prima guerra mondiale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra alla guerra. Da Remarque a Echenoz https://www.carmillaonline.com/2024/06/14/guerra-alla-guerra-da-remarque-a-echenoz/ Fri, 14 Jun 2024 05:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82853    di Marco Sommariva

Un paio d’anni fa, durante un’inchiesta sulle forniture di armi all’Ucraina da parte dei paesi occidentali, condotta dall’emittente statunitense CBS ed esposta nel documentario Arming Ukrain (8 agosto 2022) emergeva che solo il 30% delle forniture d’armi arrivava effettivamente in Donbass, lungo la linea del fronte, mentre il restante 70% era fermo – nella migliore delle ipotesi – nei centri di smistamento allestiti in Europa o – nella peggiore – addirittura sparito, con la possibilità di ricomparire sul mercato nero ucraino che già prosperava “grazie all’intensificarsi della corruzione”, come riportato su L’Indipendente (9 agosto 2022). [...]]]>    di Marco Sommariva

Un paio d’anni fa, durante un’inchiesta sulle forniture di armi all’Ucraina da parte dei paesi occidentali, condotta dall’emittente statunitense CBS ed esposta nel documentario Arming Ukrain (8 agosto 2022) emergeva che solo il 30% delle forniture d’armi arrivava effettivamente in Donbass, lungo la linea del fronte, mentre il restante 70% era fermo – nella migliore delle ipotesi – nei centri di smistamento allestiti in Europa o – nella peggiore – addirittura sparito, con la possibilità di ricomparire sul mercato nero ucraino che già prosperava “grazie all’intensificarsi della corruzione”, come riportato su L’Indipendente (9 agosto 2022). In termini di onestà, pare che da quelle parti la situazione non sia un granché cambiata, visto che nei giorni scorsi mi è capitato di leggere che “soldi destinati alla costruzione delle trincee ucraine sarebbero stati rubati tramite schemi di società fittizie” e che questa truffa “avrebbe impedito la creazione di fortificazioni nella regione di Kharkiv, nel nord-est dell’Ucraina, proprio lì dove l’esercito russo sta avanzando con maggiore determinazione”. Questa denuncia è stata pubblicata sulla testata Ukrainska Pravda (13 marzo 2024), all’interno di un articolo dove si spiega come i contratti per la costruzione di fortificazioni – per cui sono stati spesi il corrispettivo di 163 milioni di euro – sarebbero stati trasferiti dall’amministrazione militare regionale di Kharkiv, appunto, a società che non avrebbero poi eseguito i lavori. Leggo anche che l’indagine è stata svolta da un’esperta di anti-corruzione, la quale specifica che i proprietari di queste aziende non sarebbe neppure esperti imprenditori e che sarebbero coinvolti in “dozzine di casi giudiziari, dal furto di whisky alla violenza domestica e hanno procedimenti esecutivi per prestiti bancari”.

Tranquilli, non sono qui a maledire l’inesperienza di questi imprenditori perché “ci stanno” impedendo di frenare l’avanzata russa o, magari perché filorusso, di esultare per questo: la penso esattamente come il compianto Valerio Evangelisti, sono personalmente antimilitarista – anche se per nulla pacifista – e mi fanno sicuramente schifo le guerre di potere, non le guerre civili che a volte sono sacrosante, e questo perché il nemico non è di fianco a noi, ma sopra di noi, e tutto quello che va a colpire le classi subalterne è un atto di guerra contro il proletariato mondiale; dove, al giorno d’oggi, per classi subalterne intendo, sì, quella operaia ma anche disoccupati, precari, lavoratori in nero, operatori di call center, piccoli imprenditori (falliti e non), dipendenti di multinazionali e mi fermo qui, anche se l’elenco di certo non è completo, facendo però una doverosa precisazione: nessuna importanza ha quale sia la scelta sessuale di ognuno di questi nuovi proletari, se sono uomini o donne, se hanno diverso colore della pelle, se credono in un qualche dio o no – sono caratteristiche che nulla c’entrano con l’appartenenza di classe.

Quando si leggono articoli come quello pubblicato dalla Ukrainska Pravda, sono molti coloro che provano a consolarsi raccontandosi che, la nostra, è un’epoca del magna-magna dove non si ha più rispetto neppure per i soldati mandati a difendere la patria – la “p” resti pure minuscola. All’eventuale domanda perché minuscola, rispondo con un passaggio estratto da La via del ritorno del tedesco Erich Maria Remarque, opera pubblicata nel 1931, messa al bando dai nazisti e simbolo di un’intera generazione che ha creduto di tornare a casa e dimenticare l’inferno delle trincee mentre, invece, ne è rimasta sopraffatta: “ci hanno ingannati, ingannati come forse non sospettiamo nemmeno. Perché si è orribilmente abusato di noi! Ci dissero patria e intendevano i progetti di occupazione di un’industria famelica; ci dissero onore e intendevano i litigi e i desideri di potenza di un pugno di diplomatici ambiziosi e di principi; ci dissero nazione e intendevano il bisogno di attività di alcuni generali disoccupati! […] Nella parola patriottismo hanno pigiato tutte le loro frasi, la loro ambizione, la loro avidità di potenza, il loro romanticismo bugiardo, la loro stupidità, il loro affarismo, e ce l’hanno presentato poi come un ideale radioso. O ancora, sempre dallo stesso titolo: […] laggiù abbiamo perso tutte le misure e nessuno ci è venuto in aiuto! Patriottismo, dovere, patria: tutto ciò ce lo siamo ripetuto anche noi continuamente per resistere e giustificarci. Ma erano soltanto concetti, c’era troppo sangue laggiù e questo li spazzò via!”

In realtà, il rispetto per i soldati mandati a difendere la patria non è mai esistito perché le ragioni del capitalismo non necessitano di un declino della violenza ma di uno sviluppo di questa, hanno bisogno di più conflitti sanguinosi, di armi sempre più distruttive, di un numero sempre maggiore di vittime, e in uno scenario del genere la parola “rispetto”, va da sé, non può essere contemplata. E sul fatto che il rispetto per il soldato non sia mai esistito lo scrive ancora il buon Remarque, questa volta in Niente di nuovo sul fronte occidentale, pubblicato nel 1929: “siamo magri e spossati dalla fame. Il nostro vitto è tanto cattivo e in tanta parte composto di surrogati, che ne siamo malati. I fabbricanti in Germania si sono fatti ricchi signori; ma a noi la dissenteria brucia le budella. Le latrine da campo sono sempre piene zeppe: bisognerebbe mostrare a quelli di casa queste facce grigie, gialle, miserabili, rassegnate, queste figure curve a cui la colica spreme il sangue dal corpo, e che si contentano di ghignarsi l’un l’altro in faccia, con le labbra ancora tremanti dal dolore: «Non vale neppure la pena di tirar su le brache…»”.

Ricordo che Remarque – nel 1916, in piena Grande Guerra – fu spinto ad arruolarsi volontariamente, che nel 1917 fu spedito sul fronte occidentale dove rimase gravemente ferito e che, nel 1933, i nazisti bruciarono e misero al bando le sue opere. Insomma, nessuno è immune alla propaganda militaresca che si nutre, in primis, della disinformazione generalizzata: anche lo scrittore finì col farsi convincere che era giusto rischiare la pelle per andare a uccidere uomini che avevano il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore. Ma, a guerra terminata, avrà cambiato idea e, nel 1936, scriverà ne I tre camerati che lui e i suoi compagni d’armi, erano tornati dalla guerra “senza fede, quasi dei minatori usciti da una galleria crollata perché avevano voluto marciare contro la menzogna, l’egoismo” tutte giustificazioni a ciò che si erano lasciati alle spalle, domandandosi “cosa ne era sortito visto che tutto era andato in pezzi, falsato e dimenticato e che a chi non riusciva a dimenticare non rimaneva altro che lo stordimento, l’incredulità, l’indifferenza e l’alcol perché il tempo dei grandi sogni umani e virili era finito per sempre”.

Che la guerra faccia bene agli affari lo dicono gli stessi addetti ai lavori: “La guerra fa bene agli affari. […] faccio un esempio: la Russia fa saltare i depositi di grano ucraini. Il prezzo del grano aumenterà. L’economia ucraina è legata in gran parte al mercato globale del grano. Il prezzo del pane e tutto il resto va su e giù. Questo è fantastico se fai trading. La volatilità crea opportunità per fare profitti. La guerra fa fottutamente bene agli affari. Noi non vogliamo che la guerra finisca”. Dove il “noi”, in questo caso, sta per la grande società d’investimento con sede a New York, BlackRock – le parole sono del responsabile delle risorse umane di questa Azienda.

Non saprei cosa suggerire per invertire la rotta sempre più guerrafondaia intrapresa in quest’ultimi anni, ma ho un consiglio su come non partecipare a questo lercio teatrino: evolversi, ergo, disertare. Su questo, sempre Remarque s’è espresso molto chiaramente in Niente di nuovo sul fronte occidentale: “La vita qui sui confini della morte ha una linea straordinariamente semplice, si limita all’indispensabile: tutto il resto è addormentato e sordo: in ciò sta la nostra primitività, e in pari tempo la nostra salvezza. Se fossimo più evoluti, da un pezzo saremmo pazzi, o disertori, o morti”. Diserzione che mise in pratica il mio conterraneo don Andrea Gallo: “la mia classe di nascita, 1928, mi faceva rientrare fra i richiamati dal famoso manifesto del 1944, che era appeso un po’ dappertutto, a Genova. Mi ricordo come fosse oggi quando mi ci imbattei, un pomeriggio. Era appiccicato sul muro di un palazzo del centro e diceva: TUTTI I MILITARI DEVONO PRESENTARSI. CHI NON SI PRESENTERA’ ENTRO LA TAL DATA SARA’ PASSATO PER LE ARMI. Quella stessa notte disertai”. Così scrive in Angelicamente anarchico.

Io stesso fui processato per diserzione nel 1984 quando – durante il servizio di leva che non ero riuscito a evitare perché, all’epoca, non venivano accettate richieste da obiettori di coscienza che avessero un parente di primo grado col porto d’armi, e io avevo mio padre – dicevo… fui processato per diserzione perché non rientrai da una licenza in quanto preferii andarmene al mare con gli amici essendo, proprio quel giorno, ferragosto; non voglio mancare di rispetto a nessuno, quindi preciso che l’unica guerra che combattei all’epoca, si sa, fu contro il tempo che non passava mai e l’ignoranza e la prepotenza del nonnismo, ma è quest’idea della diserzione che spero accompagni e animi tutti i ragazzi del mondo nel momento in cui verrà sventolata loro in faccia una qualsiasi bandiera da difendere o un pezzo di terra da conquistare: un disertore è senza dubbio più utile di un cadavere.

E che la diserzione sia un’ottima arma che abbiamo in pugno, lo dimostra il fatto che ultimamente si siano allertati gli Stati: Lettonia e Polonia si sono dette disponibili a individuare le condizioni di rientro dei disertori ucraini fuggiti entro i loro confini, come forma di sostegno a Kiev; lo dimostra anche l’opera capillare che sta svolgendo il TCC, acronimo sulla bocca di tutti gli ucraini che sta per “Centro di reclutamento territoriale”, con agenti in mimetica – né poliziotti né militari, spesso ex soldati – che girano chiedendo i documenti ai giovani e arrivano anche a trascinarli a forza fuori da un autobus se il ragazzo è “buono” per il fronte. Chissà per quanto andranno avanti così, molto probabilmente sino a raggiungere quella situazione raccontataci da Jean Echenoz in ’14, romanzo che decide di scrivere dopo aver trovato il diario di un suo lontano parente che aveva partecipato a tutta la Prima guerra mondiale, annotando giorno per giorno quello che stava vivendo: “Dopo quasi due anni di conflitto, con il reclutamento che salassava senza tregua il Paese, nelle strade c’era ancora meno gente, fosse o non fosse domenica. Anche donne e bambini ormai erano pochi, perché la vita era cara e si stentava a fare la spesa: le donne, che al massimo percepivano il sussidio di guerra, in assenza di mariti e fratelli si erano dovute trovare un lavoro: manifesti da affiggere, posta da distribuire, biglietti da obliterare o locomotive da guidare sempre che non finissero in fabbrica, in particolare in quelle di armi. E i bambini, che non andavano più a scuola, avevano a loro volta un bel daffare: ricercatissimi sin dagli undici anni, sostituivano i fratelli maggiori nelle aziende e, tutt’intorno alla città, nei campi – condurre i cavalli, battere i cereali o sorvegliare il bestiame”.

Chiudo con un altro estratto dell’interessantissimo libro di Echenoz citato prima che, oltre a riprendere il discorso iniziale, ritengo spieghi a meraviglia a chi giova questa enorme quantità di soldati che da sempre viene “consumata” sui campi di battaglia; ossia, a tutti coloro che guadagnano su qualsiasi genere di fornitura agli eserciti, senza mai dimenticare che non si sta parlando solo di armi e munizioni: “Nel corso del quarto anno di guerra, le offensive di primavera hanno consumato in due mesi una enorme quantità di soldati. Poiché la dottrina dell’esercito di massa imponeva che venissero continuamente ricostituiti grossi battaglioni e che il reclutamento garantisse un rendimento sempre più elevato, le chiamate delle classi di leva si sono susseguite senza tregua, il che implicava non solo un cospicuo rinnovamento del materiale e delle uniformi – dunque anche moltissime scarpe – ma anche importanti ordinazioni alle fabbriche che assicuravano l’approvvigionamento […]. Il ritmo e l’urgenza di queste ordinazioni, associati agli scarsi scrupoli dei responsabili della produzione, hanno rapidamente condotto alla fabbricazione di scarponi mediocri. Le aziende hanno cominciato a chiudere un occhio su un cuoio andante, optando spesso per un montone a concia rapida, meno caro ma anche meno spesso e duraturo – quasi del cartone, per dirla tutta. Hanno sistematizzato la produzione di stringhe a sezione quadrata, più facili da fabbricare ma più fragili di quelle a sezione circolare, tirando via sulla rifinitura dei puntali. Allo stesso modo hanno lesinato sul filo per cucire e hanno rimpiazzato il rame degli occhielli con un ferro più ossidabile e il più possibile economico, e lo stesso hanno fatto con i rivetti, le brocche, i chiodi. Insomma, hanno ridotto all’osso il costo dei materiali, a detrimento della robustezza e dell’impermeabilità. Ben presto l’intendenza militare ha deprecato il troppo frequente rinnovo di questi scarponi che, lasciando passare l’acqua e sformandosi rapidamente, non reggevano due settimane nel fango del fronte: troppo spesso le cuciture della suola cedevano nel giro di tre giorni. E siccome alla fine lo Stato maggiore aveva protestato, è stata promossa una scrupolosa inchiesta: esaminando i conti dei fornitori dell’esercito […] hanno subito rivelato uno scarto abissale fra l’importo delle ordinazioni e il prezzo di costo di quelle ciabatte.”

E se letta quest’ultima frase, con tutti i richiami a quello che oggi i manager chiamano “saving”, vi fosse venuto in mente il crollo del ponte Morandi di Genova o l’incidente ferroviario di Viareggio o i due/tre morti al giorno sul lavoro in Italia o… sappiate che non siete i soli.

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Quel brutto pasticcio della guerra (e della prigionia) https://www.carmillaonline.com/2023/02/01/quel-brutto-pasticcio-della-guerra-e-della-prigionia/ Wed, 01 Feb 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75802 di Sandro Moiso

Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, a cura di Paola Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 626, euro 35,00

Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è stato uno straordinario innovatore nell’uso della lingua nella prosa italiana. Autore di romanzi, racconti, saggi e traduzioni, soprattutto quest’ultime di testi del Siglo de Oro spagnolo, ha visto, però, la straordinaria varietà e ricchezza linguistica e l’ironia, spinta in taluni casi fin quasi al sarcasmo, che hanno connotato le sue opere maggiori trasformate in ostacoli che hanno reso talvolta più difficile l’approccio [...]]]> di Sandro Moiso

Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, a cura di Paola Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 626, euro 35,00

Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è stato uno straordinario innovatore nell’uso della lingua nella prosa italiana. Autore di romanzi, racconti, saggi e traduzioni, soprattutto quest’ultime di testi del Siglo de Oro spagnolo, ha visto, però, la straordinaria varietà e ricchezza linguistica e l’ironia, spinta in taluni casi fin quasi al sarcasmo, che hanno connotato le sue opere maggiori trasformate in ostacoli che hanno reso talvolta più difficile l’approccio del grande pubblico ai suoi testi.

Testi che, soprattutto dal punto di vista linguistico, è infatti possibile avvicinare alle avanguardie letterarie, non solo italiane, più che alla letteratura tradizionale dell’Italia moderna, caratterizzata, fin dall’Ottocento, da certi scadimenti nazionalpopolari e melodrammatici che non sono migliorati nemmeno oggi, quando a tale tendenza si è affiancato, in tanta produzione letteraria degli ultimi decenni, un eccesso d’intimismo che non ha fatto altro che rafforzarne il sentimentalismo.

Tra gli autori italiani del ‘900 sono stati Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini a concentrare maggiormente l’attenzione sull’uso della lingua che lo scrittore, ingegnere di professione come ricordano le sue biografie, spesso dilatava in tutti i suoi infiniti registri stilistici nei suoi romanzi e racconti. Ma se Calvino, che può essere considerato insieme allo stesso Gadda e a Primo Levi uno degli autori italiani più attenti a ibridare il linguaggio tecnico-scientifico con la ricerca letteraria, non abbandonò mai la sponda illuministica della facoltà raziocinante e razionalizzatrice della creazione letteraria, Gadda invece, con un uso smodato della lingua in ogni sua forma tendeva a costringere la ragione, di cui lui, ingegnere, doveva esser portatore in ogni progetto, a fare i conti con una realtà magmatica, la cui oggettività poteva espandersi fino a diventare inafferrabile nei suoi sviluppi. Come affermò lo stesso Calvino, nella introduzione all’edizione americana del Pasticciaccio nel 1984:

È il ribollente calderone della vita, è la stratificazione infinita della realtà, è il groviglio inestricabile della conoscenza ciò che Gadda vuole rappresentare. […] La vera cosa che Gadda aveva da dire è la congestionata sovrabbondanza di queste pagine attraverso la quale prende forma un unico complesso oggetto, organismo e simbolo che è la città di Roma.
[…] La Roma stracciona e sbraitante del cinema neorealistico (che proprio in quegli anni viveva la sua età dell’oro) acquista nel libro di Gadda uno spessore culturale, storico, mitico che il neorealismo ignorava1.

In occasione di una conferenza tenuta a Buenos Aires e pubblicata nel 1984 con il titolo Il libro, i libri, Calvino avrebbe ancora affermato: «In Italia il romanziere enciclopedico per eccellenza è Carlo Emilio Gadda, che nel Pasticciaccio brutto di Via Merulana condensa in un intreccio poliziesco i dialetti di Roma e di mezza Italia, l’arte barocca e l’epopea di Virgilio, la psicologia e la fisiologia, e soprattutto una filosofia della conoscenza»2. Mentre nella quinta delle Lezioni americane, avrebbe ancora sostenuto: «Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento»3.

Durante il suo primo viaggio in America, Calvino aveva avuto occasione, nel 1959, di mettere a confronto Gadda e Pasolini, proprio sul tema del linguaggio, in un discorso che sarebbe stato pubblicato in seguito con il titolo Tre correnti del romanzo italiano d’oggi:

Pasolini scrive i suoi romanzi nel dialetto o meglio nel gergo del sottoproletariato dei sobborghi di Roma […] Con ostinata volontà razionale, Pasolini contrappone nei suoi romanzi e soprattutto nelle sue poesie in lingua […] una sua idea di popolo come istintiva gioia sensuale e una sua idea di severa morale politica di riscatto sociale. Nell’una e nell’altra idea e soprattutto nella loro contrapposizione, c’è ancora una buona parte di ostinazione intellettuale e una buona parte di fervore romantico. […] Il maestro a cui Pasolini si richiama nei suoi esperimenti linguistici è uno scrittore ora già anziano, Carlo Emilio Gadda, che pur rappresenta nella letteratura italiana quasi direi l’unica punta d’avanguardia nella ricerca formale, che possa affiancarsi a consimili esempi stranieri. Il linguaggio di Gadda è la Babele, o meglio la stratificazione, di tutti i linguaggi: dialetti (milanese e romanesco soprattutto), linguaggio dell’antica tradizione letteraria, formule burocratiche, con mille modulazioni e riflessioni che paiono i virtuosismi d’un grande musicista e gli scatti d’insofferenza d’un nevrastenico. Più che a Joyce, a cui molti lo paragonano, Gadda può essere avvicinato a Rabelais. Il suo romanzo maggiore Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, a cui lavora da vent’anni, è una specie di storia poliziesca a cui tutta Roma ribolle come un immenso calderone. In modo paradossale e ossessionato, si compone in Gadda un’immagine dell’Italia d’oggi, sospesa tra umore popolaresco, tradizione, razionalità e nevrosi.

La lingua di Gadda, in cui il realismo si mescola con una fervida fantasia e una satira spesso violenta sembra infatti prendere spunto da quella di Rabelais; un’efficace mistura che avrebbe fatto sì che lo stesso Pasolini definisse Gadda come un «grosso anarchico buono come un ragazzo». I due si erano conosciuti nel 1955 e fin dal 1956 l’Ingegnere aveva collaborato alla rivista «Officina» fondata nel 1955 a Bologna da Pasolini insieme a Francesco Leonetti e Roberto Roversi. Per poi vedere separate le loro strade sul finire degli anni ’50, quando Pasolini iniziò il progressivo avvicinamento a nuove amicizie e sodalizi artistici (con Sergio Citti, Elsa Morante e Alberto Moravia) 4.

Il testo appena ripubblicato da Adelphi, apparso per la prima volta nel 1955, viene ora proposto, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte dell’autore, in una nuova edizione accresciuta da sei taccuini inediti, e ci permette, forse, di individuare l’origine di quella babele linguistica e di quello scontro tra volontà di mantenere fermo un punto di vista positivo e la realtà caotica della società moderna di cui hanno parlato comunque sia Calvino che Pasolini a proposito di Gadda.

Il giornale di guerra e di prigionia, infatti, ci consegna, non solo, il primo lungo esercizio di scrittura di un giovane Gadda arruolatosi come volontario e interventista nel Regio esercito italiano fin dai primi giorni di guerra, ma anche il tentativo di riporre ordine in un’esperienza caotica, disordinata, deludente e tutto sommato inafferrabile come quella della guerra (dall’agosto del 1915 all’ottobre del 1917), prima, e della prigionia (dal novembre 1917 al 29 dicembre 1918), poi.

Per il sottotenente Gadda, che l’aveva auspicata come «necessaria e santa», la Grande Guerra si rivela uno scontro durissimo. Più ancora che con il nemico, con ciò che scatenava in lui un’indignazione così violenta da sfiorare la «volontà omicida»: la meschinità della «vita pantanosa» di caserma; l’incompetenza dei grandi generali; l’indegnità morale dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori, che costringevano gli alpini a marciare con scarpe rotte: « se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato a una rissa, per finirlo a coltellate » confessa.
Come afferma la curatrice, Paola Italia, nella Nota al testo:

Questa nuova edizione dei diari di guerra che Gadda tiene dal 24 agosto 1915, due mesi dopo l’inizio, a Parma, della sua milizia, alla fine del 1919 […] – edizione resa possibile dalla scoperta di sei quaderni inediti, di proprietà degli eredi Bonsanti – […] si rivela un’opera profonda e potente: pur difforme dai più celebri, e letterariamente atteggiati, diari di Soffici, Stuparich e Comisso, appartiene a pieno titolo alla grande letteratura di guerra, e basterebbe da solo ad assicurare a Gadda un posto nel nostro Novecento. Non si tratta, come inizialmente si è ritenuto, di una prova generale della sua narrativa (che prende avvio proprio durante la prigionia), ma di un’opera in sé, originalissima e autonoma. Un’opera che è anche un eccezionale documento storico. Gadda ha vissuto infatti non una, ma una pluralità di guerre, combattute su vari fronti e da lui registrate in maniera accurata e veridica: i diari ce lo mostrano dapprima a Edolo, dove, destinato al 5˚ Reggimento Alpini, giunge il 18 agosto 1915, e a Ponte di Legno, dove trascorre gli ultimi mesi del 1915 fino al gennaio 1916; poi, al termine dell’addestramento a Torino nel maggio 1916, lo seguono a Vicenza, nelle trincee dell’Altopiano dei Sette Comuni, sul monte Zovetto, a Cesuna, a Campiello e in Val d’Assa, dal giugno all’ottobre 1916. Il vuoto dal novembre 1916 all’ottobre 1917 è una voragine aperta nell’anima di Gadda, che, smarrito a Caporetto il prezioso quaderno di «Torino Carso Clodig» e fatto prigioniero il 25 ottobre 1917, ricomincia a scrivere su un quaderno – «acquistato nel Gefangenenlager presso Celle, (provincia di Hannover), alla Kantine del Block C» – che testimonia la sua vita di prigioniero nella «baracca dei poeti », dal maggio all’inizio del novembre 19185.

E forse qui, in questa autentica officina, il lettore attento potrà trovare tutte le inquietudini dell’autore: lo sconforto di non poter inquadrare secondo una logica efficace i fatti, la sconfitta, lo sfondamento delle linee a Caporetto, i cedimenti dei soldati e gli errori e la superficialità degli ufficiali e dei comandi. Il tentativo di descrivere ciò che fino ad allora nessuna aveva osato o saputo immaginare: una guerra devastante che avrebbe irrimediabilmente proiettato la sua ombra sul XX secolo e forse, come oggi purtroppo possiamo constatare, anche oltre.

Un’esperienza che, naturalmente non fu solo di Gadda6. Ma che spesso, proprio negli interventisti convinti scatenò le più forti delusioni ed emozioni. Come ad esempio dimostrano le poesie scritte dall’”interventista” Ungaretti durante la guerra, anch’esse datate come se si trattasse di un diario, certamente tra le più belle e significative dell’intera sua produzione.

Lì, nel fango delle trincee, nella confusione delle ritirate e delle sconfitte, nel sangue dei commilitoni, nel dolore per la scomparsa degli amici oppure, come nel caso di Gadda, di un fratello e nella scoperta della debolezza e insignificanza del singolo, nasceva la necessità di nuovi linguaggi, di nuove formule affabulatorie che potessero rendere l’idea di un caos che non si sarebbe mai potuto immaginare prima.

I soldati d’altri reparti, profughi e randagi, si frammischiavano alla nostra colonna, l’accompagnavano, la sorpassavano, facendomi inviperire per il disordine che ingeneravano. Il marciare uno per uno, in fila indiana e bene ordinata, divenne difficile. Nel scendere il breve tratto di china ripida e boscosa di arbusti, un 100 metri di pendio circa, con un dislivello di 50, infatti dovevamo perdere il collegamento. Cola aveva visto che in un certo punto alcuni ufficiali e soldati tentavano di costruire una passerella, in un punto in cui un masso emergente restringeva la larghezza del fiume. Era sceso lì: sopraggiunto anch’io, in coda alla colonna, vidi e approvai. Ma appena arrivato in fondo, Cola s’avvide che prima che l’incerta passerella fosse costruita occorreva tempo; e piegò subito verso Ternova, seguito dai primi soldati della 3.a Sez. che gli stavano appresso, e risalendo il corso dell’Isonzo (sempre s’intende sulla sinistra orografica). Ma i soldati in coda della 3.a sezione, stanchissimi, con le mitragliatrici a spalla, non poterono seguitare il passo troppo rapido e nervoso di Cola (Cola aveva un passo troppo nervoso, saltellante, irrequieto come il suo carattere, già altre volte riscontratogli), e s’accasciarono lì, pochi metri sopra l’acqua, nel gran disordine. Quando io sopraggiunsi poco dopo trovai i soldati lì, mezzo istupiditi dalla stanchezza, con le armi allato. Qualcuno già aveva smarrito un nastro o due; naturalmente li rimproverai, li copersi di rimproveri, ecc. e mi diedi a cercar Cola e gli altri, nella folla dei soldati e degli ufficiali di tutte le armi che s’affollavano presso la passerella. Cercai, chiamai, mi stancai andando su e giù: e potei radunare i soldati e le mitragliatrici che ancor rimanevano, e cioè la mia sezione e 1’arma della 3.a col Serg. Gandola. L’inquietudine e la responsabilità essendo rimasto solo, la situazione difficilissima, cominciarono a mettermi in gravi angustie. Ero inoltre arrabbiato con Cola e coi soldati per il distacco. Tuttavia mi raccolsi, nell’amarezza, e misurai la situazione: un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d’armi, cioè totalmente liberi da ogni peso, si pigiavano, a rischio di precipitare nel fiume verso la passerella; il fiume non poteva guadarsi in alcun modo; l’Isonzo, sopra Tolmino, e anche ad Auzza, Canale, ecc. ha un letto stretto (20 m circa) a rive precipiti, e profondo (5-6 e più metri). Il fondo non è visibile, ma l’azzurro cupo testimonia della profondità: la corrente è velocissima, torrentizia. Insomma esso ha un carattere affatto diverso dagli altri fiumi della pianura veneta, larghi, ghiaiosi, lenti, e dal corso suo stesso ai piedi del S. Michele. Un tal fiume, in tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore; tanto meno poi vestiti o con armi. – D’altra parte il tempo stringeva e l’affanno cresceva; sentivo ormai a poco a poco delinearsi il pericolo. Non in linea, non in posizione, dove avremmo potuto batterci con onore e infliggere anche ad un nemico preponderante terribili perdite; ma dispersi in ritirata fra una folla di soldati sbandati! Come la sorte s’era atrocemente giocata di me! Non l’onore del combattimento e della lotta, ma l’umiliazione della ritirata, l’abbandono di tanta roba, e ora questo maledetto Isonzo! questi ponti saltati7.

Sono le ore che seguono la ritirata di Caporetto e precedono la resa al nemico, mentre le pagine sono completate nel campo di prigionia di Rastatt nel novembre dello stesso anno. I luoghi e i fiumi (Monte San Michele, Isonzo) sono gli stessi descritti nei versi di Ungaretti. Qui la ricerca di senso mescola la stanchezza dei vinti con la descrizione morfologica e idrogeologica del territorio, mentre nelle poesie di Ungaretti il senso cerca di esprimersi attraverso il minor numero di parole possibile e una scelta precisa delle stesse come in un haiku.

Un rituale della parola, che cerca di dare senso ad una realtà che sembra perderlo ad ogni passo, che avrebbe accompagnato l’esperienza letteraria di chi quella guerra visse sulla propria pelle e attraverso i propri occhi e le proprie orecchie, ben distante dai salotti letterari, che cercarono in seguito di dar voce alle classi subalterne guardandole da lontano, sempre immaginando scenari di redenzione e senza mai provare davvero il senso della sconfitta e della perdita di ogni riferimento.
Come ha affermato Antonio Gibelli:

Che una guerra con queste caratteristiche, fuori e oltre ogni tradizione culturale, ogni esperienza percettiva precedente e soprattutto ogni previsione, costituisse un elemento di rottura profonda e mettesse a dura prova ogni genere di linguaggi acquisiti, è evidente: sia i linguaggi verbali, sia i linguaggi non verbali […] La guerra fu così smisurata che persino gli esponenti delle avanguardie, i quali in genere l’avevano prevista, attesa e non di rado affrontata con entusiasmo come clamoroso inveramento delle loro estetiche, finirono in gran parte per ammutolire di fronte ad essa […] La realtà aveva insomma superato l’immaginazione, aveva chiamato a una sfida estrema il modernismo della visione artistica e spuntato più di una lancia nel campo della rappresentazione dell’orrore8.

Una scoperta e cognizione del dolore che si sarebbe manifestata in tante opere di Gadda, in cui il linguaggio della scienza e della tecnica e quello dell’accademia non sarebbero più bastati a descrivere il mondo. Motivo per cui, ancora oggi, si rende necessario tornare a Gadda e alla sua ricerca linguistica senza accontentarsi di tanto “populismo”, letterario e non, che travestendosi da progressismo non ha fatto altro che avvallare la realtà senza davvero cercare di coglierne l’essenza.


  1. R. Ceserani, Calvino e Gadda. Le tappe e i modi di un incontro, in «The Edimburgh Journal of Gadda Studies», Supplement no. 8, EJGS 7/2011-2017  

  2. Cit. in R. Ceserani, op. cit.  

  3. Ibidem.  

  4. Cfr: S. Corso, Gadda e Pasolini, in «The Edimburgh Journal of Gadda Studies» (EJGS 4/2004). EJGS Supplement no. 1, second edition (2004)  

  5. P. Italia, Nota al testo in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Edizioni Adelphi, Milano 2023, pp. 555-556  

  6. Si pensi a quanto analizzato negli studi di Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna (il Mulino, 1984 e 2000), Eric J. Leed, Terra di nessuno (il Mulino 1985 e 2014), Paola Tonussi, War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale (Edizioni Ares 2022), solo per fare pochi esempi. 

  7. C. E. Gadda, op. cit., pp.317-319. 

  8. A. Gibelli, Introduzione all’edizione italiana di P. Fussell, op. cit., pp. XXII-XXIII  

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Guerra e rivoluzione nell’immaginario cinematografico contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2022/11/12/rivoluzione-e-controrivoluzione-nellimmaginario-tedesco-contemporaneo-note-a-proposito-di-un-recente-film/ Sat, 12 Nov 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74704 di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto [...]]]> di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto in 44 lingue. Mentre per il cinema ha visto realizzate tre versioni, uscite grosso modo a quarant’anni di distanza l’una dall’altra: «All’ovest niente di nuovo» (All Quiet on the Western Front) diretto da Lewis Milestone (1930); «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (All Quiet on the Western Front), film TV diretto da Delbert Mann (1979) e, per finire, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues) diretto da Edward Berger (2022) e attualmente disponibile su Netflix.

Ed è proprio su quest’ultimo che vale la pena di tornare a riflettere, dopo la recensione già pubblicata su Carmilla domenica 6 novembre. Unico dei tre ad essere di produzione tedesca, mentre i primi due erano di produzione americana e anglo-americana, porta con sé alcuni elementi di indubbio valore, insieme ad altri che ne limitano l’efficacia, indirizzandone i contenuti più su problematiche di battaglia politica interne alla Germania attuale che alla sottolineatura dell’originario antimilitarismo voluto da Remarque nel suo libro. Vediamo ora perché.

Il romanzo descriveva l’inumanità della guerra in ogni suo aspetto, attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne, Paul Bäumer e si basava, almeno in parte sull’esperienza di guerra dell’autore che, dopo il compimento dei 18 anni, fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente nel 78º Reggimento di fanteria.

Nel giugno 1917 fu assegnato al 15º Reggimento di fanteria della riserva e inviato nelle trincee delle Fiandre Occidentali. Il 31 luglio 1917 rimase ferito abbastanza gravemente e dopo essere stato dimesso il 31 ottobre 1918, venne infine congedato il 5 gennaio 1919.
Nella sua opera più famosa, Im Westen nichts Neues, con un linguaggio semplice e toccante descrisse in modo realistico la vita durante la guerra. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce che discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario.

Il film di Edward Berger rispetta in parte la trama del romanzo e, va detto subito, è certamente uno dei film più realistici, insieme a Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014), a sua volta tratto da un racconto di Federico De Roberto (La paura) del 1921, sulle condizioni in cui si svolse la guerra di trincea che caratterizzò il primo conflitto mondiale, soprattutto sui fronti europei.

Un film che gronda letteralmente sangue, fango, violenza, paura, fame, orrore e merda. Sia fisica, quest’ultima, che ideologica. Ma che non sa sottrarsi alla vita politica della Germania odierna. E alle sue menzogne. Così, mentre la parte realistica patisce a tratti un eccesso di effetti drammatici che allontanano la narrazione da quella più stringata e per questo più efficace del libro, quella storico-politica, ben poco presente nell’opera di Remarque, avanza giustificazioni sul comportamento della socialdemocrazia tedesca che possono forse far piacere all’attuale cancelliere Olaf Scholz, ma che sicuramente non rispettano gli eventi accaduti in Germani sul finire di quel conflitto. E anche al suo inizio, che segnò la catastrofe della Seconda Internazionale con il tradimento degli ideali internazionalisti e antimilitaristi che avrebbero dovuto caratterizzare il movimento operaio e i partiti socialisti.

Il troppo umanitarismo, soprattutto mostrato nella figura del ministro che firma l’armistizio con gli alleati, nasconde e ignora gli eventi, prossimi all’esplosione rivoluzionaria, che spinsero nel 1918 il governo tedesco (e probabilmente anche quelli alleati) a cercare una rapida, anche se costosa, soluzione del conflitto. Dimostrando così come nell’immaginario collettivo odierno, pilotato dagli interessi nazionali e dall’ordine costituito, ogni riferimento alla rivoluzione o all’azione dal basso in direzione di un governo dei consigli costituisca il vero, inviolabile tabù.

Come ha scritto lo storico Fritz Fischer, a proposito di quegli eventi:

Con la richiesta di inoltrare immediatamente domanda di armistizio, presentata dal Comando supremo dell’esercito al governo del Reich, la Germania doveva rinunciare alla lotta; non si poteva più parlare seriamente di mire belliche tedesche. La Germania ormai poteva considerarsi fortunata se fosse riuscita a salvare ancora almeno la sua posizione di grande potenz europea e semplicemente cavarsela liscia dall’inevitabile sconfitta […] Come via d’uscita [il ministro degli esteri Paul von Hintze il 29 settembre 1918] fissò la «fusione di tutte le energie della nazione per la battaglia difensiva finale» per mezzo della dittatura o della democratizzazione, della «rivoluzione dall’alto». Il Kaiser e i generali rifiutarono la «dittatura» – per poterla realizzare era necessaria la vittoria – e si dichiararono favorevoli a «incanalare» la democratizzazione secondo laproposta di Hintze. Questa mobilitazione delle ultime forze doveva servire a estorcere un armistizio ed una pace fondati sulle proposte del presidente americano Wilson […] Il Kaiser, il Comando supremo, il governo del Reich erano d’accordo sia con la «rivoluzione dall’alto», sia con i principi di Wilson.[…]
Da questo momento tutti gli sforzi tedeschi per la pace si concentrarono sugli Stati Uniti d’America. In conformità con gli accordi del 29 settembre, il nuovo governo tedesco presieduto dal principe Max del Baden pregò pertanto il presidente Wilson nelle prime de note del 3 ottobre 1918 «di prendere l’iniziativa per stabilire la pace» e per addivenire a un armistizio immediato, dichiarando la volontà della Germania di accettare una pace fondata sui 14 punti1.
Contemporaneamente procedeva la «democratizzazione». Ma nella Germania imperiale la vittoria delle istituzioni parlamentari e democratiche [era] il frutto di una premeditata «rivoluzione dall’alto», per prevenire la «rivoluzione dal basso» e porsi al tempo stesso in una posizione il più possibile favorevole ai fini delle trattative con le potenze vincitrici […] Per la prima volta nella storia tedesca l’ingresso nel governo di capi partito della fama di Erzberger [leader della sinistra del partito cattolico] e Scheidemann [principale esponente parlamentare della Socialdemocrazia tedesca] conferì al gabinetto carattere parlamentare. Il Reichstag sanzionò molto più tardi, il 27 ottobre, con l’approvazione accordata alle leggi di modifica costituzionale presentate dal governo, dietro pressioni di Wilson, la nuova evoluzione che doveva rendere il parlamento titolare della sovranità. Comunque, troppo tardi per arrestare la rivoluzione, che arrivò ancora a scoppiare per via degli indugi nelle trattative d’armistizio e del timore che la guerra avesse a continuare.
Al tempo stesso, la vittoria sulla rivoluzione conseguita grazie all’alleanza tra il capo della socialdemocrazia maggioritaria Ebert e Hindenburg, che era rimasto alla testa dell’esercito dopo l’abdicazione di Guglielmo II, doveva costituire agli occhi delle potenze occidentali la migliore raccomanzazione della giovane repubblica, che sperava di veder mitigare le condizioni di pace per via della sua qualifica di antesignana della lotta contro il bolscevismo. In effetti gli alleati, proprio per via della funzione stabilizzatrice che il governo Ebert- Noske esercitava nel cuore dell’Europa2, permisero con le loro condizioni di armistizio che la Germania continuasse a tenere le sue truppe all’Est contro la rivoluzione rossa, fino a quando non fossero sostituite da forze alleate3.

Certo, anche nel testo di Remarque mancano queste riflessioni ma, in compenso, in maniera asciutta ed efficace, i veri mostri si dimostrano essere quelli del nazionalismo o della disciplina militare prussiana, e sono mostrati nella figura del docente liceale che convince gli studenti ad arruolarsi e negli ufficiali rigidi esecutori degli ordini. E ciò basta a delineare il clima in cui Paul, Albert, Haie, Müller e Kat recitano gli ultimi imponderabili atti delle loro esistenze, prima studentesche o proletarie. Mentre uno solo sarà destinato a salvarsi, Tjaden.

Ed è proprio il finale del libro a mostrare tutta la distanza, tra il film di oggi e la scrittura di allora, nel descrivere la morte, un mese prima della fine della guerra, di Paul che ha narrato le vicende in prima persona fino a poche righe prima.

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla sul terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così 4.

Ma se le differenze a livello di narrazione e drammatizzazione possono essere pienamente comprensibili e spesso condivisibili, soprattutto quando il film mette particolarmente in risalto la miseria della vita dei soldati nelle retrovie e al fronte, in special modo la fame5 e il desiderio di una donna, niente affatto comprensibile e ancor meno condivisibile è la scelta di “esaltare” la figura dei rappresentanti del nascente governo parlamentare e dei socialdemocratici.

Sia per la funzione avuta da questi ultimi, soprattutto all’inizio della guerra, nel votare i crediti governativi in appoggio al nazionalismo tedesco, sia per la funzione autenticamente controrivoluzionaria svolta da quel governo al momento della sua nascita, con la decapitazione del movimento spartachista anche per mezzo dei Freikorps6, l’instaurazione di una politica volta allo stesso tempo a garantire, per la borghesia tedesca, una “pacifica” transizione dall’Impero alla repubblica parlamentare e la sostituzione delle istanze di classe, avanzate dai consigli degli operai, dei soldati e dei marinai che si andavano formando nelle settimane a cavallo della fine della guerra, con le richieste di stabilità e continuità avanzate dalla borghesia industriale, dal comando dell’esercito e dai rappresentanti degli junker e della aristocrazia terriera e militare.

Come il nascente nazismo abbia poi ripagato i rappresentati di quell’esperienza governativa è stata la storia degli anni successivi, fino dall’elezione a cancelliere di Hitler nel 1933, a dimostrarlo. Quello che infastidisce, perciò, ancor di più nel film è il maldestro tentativo di separare con una improbabile linea netta le responsabilità politiche, militari e, perché no, morali della socialdemocrazia tedesca da quelle dell’esercito e dei governi precedenti, creando una figura di riferimento “ideale” dal punto di vista del “male” nella figura del generale che invia a poche ore dalla fine della guerra i propri soldati al massacro, In un’azione insensata, così come si vorrebbe sostenere da sempre che il nazismo non affondasse le sue radici nel nazionalismo, negli interessi economici e militari della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, ma soltanto in una distorta e malata concezione del mondo.

Ecco allora che anche i soldati devono essere dipinti come pecoroni, ancor più che pecore, disposti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche il più assurdo. Dimenticando, però, che proprio nei giorni finali del conflitto, durante i quali si svolge la maggior parte degli avvenimenti della seconda parte del film, i soldati e i marinai stavano insorgendo, ribellandosi proprio contro quegli ordini, quei generali e quello Stato che la socialdemocrazia fu chiamata a difendere, giuste le considerazioni svolte prima da Fischer. Ancor più, e soprattutto, dopo l’abdicazione del Kaiser e la proclamazione della Repubblica il 9 novembre 1918.

Proiettato sul momento attuale, quel fraintendimento non appare affatto casuale o non voluto. Da una parte la socialdemocrazia odierna, guidata da Olaf Scholz, dall’altra i cattivi dell’AFL, in mezzo la Germania con tutte le sue difficoltà (economiche, energetiche, militari…) che, per senso del dovere e della patria i socialdemocratici di oggi, come quelli di ieri, devono affrontare e risolvere. A costo di far precipitare ancora una volta il paese in una guerra (se a fianco della Nato o meno è ancora da decidere) indiscutibilmente “mondiale” oltre che europea.

Ecco perché allora l’opera di Berger appare non solo ambigua, ma anche servile nei confronti di interessi che sono ancora gli stessi di quelli che contribuirono a scatenare il primo e, anche, il secondo conflitto mondiale. Autentiche lacrime di coccodrillo che coprono, cercando di annebbiare lo sguardo dello spettatore, quell’atto di eroismo collettivo che andò dalle prime rivolte dei soldati e dei marinai del novembre 1918, che costrinsero governo e comandi militari ad accelerare i tempi dell’armistizio, all’insurrezione di Berlino tra il 5 e il 12 gennaio 19197. Unico, autentico barbaglio di luce in un tempo che oggi, per opportunismo intellettuale o per semplice ignoranza della Storia, si vorrebbe rappresentare soltanto come nero e oscuro.


  1. Si veda qui per i 14 punti di Wilson – NdR.  

  2. Reprimendo l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 e ordinando l’eliminazione fisica, poi avvenuta in quei giorni, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht- NdR.  

  3. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 813-815  

  4. E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, novembre 1965, p. 237  

  5. Ad esempio, nel romanzo di Remarque, Kat muore per una scheggia di shrapnel nel cervello invece che per aver rubato delle uova in una cascina.  

  6. Corpi franchi o milizie volontarie irregolari in cui erano arruolati ex- militari e combattenti dall’indirizzo decisamente anti-bolscevico e nazionalista  

  7. Per il susseguirsi degli eventi rivoluzionari in Germania fino al 1923, si consultino: Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino 1977; P. Frolich-R.Lindau-A. Schreiner-J. Walcher, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920, Edizioni Pantarei, Milano 2001; P. Frolich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Edizioni Pantarei, Milano 1995; A. Rosemberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972; D. Authier-J. Barrot, La Sinistra Comunista in Germania, La Salamandra, Milano 1981; E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo Libri, Bari 1974; V. Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003  

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Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 3 https://www.carmillaonline.com/2022/10/15/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-3/ Sat, 15 Oct 2022 20:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73969 di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. [...]]]> di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. Ma se qualcosa è accaduto nella messa in forma della guerra significa che dentro il “politico” qualcosa di non secondario si è modificato. Significa che la relazione simmetrica che faceva da sfondo all’agire della politica ha conosciuto una sostanziale modifica. In altre parole si è passati da un modello simmetrico a uno asimmetrico. Ma tutto ciò rappresenta una novità assoluta oppure, a conti fatti, non si tratta d’altro che di una nuova attualizzazione di un modello, quello coloniale, che ha a lungo accompagnato la nostra storia? La relazione politica asimmetrica e il conseguente modello che si porta appresso non è esattamente la rimessa in circolo di quanto ampiamente sperimentato nei confronti delle colonie? Questo, a conti fatti, sembra essere il cuore della questione. Per molti versi, infatti, sembra di essere precipitati, subito dopo la fine della “Guerra fredda”, all’interno di uno scenario internazionale che ha forzatamente accantonato uno degli aspetti centrali della storia novecentesca: la decolonizzazione. Ora, indipendentemente da qualunque giudizio si possa dare sulla decolonizzazione, una cosa appare comunemente accertabile: la decolonizzazione ha fatto sì che, i popoli senza storia, entrassero prepotentemente nello scenario politico internazionale.

A partire dalla Prima guerra mondiale, attraverso un processo che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo scorso, le popolazioni non occidentali si conquistano, armi in pugno, il diritto a esistere in quanto entità politiche. Il “Movimento dei Paesi non allineati”, con ogni probabilità, ne ha rappresentato la sintesi politica per eccellenza. Si tratta di un moto storico senza precedenti poiché rompe drasticamente tutti gli equilibri politici e culturali che, pur in condizioni storiche profondamente diverse e modificate, parevano darsi come storicamente immodificabili. Più che significativa la regolarizzazione politica a cui, proprio in tale contesto, perviene la figura del partigiano. Si tratta di un passaggio importante e che, per molti versi, mostra tutta la forza politica che l’Ottobre è stato in grado, prima di porre in campo, quindi di scatenare. È con l’Ottobre infatti che i “popoli senza” storia acquistano dignità di linguaggio e, con questa, accedono a pieno titolo al mondo della politica. Ciò che con la Grande rivoluzione era stato posto come semplice principio astratto nell’Ottobre trova la sua piena concretezza. Le conseguenze pratiche della legittimità delle guerre anticoloniali comportano ricadute non secondarie sulla concettualizzazione della guerra e la sua conduzione. Le guerre anticoloniali sono, in prevalenza, guerre di tipo partigiano. Anche quando, come nel caso del conflitto vietnamita, è presente un esercito regolare la lotta nei territori occupati dal fronte imperialista è condotta da forze partigiane politicamente organizzate nel fronte di liberazione nazionale. Il fatto che, queste forze, abbiano ottenuto, non solo di fatto ma formalmente, un riconoscimento politico non è qualcosa di poco rilevante. Basti pensare a come nel corso della Seconda guerra mondiale, dove pur la guerra partigiana assunse ruoli e dimensioni considerevoli, non si pervenne mai a un suo riconoscimento giuridico formale e il partigiano continuò a essere ascritto all’ambito del fuorilegge.

La decolonizzazione interrompe quell’ordine del discorso fondato sulla “civiltà bianca ed europea” che aveva consentito di considerare gran parte dell’umanità come qualcosa di antropologicamente diverso e inferiore. Un dato “obiettivo” che nessuna frattura storica interna al mondo europeo era stata in grado di porre radicalmente in discussione. Su ciò la stessa Grande rivoluzione si era vista costretta a fare marcia indietro. Neppure l’ala più estrema e progressista della borghesia era riuscita a estendere l’uguaglianza oltre la “linea del colore”. Questa linea si mostrava invalicabile e l’universalismo dei diritti rimaneva pur sempre confinato tra quei popoli e quelle nazioni che potevano vantare “storia, linguaggio e cultura” mentre, tutti gli altri, rimanevano ascritti, senza soluzione di continuità, all’ambito dell’indistinto. A fronte di popoli e nazioni certe si stagliavano le miriadi di etnie senza nome e senza volto. I diritti dell’Uomo erano sì universali ma non tutti gli esseri umani erano, in quanto tali, immediatamente Uomo e quindi portatori di diritti universali. Un’aporia che, in realtà, la Grande rivoluzione eredita dall’Umanesimo il quale, fin dalla sua nascita, coltiva tale ambiguità come le guerre di conquista extra europee, pre – moderne, sono lì a ricordare.

In poche parole l’eguaglianza è cosa che va riconosciuta ed elargita con parsimonia. La borghesia rivoluzionaria non è in grado di spingersi oltre tanto che, quando le suggestioni dell’89 approderanno tra i popoli di colore, per i giacobini neri non vi sarà altra soluzione che la forca. A imporsi è un ordine discorsivo il quale finisce con il diventare banale retorica di senso comune all’interno di tutti gli ambiti sociali. La differenza obiettiva e “naturalista” esistente tra noi e loro si sedimenta in profondità tanto da diventare “ciò che tutti sanno”. Un razzismo che, a differenza di quanto accade tra i teorici della razza tout court, non ha bisogno di essere teorizzato e continuamente rafforzato. La vera forza di questo ordine discorsivo sta, piuttosto, nella sua debolezza. È questo razzismo debole, e proprio per questo difficilmente estirpabile, ad attraversare per intero le formazioni economiche e sociali prima europee, poi occidentali. Di ciò, anche se è storia di oggi, ne si avrà una facile conferma quando, con l’irrompere prepotente dei nuovi flussi migratori, le retoriche xenofobe e razziste non troveranno troppi ostacoli a conquistarsi un certo protagonismo politico nelle nostre società così come, in maniera del tutto speculare e complementare, gran parte di questo razzismo, nuovo e arcaico al contempo, troverà la sua migliore sistematizzazione nelle retoriche multiculturaliste.
Ma non anticipiamo e riprendiamo il filo del nostro discorso.

Abbiamo detto dei limiti che la stessa Grande rivoluzione si porta appresso. Su questa scia l’aveva seguita, almeno tacitamente, lo stesso movimento operaio organizzato nella Seconda internazionale. Sino a Lenin e ai bolscevichi, sino alla costruzione dell’Internazionale comunista, i popoli di colore, rimangono popoli senza storia e senza linguaggio. Un retaggio che, in Occidente, continuerà a essere a lungo il non detto di parte del movimento operaio. Di fronte alle lotte di liberazione dei Paesi sottoposti al giogo coloniale le titubanze degli stessi partiti comunisti occidentali non saranno proprio impasse da nulla basti pensare al comportamento del PCF nei confronti della guerra di liberazione algerina o alle dichiarazioni del PCI, attraverso il suo leader Palmiro Togliatti, rispetto alla legittimità dei possedimenti coloniali italiani per non parlare dei Partiti socialisti i quali, in non pochi casi, hanno condotto in prima persona la guerra contro i moti emancipatori dei popoli coloniali. In poche parole, la guerra fuori dai confini del “mondo civile”, è sempre stata qualcosa la cui messa in forma rimandava a uno scenario non commensurabile a quello abitualmente vigente tra entità politiche che si riconoscevano appartenenti al medesimo campo. Anche in guerra, come su tutti gli altri piani della vita, il principio di eguaglianza valeva solo all’interno di un ambito ristretto di popoli e nazioni.

La rottura epocale dell’Ottobre consiste proprio nell’aver universalizzato non tanto i Diritti dell’Uomo ma la dimensione politica dei popoli. Con l’Ottobre la “civiltà bianca” è costretta a riconoscere che tutti gli abitanti del globo hanno il diritto di organizzarsi politicamente e, pertanto, di essere posti su un piano di pari grado e dignità. Alla fine, pur se a denti stretti, USA e Francia (tanto per citare casi ampiamente noti) devono trattare con il FLN del Vietnam e con il FLN algerino considerandoli entità politiche a tutti gli effetti. Non per caso l’ONU è stato un terreno di battaglia, simbolico ma non secondario, di questo esercizio di diritto. Il riconoscimento legittimo presso l’ONU ratificava esattamente la dimensione politico – statuale alla quale una popolazione era pervenuta. Una parentesi, alla scala della storia, che si è protratta, all’incirca, per una sessantina d’anni e che da più di trenta anni è stata nuovamente posta al bando e che, non per caso, ha, di fatto, delegittimato l’ONU stesso diventato sempre più, da istituzione internazionale deputata a equilibrare i conflitti internazionali, a strumento delle politiche imperialiste. Basti pensare a come l’ONU ascrivi ormai abitualmente le lotte partigiane delle popolazioni sotto occupazioni, nell’ambito del terrorismo. Un modo neppure troppo raffinato per ascrivere all’ambito della criminalità ogni forma di resistenza e sottrarla così alla dimensione propria del “politico” e ricondurla nella più malleabile categoria del nemico privato. Con ciò il senso delle operazioni di polizia internazionale comincia a farsi più chiaro. A essersi ormai decisamente incrinato è tutto il quadro politico affermatosi con la fine della Seconda guerra mondiale.

Dal 1989 in poi, nei confronti delle popolazioni non appartenenti al Primo mondo, a riemergere è esattamente una linea di condotta che rimanda appieno alla situazione vigente prima dell’Ottobre. Tutto ciò è stato messo in atto attraverso una serie di operazioni anche culturali delle quali è opportuno occuparsi. Uno degli effetti immediati del post ’89 è stata la messa in mora di tale universalizzazione mentre, di pari passo, prendevano forma tutte quell’insieme di retoriche incentrate sul culturalismo così come, al posto delle entità statuali e nazionali, a emergere erano le singolarità etniche e l’insieme di conflittualità che, inevitabilmente, queste si portano appresso.

Subito dopo l’89 il mondo è stato oggetto di un nuovo bipolarismo solo che, questa volta, la divisione non nasceva sulla adesione alla forza militare della NATO o a quella del Patto di Varsavia ma su basi del tutto diverse. Da una parte, la sfera Occidentale e i cosiddetti Paesi emergenti, raggruppavano Stati politicamente organizzati mentre, il resto del mondo, sommava in maniera abbastanza confusa e caotica etnie e culture le quali non potevano far altro che essere nuovamente oggetto di un “processo di civilizzazione”. Le differenze non sono secondarie. Mentre nel primo caso, per forza di cose, a emergere non poteva essere altro che un conflitto tra eguali nel secondo, a emergere, era un non luogo privo di qualunque ordinamento politico a fronte di realtà statuali politicamente certe e organizzate. La distanza tra i due mondi diventava pertanto incommensurabile. Una nuova epopea coloniale si faceva non solo possibile ma necessaria. A emergere, in tale contesto, diventa l’esistenza di un nuovo forte noi contrapposto a un altrettanto forte loro. Di tale formazione è opportuno trarne la genealogia.

Questo noi ha preso forma all’interno di due contenitori più che diversi complementari. Da un lato il razzismo tout court delle formazioni di destra. Un razzismo un po’ sempre uguale a se stesso sul quale vi è ben poco da dire. In questo caso, il noi, ha funzionato come collante identitario attraverso il quale si ribadisce la “naturalità” della supremazia dell’occidentale nei confronti del resto del mondo. In questo caso, infatti, la “linea del colore” attraversa anche tutte quelle popolazioni che, pur bianche, risultano estranee alle retoriche politiche e culturali del mondo occidentale. Si tratta di un noi che, per molti versi, rimanda a una enfatizzazione e declinazione nazionalista dello Stato/Nazione e dei suoi perimetri e che, in non pochi casi, entra in rotta di collisione con le trasformazioni “post/nazionali” proprie dell’attuale fase imperialista globale. Comunemente questo modello politico/concettuale è ascrivibile al mondo dei populismi i quali si oppongono, o almeno su questo trovano la linfa del loro successo, alla costruzione di un blocco politico su base Continentale governato dalle frazioni transnazionali della borghesia imperialista finanziaria. Il costante richiamo a quell’entità mai chiaramente definibile come “popolo” ne rappresenta, insieme all’inconsistenza e indeterminatezza, tanto l’ambiguità quanto la sua capacità di catturare consensi non secondari tra quote di classe operaia impoverita o piccola borghesia proletarizzata. Questo ordine discorsivo, pur quantitativamente non irrilevante, non è stato però l’ordine discorsivo dominante delle nostre società. Accanto a questo razzismo becero e bifolco ha fatto prepotentemente capolino un altro tipo di discorso, quello che per comodità possiamo definire l’ordine del discorso multiculturale, che ha organizzato e declinato le retoriche razziste su basi completamente diverse.

Andando al sodo l’ordine discorsivo multiculturale aveva un unico e sostanziale progetto strategico: deprivare della dimensione del “politico” tutte quelle popolazioni esterne ed estranee non solo al mondo occidentale, questo è qualcosa che hanno sempre fatto tutte le variabili del discorso colonialista, ma alla “concreta” forma politica assunta dall’Occidente. Questo il vero punto della questione. In apparente contrapposizione alle retoriche della destra il discorso multiculturale spostava le differenze tra noi e loro dal piano della “naturalità” a quello delle culture. L’ordine discorsivo proprio del multiculturalismo spostava la differenza dal colore della pelle, della razza o dell’etnia sul piano delle gerarchie culturali. A fronte di un Cultura, con la c maiuscola e dal portato immediatamente globale, propria delle classi dominanti internazionali si stagliavano le infinite piccole culture particolari e locali proprie di quelle popolazioni non coscientemente globalizzate.

Una gerarchia obiettivamente immodificabile il cui riconoscimento doveva dar vita a un modello sociale all’interno del quale, le piccole culture (sotto l’attenta vigilanza della Cultura), trovavano un proprio spazio sia di legittimazione che di libertà. Mente la destra, un po’ goffamente, chiedeva insistentaltroemente l’omologazione e l’omogeneizzazione culturale, reiterando le retoriche proprie dell’assimilazione, la società “civile e democratica” optava per un modello che, a conti fatti, riportava in auge le retoriche proprie della “riserva indiana”. Non diversamente dalla destra non poneva in discussione il valore indiscusso dello “stile di vita” occidentale ma, mentre ribadiva con forza ciò, riconosceva ai popoli non occidentali o non occidentalizzati il diritto a conservare, negli appositi spazi a questi assegnati, i propri “riti” e le coeve “usanze”. In questo modo, oltre a rendere visibile, soddisfacendo in tal modo quella sete di orientalismo proprio delle società coloniali, l’ agli occhi curiosi e morbosi delle popolazioni locali, confinava le popolazioni non occidentali all’interno di codici culturali dai quali non avrebbero più potuto emanciparsi. Nel riconoscimento della cultura altra si realizzava un sostanziale processo di imprigionamento politico e sociale. Una prassi, a dire il vero, neppure troppo nuova poiché, qualcosa di simile, le nostre società lo avevano già ampiamente sperimentato, pochi anni addietro, nei confronti delle proprie classi subalterne. Un passaggio intorno al quale vale la pena di soffermarsi.

(fine terza parte – continua)

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Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 1 https://www.carmillaonline.com/2022/10/01/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-1/ Sat, 01 Oct 2022 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73960 di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel presente, parlare di guerra significa, per prima cosa,cogliere il nesso tra guerra esterna e guerra interna. Questa la principale differenza rispetto al passato quando la prima cosa di cui si preoccupavano gli stati era la più completa pacificazione interna e la ricerca di una sostanziale adesione della popolazione alle logiche di guerra. Oggi, al contrario, guerra interna e guerra esterna sono continuamente intrecciate e gli stati tendono a combattere senza alcuna preoccupazione su entrambi i fronti. In passato, non per caso,si è sempre parlato di “nazione in guerra” mentre, nel presente è lo stato e non la nazione a essere in guerra. Ciò implica, di fatto, una radicale frattura tra stato e nazione, dove con nazione si intende popolazione, e il delinearsi di un fronte, per quanto di gradi e intensità diversi, che vede guerra eterna e guerra interna come un continuum. Partiamo, pertanto, da quest’ultima poiché è proprio lì che è possibile cogliere come il paradigma della guerra si sia modificato. A differenza del passato il “fronte interno” riveste un ruolo non meno importante di quello esterno per cui una disamina su questo appare estremamente necessaria ma non dilunghiamoci ed entriamo subito nel merito delle cose.

La notizia è di qualche tempo addietro ed passata pressoché inosservata. Una parte dei militari impegnati tra le montagne dell’Afghanistan è stata spostata in Val Susa con compiti pressoché analoghi: la pacificazione del territorio. Un’operazione intorno alla quale è opportuno ragionare poiché, attraverso un dato empirico, è possibile cogliere per intero un paradigma politico. Tutto ciò, ovviamente, non è frutto di una improvvisazione né, tanto meno, l’effetto di una decisione estemporanea priva di razionalità e progettualità bensì il naturale e ovvio approdo di una linea di condotta che affonda le sue radici dentro l’insieme delle trasformazioni che hanno caratterizzato il “politico” nella fase imperialista globale e dei modi in cui, la tendenza alla guerra, o almeno un suo aspetto, prende concretamente forma nel mondo contemporaneo. I tratti di tale tendenza appare sensato investigare poiché, la loro decifrazione, sono in grado di raccontare con non poca esattezza la cornice entro la quale siamo immessi.

Notoriamente, a partire dal post ’89, il nemico in quanto entità politica legittima, almeno nell’utopia coltivata nei mondi occidentali, è scomparso. Da quel momento in poi contendenti di pari grado e dignità hanno cessato di esistere. Repentinamente abbiamo assistito alla messa in circolo di un ordine discorsivo il cui cuore strategico era esattamente rappresentato dalla svalutazione del nemico e, pertanto, della sua dimensione politica. Un passaggio intorno al quale è bene interrogarsi poiché è proprio l’analisi di tale trasformazione a consentirci di entrare per intero negli arcani del presente. Parlare del modo in cui la guerra, o almeno un suo aspetto non secondario, è messa in forma ha ben poco di specialistico così come, per altro verso, non denota una particolare propensione verso le cose militari ma, al contrario, significa entrare direttamente nelle prosaiche cose di tutti i giorni poiché la guerra, in quanto sintesi massima del “politico”, non può che informare e governare per intero tutti gli ambiti di una formazione economica e sociale. Il modo in cui la guerra è pensata, organizzata, pianificata e condotta indica esattamente il tipo di società entro cui siamo immessi.

Della sequela di guerre che hanno preso l’avvio dal 1991 in poi si è perso persino il conto. Queste, indipendentemente dalla loro particolarità e specificità, erano unite da un comune elemento: la dimensione impolitica dell’avversario di turno. Non per caso la stessa parola guerra, dal 1991 in poi, non è più stata pronunciata se non accompagnata da un qualche aggettivo. Nasce proprio in quel contesto la dicitura di guerra umanitaria mentre il termine guerra tout court comincia a essere bandito dal lessico comune. Perché? Per quale motivo, a un certo punto, non è più possibile parlare di guerra? Per quale motivo, il termine guerra senza aggettivi, crea non pochi imbarazzi? Perché le varie coalizioni statuali che, volta per volta, hanno dato il la a una qualche operazione bellica si sono sentite in dovere, di fatto, di scongiurare la guerra proprio mentre davano fuoco alle polveri? A un primo sguardo, tutto ciò, potrebbe sembrare la semplice reiterazione di un modus operandi che, nelle vicende storiche, è stato più volte utilizzato. In ciò i nazisti sono stati autentici maestri.

L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia sono state operazioni di guerra diversamente nominate. In quei contesti, però, a delinearsi non era un modello teorico/concettuale ma la più prosaica esigenza di occupare nazioni e territori facendo in modo che, agli occhi delle compiacenti e impaurite democrazie imperialiste europee, la legalità internazionale non risultasse sovvertita più di tanto. Questione contingente dettata dal più cinico dei tatticismi senza alcun altro tipo di rimando. Uno scenario, pertanto, del tutto diverso da quello inaugurato a partire dalla Prima guerra del Golfo.
Nessun tatticismo, nessun problema di ordine legale è stato posto alla base del “nuovo corso” in cui la forma guerra ha iniziato a essere ascritta bensì un modello teorico concettuale ex novo del quale è opportuno coglierne il senso.

Per quanto strano possa apparire, e con buona pace dei pacifisti, se c’è qualcosa che non è mai uguale a se stessa è la guerra. La guerra non è, come gli stolti solitamente immaginano, pensano e proclamano, l’elemento irrazionale che sovverte l’ordinato e razionale mondo della pace bensì il massimo della razionalità, storicamente determinata, che una forma politica “concreta” è in grado di mettere in campo. Guerra e pace sono, e non potrebbe essere altrimenti, comprese nella medesima forma politica la quale non può darsi, pena la sua estinzione, escludendo uno dei suoi poli. In altre parole ogni “forma guerra” non può che essere già compresa nella sua “forma pace”. La guerra, quindi, non presenta alcuna invarianza come se, questo, fosse un mondo astorico e avulso dalla formazione economica e sociale perché di questa, invece, ne è la massima espressione. Non esiste la guerra ma le guerre le quali sono sempre il frutto di formazioni politiche storicamente determinate. A decidere della e sulla guerra sono classi storiche concrete, espressioni di determinati rapporti di forza e di potere e, soprattutto, di una determinata base strutturale.

La Prima guerra mondiale è stata qualcosa di assolutamente incommensurabile rispetto alla guerra franco/prussiana così come, il Secondo conflitto mondiale, è stato ben diverso dal Primo. E questo, per essere chiari, non tanto per le obiettive trasformazioni che scienza e tecnica hanno apportato al modo di combattere ma per la differenza dei sistemi politici ed economici che facevano da sfondo al conflitto. Nessun “dominio della tecnica” è in grado di sovvertire le ragioni politiche della guerra così come, l’irrompere prepotente della “battaglia dei materiali”, non è altro che il modo in cui, un determinato sviluppo delle forze produttive, determina “concretamente” la forma guerra. Non vi è mai stata una guerra bella, onorevole e cavalleresca bensì una guerra che poggiava per intero sulle possibilità che una base strutturale le consentiva di porre in campo. Ogni fase storica ha il suo modello bellico e questo va compreso e analizzato.

Non è possibile, pertanto, comprendere la forma guerra contemporanea se non si affronta la questione della fase imperialista globale che ne rappresenta il cuore politico. Difficile, infatti, spiegare la presenza dei militari in val Susa se non si comprende il modo in cui, la fase imperialista globale, ha ridefinito l’idea stessa di confine, di Stato e il rapporto di questi con le popolazioni interne a questi perimetri. Allo stesso modo, senza comprendere che cosa è mutato nel rapporto tra stato e popolazione nelle nostre società, diventa di difficile comprensione la presenza ormai abituale dei militari in servizio di ordine pubblico nelle nostre città. Non si possono decifrare i volti di Marte se non si comprende di quali trasformazioni questi ne sono gli effetti. Ricorrere alla facile, e buona per tutte le stagioni, categoria della repressione è un modo per spiegare tutto e non spiegare nulla. Così come la guerra è sempre l’effetto di una condizione storicamente determinata, la repressione è sempre il frutto di un modello politico “concreto” e il risultato di rapporti di forza “concreti”. Per quanto possa essere in qualche modo vero che: “I Governi cambiano, le polizie restano”, i modelli polizieschi, al pari della guerra, non sono astorici bensì il frutto maturo di una determinata formazione economica e sociale.

La compenetrazione di polizia e militare, perché di ciò stiamo parlando, non è un semplice fatto repressivo ma un passaggio strategico nella messa in forma della guerra. Ciò ha ricadute a trecentosessanta gradi su tutta la formazione economica e sociale. Capirne il senso è qualcosa di più di un vezzo intellettuale. Decifrarne il portato e il significato significa, almeno sul piano della teoria e dell’analisi politica, fare già un passo dentro la guerra, la sua forma, le sue dinamiche. Sicuramente non è tutto, ma certamente è qualcosa.

Quanto accade in Val Susa, e in forma apparentemente più mesta si è manifestato poco tempo addietro attraverso l’impiego dei militari in servizi di ordine pubblico nelle metropoli, rappresenta esattamente il rimpatrio di un modello bellico la cui genealogia è possibile rintracciare nel momento stesso in cui, il crollo del “Blocco sovietico” e il dispiegarsi della fase imperialista globale, hanno inaugurato non solo un nuovo modo di combattere ma, ed è questo il punto che proveremo ad argomentare, hanno declinato la forma guerra all’interno di un paradigma nuovo e distante da quello ampiamente conosciuto in quelle che, ormai, possiamo definire come fasi classiche dell’imperialismo. Fasi sicuramente non del tutto identiche e omogenee tra loro ma assai più simili e affini rispetto alle rotture prodotte dalla fase imperialista globale. Il senso di queste rotture, delle quali la forma guerra ne incarna l’aspetto più puro e cristallino, segnano e modellano per intero la formazione economica e sociale contemporanea. Ciò è quanto è necessario comprendere.

Poche righe sopra abbiamo parlato di compenetrazione di poliziesco e militare come aspetto centrale assunto nel mondo contemporaneo dalla forma guerra. Non ci stiamo inventando nulla poiché, proprio una delle diciture in cui le operazioni belliche odierne sono state ascritte, sono denominate operazioni di polizia internazionale. Se guerra umanitaria è termine non solo ambiguo ma indeterminato e indistinto operazione di polizia internazionale ha sicuramente il merito di essere chiara ed esplicita poiché consente di comprendere appieno il modo in cui, dentro la fase imperialista globale, il conflitto è stato, prima agito, poi concettualizzato.

Classicamente, polizia ed esercito, rimandano a due mondi ben distinti tra loro. Non è certo un caso che, nelle classiche guerre tra entità statuali, quando un Paese veniva occupato le forze di polizia autoctone rimanevano al loro posto. La polizia continuava a occuparsi di crimini comuni i quali, grosso modo, rimangono identici sotto tutte le latitudini. Il nemico, proprio in quanto nemico pubblico, poteva e doveva essere combattuto solo da forze militari regolari. Un qualche problema, sotto tale profilo, è stato rappresentato dalla figura del partigiano rispetto alla quale, il riconoscimento di nemico pubblico, è stato oggetto di non poche resistenze. Aspetto importante, sul quale torneremo, ma che per il momento poniamo tra parentesi.

Ciò che vogliamo evidenziare è il fatto che, nelle guerre che ci hanno preceduto, la compenetrazione di poliziesco e militare non è mai stata presa in considerazione. La polizia, in sostanza, non era deputata ad altro che alla messa in sicurezza di colui o coloro i quali, proprio in virtù dei loro comportamenti, non potevano andare oltre, rispetto alla società, alla figura del nemico privato. Un nemico che, per definizione, non è assolutamente e legittimamente fisicamente eliminabile. Ciò è facilmente dimostrabile. Un soldato nemico placidamente addormentato sotto una pianta può essere tranquillamente fatto fuori, da chi porta una divisa di altro colore, senza che la cosa susciti o possa suscitare una qualche forma di riprovazione. Il fatto stesso di indossare una divisa nemica lo espone a un pericolo mortale. Per meritarsi la morte, il soldato, non deve compiere una qualche azione riprovevole. La sua stessa esistenza, sotto quelle vesti, gli procura la concreta possibilità di essere ucciso. Allo stesso modo il soldato che cogliendo di sorpresa uno o più militi nemici arricchisce di un certo numero di tacche il suo fucile mitragliatore oltre a non essere passibile di incriminazione può aspirare a una qualche menzione al valore. Del tutto diverso si mostra lo scenario quando si entra alle prese con un nemico privato.

Le “regole di ingaggio”, nel contesto, cambiano completamente. Legalmente nessun poliziotto è autorizzato a eliminare un bandito. Solo nel caso in cui, il bandito, metta a repentaglio la vita del poliziotto o di qualche altro la sua uccisione diventa possibile altrimenti, poiché la sua esistenza rimane rigidamente ascritta nell’ambito del privato, nessuno è autorizzato a estirparne la vita. Del resto la stessa linea di condotta del nemico privato si modella esattamente dentro questa cornice. Nessun fuorilegge, infatti, attacca apertamente le forze di polizia ma, per lo più, tende a starne alla larga. Da ciò ne consegue che esercito e polizia rimandano a mondi e procedure assai diversi tra loro tanto che trasformare la guerra in operazione di polizia internazionale appare, sotto il profilo concettuale, un’operazione più che ardita impossibile a meno che non intervenga qualcosa che sovverta per intero la cornice entro cui la guerra è pensata e agita. La messa in forma della guerra contemporanea ha segnato esattamente questo passaggio. Ciò è quanto è necessario investigare.

(fine prima parte – continua)

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La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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Il nuovo disordine mondiale / 13: Guerra e ipocrisia. Un’invettiva. https://www.carmillaonline.com/2022/05/02/il-nuovo-disordine-mondiale-13-guerra-e-ipocrisia-uninvettiva/ Mon, 02 May 2022 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71645 di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway) “Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal [...]]]> di Sandro Moiso

“Mai pensare che la guerra, anche se giustificata, non sia un crimine” (Ernest Hemingway)
“Cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?” (Mario Draghi)

In tutte le guerre la prima a morire è la verità, così come hanno indirettamente dichiarato alcuni corrispondenti di guerra (qui) sulla falsariga di una ben più celebre e interessata frase di Winston Churchill (“in tempo di guerra la verità è così preziosa che dovrebbe essere circondata da un muro di bugie“), ma certamente il suo funerale è accompagnato dal trionfo dell’ipocrisia che la sostituisce con la propaganda intesa come unica fonte di informazione.

Il primo esempio di tale ipocrisia, forse il più importante e fuorviante, è proprio quello di voler definire, all’interno del ben più vasto crimine costituito dalla guerra, quelli che dovrebbero essere i crimini di guerra da addossare a qualcuno dei partecipanti a un conflitto. Una questione di lana caprina che trasforma le violenze odiose e i soprusi ignobili che accompagnano, inevitabilmente, i conflitti tra Stati e imperialismi in colpe specifiche di cui occorre accusare una delle parti in guerra. Possibilmente quella che la parte avversa spera destinata alla sconfitta.

Dalla prima guerra mondiale e dal congresso di Versailles e, in particolare, dal secondo dopoguerra in poi gli sconfitti del macello imperialista devono risultare colpevoli di “aggressione” e crimini indescrivibili, proprio per giustificare la parte svolta dei “buoni”, ovvero i vincitori, nel corso del conflitto. Motivo per cui la Germania, stato aggressore secondo i parametri individuati a Versailles nel corso del processo di risistemazione dei confini europei dopo il primo conflitto mondiale, fu condannata a pagare le riparazioni di guerra agli stati vincitori. Non importava se i generali di questi ultimi avevano mandato al macello, fatto fucilare o condannato alla follia milioni di giovani in divisa.

Dopo la seconda guerra mondiale furono i “criminali” di un’unica parte, quella sconfitta e nazista e possibilmente anche i più insignificanti sul piano politico ed economico, a sedere sui banchi del processo di Norimberga. Lo fecero rassegnati, spesso indossando occhiali scuri per nascondere gli occhi chiusi dei dormienti e degli annoiati, consapevoli che su quegli stessi banchi non avrebbero mai preso posto gli ideatori dei bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki oppure i generali sovietici che avevano mandato all’assalto le proprie fanterie senza alcun riguardo nel trattarle come autentica carne da cannone. La colpa doveva essere soltanto degli sconfitti. I buoni trionfavano, nelle ridefinizione del mondo e nell’immaginario.

Anche se a proprio in “casa” dei buoni alcuni dei principali esponenti dei cattivi avrebbero trovato riparo come scienziati (Wernher von Braun, ideatore delle V1 e V2 tedesche utilizzate per bombardare Londra e poi responsabile del primo programma spaziale americano), spie (tutti coloro che furono messi a capo di settori dei servizi occidentali nella Germania Ovest e in America Latina, dove avevano trovato rifugio, dopo aver accumulato “esperienze” negli apparati polizieschi e militari nazisti) e così via. Grazie anche all’aiutino fornito in molti casi dal Vaticano.

Già, crimini di guerra, ma solo quelli di una parte, e guai a sostenere, come fece Hemingway, che la guerra è un crimine in sé. Guai a sostenere che chi si oppone alla guerra, non si schiera, si dichiara antimilitarista, pacifista e antimperialista lo fa perché sa già in anticipo che la guerra porta con sé soltanto dolore, violenza, morte e distruzioni che ricadranno quasi sempre e principalmente sugli strati meno agiati della società, sulle donne, sui bambini, sui giovani, sugli anziani e sui lavoratori.

Domenico Quirico, in un testo già citato nella puntata precedente di questa serie di interventi sulla guerra, ha giustamente affermato:

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale1.

Spesso chi parla con troppa facilità e superficialità di “crimini di guerra” sembra voler far credere, oppure credere egli stesso, che esistano guerre pulite, senza ricadute sui civili. Ammaestrati da un immaginario cinematografico di stampo hollywoodiano in cui al massimo sono gli “eroi” a morire. Ignorano, i sostenitori della guerra pulita e intelligente, possibilmente democratica, che dal secondo conflitto mondiale e per tutta la seconda metà del secolo appena trascorso sono stati i civili a subire il maggior numero di perdite, violenze di ogni genere e patimenti. In un crescendo in cui dalla Palestina a tutto il Medio Oriente, dal Vietnam a tutte le tragedie asiatiche fino alle guerre balcaniche (di cui i media si dimenticano sempre, fingendo che prima della guerra in Ucraina non vi siano più state guerre sul territorio europeo fin dal 1945) e passando per le tragedie infinite del continente africano e del sub-continente latino-americano sono stati milioni i civili uccisi, mutilati, stuprati, torturati. Di ogni genere e età, ma non sempre appartenenza sociale, poiché in fondo alla scala stanno sempre i poveri, i lavoratori, i senza riserve. Vittime della violenza del capitale sia in guerra che in pace.

Se poi qualcuno osasse ricordare le bufale che accompagnarono la caduta di Ceausescu, senza per altro voler affatto difendere la sua dittatura personale, con i cadaveri tirati fuori dalle fosse per dimostrare una strage mai avvenuta a Timisoara nel 1989, oppure ricordare che sulle pagine del «Guardian», quotidiano britannico tutt’altro che filo-putiniano, sarebbe apparsa un’inchiesta in cui si rileverebbe che diverse vittime di Bucha sarebbero state abbattute da proiettili ucraini2 o, ancora, ricordare come tre ben noti salotti televisivi (Piazza Pulita, Controcorrente e Porta a porta) abbiano utilizzato immagini tratte da un videogioco per illustrare la “struttura inespugnabile” dei bunker sottostanti alle acciaierie Azovstal di Mariupol, allora apriti cielo e caccia all’untore filo-putiniano e creatore di fake news anti-occidentali.

Guai a dire che il diritto che riconosce la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e imperiali è un diritto che non è tale, che è nato morto per disseminare la Morte in nome degli interessi nazionali, geopolitici e proprietari. Guai a dire soltanto che, anche nel contesto di un diritto internazionale segnato dal marchio di produzione capitalistico e borghese, chi invia armi ad un paese in guerra è cobelligerante di fatto. Tanto poi ci penserà la propaganda a spiegare che era inevitabile finire in guerra a causa dell’aggressività del nemico. E che le armi servono a disseminare la Pace. Anche quando, nelle parole di leader come Boris Johnson e dei media occidentali, non servono più a difendere la nazione “offesa”, ma ad aggredire e colpire l’ avversario. In casa, sul “suo” territorio.

Un “nemico odioso” che ci obbliga a scegliere tra il nostro meritato benessere e la rinuncia a qualche grado di fresco in estate e di caldo in inverno, mentre i nostri democratici governanti si arrovellano tra l’accontentare le richieste del socio di maggioranza a stelle strisce e le necessità, non della popolazione civile e reale, dei soci di minoranza (impresari, investitori, compagnie petrolifere e del gas, banchieri e finanzieri) che potrebbero subire gravi perdite nei loro interessi economici e manifatturieri.

Già, ma non chiamateli oligarchi. Loro no, loro sono altra cosa. Si nutrono di carne umana e di lavoro vivo, di prebende statali e interessi politico-mafiosi ma, non scherziamo, son mica russi!
Hanno giornali e televisioni, si son comprati giornalisti, intellettuali e politici di ogni risma, colore, sesso, età e origine sociale. Controllano il mercato azionario e delle materie prime, magari rivendendo le scorte accumulate ad altri paesi per approfittare degli alti prezzi causati dalla speculazione ancor prima che dalla guerra, ma no chiamateli oligarchi. No, magari squali e profittatori, come furono definiti dopo il primo conflitto interimperialista da coloro che seppero ribellarsi alla prima carneficina su scala mondiale.

Un “nemico odioso” che, nella vulgata propagandistica a favore della guerra, si annida in ogni Stato che non abbia accolto a braccia aperte la predicazione liberal-democratica troppo spesso associata al biancore della pelle e alla religione cristiana. Stati canaglia che perseguono interessi contrastanti con quelli del ricco Occidente. Nemici sicuramente nazionalisti, autoritari, fascisti e imperialisti e per questi motivi, appunto, non troppo diversi dai governi che ci vogliono armare in difesa dei propri interessi che qui, come nei paesi “nemici”, non coincidono mai con quelli della maggioranza della popolazione e della specie.

E non importa che i governi dei paesi democratici, come l’Italia, possano agire in piena libertà extra-costituzionale per fornire armi di ogni genere al novello alleato. Senza sentire la necessità di informare, almeno formalmente, quel parlamento che nella narrazione democratico-liberale dovrebbe costituire il cuore della democrazia rappresentativa. Ma non preoccupiamocene, poiché ogni guerra è stata dichiarata sempre sopra e oltre il dibattito parlamentare. La centralizzazione del potere riguarda anche, e forse soprattutto, questo: lo stato d’eccezione. E cosa può esserci di più eccezionale di una guerra, magari mondiale?

Motivo per cui anche il piagnisteo del pacifismo generico o di chi vorrebbe salvare almeno la facciata di sinistra di partiti scaduti da tempo, appartiene, in fin dei conti alla stessa ipocrisia. Quella che non denuncia mai le reali radici della guerra, delle mafie, della distruzione ambientale e sociale, dell’impoverimento e dello sfruttamento esercitato da una classe sociale ristretta sul resto dell’umanità.

Umanità che, soprattutto nel continente africano e in Medio Oriente, sarebbe condannata soltanto ora, secondo la vulgata ipocrita della propaganda di guerra, alla fame, a causa del conflitto scatenato dall’”odioso nemico” in Ucraina3. Minaccia cui la gestione capitalistica e imperiale dell’esistente intende rispondere con quelle scelte e tecnologie che proprio hanno contribuito a creare quella fame e quella povertà diffusa soprattutto in Africa. Magari suggerendo, proprio per l’Africa sub-sahariana, strategie innovative basate sulla digitalizzazione e il “miglioramento genetico” delle colture tradizionali4.

Umanità che non è più costituita da proletari o poveri, ma da “persone fragili”, in modo da disconoscerle qualsiasi caratteristica sociale riconducibile alle classi e ai loro conflitti nei confronti di una sempre più diseguale ripartizione delle ricchezze e delle risorse. Umanità che là dove alza la testa e si ribella al giogo infame dell’imperialismo, del sionismo e dei corrotti governi locali, non ha mai potuto usufruire dell’appoggio militare dei paesi che oggi foraggiano abbondantemente la “resistenza” ucraina. Umanità per la quale il presidente Mattarella non ha mai speso parole di elogio, non soltanto quando era sottosegretario alla Difesa ai tempi dei bombardamenti sulla Serbia e i Balcani. Umanità che quando si arma e resiste è definita dai nostri governanti come dagli altri governi occidentali non “resistente”, ma “terrorista”. Motivo per cui, a differenza degli “eroici” volontari che accorrono in difesa dell’Ucraina, non importa se nazisti o membri effettivi delle forze speciali americane e inglesi, quelli che vanno a combatter sul fronte del Rojava, pur in qualche modo riconosciuto dagli Occidentali in funzione anti-turca, al ritorno in patria devono sottostare a pesanti misure di sicurezza preventive. Come nel caso di Eddi Marcucci e tanti altri militanti italiani.

Affermazioni che nel loro insieme rendono evidente la necessità dello spaccio dell’ipocrisia trionfante, parafrasando l’eretico Giordano Bruno e la sua opera intitolata Spaccio de la Bestia trionfante (1584), opera filosofica di cui uno degli intenti principali resta fondamentalmente quello della polemica di Bruno contro la Riforma protestante, che agli occhi del Nolano rappresentava il punto più basso di un ciclo di degenerazione iniziato col cristianesimo. E in cui il termine “spaccio” sta per “cacciata”. Unica e definitiva degli antichi vizi che da secoli accompagnano la vulgata occidentale, razziale e cristiana del mondo.

(13 – continua)


  1. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

  2. Si veda: Francesco Borgonovo, Intervista a Toni Capuozzo – «La propaganda non è da una parte sola: il dubbio è un dovere», «La Verità», 28 aprile 2022, p.9  

  3. Si veda, a solo titolo di esempio: La guerra mondiale del cibo. Gli effetti alimentari del conflitto in Ucraina minacciano miliardi di persone fragili, «Scenari» n°5, a29 aprile 2022  

  4. Ancora su «Scenari» n°5: Roberto Pretolani, La tecnologia alimentare può salvarci dalle crisi; Mario Enrico Pè e Leonardo Caproni, Il matrimonio fra genetica e tradizione contadina.  

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Capitalismo, guerre ed epidemie https://www.carmillaonline.com/2020/10/07/capitalismo-guerre-ed-epidemie/ Wed, 07 Oct 2020 20:51:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62974 di Sandro Moiso

Calusca City Lights (a cura di), Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie, Edizioni Colibrì, Milano 2020, pp. 142, 14,00 euro

Fortunatamente, nel corso di una “strana“ estate sospesa in attesa di un autunno che già si annunciava gravido di conseguenze socio-sanitarie ed economico-politiche oltre che giudiziarie e repressive, mentre una parte della Sinistra ex-antagonista si arrovellava sulla valenza ‘democratica’ del votar No al referendum, altri compagni si ponevano problemi ben più importanti per lo sviluppo delle lotte a venire e il conseguente smantellamento dell’immaginario capitalista che ancora [...]]]> di Sandro Moiso

Calusca City Lights (a cura di), Lo spillover del profitto. Capitalismo, guerre ed epidemie, Edizioni Colibrì, Milano 2020, pp. 142, 14,00 euro

Fortunatamente, nel corso di una “strana“ estate sospesa in attesa di un autunno che già si annunciava gravido di conseguenze socio-sanitarie ed economico-politiche oltre che giudiziarie e repressive, mentre una parte della Sinistra ex-antagonista si arrovellava sulla valenza ‘democratica’ del votar No al referendum, altri compagni si ponevano problemi ben più importanti per lo sviluppo delle lotte a venire e il conseguente smantellamento dell’immaginario capitalista che ancora regge buona parte della narrazione della pandemia e dell’interclassismo collaborativo.

Tra coloro che non si sono fatti abbindolare dalle fanfaluche democratiche vanno annoverati i curatori della raccolta di saggi edita da Colibrì, che si sono posti seriamente il problema, nella scelta degli autori e dei testi, dello stretto rapporto che intercorre tra il modo di produzione attuale, le guerre e le epidemie di cui lo stesso sistema è portatore.
Cinque saggi, ed una scheda su Hart Island (quella in prossimità di New York City dove sono state seppellite in grandi fosse comuni numerose vittime del Coronavirus), che riportano al centro il dibattito sul capitalismo produttore di guerre, disuguaglianze economiche e sociali (che delle prime sono una componente tutt’altro che secondaria) e sulle epidemie che delle seconde costituiscono allo stesso tempo un’aggravante e una conseguenze.

Come affermano gli stessi curatori nella sintetica premessa:

Con questo libro, al quale ne seguirà presto un altro curato dal gruppo di lavoro di LOST (Lunghe Ombre della Scienza e della Tecnica), vogliamo incominciare a tenere fede all’impegno preso: essere all’altezza dei tempi.
Il volume che avete in mano raccoglie i più significativi contributi espressi nelle settimane scorse da alcuni individui e collettivi che da diversi anni stanno con la Calusca in un rapporto di prossimità nel pensiero e nella lotta. Li mettiamo in circolo, senza por altro tempo in mezzo. Per la Critica1.

Un compito che i redattori si sono imposti anche in omaggio a Primo Moroni e alla sua intelligenza, a ventidue anni dalla sua morte. Un’intelligenza politica contraddistinta da una Critica radicale del modo di produzione vigente, che si rende particolarmente necessaria non soltanto per il prevedibile sviluppo della crisi economica e pandemica destinata a precipitare in guerre sempre più ravvicinate e diffuse, ma anche per contrastare la voce di chi, essendone privo, da buon pompiere travestito da attivista, continua a rincorrere le emergenze prodotte ormai a iosa dal capitalismo, senza mostrare alcuna capacità di anticiparne le svolte future e le susseguenti prospettive politiche. Finendo così col rinviare ad un futuro sempre più lontano e destinato a sfumare nel mai qualsiasi urgenza di salto di paradigma e di superamento dell’ordine politico-economico ed immaginifico attualmente vigente.

Ciò non capita certo tra le pagine del bel testo curato da Calusca City Lights, fin dal saggio più lungo, che occupa le prime ottantatré pagine del libro, redatto da Philippe Bourrinet.
Bourrinet – per chi non lo conoscesse – è un militante rivoluzionario e ricercatore indipendente, che ha al suo attivo numerose monografie, traduzioni e articoli sulle sinistre comuniste in Germania, Italia, Jugoslavia e Russia, oltreché su vari aspetti e figure dei movimenti socio-politici dell’età contemporanea, fra cui il ’56 ungherese. Fra i suoi principali lavori vanno ricordati: La sinistra comunista italiana. 1927-1952 (1984); Alle origini del comunismo dei consigli. Storia della sinistra marxista olandese (1995); Ante Ciliga, 1898-1992. Nazionalismo e comunismo in Jugoslavia (1996); mentre attualmente anima il blog di teoria politica pantopolis.over-blog.com

Il suo saggio, di fatto, è quello che riassume il senso della ricerca e dei testi successivi, dovuti rispettivamente a Visconte Grisi (L’economia di guerra al tempo del coronavirus e La guerra è permanente?), al Centro di documentazione contro la guerra (Coronavirus) e ai militanti che hanno dato vita al blog e alle edizioni «rompere le righe» (Il tallone di silicio. Sul rapporto tra tecnologia, guerra e razzismo).

Tutti temi che rendono il testo, così come è stato affermato dagli stessi curatori, complanare rispetto ad un altro, L’epidemia delle emergenze, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore2, in un panorama nazionale che da poche settimane ha visto riaprirsi un dibattito pubblico più ampio sulla pandemia e sul suo uso politico.

Tornando al saggio di Bourrinet va sottolineato come in questo sia sviluppato un’efficace excursus tra le epidemie che hanno segnato la Storia dall’Antichità fino al mondo attuale, in cui l’attenzione dell’autore si sofferma maggiormente sulla Peste nera della metà del XIV secolo e successivamente sulle nuove pandemie che approfittano di un sistema sanitario capitalista alla deriva (come titola lo stesso autore una delle parti del testo).

Se la prima rivela la stretta interconnessione tra sviluppo dell’economia mercantile, spostamento delle merci e rapido diffondersi della peste, le altre e più recenti vengono fatte derivare da un sistema di sfruttamento globale sempre più simile ad una vera e propria guerra condotta nei confronti della Natura. Un sistema basato sulla guerra continua che promuove, direttamente e indirettamente, lo sviluppo e la diffusione delle epidemie. Come viene dimostrato in una delle schede inserite nel saggio dai curatori a proposito della cosiddetta influenza “Spagnola”, che si diffuse su scala planetaria proprio a partire da un campo di addestramento militare molto affollato, per l’urgenza della preparazione militare per l’intervento statunitense nel conflitto europeo, che si trovava nella contea di Haskell in Kansas.

Lo scopritore del virus dell’influenza poi ribattezzata “Spagnola” era un medico del Kansas, che si chiamava Loring Miner. Per primo aveva notato questa influenza con strani sintomi e aveva anche avvisato le Autorità, ma in quel momento l’Amministrazione Wilson aveva altre priorità, la guerra appunto, e nessuno badava a quella che sembrava una modesta epidemia locale. I soldati quartierati nel campo di addestramento di Funston, tuttavia, cominciarono immediatamente a infettarsi, ma i sintomi non erano ancora sufficientemente gravi per capire l’entità dell’epidemia e quindi [questi soldati] vennero spediti in Europa.
L’arrivo di truppe americane in Europa permise al virus immediatamente di diffondersi; per esempio, due terzi dei soldati americani diretti in Francia – stiamo sempre parlando dell’ultimo anno di guerra, il 1918 – arrivavano a Brest, e [in questo porto] ci furono subito vari casi di influenza. Con la sua diffusione – ricordiamoci che il virus, man mano che si diffonde muta e diventa più virulento – tra i due milioni di soldati americani all’epoca al fronte, immediatamente anche le altre truppe alleate, quelle francesi e quelle inglesi, vennero contagiate. Il meccanismo [del contagio] proseguì durante l’estate e poi scoppiò drammaticamente nel l’autunno 1918.
In quell’autunno cominciarono i casi più gravi e si svilupparono principalmente negli Stati Uniti, a partire dalle basi dell’esercito e a partire dai porti dove transitavano le truppe per andare in Europa o per tornare dall’Europa, quindi Boston, Philadelphia, New Orleans. Le stesse navi che andavano o venivano dall’Europa registravano decine, a volte centinaia, di casi durante la traversata. A quel punto le autorità sanitarie militari compresero la gravità del problema e cercarono di isolare i soldati contagiati, ma ormai era troppo tardi. […]
Nell’arco di poche settimane l’epidemia si scatenò in tutta la sua virulenza in Europa e negli Stati Uniti. Gli ospedali, semplicemente, collassarono, i feriti o i contagiati morivano rapidamente di questa polmonite apparentemente inarrestabile e non sappiamo esattamente quanti furono i casi poi registrati, per esempio in Asia, su cui non ci sono statistiche sanitarie attendibili.
Con ogni probabilità si trattava di un tipo di influenza aviaria, partita nel rurale Kansas e poi mutata una volta raggiunte le truppe da una parte e le città dall’altra. Anche nel 1918 il mondo era globalizzato, legato fortemente da trasporti navali oltre che dall’incredibile concentrazione di persone e animali nei teatri delle operazioni belliche. Nelle trincee l’epidemia si sviluppò in maniera estremamente rapida, nei quartieri più poveri e sovraffollati, ancora di più3.

Mi scuso con i lettori e con i curatori per una citazione forse un po’ troppo lunga, ma credo che essa possa essere di grande aiuto per cogliere, sinteticamente, tutte le similitudini tra alcuni aspetti di quella pandemia e l’attuale, ma anche, e soprattutto, per riflettere su un modo di produzione di cui la guerra è una costante assoluta e non soltanto frutto di momentanei errori e sul modo in cui le conseguenze di questa si prolunghino ben al di là delle trincee e dei campi di battaglia. Sia dal punto di vista politico-economico che socio-sanitario, come si è già affermato più sopra4.

Il saggio di Bourrinet coglie a fondo la necessità e l’inevitabilità del conflitto nella costituzione del modo di produzione attualmente dominante e sviscera letteralmente tutti i collegamenti tra warfare e governance che ne derivano. Non dimenticando di ripercorrere tutte le interconnessioni tra produzione industriale, guerra chimica (compresa quella contro l’ambiente) e guerra tecnologicamente “evoluta” che hanno segnato il destino di milioni di uomini e di donne. Spesso proprio nel cuore dell’Impero.

Gli altri saggi arricchiscono e approfondiscono alcuni degli argomenti trattati da Bourrinet, contribuendo così a dare vita ad una riflessione collettiva di cui oggi c’è assoluto bisogno, in vista del futuro ed inevitabile affossamento di un modo di produzione che, come dimostrano le alluvioni e il ritorno in grande stile della pandemia nel corso degli ultimi giorni, non è più assolutamente in grado, ammesso che lo sia mai stato, di risolvere i giganteschi problemi che esso stesso produce ed aggrava.

Quando il confinamento avrà termine e si uscirà dal bozzolo antivirus, tutti i lavoratori, quale che sia il loro sesso, si troveranno di fronte alla dura realtà. Il pericolo più grande non sarà costituito da questo o quel virus, ma dal capitale stesso. Dopo aver dimostrato la sua totale incapacità di anticipare e gestire la crisi, il sistema ne farà pagare il conto a coloro senza di cui non può raccogliere i suoi profitti: i proletari. Aumento della disoccupazione, riduzione del salario reale, penuria progressiva, militarizzazione della società. Dopo aver strombazzato a destra e a manca: Siamo in marcia verso sempre nuovi progressi, la classe capitalista ora martella: Siamo in guerra! Innanzitutto contro quanti si ribelleranno sfidando l’ordine socio-economico esistente. In primo luogo contro i proletari5.


  1. Calusca City Lights (a cura di), Lo spillover del profitto, p. 7  

  2. J.Orlando e S.Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, Roma 2020  

  3. Lo spillover del profitto, op. cit. pp. 24 – 25  

  4. Sullo stesso tema si veda anche: S.Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano 2018  

  5. P. Bourrinet, Capitalismo, guerre ed epidemie in op. cit. pp. 82-83  

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O tutto o nulla. I vecchi, i giovani, la guerra e la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2020/02/19/o-tutto-o-nulla-i-vecchi-i-giovani-la-guerra-e-la-rivoluzione/ Wed, 19 Feb 2020 20:46:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58053 di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente [...]]]> di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente più di un merito.
E non soltanto nell’ambito della storiografia politica.
Riesce infatti a ricostruire il clima sociale e politico di un ventennio in cui, all’interno di uno stesso ceppo socialista o socialisteggiante, si vennero a creare le condizioni sia per la formazione di una nuova formazione politica rivoluzionaria che di un movimento politico e sociale di estrema destra.
Entrambe le esperienze infatti, sia dal punto di vista organizzativo che ideologico, rappresentavano sicuramente un approccio alla politica di massa impensabile soltanto qualche decennio prima.

Entrambe le correnti, sia quella destinata a dar vita nel 1921 al Pcd’I che quella destinata ad animare le origini del fascismo mussoliniano, presero vita in un contesto in cui le contraddizioni sociali ed economiche, oltre che imperialistiche, sviluppatesi a partire dal tumultuoso sviluppo del moderno capitalismo industriale e finanziario in Europa e in America, sarebbero sfociate da un lato in forme di lotta di classe e reazioni politiche di parte proletaria difficilmente esperite in precedenza (anche solo per il crescente numero di lavoratori coinvolti) e dall’altro nella prima e violentissima carneficina mondiale, definita poi, in seguito e disgraziatamente, come Grande Guerra.

Ma un elemento di importanza capitale che l’autore sottolinea e risottolinea continuamente, a ragione, è sicuramente quello dello scontro generazionale che si sviluppò all’interno della compagine socialista, non solo a livello nazionale.
Elemento fondamentale di uno scontro che vide protagonisti, all’interno del movimento socialista internazionale e nel Partito Socialista nato in Italia nel 1892, da una parte i fondatori di tali esperienze, rinchiusi sempre più all’interno di un’azione parlamentare che, spesso, non rispettava certo il mandato della base sociale che avrebbero dovuto rappresentare e che faceva del riformismo l’orizzonte ultimo della propria azione, e dall’altra una generazione più giovane e sensibile dal punto di vista politico e sociale che chiedeva un radicale stravolgimento di quell’impostazione, ormai destinata a rinviare all’infinito qualsiasi reale mutamento all’interno dell’ordina sociale ed economico esistente.

Giovani contro adulti e rivoluzione contro riformismo e parlamentarismo: questi furono i due binari lungo cui si svilupparono le battaglie interne alla compagine socialista. Battaglie cui lo sviluppo delle politiche imperialistiche e coloniali avrebbero poi aggiunto un fattore determinante: quello dell’antimilitarismo di classe contrapposto ad un più blando pacifismo, destinato sempre e solo a sfociare nell’appoggio alle politiche dei governi liberali e nella comune difesa (tra forze borghesi e pretese proletarie) dell’interesse della Nazione e della Patria.

Per quanto riguarda le vicende italiane, che sono al centro della ricerca di Gorgolini ma senza dimenticare le dinamiche internazionali sugli stessi temi, certamente sia la guerra di Libia che la susseguente partecipazione, o meno, al primo conflitto mondiale furono determinati e dirimenti per definire i soggetti impegnati nella lotta e i programmi che questi avrebbero portato nell’agone politico.

Non c’è certo da stupirsi se a lottare contro il servizio militare, le compagnie di disciplina, le condizioni di vita in caserma e il massacro prevedibile, e poi di fatto avvenuto, sui campi di battaglia fossero di fatto i militanti più giovani, i proletari, i contadini e le donne: erano infatti questi soggetti a cogliere con certezza il fatto di essere destinati in prima persona, sia al fronte che a casa, ad essere toccati pesantemente dalle politiche e dalle scelte militariste e imperialiste messe in atto dalla borghesia italiana.

I parlamentari socialisti non nutrivano eccessivi timori personali in questi termini e potevano quindi crogiolarsi in un’insipida posizione neutralista che, nel corso del primo conflitto mondiale, sarebbe poi sfociato in quel né aderire né sabotare che li avrebbe condotti in seguito a bloccare l’azione rivoluzionaria messa in atto dai proletari e dai soldati italiani nell’anno più buio della guerra, il 1917, sia nelle città che al fronte (Torino, agosto 1917 – Caporetto nell’autunno dello stesso anno) e richiesta a gran voce dai rappresentanti più attivi della Federazione Giovanile Socialista.

Una contrapposizione generazionale che, nei fatti, diventava autentica contrapposizione di classe e che vide la formazione di una frazione intransigente, anche all’interno del Partito, che da un lato avrebbe dato vita, in nome dell’unità dello stesso, alla corrente poi detta massimalista e dall’altro a quella frazione che avrebbe poi dato vita alla scissione di Livorno nel 1921. Anche in questo caso, il testo affronta la questione della differenza di età tra le due frazioni e sottolinea come fossero i giovani e i giovanissimi, tranne quelli appartenenti sostanzialmente alla federazione di Reggio Emilia, a spingere in direzione di un’azione autonoma e rivoluzionaria, libera da qualsiasi fardello parlamentare e da alleanze con le forze moderate, sia che si definissero queste ultime repubblicane o radicali quando non addirittura liberali.

Il testo ha grandi meriti: quello di chiarire come inevitabilmente il Partito nato dalla scissione livornese non avrebbe potuto essere altro che astensionista in campo parlamentare e per questo fosse destinato a scontrarsi, nel 1922 (anche se quella data non rientra nel periodo preso in esame) con le indicazioni dell’Internazionale Comunista. Il percorso parlamentare era stato esperito del tutto nella storia del socialismo italiano e si era rivelato per quell’enorme bugia e bagno di opportunismo panciafichista (termine coniato dagli interventisti mussoliniani e nazionalisti, ma ben adatto a cogliere l’essenza dei comportamenti dei parlamentari socialisti) che avrebbero soltanto continuato ad illudere una parte del proletariato italiano (specialmente quello operaio del Nord) e a rimandare all’infinito qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale della società, anzi opponendosi a quest’ultima come ad un nemico mortale.

L’altro è quello di cogliere nella svolta mussoliniana, dall’opposizione anti-militarista all’interventismo, non la causa agita da un deus ex-machina (lo stesso Mussolini) in grado di determinare, quasi da solo, una grave frattura nel movimento socialista e un tradimento “sicuramente” maturato all’esterno del Partito Socialista, ma la conseguenza di un’incoerenza politica, nata all’interno degli stessi partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale, che aveva portato quelli più importanti (ad esempio quello tedesco e quello francese) a votare per i crediti di guerra fin dal 1914.

Confusione e tradimento che nel non avere abbandonato i concetti di Patria e Nazione in nome di un più severo e radicale internazionalismo fece sì che nell’ora dell’intervento anche numerosi “giovani”, non ultimi Gramsci e Togliatti, sposassero per un più che lungo momento la causa dell’azione militare a favore o in difesa della Patria. E’ proprio in tale contesto che l’autore sa dipingere la figura di Amadeo Bordiga come strenuo difensore di un’intransigenza non fine a se stessa, come troppo spesso è stata dipinta dai successivi e stalinizzati detrattori, ma assolutamente necessaria per salvare l’azione politica antagonista al capitale e rivoluzionaria dalla palude del nazionalismo e del collaborazionismo interclassista. Spesso travestito, come capita ancora oggi, da missione di soccorso o da raccolta di fondi per i presunti aiuti umanitari (all’epoca messi in atto nei confronti dei profughi che avevano dovuto lasciare i territori italian dopo Caporetto e che la frazione dei giovani intransigenti si rifiutò di appoggiare e sostenere).

L’azione repressiva del governo, soprattutto dopo Caporetto, che colpì duramente i rappresentanti della frazione intransigente e soprattutto della sua ala giovanile (carcere, compagnie di disciplina o della morte, ripetuti richiami alle armi, morte al fronte), non fu sufficiente a vincerne la spinta rivoluzionaria, così come i precedenti tentativi di eliminare la Federazione giovanile come se si trattasse di una serpe in seno non servì al gruppo parlamentare socialista per distruggere la corrente rivoluzionaria che in essa si rifocillava ed animava.

Certamente l’azione del gruppo parlamentare e l’inanità “unionista” della corrente massimalista impedirono, nel biennio rosso, una più radicale azione politica a guida degli operai, dei reduci, dei contadini e di giovani in rivolta, ma non impedì che alla fondazione del Partito Comunista d’Italia l’età media dei cinque membri dell’Esecutivo del nuovo partito, nato dalle basi poste dalla nuova Internazionale, fosse di 31 anni: Bordiga (n.1889), Fortichiari (1892), Terracini (1895), Grieco (1893) e Repossi (1882).

Un libro importante, pur nella sua sintesi, quello di Gorgolini; utile non soltanto dal punto di vista storiografico, ma anche da quello di chi oggi si interroghi seriamente sulle prospettive di un movimento estremamente variegato come quello che, sia a livello internazionale che nazionale, oggi si va riformando e agitando ad ogni latitudine. In vista di una guerra civile già messa in atto dai differenti governi dell’esistente, ma tutti uniti dall’istanza repressiva anti-popolare e anti-proletaria, che molti ancora non vedono appellandosi ad inutili istanze umanitarie, riformistiche, parlamentari e nazionali.
Che, oggi come allora, appannano lo sguardo antagonista e l’azione di contrasto alle politiche del capitale, finanziario e non. Purtroppo, anche tra i giovani.

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