preistoria – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Penss e la sua resistenza nelle pieghe del mondo https://www.carmillaonline.com/2021/10/03/penss-e-la-sua-resistenza-nelle-pieghe-del-mondo/ Sun, 03 Oct 2021 21:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68510 di Paolo Lago

Jérémie Moreau, Penss e le pieghe del mondo, trad. it. di Stefano Andrea Cresti, Tunué, Latina, 2021, pp. 229, € 27,00.

I primi momenti narrativi della graphic novel dal titolo Penss e le pieghe del mondo, realizzata da Jérémie Moreau, sono dedicati alla contemplazione. Il giovane Penss appartiene a una tribù di uomini della preistoria ma non trascorre il suo tempo nella caccia e nella pesca, come fanno i suoi simili, unicamente intenti a procacciare il cibo per la sopravvivenza di se stessi e degli altri. Il ragazzo ama trascorrere il [...]]]> di Paolo Lago

Jérémie Moreau, Penss e le pieghe del mondo, trad. it. di Stefano Andrea Cresti, Tunué, Latina, 2021, pp. 229, € 27,00.

I primi momenti narrativi della graphic novel dal titolo Penss e le pieghe del mondo, realizzata da Jérémie Moreau, sono dedicati alla contemplazione. Il giovane Penss appartiene a una tribù di uomini della preistoria ma non trascorre il suo tempo nella caccia e nella pesca, come fanno i suoi simili, unicamente intenti a procacciare il cibo per la sopravvivenza di se stessi e degli altri. Il ragazzo ama trascorrere il suo tempo perduto nella contemplazione della natura. I primi quadri che Moreau (autore anche di La saga di Grimr, sempre tradotto per Tunué, premiato come miglior libro al festival di Angoulême) ci offre in questo suo nuovo lavoro sono la rappresentazione grafica della pura contemplazione. Si tratta di immagini in cui l’acqua di un ruscello appare contemplata da diversi punti di vista: disegni in cui è completamente assente la presenza umana. Soltanto dopo vediamo, in un ingrandimento, gli occhi del protagonista che la sta contemplando e allora si capisce che le immagini iniziali appartenevano, in un certo senso, alla sua soggettiva.

Anche successivamente, nel corso della storia, incontreremo altre tavole in cui la narrazione cede il passo alla contemplazione, all’immaginazione, ad una sospensione quasi incantata dell’incedere narrativo. Così afferma Penss nelle prime parole che pronuncia, anzi, che pensa: «O mondo… fluisci, danzi, colpisci, sibili, scintilli, abbagli… E credo proprio d’essere il solo a vedere la tua bellezza. Gli altri, tutti gli altri, passano la vita a correre». Tutti gli altri hanno un approccio più ‘pratico’ al mondo, finalizzato alla sua trasformazione per facilitare la sopravvivenza e gli spostamenti. Di fronte alla praticità, egli oppone la contemplazione, la fruizione pacifica e inerte della bellezza della natura. La tribù a cui il ragazzo appartiene rappresenta il senso pratico degli esseri umani e potrebbe essere l’antesignano di chi, perciò, anche oggi, ha con la natura un rapporto basato esclusivamente sull’utile e sul profitto come l’attuale società capitalistica che sventra montagne e distrugge vallate per costruire l’alta velocità a fronte di una resistenza che, con quella stessa natura, ha un rapporto più umano e contemplativo. Penss, per certi aspetti, in un mondo finalizzato all’utile e alla mera sopravvivenza, è un vero e proprio resistente, perché «tutte queste montagne, queste stelle sono infinitamente più belle di qualsiasi uomo. E noi non possiamo farci niente». La resistenza del personaggio è ravvivata da un approccio contemplativo e poetico all’esistente. Come già accennato, l’autore, per rappresentare graficamente l’atto della contemplazione, utilizza delle tavole che si succedono senza la presenza degli esseri umani e senza parole. In esse vengono soprattutto rappresentate quelle che il protagonista chiama le «pieghe del mondo».

Il mondo, per il protagonista, è infatti composto da «pieghe», una sorta di strati interconnessi che legano fra di loro ogni fenomeno vitale. In quest’opera di Moreau è possibile quindi incontrare anche un background filosofico che si rifà al pensiero di Leibniz ma soprattutto a quello di Gilles Deleuze, in particolare al suo saggio La piega. Leibniz e il Barocco. Il concetto leibniziano di «monade» viene ripreso da Deleuze e risemantizzato adesso da Moreau in chiave ecologista e comunitaria: secondo Penss non si può vivere come monadi, come organismi senza alcuna connessione fra di loro. È invece importante restare in connessione come in connessi sono tutti i fenomeni dell’esistenza sul pianeta che egli contempla. Quella che poteva apparire come una pura attività inerte diviene allora, in un certo senso, contemplazione attiva e, maggior ragione, resistenza. Lo stesso personaggio non intende affatto restare come una specie di «monade» separata rispetto al mondo, concepito come un sistema da sfruttare solamente per la sopravvivenza. Egli intende invece entrare in connessione con esso e plasmarlo e quindi scopre la possibilità di coltivare il terreno, di seminarlo ricavandone i frutti senza l’atto violento del cacciare. Da un punto di vista formale, i disegni mostrano spesso il personaggio in piedi o seduto come se fosse davvero inglobato dalla natura circostante, la quale si ingigantisce fino a far rimpicciolire la figura dell’essere umano. Quest’ultimo pare rimpicciolirsi anche nella rappresentazione grafica dei suoi sogni, nei quali lo si vede in balia di piante gigantesche.

Da un punto di vista grafico, il fumetto presenta innumerevoli suggestioni. L’autore alterna con grande maestria i colori più accesi, caldi e, se così si può dire, ‘caravaggeschi’ che rappresentano gli interni delle grotte illuminati da torce e fuochi a quelli più freddi e chiari dei paesaggi silenziosi e innevati. Suggestive sono anche le immagini notturne in cui domina il nero e in cui vediamo, in una sorta di montaggio alternato, da una parte il cielo e il paesaggio, dall’altra lo stesso Penss perduto nella contemplazione. Da un punto di vista narrativo e scenico, si può dire che prevalgono i momenti di contemplazione ma non mancano neppure diversi momenti in cui il ritmo si velocizza e l’azione si fa concitata. Spesso, al silenzio e alla contemplazione seguono situazioni in cui prevale il grido selvaggio puro e semplice oppure la parola gridata, rabbiosa, segnata dal dolore dell’impotenza umana di fronte alla morte e alle catastrofi.

La dimensione contemplativa, mentre il tempo scorre (l’autore è bravissimo a rendere l’alternarsi delle stagioni e lo scorrere di un tempo nella sua ciclicità naturale) sembra lentamente mutarsi in una dinamica di movimento. Le stesse foreste, gli stessi boschi sono in movimento perpetuo – osserva il protagonista – per mezzo del continuo fluttuare dei loro pollini e dei loro semi. Lo stesso protagonista giunge alla conclusione che per far pienamente parte della «piega» del mondo occorre unirsi ad essa e mutare, divenire nomade: «e se la soluzione migliore fosse rimettersi in movimento?» – si chiede Penss – «reinserirsi nella corrente che fa girare il sole, che fa avanzare le greggi e che ci porta dagli altipiani alle valli, dalle valli agli altipiani?». Forse «in questa grande danza» si cela «il segreto del più armonioso e duraturo dei dispiegamenti». Per vivere in connessione col mondo, alla fine, è necessario poter partecipare a questa «grande danza», essere nomadi e percorrere spazi. Ma, come scrivono Deleuze e Guattari in Mille Piani, sarebbe «un errore definire il nomade per il movimento»1, perché «il nomade sa attendere e ha una pazienza infinita»2 , proprio come Penss. Il movimento e la velocità possono essere anche dei percorsi mentali: essere nomadi dell’immaginario per poter giungere a inediti e inesplorati percorsi di liberazione. E forse è proprio questo il messaggio ultimo del paziente e contemplatore Penss e delle sue pratiche di resistenza.


  1. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. Castelvecchi, Roma, 2010, p. 452. 

  2. Ibid. 

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Divenire ciò che non siamo stati ancora https://www.carmillaonline.com/2018/10/24/divenire-cio-che-non-siamo-stati-ancora/ Wed, 24 Oct 2018 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49208 Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano [...]]]> Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano (qui). S.M.]

Un aspetto focale del lavoro di Neil Novello consiste nel dar voce all’aforisma pindariano – Γένοιο οἷος ἔσσι, Diventa ciò che sei! – al fine di trovare un minimo comune denominatore all’intera opera cesaraniana e al contempo tracciare il profilo umano dell’autore stesso, deciso da sempre a condurre la “vera guerra” contro la sopravvivenza degli uomini mercificati dal sistema capitalistico per diventare ciò che si è, così da «emanciparsi non dal sistema, ma emanciparsi nel sistema per emanciparsi dal sé o dall’io ancora ignoto, tradurre la non-vita in vissuto reale, fare della vissutezza oltre la preistoria la storia di una ritrovata compiutezza ontologica, qualcosa che sia il compimento di un riconquistato “diritto alla vita”». Progetto, però, che può realmente concretizzarsi se concepiamo la necessità di «smarrire le tracce del sentiero finora battuto, deviare in direzione di un altrove individuale rinunciando, obliando l’essere-per nel nome dell’essere-sé, la persona ritornata individuo. Non è però uno slancio metafisico questo di Cesarano – puntualizza Novello – il momento individuale è tale in quanto piattaforma di un reale movimento collettivo, il viatico «verso una comunità umana». Già, perché il concetto di “comunità umana” diverrà fondamentale negli ultimi studi di Cesarano, debitore in parte delle riflessioni condotte in quegli stessi anni da Jacques Camatte, direttore della rivista «Invariance», sull’importanza in Marx della Gemeinwesen, quale adempimento storico del comunismo non nello Stato attraverso la presa del potere, ma nella liberazione dell’individuo comunitario; così come fu stimolato dalle riflessioni di Raul Vaneigem e di Guy Debord sulla necessità di ripensare i termini di rivoluzione e lotta di classe riferendosi alla critica della vita quotidiana, al desiderio quale principio trasformatore della realtà, al rifiuto di tutte le costrizione per la liberazione totale della creatività spontanea del “proletariato”.
Non essendoci, pertanto, più in palio la conquista del potere per mezzo della lotta di classe, la rivoluzione non potrà che essere condotta attraverso una lotta biologica volta alla conquista di sé come comunità umana; rivoluzione che permetterà di passare dalla preistoria del non vissuto alla storia della vera natura umana, la totalità organica naturante [Gemeinwesen], attraverso la completa realizzazione di sé nella società degli individui. Giustamente, Neil Novello in tal circostanza non può non notare le tracce seguite da Cesarano nel ripercorrere a modo suo il pensiero di Debord e di Vaneigem. Infatti, così come ne «La società dello spettacolo» si afferma che “il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia”, nel pensiero di Cesarano «è abolita l’idea di oggettivazione della conquista storica, non però la più autenticamente rivoluzionaria conquista di sé a sé e alla storia, una conquista della soggettività de-capitalizzata»; allo stesso modo nella sensazione manifestata da Cesarano di trovarsi ormai «in un luogo dell’anima tra il non più del mondo-capitale e il non ancora del mondo-soggettività» riecheggia il concetto di intermondo espresso da Vaneigem nel “Trattato di saper vivere”, quando afferma che “l’intermondo è il terreno incolto della soggettività, il luogo in cui i residui del potere e la sua erosione si mescolano alla volontà di vivere”. Assonanza di analisi che inducono Cesarano a scavare in profondità per portare alla luce la radice del problema gnoseologico: il perché ci sono? Domanda che l’analisi di Novello sostiene invece sia un’affermazione, anzi la constatazione crudele «dell’esserci come prodotto: l’inorganicità senza essere della specie umana»; di sicuro una riflessione sulle condizioni esistenziali di una mancanza di senso che il “dover essere” persona sociale risveglia nel desiderio di “saper essere” altro: un individuo indiviso, non dimidiato dalla langue della cultura del potere.
Stabilito dunque che non si può essere, poiché il capitale obbliga alla sopravvivenza, ad una vita ridotta alla mera funzione di autoaffermazione di sé come persona/merce, il “programma” rivoluzionario non può che lottare per un ritorno ad essere in quanto corpo dotato di senso che si riappropria del senso del corpo non più assoggettato alla produzione/riproduzione del capitale. Un rompere lo specchio che riflette la non-vita, o come poeticamente Cesarano scriverà in «Manuale di sopravvivenza» (l’ultimo saggio pubblicato dalla Dedalo nella primavera del 1974) un vedersi introspettivamente per confortarsi in uno “sguardo che non accetterà in eterno di riflettersi” nella persona sociale in cui l’Io [l’Io che pensa] è “l’ego quale centro economico” [l’Io che si pensa]. Del resto, non certo accidentalmente l’incipit della «Critica dell’utopia capitale», pubblicata postuma nel 1978 e nella sua forma di appunti programmatici, pone subito al centro della riflessione l’Io, affermando che “Il pensiero che si pensa è il riflesso del ripiegamento dell’essere, […] il primo istante della valorizzazione dell’io come ente astratto dell’essere quale attività”. Si evince così predisposta la volontà radicale di riportare la passione, il desiderio di amarsi, al fuoco propulsore della rivoluzione biologica che brucia l’orgasmo di un’“insurrezione erotica” della vita contro l’oppressione che cristallizza la sopravvivenza in un’unica possibilità di esistere nella totalità reificata della non-vita. La volontà del desiderio diviene dunque una passione radicale che non può essere riassorbita dal bisogno compulsivo di possedere l’oggetto che la pubblicità invita a consumare come un bene indispensabile, in quanto la passione «non è desiderio di oggettivarsi in un oggetto materiale, non è neppure la cosalità del soggettivo. È ciò che resta dopo la cancellazione della totalità reificata». Solo in questo modo il desiderio non si degrada in bisogno (appagandosi degli oggetti posti da capitale), ma si trasforma in passione desiderante di essere l’uomo che non è mai stato ancora. Ne consegue che l’uomo è da farsi, dal momento che – scrive Cesarano nel «Manuale di sopravvivenza» – “l’origine dell’uomo non è alle spalle, ma dinnanzi agli uomini. L’origine della specie è il fine della rivoluzione biologica”.

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Per una nuova interpretazione dei corridoi del tempo https://www.carmillaonline.com/2018/10/03/per-una-nuova-interpretazione-dei-corridoi-del-tempo/ Wed, 03 Oct 2018 20:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48913 di Sandro Moiso

Daniel Lord Smail, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 236, € 24,00

Per chiunque si occupi di discipline storiche e storiografiche, sia a livello professionale che per semplice interesse personale, la ricerca di Daniel Lord Smail, docente di Storia a Harvard, costituirà sicuramente una lettura straordinaria e stimolante. Anche per coloro che alla fine non dovessero condividerne gli assunti e le conclusioni. L’intento dichiarato dall’autore è quello di spingere le barriere della storiografia attuale ben al di là dei quattromila [...]]]> di Sandro Moiso

Daniel Lord Smail, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 236, € 24,00

Per chiunque si occupi di discipline storiche e storiografiche, sia a livello professionale che per semplice interesse personale, la ricerca di Daniel Lord Smail, docente di Storia a Harvard, costituirà sicuramente una lettura straordinaria e stimolante. Anche per coloro che alla fine non dovessero condividerne gli assunti e le conclusioni.
L’intento dichiarato dall’autore è quello di spingere le barriere della storiografia attuale ben al di là dei quattromila anni prima di Cristo che hanno costituito il canone della storia ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana del mondo occidentale, superando, allo stesso tempo, anche il limite del documento scritto che di fatto, e ancora per gran parte della storiografia attuale, ha finito col costituire il confine tra Storia e Preistoria.

Per rendere possibile questo approccio il docente di Harvard si affida non soltanto ai risultati ottenuti dall’antropologia e dalla paleontologia, ma anche ai più recenti risultati delle ricerche condotte nei settori dell’etologia, della biologia, della genetica, della fisiologia e della neuro-fisiologia. Non soltanto della specie umana.
Volendo, e citando un autore che resta in qualche modo sullo sfondo della ricerca senza mai essere direttamente nominato, l’opera può essere compresa tra due affermazioni di Karl Marx: la prima è quella in cui il filosofo tedesco prende in considerazione il fatto che l’umanità non sia ancora uscita dalla Preistoria, mentre la seconda riguarda la necessità che la storia dell’Uomo in quanto specie, debba prima o poi giungere a fondersi con la storia della Natura.

Daniel Lord Smail spinge così lo sguardo storico nella profondità del tempo, almeno fino alla comparsa dell’Homo ergaster, un milione e settecentomila anni fa. Primo rappresentante del genere Homo ad avere un apparato dentale, una scatola cranica e un rapporto dimensionale tra maschi e femmine simile a quello dell’Homo odierno. Anche se in realtà, seguendo i percorsi di ricerca delle scienze naturali applicate all’evoluzione delle forme di vita e delle specie, lo storico spinge il suo sguardo ben più indietro: non solo alla comparsa dei primati ma addirittura a quella dei rettili.

Il fine di tale sguardo nei corridoi del tempo che la storia umana «condivide con i dirupi del Grand Canyon, dove la semplice immensità del tempo è sotto gli occhi meravigliati di tutti», non è quello di stupire o abbacinare il lettore con luminose e affascinanti letture del nostro passato, alla ricerca di una mai meglio definita genuina natura umana, ma è piuttosto quello di dimostrare come sia necessario superare i limiti di una Storia basata sulle civiltà, gli Stati, le forme proprietarie e sociali sviluppatesi a partire dai millenni successivi al Neolitico e alla rivoluzione agricola, per arrivare a comprendere il complesso e lunghissimo processo di formazione delle società e dei comportamenti umani.

Una Storia che inizia, come minimo, nell’età della pietra antica e che ha visto almeno tre tipi di umanità succedersi, espandersi e, a tratti, convivere sul pianeta in aree diverse, in sequenze temporali sempre più brevi. Prima l’Homo ergaster tra 1.700.000 anni fa e circa 100.000 anni fa (essendo ormai largamente condivisa tra i paleoantropologi l’ipotesi che H. ergaster e Homo erectus di fatto coincidano) che lasciò il continente africano di origine circa un milione di anni fa per iniziare la colonizzazione del mondo a partire dall’Asia Meridionale. Poi, circa 600.000 anni fa, una seconda diaspora che vide la nascita di un «ramo del cespuglio evolutivo ominide che si è estinto con i Neanderthal, all’ incirca tra i 30.000 e i 40.000 anni fa». E, per finire, con la comparsa in Africa circa 140.000 anni fa della nostra specie attuale, H. sapiens, che intraprese un terza diaspora, lasciando il continente d’origine «tra 85.000 e 50.000 anni fa per stabilirsi nel Vicino Oriente, in Asia, in Australia, in Europa e nelle Americhe nel corso di un processo incredibile che non poté dirsi concluso fino a quando anche l’ultima isola del Pacifico venne raggiunta negli ultimi 1.000 anni. Tutte le popolazioni non-africane provengono da questa diaspora. Resta da vedere se gli esseri umani moderni sopravvivranno al di fuori dell’Africa tanto quanto H. erectus».

Questi dati potrebbero apparire al lettore più attento come già ampiamente noti, ma ciò che colpisce nell’intreccio tra dati storici, biologici e antropologici messo in opera da Lord Smail è offerto dal fatto che queste migrazioni e successive colonizzazioni dei nostri più lontani antenati costituiscano già di per sé elementi imprescindibili della storia dell’uomo. Storia che, nell’esposizione, non ha bisogno delle cosiddette civiltà per diventare tale, poiché è proprio nella sua profondità che si sono venute a creare le caratteristiche bio-culturali della nostra specie.
Ipotesi che non soltanto porta l’autore a chiedersi, con gli esponenti dell’antropologia radicale come Marshall Sahlins, se davvero l’agricoltura sia stata una conquista oppure una scelta obbligata , collegata alla riduzione della megafauna presente sui territori colonizzati; neppure la più intelligente, una volta considerate le conseguenze della stessa (nascita di società in cui il potere era concentrato nelle mani di un numero ristretto di individui, generalmente maschi, con una riduzione e specializzazione delle funzioni legate al sesso femminile; aumento delle ore di lavoro necessarie per il mantenimento degli standard alimentari e conseguente riduzione della varietà della dieta; nascita di religioni organizzate tese a consolare i nuovi “sudditi” per la perdita dei vantaggi e delle libertà individuali e di gruppo appartenenti alle società pre-neolitiche).

L’autore , però, non è alla ricerca né di una presunta e perduta età dell’oro né di comportamenti umani “innati” quali avrebbe voluto individuare la prima socio-biologia. Il suo è invece un tentativo, in gran parte convincente ed interessante, per collegare la naturale evoluzione delle specie individuata da Charles Darwin con una sorta di adattamento lamarckiano della stessa, ma di carattere storico-sociale oltre che ambientale.

Proprio per questo motivo nei due capitoli più interessanti ed innovativi del suo studio, il quarto e il quinto, intitolati rispettivamente «La nuova neurostoria» e «Civiltà e psicotropia» lo storico statunitense fa largo ricorso alle più recenti scoperte della neurofisiologia, della biologia e della genetica per rintracciare una storia dello sviluppo del cervello umano e delle funzioni dell’intero sistema nervoso legate in particolare alla chimica, potremmo dire, delle sinapsi e di tutte quelle sostanza prodotte dal nostro corpo (dopamina, ossitocina , adrenalina solo per citarne alcune) che di volte in volta alterano in maniera spiacevole oppure piacevole i nostri comportamenti e il nostro modo di percepire noi stessi e, allo stesso tempo, l’ambiente e la società che ci circondano.

Ecco allora che la leopardiana ricerca del piacere trova nella chimica del cervello, soltanto per fornire una definizione approssimativa di ciò di cui si parla, una spiegazione scientifica di non secondario valore mentre, allo stesso tempo, l’abitudine alla sottomissione e alla paura dell’autorità (politica, religiosa o gerarchica, qualunque essa sia) oppure la rivolta contro i meccanismi sociali e psichici che le producono a loro volta trovano, nell’interdizione o nella produzione guidata di sostanza psicotrope, nuovi elementi di comprensione del comportamento umano. Sia individuale che sociale.

È chiaro a questo punto che i testi scritti, la cui storia è ambigua, come i differenti motivi della loro produzione, e molto più recente rispetto al lento formarsi e definirsi dei processi chimici che costituiscono il “programma adattativo” dei nostri comportamenti individuali e collettivi, diventano strumenti di ricostruzione storica molto meno importanti di quanto fino ad ora la storiografia “istituzionale” abbia potuto pensare ed affermare. Non diventano, certo, per questi motivi inutili, ma si rivelano strumenti adatti soltanto a percepire una ristrettissima sezione di tempo dell’umano divenire, quello che per mille motivi, non ultimo forse quello legato alla comparsa della proprietà privata (come aveva forse intuito il giurista tedesco Samuel Pufendorf già nel corso del XVII secolo), è stato definito storico e civile rispetto ad un precedente tempo barbaro, primitivo e senza storia, quindi Pre-istorico.

Guarda caso una definizione di ciò che è storico rispetto a ciò che non lo è, che calza a pennello con gli ideali della colonizzazione “bianca” e occidentale del resto del globo in epoche recentissime (sostanzialmente gli ultimi cinque secoli), durante le quali più volte i conquistatori hanno classificato i popoli sottomessi come senza storia. Rifiutando di vedere o cogliere la limitatezza, questa sì davvero barbarica, di una visione che dà alla scrittura e alla narrazione ordinata secondo date legate al calendario gregoriano una funzione fondamentale nella ricostruzione del nostro (?) passato. Come afferma lo stesso autore:

Anche se l’esclusione dell’Africa dal racconto della storia dell’umanità fosse il risultato dell’inerzia culturale piuttosto che deliberato razzismo, credo che siamo moralmente obbligati a esaminare quelle eredità non evidenti che continuano a impedirci di insegnare una storia che inizi in Africa. Mentre ci spostiamo dal sacro all’umano, da un tempo storico strutturato all’interno della cronologia mosaica a un tempo definito dal cervello e dalla biologia, dobbiamo imparare a pensare all’Africa come nostra madrepatria. 1

Credo sia qui inutile sottolineare come oggi, più che mai, si stiano raccogliendo i frutti amari di un insegnamento della Storia monco a tutti gli effetti di qualcosa come un milione e settecentomila anni oppure anche soltanto di 134.000 anni. Insegnamento che ha posto al centro della sua riflessione e ricostruzione elementi estremamente volatili e volubili della conoscenza umana quali la scrittura, il potere politico, lo Stato nazionale e l’economia legata alla proprietà e alla appropriazione privata del frutto del lavoro collettivo, di cui una miriade di profughi dispersi in mezzo a un mare un tempo ritenuto nostrum non sono altro che la prova materiale più evidente.

Insegnamento che, oltre tutto, nell’esaltare le conquiste tecnologiche delle civiltà, soprattutto nella raccolta e nella trascrizione delle informazioni, dimentica quali enormi potenzialità biologiche di apprendimento e conoscitive, legate a tutti i sensi del nostro corpo, la specie abbia messo da parte o abbandonato più o meno inconsapevolmente in tempi recenti (approssimativamente gli ultimi 6.000 o 10.000 anni). Come afferma l’autore la storia non potrà in futuro fare a meno della biologia, così come l’evoluzione degli studi della stessa non potrà più fare a meno della Storia. Proprio come un certo filosofo originario di Treviri aveva predetto alla metà del XIX secolo.

Avvertenza:
Il presente articolo è già comparso, soltanto in forma lievemente diversa, sul numero di agosto della Rivista di Studi Italiani, ma l’importanza degli argomenti trattati nel testo di Smail mi ha spinto a riproporlo su Carmillaonline.


  1. D. Lord Smail, Storia profonda, pag. 24. L’autore fa qui particolare riferimento alla fondamentale opera di Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore , Milano 2011 

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Gerusalemme ovvero come abbiamo perso la memoria https://www.carmillaonline.com/2017/03/30/gerusalemme-ovvero-perso-la-memoria/ Wed, 29 Mar 2017 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37211 di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa. Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea [...]]]> di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa.
Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea di demarcazione costituita dall’esistenza, o meno, di una documentazione scritta continua a differenziare la Storia dalla Preistoria.

Eric H. Cline, docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e Direttore del Capitol Archaelogical Institute presso la George Washington University, ha al suo attivo 30 campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti. La sua professione di studioso e di archeologo lo pone pertanto nella posizione più vicina a quella di una possibile “paleontologia storica” destinata a superare anche i confini di quella storia di “lunga durata” di cui sono stati maestri, in Francia, la cosiddetta Scuola delle Annales, Marc Bloch, Lucien Febvre (entrambi suoi fondatori), Fernand Braudel e Jacques Le Goff.

Mentre la scuola francese, infatti, esercitò i suoi studi soprattutto sulla storia del Medio Evo e sulla transizione dall’Età Moderna all’attuale società contemporanea (o capitalistica), studiando le trasformazioni lente avvenute all’interno delle società nell’ambito dell’economia, delle pratiche quotidiane e dell’immaginario politico e/o religioso, da diversi anni l’archeologo e ricercatore americano si dedica alla ricostruzione di fatti complessi e drammatici, e talvolta decisivi per la sopravvivenza o meno delle antiche civiltà, che coinvolsero società e ambiente nell’Antichità.

Prova ne sia il suo testo più famoso, e più recente, 1177 BC. The Year Civilization Collapsed 1 in cui sono individuate e descritte le molteplici cause di uno dei più impressionanti punti di svolta della Storia. Quando forse il primo “mercato mondiale” formatosi attorno alle civiltà del Vicino Oriente e della Mezzaluna fertile fu travolto dall’arrivo dei cosiddetti “Popoli del mare” e dagli sconvolgimenti di ordine climatico e naturale che si manifestarono in quel periodo.

Anche nei suoi testi precedenti, The Battles of Armageddon. Megiddo and the Jezreel Valley from the Bronze Age to the Nuclear Age (2000)2 e Jerusalem Besieged. From Ancient Canaan to Modern Israel (2004),3 Cline si era spinto molto indietro nel tempo per ricostruire i percorsi storici e mitici che hanno determinato, soprattutto, la complessità, la contraddittorietà e la violenza (ancora attuale) dei conflitti sviluppatisi intono alla “nascita” e alla “storia” dello Stato di Israele.

Nel primo dei due testi si ricostruisce la storia della valle di Jezreel, Esdraelon per la Bibbia, integrata nell’attuale Israele, che ha forse visto il maggior numero di battaglie al mondo. A partire dall’antica città-stato di Megiddo, in una regione abitata fin dal 7000 a.C., ha visto infatti gli imperi scontrarsi per il suo possesso e dominio, almeno dal 2350 a.C., considerata la sua importante posizione strategica posta proprio al crocevia tra i sentieri, più che le strade, che collegavano tra di loro le antiche potenze economiche e militari: Mesopotamia ad Oriente, Egitto verso Sud , Anatolia verso il Settentrione, lasciando lo spazio mediterraneo ad Occidente.

gerusalemme 1 Un territorio, considerate soltanto le testimonianze riportate, teatro di guerre da almeno 4500 anni e di cui Gerusalemme fa parte. Da qui il testo in questione, interamente dedicato alla ricostruzione e alle motivazioni dei 118 conflitti che hanno interessato il suo territorio negli ultimi quattro millenni.
La lotta per il controllo di Gerusalemme e di tutto Israele continua senza tregua ai nostri giorni, perpetuando quattromila anni di scontri nel cuore della terra un tempo chiamata Canaan. Là dove anticamente le armi erano spade di bronzo, lance e asce da guerra, oggi sono diventate granate stordenti, elicotteri da combattimento, autobombe innescate a distanza e giovani uomini e donne suicidi imbottiti di esplosivo. Se da un lato sono cambiati gli individui e i loro armamenti, dall’altro le tensioni e le ambizioni sottostanti sono rimaste immutate. Per Meron Benvenisti, ex-vicesindaco di Gerusalemme, le opposte rivendicazioni ebraiche e musulmane sul Monte del Tempio sono «una bomba a orologeria di proporzioni apocalittiche»4

Il famoso geografo Strabone, vissuto nei secoli a cavallo dell’inizio dell’era cristiana, aveva scritto che Gerusalemme era sorta in un luogo che nessuno poteva invidiare e per il quale “nessuno avrebbe voluto pigliar guerra seriamente […] Infatti il terreno di Gerusalemme è tutto pietroso; e benché nella città si trovi abbondanza d’acqua, il paese all’intorno peraltro è sterile, arido e […] tutto roccioso”.5 Eppure, eppure…quanto si sbagliava!

Dove oggi volano droni israeliani e carri armati Merkava presidiano il territorio circostante, intorno al 1350 a.C. un piccolo monarca di una località che gli Egizi chiamavano Urushalim chiese aiuto al faraone , implorandolo: “Sono una nave in mezzo al mare!”, probabilmente circondato da qualche popolo cananeo. Manifestando così per la prima volta nella Storia conosciuta l’angoscia da accerchiamento di chi di volta in volta si è trovato a rivendicare o difendere la città o, più in generale, il territorio che corrisponde oggi all’attuale Israele.

Il moderno Stato di Israele– che si accinge a festeggiare il suo settantesimo compleanno – è stato definito un’isola circondata e assediata da un mare di forze arabe ostili. Riuscirà a durare quanto il Regno crociato di Gerusalemme? Il futuro del nuovo Stato palestinese, la cui nascita6 fa ancora sentire i suoi postumi dolorosi, è ancora più incerto; i suoi due avamposti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania possono essere dipinti a loro volta come isole circondate da un mare di forze israeliane sempre più ostili.7

Il primo a conquistare la città, narra la ricostruzione biblica, fu il re Davide, poi sarà la volta di Hazael, re di Aram, seguito da Sennacherib l’assiro, Nabucodonosor il babilonese, Tolomeo, Antioco, i maccabei, Ircano, i parti, Erode, Tito e Adriano. Dopo si aggiungeranno il califfo Umar, gli abbasidi, i fatimidi, i selgiuchidi, i crociati, Saladino, Federico II, gli ottomani e poi gli inglesi del generale Allenby che porteranno in Palestina i primi carri armati. Fino ai conflitti degli ultimi decenni.

Cline ci tiene a ribadire che “per nessun’altra città del pianeta si è combattuto tanto aspramente nel corso della storia. La denominazione di «città della pace» che spesso le viene attribuita è con buona probabilità un errore di traduzione e senza alcun dubbio un termine fuorviante”,8 considerato che “la città è stata completamente distrutta due volte, assediata ventitre volte, attaccata altre cinquanta volte e riconquistata quarantaquattro volte. E’ stata teatro di venti rivolte e innumerevoli tafferugli9

E torna anche a sottolineare, come già aveva fatto Strabone, che “anche ai nostri giorni, il paesaggio che si offre agli occhi di chi guarda a oriente da qualsiasi punto elevato della moderna città di Gerusalemme è quello riarso del deserto di Giudea, con le sue rocce scintillanti di calore. Le vestigia di fauna e flora sepolte nei suoi strati antichi testimoniano che l’ambiente non era molto diverso intorno al 1000 a.C. […] La presenza della sorgente di Gihon e la protezione garantita proprio dalle gole circostanti furono con buona probabilità tra le ragioni principali che, nel corso del III millenio a.C., spinsero i cananei a insediarsi per primi in questo luogo relativamente abbandonato. Di primo acchito, i suoi vantaggi sembrano finire qui. Il sito si trovava a notevole distanza dalle principali rotte commerciali che dall’Egitto a sud conducevano alle regioni dell’Anatolia e della Mesopotamia a nord e a est. Era immerso in un’area per lo più priva di risorse naturali e lontano dai porti marittimi che punteggiavano le coste del Mediterraneo.10

gerusalemme Quindi apparentemente nulla sembrerebbe giustificare l’utilità o le ragioni materiali dei drammatici eventi che l’autore ricostruisce nelle più di quattrocento pagine del testo.
Resta soltanto la presenza austera del Monte del tempio, un’altura chiamata in arabo Haram al-Sharif (Nobile Santuario) che domina sull’abitato circostante. “Su questa altura alberga una grande roccia che […]un tempo si trovava entro le mura del Tempio di re Salomone e più tardi in quello di Erode. Ancora oggi questa enorme pietra ha una presenza imponente sul Monte del Tempio. Riposa infatti sotto il tetto dorato della Cupola della Roccia e costituisce in elemento vitale del terzo sito più sacro del mondo islamico. In base alla tradizione musulmana, il profeta Maometto ascese al cielo proprio da questa roccia. Secondo la tradizione ebraica, invece, si tratta della pietra su cui Abramo offrì il figlio Isacco in sacrificio a Dio, E fu sempre qui che Davide fece collocare la sacra Arca dell’Alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.11

Intorno e su quell’altura hanno finito col depositarsi le rivendicazioni identitarie e nazionali sia della parte ebraica, che rivendica Gerusalemme e tutto il territorio della Palestina in quanto facente parte dell’antica Israele biblica, sia di quella araba e palestinese che, troppo spesso ha separato le rivendicazioni di classe e antimperialiste da una rivendicazione di carattere storico e nazionalistico che affonda anch’essa le sue ragioni nei millenni e nei conflitti trascorsi. Risalendo fino ai popoli che l’avevano abitata e fondata prima dell’avvento di Re Davide.

«I nostri antenati, i cananei e i gebusei», ha dichiarato Yasser Arafat, […] «hanno costruito le città e seminato la terra; hanno edificato la monumentale città di Bir Salim (Gerusalemme)». Il suo fidato consigliere Faysal al-Husaynī non la pensava diversamente. «Innanzitutto», affermò, «sono palestinese. Sono discendente dei gebusei, coloro che vennero prima di re Davide. Questa [Gerusalemme] era una delle più importanti città gebusee nella regione. […] Sì, è la verità. Noi siamo i discendenti dei gebusei»12

Oppure agli imperi che avevano sottomesso e tradotto in schiavitù gli ebrei. Come fece Saddam Hussein che “celebrò la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a.C. nonché la sua riconquista da parte del Saladino dalle mani crociate nel 1187 d.C. in quanto precedenti delle sue azioni e intenzioni personali. In Iraq, spettacoli di luci laser, tabelloni e statue raffiguravano Hussein come il moderno successore di quegli antichi guerrieri13
Mentre, dall’altra parte “Theodor Herzl, Max Nordau, Vladimir Žabotinskij e altri sionisti impegnati a fondare l’attuale Stato di Israele evocarono nell’immaginario collettivo le gesta eroiche dei guerrieri maccabei nel 167 a.C. e la rivolta di Bar Kokhba contro le legioni romane del 135 a.C.14

Eppure nel testo curato da Telmo Pievani per una recente mostra tenutasi al MUDEC di Milano,15 intitolata “HOMO SAPIENS. Le nuove storie dell’evoluzione umana”, si afferma chiaramente che “E’ la storia del popolamento umano della Terra: una giovane specie africana si è irradiata ovunque, dando origine a migliaia di popoli diversi. Il nostro passato sembra lontano e dimenticato, sepolto una volta per tutte nel tempo profondo dell’evoluzione, ma in realtà si manifesta ogni giorno nei teatri dei conflitti mondiali più sanguinosi. Il Medio Oriente, il Caucaso, il Sudan, l’Afghanistan, il Corno d’Africa; la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta”.16

Ecco allora che ci si accorge di come la Storia con la S maiuscola, non abbia fatto altro che rivestire di incrostazioni ideologiche, religiose, in fin dei conti mitiche, un percorso complesso, in cui, probabilmente, una stessa pietra poteva servire ad indicare una fonte d’acqua perenne e un luogo, quindi, sacro per coloro, singoli individui o gruppi più consistenti, che transitavano da lì, stretti tra il mare salato e i deserti orientali. Un luogo che le religioni animistiche potevano condividere, ma che le grandi religioni rivelate e del Libro avrebbero finito col rendere luogo di infiniti massacri ed infinite tragedie in nome di un’unica, mitica verità.17

Il libro di Cline è quindi interessante, utile e, soprattutto, di forte stimolo a superare non solo le barriere del tempo per comprendere il presente, ma anche, e forse involontariamente, a fare opera di disincrostazione di un immaginario talvolta troppo segnato dall’imperativo nazionalista o imperiale, frutto di una società divisa in classi recente, sconosciuta ai nostri antenati, ma che pretende di allungare i propri tentacoli sulle decine di migliaia di anni durante i quali la specie ha potuto farne tranquillamente a meno.

Purtroppo con la fasulla divisione tra Storia e Preistoria, tra natura e storia dell’uomo, abbiamo finito col perdere la memoria profonda della specie. Quella più importante e più vera di quella affidata ai re, agli imperatori, agli stati, ai loro scrivani e ai loro libri portatori di verità “certificate”.
Sotto questo punto di vista, Gerusalemme diventa allora, grazie anche alle pagine di quest’opera, il simbolo del passaggio della società umana dal nomadismo all’agricoltura, dalla condivisone dei beni alla proprietà privata.18 Anche di quell’acqua così sacra un tempo e posta al centro oggi di conflitti sempre più sanguinosi per il suo controllo, soprattutto nei territori che si trovano sotto il controllo sionista.

Passaggi che hanno richiesto la formazione di stati, imperi, ideologie e religioni rivelate che hanno contribuito ad affogare le popolazioni nel sangue e a cancellare la memoria comune dell’animale uomo. In nome di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare “progresso”.


  1. Pubblicato anche qui in Italia, dove è giunto già ad una sesta edizione: Eric H. Cline, 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri 2014  

  2. Anch’esso tradotto in Italia come Armageddon. La valle di tutte le battaglie, Bollati Boringhieri 2016  

  3. Il testo qui recensito  

  4. pag. 17  

  5. Strabone, XVI.2.36, Della geografia di Strabone. Libri XVII, volgarizzati da Francesco Ambrosoli, Paolo Andrea Molina, Milano 1835 cit. in Cline, pag. 20  

  6. L’indipendenza dello Stato di Palestina fu proclamata nel 1988 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, poi sancita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012, mentre Israele non ne riconosce l’esistenza. Lo Stato di Palestina proclama Gerusalemme Est sua capitale anche se Israele controlla tutta la città, ma le Nazioni Unite e tutti gli Stati del mondo non riconoscono l’annessione di Gerusalemme Est a Israele proclamata con la legge israeliana del 1980. Il Parlamento europeo con la Risoluzione 2014/2964 del 17 dicembre 2014 ha votato a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina “in linea di principio”  

  7. pag. 23  

  8. pag. 17  

  9. pag. 18  

  10. pp. 18-19  

  11. pp. 20-21  

  12. pag. 29  

  13. pp. 22-23  

  14. pag. 23  

  15. dal 30 settembre 2016 al 26 febbraio 2017  

  16. Telmo Pievani (Testi e consulenza scientifica di), HOMO SAPIENS, Libreria Geografica, Novara 2016 (Prima edizione 2012), pag. 220  

  17. Si consulti sul tema della differenza politica e culturale tra religioni inclusive, politeistiche e orientate al mondo, e religioni esclusive, monoteistiche e negaatrici del mondo, l’ormai classico Jan Assman, La distinzione mosaica, Adelphi 2011  

  18. Prova ne sia la provocatoria affermazione che il Monte del Tempio possa rappresentare “la proprietà immobiliare più contestata sulla faccia della Terra“. Gershom Gorenberg, The End of Days. Fundamentalism and the Struggle for the Temple Mount, Free Press, New York 2000 (cit. pag. 20)  

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I de-evoluti https://www.carmillaonline.com/2016/06/09/i-de-evoluti/ Wed, 08 Jun 2016 22:01:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31054 di Mauro Baldrati

Bonomohomo.sapiensAlcuni genetisti sostengono che la linea evolutiva delle scimmie bonobo si sia separata dalla scimmia originaria, la creatura primigenia, circa 4,5-7 milioni di anni fa. Da lì sarebbero partiti i due genomi scimpanzé-bonobo. Ma il cammino evolutivo non si è mai fermato. Per la verità non si dovrebbe parlare di evoluzione, ma di de-evoluzione. Infatti vi sono pochi dubbi che dal ceppo delle bonobo sia dipartita una variabile che, dalle rive dell’antico fiume Congo, ha progressivamente invaso e colonizzato il resto [...]]]> di Mauro Baldrati

Bonomohomo.sapiensAlcuni genetisti sostengono che la linea evolutiva delle scimmie bonobo si sia separata dalla scimmia originaria, la creatura primigenia, circa 4,5-7 milioni di anni fa. Da lì sarebbero partiti i due genomi scimpanzé-bonobo. Ma il cammino evolutivo non si è mai fermato.
Per la verità non si dovrebbe parlare di evoluzione, ma di de-evoluzione. Infatti vi sono pochi dubbi che dal ceppo delle bonobo sia dipartita una variabile che, dalle rive dell’antico fiume Congo, ha progressivamente invaso e colonizzato il resto del pianeta: l’Homo Sapiens. Infatti gli studiosi molecolari hanno scoperto che il DNA della bonobo è simile almeno per il 95% a quello dell’Homo Sapiens. Inoltre il DNA bonomo è quasi identico a quello degli scimpanzé, per cui si può ipotizzare che sia avvenuta una tripla separazione: bonobo-scimpanzé-homo sapiens.
Anzi, qui non si ipotizza un bel niente.
Noi siamo convinti che Adamo ed Eva fossero in realtà una coppia di scimmie bonobo. Immaginiamoli nel paradiso terrestre: anche oggi, nelle foreste pluviali del Congo, dove sopravvivono gli ultimi esemplari di questa specie in via di estinzione, i loro comportamenti sono esemplari: vivono in gruppi matriarcali, sono pacifici, non combattono, salvo sporadici scontri tra diverse comunità, e se qualcuno rimane contuso (rarissimamente ferito o addirittura morto), viene accudito, consolato, accarezzato dagli altri membri della comunità. Si nutrono quasi esclusivamente di frutta e verdura, e quando non sono impegnati nella ricerca di cibo oziano al sole oppure fanno l’amore. Infatti hanno un’attività sessuale molto intensa, non solo a scopo riproduttivo. Insomma, possiamo affermare senza timore di essere smentiti che i bonobo siano stati i primi hippies della storia, fedeli al motto “Make love not war”. In questo senso si può desumere che il periodo più elevato della sottospecie Homo Sapiens, cioè gli hippies degli anni Sessanta, esseri assolutamente pacifici e allegri, abbia ritrovato per qualche tempo l’eredità ancestrale delle creature antiche, i bonobo, cioè Adamo ed Eva.
Ma torniamo alla prima coppia pre-umana: nel paradiso terrestre si cantava, si ballava, si contemplava la natura e si viveva comodamente la vita. Poi, qualcosa si è spezzato. Cosa, non sappiamo esattamente. Gli antichi testi sembrano piuttosto reticenti. Non può essere dipeso da quella vicenda della mela, nessuno ci ha mai creduto veramente. In qualche modo si deve essere spezzato l’equilibrio tra i due antenati e Dio, il Dio Padre, che proprio dai testi antichi sappiamo quanto fosse iracondo, vendicativo e geloso (Esodo, 34). Una parola storta, chissà, un saluto mancato, un gesto equivoco e Dio ha sbarellato immediatamente, cadendo in preda a uno dei suoi attacchi. Così li ha maledetti, rinnegati, e mutati. Ha generato la specie umana, la più distruttiva e autodistruttiva della storia. Una specie che non ha alcuna speranza di salvezza, perché nata da una de-evoluzione di origine divina, la maledizione terminale di un dio arcigno, un dio privo di gioia e di senso dell’umorismo.
Ora le scimmie bonobo attendono che si compia un triste destino. I loro discendenti de-evoluti stanno distruggendo l’habitat dove vivono, con la deforestazione, le colture intensive, e soprattutto le guerre senza fine, una delle condanne più antiche e spietate della nostra specie.
Altri l’hanno chiamato il Kali-Yuga, il regno del buio, della menzogna, dell’ignoranza e della violenza. Sarebbe iniziato con la morte fisica di Krishna, il 18 febbraio 3102 a.C. Dicono che si concluderà nel 428.899 d.C. quando tornerà il Satya Yoga e il paradiso terrestre.
Noi invece crediamo che il pianeta non reggerà. Le madri bonobo, da cui la storia ebbe inizio, saranno estinte e tutto si compirà molto prima.

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