle proprie scelte, sul cosa lo porta ad intraprendere una strada costellata di ostacoli e dubbi; e  con, 1987/1988, l’annuncio dei cosiddetti  capi storici che la lotta armata è finita e che è il momento della “ battaglia per la libertà “ perché le condizioni politiche che avevano dato avvio, e legittimato,la lotta armata si sono esaurite.

Ed a chi non è d’accordo, non rimane che la domanda storica che ha attraversato centinaia di percorsi soggettivi: che fare? Tornare a casa o prendere la via dell’esilio, Francia, Nicaragua? No grazie, la scelta è restare, rifiutare il “tutti a casa”, perché ciò che prevale è il connubio rabbia e voglia di esserci, senza farsi troppe domande, restando fedeli alla propria storia,anche quando tutto sembra perduto; nonostante faccia capolino il presagio malefico della morte, sempre e comunque preferibile alla cattura, con tortura conseguente; impossibile lasciare indietro chi resta sulle barricate, perché il conflitto in corso si è trasformato in guerra e ne va preso atto.

Un militante che ha nella sua cassetta degli attrezzi, nel suo dna, i fratelli Anna Maria e Luca Mantini, Sergio Romeo assassinati, gli ultimi due a Firenze; Barbara Azzaroni e Matteo Caggegi assassinati a Torino; l’assassinio per mano fascista, a Roma, di Valerio Verbano: nomi che possono anche non dire niente ai più, ma che in realtà, in quegli anni, volevano dire tantissimo; l’assassinio, una vera e propria esecuzione,nel marzo ’80, di 4 militanti Br in via Fracchia a Genova; la retata contro i dirigenti di Autonomia il 7 aprile del 1979, promossa da un partito comunista compiacente e colluso con il potere; i licenziamenti nel ciclo produttivo, i sindacati ormai organici al sistema, i fascisti che attaccano l’emittente radiofonica romana, Radio Città Futura, in occasione di una trasmissione gestita al femminile; la violenza che sta dentro un conflitto di classe che si protrae nei decenni; le stragi di stato, l’ultima alla stazione di Bologna; il 1980 alla FIAT; i 61 licenziamenti politici, sempre alla FIAT; la rivolta nel super carcere di Trani e la chiusura del lager dell’Asinara; aver letto Balestrini ma anche Engels; ed ovviamente con i dubbi rispetto alle conseguenze che si sono prodotte con l’operazione Moro e Guido Rossa; tutte quelle elencate, al di là che non rispettino una cronologia, sono tappe significative di un percorso che ha una direzione, che se non è  obbligata, poco ci manca; tappe che non possono essere rimosse come se niente è accaduto;un militante che entrando nello specifico della propria esperienza ci può dire dov’è la differenza tra latitanza e clandestinità, su cos’è l’organizzazione ed i suoi meccanismi di funzionamento.

Accanto a queste cosiddette tappe di crescita si sviluppa il libro, un libro di analisi, di collegamento di esperienze. Un libro che ci mette a conoscenza dei livelli messi in campo dalla repressione, a partire dall’attuare le massime dell’“Arte della guerra”  concretizzandosi nel non perdere mai il contatto con il nemico e studiarlo, porlo sotto osservazione. Carlo Frattini ricostruisce, valorizzando un elemento che ritengo centrale: il contesto nel quale si sviluppa. Il contesto personale, con i ricordi del vissuto da militante, ed il contesto del vissuto da combattente. Su tutto questo si evidenzia una questione che è stata motivo di discussione anche accesa, il passaggio di testimone di chi è stato protagonista della lotta di liberazione dal nazi-fascismo e si è sentito frustrato dagli esiti della lotta portata avanti verso coloro i quali intendono mettere in discussione i rapporti di forza e ribaltarli. Questione che si concretizza nella figura di Cesare, con i suoi punti di vista, con i suoi principi e valori, il partigiano, o quanto meno l’ex,che incarna una forma di autocoscienza, di messa in discussione dell’agire. Carlo Frattini che non può sottrarsi dallo scrivere a proposito del pianeta carcere, delle sue evoluzioni ecc… dell’ingresso, “a mani basse” del circuito dell’eroina, responsabile, o quanto meno complice, dell’annientamento del movimento di opposizione di classe.

Alla fine di queste 217 pagine incappiamo in uno spunto filosofico, che può sembrare fuori luogo, ma che a mio avviso risulta importante. Se poco prima ho scritto a proposito dei ragionamenti dell’ex partigiano, Cesare, che dire dell’anziano, in quanto operatore nell’antiterrorismo, tutore dell’ordine che si misura su di un metro di giudizio, che è come camminare  sulle confezioni di uova, sul senso di vittoria e sconfitta. Mi permetto di concludere con un qualcosa che non è affatto scontato: l’esperienza della lotta armata in Italia, ha un lascito non secondario; in carcere, oggi, ci sono ancora i prigionieri politici. Leggere questo libro e farlo conoscere è molto importante per rimuovere l’oblio a cui si vuole relegare queste vicende.

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Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

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Cronologia enciclopedica degli anni più belli, difficili e duri https://www.carmillaonline.com/2018/08/06/cronologia-enciclopedica-degli-anni-piu-belli-difficili-e-duri/ Mon, 06 Aug 2018 19:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47588 di Fiorenzo Angoscini

Davide Steccanella, Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata, Nuova edizione aggiornata, Edizioni Bietti, Milano, febbraio 2018, pag. 541, € 17,00

A distanza di cinque anni dalla pubblicazione della prima edizione (marzo 2013) e della sua ristampa (giugno 2013) l’autore ha rimesso mano alla monumentale opera di ricostruzione di fatti ed avvenimenti che hanno contraddistinto il periodo italiano (con alcune appendici internazionali1 ) che va dall’anno 1969 fino al 14 dicembre 2017 (la ‘prima’, e [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Davide Steccanella, Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata, Nuova edizione aggiornata, Edizioni Bietti, Milano, febbraio 2018, pag. 541, € 17,00

A distanza di cinque anni dalla pubblicazione della prima edizione (marzo 2013) e della sua ristampa (giugno 2013) l’autore ha rimesso mano alla monumentale opera di ricostruzione di fatti ed avvenimenti che hanno contraddistinto il periodo italiano (con alcune appendici internazionali1 ) che va dall’anno 1969 fino al 14 dicembre 2017 (la ‘prima’, e ristampa, si fermavano al 1° marzo 2013, «Roma: nel corso di una rapina in via Carlo Alberto viene ucciso Giorgio Frau». Ex militante di LC e, dal 1984, vicino alle Unità Comuniste Combattenti). Quel giorno «la Commissione Moro convoca una conferenza stampa per commentare la produzione di un elaborato di 300 pagine che si conclude così: “Le attività condotte restituiscono a Moro un grande spessore politico e intellettuale e fanno emergere il suo martirio laico, nel quale si evidenziarono le sue qualità di statista e di cristiano”.

Steccanella, professionista forense, cultore di molte altre discipline che, poi, spesso finalizza in interessanti pubblicazioni, ha già dedicato ricerche, tempo e libri alle sue passioni personali: la musica lirica e rock, lo sport, in particolare al calcio, all’attività ed avvenimenti politici tra i più vari.
Al di la del titolo, che potrebbe far pensare che si sono presi in considerazione solo episodi di ‘lotta armata’, l’antologia, in realtà, tratta e ricorda episodi significativi e drammatici, ma anche di cronaca bianca, che si sono susseguiti nel ‘bel paese’. Infatti, ogni anno-titolo di testatina è accompagnato da informazioni e notizie sui più importanti dischi e film prodotti quell’anno, chi ha vinto l’Oscar per il cinema, quale squadra di calcio si è aggiudicata lo scudetto tricolore (quando si disputano, ogni quattro anni, anche il Campionato Europeo e quello Mondiale, fino al 1970 Coppa Rimet), chi ha trionfato al festival di Sanremo…

Per motivi d’importanza politica e, probabilmente, anche per forza di penetrazione mediatica, la premessa a questa nuova edizione (diversa da quella delle edizioni precedenti) ha come data, ed inizio, l’avvenimento di giovedì 16 marzo 1978: azione di via Fani e sequestro del leader DC Aldo Moro. Così, l’abbiamo già detto, come termina la ricostruzione temporale: con la presentazione della relazione della Commissione di inchiesta sul rapimento e sulla morte dell’esponente democristiano.
Tra questo inizio-fine, non cronologico ma d’importanza assoluta poiché indubbiamente il rapimento del presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana è stata la più eclatante e significativa azione di guerriglia condotta nel periodo considerato, troviamo quello che l’ha preceduto e seguito. Non solo la formazione e il radicarsi di organismi-organizzazioni armate e guerrigliere (Gap di Feltrinelli e sua propaggine genovese: 22 Ottobre; le Brigate Rosse, Prima Linea e tutto l’arcipelago piellino, Azione Rivoluzionaria, le azioni di cellule ed organismi di quartiere, le brigate di qualche fanatico-folle in cerca di celebrità e rapido pentimento) costituite per sferrare l’attacco al cuore dello stato, ma anche stragi nelle banche, nelle piazze, sui binari, nelle stazioni; uccisioni di manifestanti durante cortei e manifestazioni operaie e studentesche, fascisti che accoltellano ed ammazzano militanti politici, tentativi di colpi di stato. Non è solo un calendario di fatti e misfatti. Spesso, a corredo di alcune ‘situazioni’ particolari, Davide Steccanella, ripropone articoli ed interviste di quotidiani e settimanali, stralci di documenti di organizzazioni combattenti, completando l’insieme con sostanziose e complete note ed interessanti rimandi.

E’ un utile calendario di ricostruzione storico-cronologico, ma non è solo un elenco di date e di avvenimenti.
Una preziosa testimonianza, un buon ricordo per tutti gli smemorati passati, presenti e futuri.
Non nutriamo soverchia fiducia e rosee aspettative. Soprattutto da parte di chi ha contribuito, con complicità attiva o passiva a determinare morti e seminare sospetti.
Mentre, con rispetto e vicinanza, pur nelle rispettive diversità, ci riconosciamo in tutti coloro che «Volevano cambiare il mondo: facevano politica».

Peccato soltanto per l’appendice finale, Dialogo con un ‘cattivo maestro’, che merita davvero poche battute e nessun giudizio a causa della superficialità e dell’opportunismo dei giudizi contenuti in un’intervista a Luca Colombo, il cattivo maestro tra i fondatori delle Formazioni Comuniste Combattenti, destinati soltanto a giustificarne le scelte personali e giudiziarie davanti all’intervistatore, Giovanni Sordini.


  1. ad esempio, Maria Elena Angeloni in Grecia  

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Il grande perché https://www.carmillaonline.com/2018/05/10/il-grande-perche/ Wed, 09 May 2018 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45347 di Sandro Moiso

Marina Premoli, Questa è già la mia vita, Quodlibet, Macerata 2018, pp.240, € 18,00

“Ogni attimo avrà il suo bivio” (Louis-Auguste Blanqui)

Sugli anni della lotta armata sono state prodotte, fino ad ora, molte narrazioni e molte ricostruzioni, spesso condotte sul filo della memoria individuale, i cui autori appartenevano alle fila della classe operaia, agli studenti figli della piccola e media borghesia oppure alle frange più politicizzate del sottoproletariato. Marina Premoli aggiunge a tutte quelle, qui sbrigativamente elencate per grandi categorie, una voce altra: quella di chi proveniva da un ambiente aristocratico e liberal-borghese. Così, non a [...]]]> di Sandro Moiso

Marina Premoli, Questa è già la mia vita, Quodlibet, Macerata 2018, pp.240, € 18,00

“Ogni attimo avrà il suo bivio” (Louis-Auguste Blanqui)

Sugli anni della lotta armata sono state prodotte, fino ad ora, molte narrazioni e molte ricostruzioni, spesso condotte sul filo della memoria individuale, i cui autori appartenevano alle fila della classe operaia, agli studenti figli della piccola e media borghesia oppure alle frange più politicizzate del sottoproletariato. Marina Premoli aggiunge a tutte quelle, qui sbrigativamente elencate per grandi categorie, una voce altra: quella di chi proveniva da un ambiente aristocratico e liberal-borghese. Così, non a caso, nel testo l’autrice arriverà a definirsi come una “arrampicatrice sociale al contrario”.

Nata a Genova durante i primi anni del Secondo conflitto mondiale, Marina ricostruisce minuziosamente le vicende della sua vita e della sua famiglia in una sorta di proustiana ricerca del tempo perduto, in cui però il sapore rivelatore della classica madeleine è talvolta sostituito da quello aspro dell’alcol, che spesso non può far altro che riportare alla memoria ricordi aspri, spiacevoli e dolorosi.

Una ricerca del “grande perché” di una scelta che, al di là di ogni spiegazione ideologica e politica e senza dimenticare affatto il contesto sociale e collettivo in cui si sviluppò, rimase pur sempre un fatto personale e talvolta casuale. Una conseguenza dei passi susseguitisi inesorabilmente uno all’altro in anni durante i quali, come dylaniane pietre che rotolavano, quasi tutti coloro che intrapresero quell’avventura e quella storia di innegabile sconfitta furono trascinati da avvenimenti, grandi e piccoli, in cui la volontà dei singoli finì con l’essere destinata a costituire spesso soltanto una delle tante variabili possibili e col contare decisamente meno di quanto si sia poi narrato.

È un’autobiografia coraggiosa, talvolta spietata, quella di Marina Premoli; in cui non si cercano scuse o giustificazioni aprioristiche di un percorso pagato poi duramente.
Priva di quella retorica e di quell’enfasi eccessiva che troppe volte animano ancora la narrazione degli sconfitti, conduce il lettore in un universo privato, che riesce però anche ad essere collettivo, in cui, almeno per una volta, le annose e astiose polemiche tra le due formazioni maggiore dell’epoca, Brigate Rosse e Prima Linea, rimangono quasi del tutto escluse.

Una trappola cui il libro sfugge con estrema dignità, aprendo al contrario ogni stanza di una casa, forse di una magione se si pensa al maso o al castello di famiglia, in cui nulla deve rimanere nascosto, tranne i nomi reali di personaggi talvolta fin troppo conosciuti e qui, tutti, sostituiti dichiaratamente da altri.

Nonni, nonne, amici, amiche, affetti, amori felici, amori deludenti, i primi sussulti della protesta giovanile, tradimenti e prove di fedeltà accompagnano la ricerca di Marina. Viaggi, permanenze all’estero in città quali Londra, Parigi e Bruxelles durante l’infanzia e la pre-adolescenza accompagnano la cronaca di una vita di coppia, quella dei due genitori, complessa e che lascerà nell’animo della giovane un senso distorto dell’amore. Anche se poi, leggendo, vien da chiedersi se non sia proprio il concetto di “amore di coppia” di per se stesso a costituire qualcosa di distorto rispetto alla natura umana.

Una madre avventurosa e anarcoide e un padre in seguito rappresentante eletto del Partito Liberale, entrambi provenienti da famiglie blasonate o più che benestanti, occupano una posizione centrale nelle memorie recuperate dall’autrice, attraverso un percorso fatto di sogni, ricordi precisi e incontri ravvicinati con l’alto e il basso della società italiana tra i primi anni Cinquanta e i tardi anni Settanta.

Un percorso intellettuale e fisico allo stesso tempo, in cui rimane la nostalgia di certe amicizie perdute (e magari poi fortunosamente ritrovate), estati spensierate al mare e in montagna durante l’infanzia e momenti di vita collettiva e interamente condivisa come quella creatasi intorno alla e nella comune di militanti dell’Assemblea Autonoma dell’Alfa Romeo in cui e con cui Marina avrebbe condiviso un momento importante della propria vita. Un esperimento felice, come lo definisce lei stessa, testimonianza di «un antagonismo che non vuole essere solo contro, ma che cerca di essere alternativo, per molti aspetti propositivo».

Anche la memoria specifica del periodo “armato” è precisa e dettagliata: le discussioni, le incertezze, le azioni, le rapine di autofinanziamento, i documenti falsi, le fughe rocambolesche, la solitudine del latitante, le torture, le confessioni dei pentiti, i ripensamenti, gli amori istantanei, le vittime casuali, la fine della dipendenza dall’alcol e il carcere.
Il tutto descritto e narrato con una scrittura che, lo si capisce ben presto nel corso della lettura, è allo stesso tempo dolorosa e liberatoria.

Il confronto tra le due società, quella borghese da cui l’autrice si allontana progressivamente e quella antagonista e proletaria cui si avvicina e di cui entra a far parte senza esserne ossequiosa, sembra non avere vincitori anche se la prima sembra conservare una capacità intellettuale più alta rispetto alla seconda.
Ma, evidentemente, quella superiorità intellettiva non poteva essere sufficiente alla fisicità della protagonista. Fisicità della ricerca di una vita completa e mai pienamente soddisfatta, ereditata dalla madre tanto ammirata quanto ambiguamente amata; cui si accompagna una ricerca di ordine morale e impegno sociale che però, fin da giovane, l’autrice non riesce a riconoscere pienamente né nella figura del padre, amato a sua volta ma ritenuto eccessivamente succube dei capricci della moglie, né in quella degli amanti e amici più vecchi (in cui sembra ricercare indirettamente una sostitutiva figura paterna), né tanto meno nell’organizzazione politica e combattente in cui si troverà a militare.

Un viaggio nel dubbio in cui l’unica verità, pronta ad esplodere nelle pagine finali, è quella che «questa è già la (mia) vita» e che non ci saranno più né il tempo né l’occasione per correggere le scelte, le strade e gli errori precedenti.
Così facendo l’autrice, invece di allontanarsi dai propri lettori finisce coll’avvicinarsi ad ognuno di essi, riuscendo a far sì che questo risulti essere uno dei libri più sentiti e sinceri su una stagione che, come è ancora l’autrice ad affermare a proposito del proprio passato, sarebbe prima o poi necessario superare senza obbligatoriamente rimuoverla completamente. Per poter finalmente volgere uno sguardo ancora carico di attese all’incerto futuro che comunque ci attende.

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