Praga – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 03 Mar 2025 06:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 5 https://www.carmillaonline.com/2024/12/14/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-5/ Sat, 14 Dec 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85708 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (II)

Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (II)

Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica di costume coi soliti bersagli di Meyrink. Quest’ultimo aspetto troverà sviluppo soprattutto nelle seconda parte che ci avviamo ad affrontare – con critiche e satira durissimi sulle agenzie di ordine pubblico, il potere, le istituzioni. Quelle robe insomma che piacciono tanto agli eredi esoterico/politici del Gruppo di Ur che a tutt’oggi cercano di annettersi l’autore (nella ola di un certo fandom nerd) senza neppure rendersi conto della contraddizione. Il che la dice lunga sulla accuratezza, serietà e lucidità di certa critica nostrana.

A questo punto la storia ha un brusco strappo in avanti, tanto che al narrante sembrano passati mesi. Mentre Pernath, da raffinato intagliatore di pietre preziose, vagheggia di riprodurre sulla selenite il volto di Mirjam – invece che, come inizialmente pensato, il dio egizio Osiride e l’Ermafrodito del libro Ibbur – al contempo medita sulla propria solitudine: di certe cose può parlare solo con Hillel… ma piomba lì Angelina, sconvolta. Wassertrum ha raggiunto il capezzale di Savioli e vuole che si tolga la vita minacciando altrimenti lo scandalo sulla sua amante. La dama è pronta a rivelare tutto al marito, pur di salvare la vita dell’amato, ma Pernath, baciandola, le spiega che le lettere compromettenti sono in salvo. Sollievo entusiastico di lei.

Pernath apprenderà poi da Charousek che Wassertrum aveva cercato le carte. Lo studente finisce con il confessare il segreto dell’odio che lo anima, Wassertrum era suo padre e ha costretto sua madre a cedergli per poi venderla a un postribolo, grazie al fatto che il rigattiere “è in combutta con funzionari della polizia”. L’orrido e tormentato figuro l’ha venduta quando ha scoperto di amarla…

Quella però di donare una gemma incisa a Mirjam si dimostra un’operazione complessa; la povertà di lei non permette che accetti facilmente. Pernath cerca di spiegarle che deve tanto al dono interiore offerto da Hillel, e finisce col raccontarle la propria storia – in modo più agevole di quanto sentisse di poter fare con il suo eccelso padre. Un personaggio di statura troppo elevata persino per la figlia: alla morte della moglie che pure amava molto, non era riuscito a condividere davvero la terribile sofferenza della figlia. Mirjam vive nell’attesa di un miracolo, vedendo in esso il nocciolo più essenziale delle Scritture (potremmo parlare di Provvidenza): e sa che un giorno sarà ridestata. Ma aiutarli materialmente – come Pernath vorrebbe fare – significherebbe toglier loro la possibilità di vivere un miracolo…

Appare Hillel, che in presenza di sua figlia dà a Pernath del lei, marcando un distacco. Solo quando sono soli gli chiede se intenda consultarlo “sulla faccenda riguardante la giovane signora”. Ha saputo che ha dato dei soldi a Charousek e lo mette in guardia dal cercare di risolvere le situazioni in quel modo; quanto alla giovane dama, non gli pare sia minacciata al momento da pericoli e ritiene sia meglio non far nulla. Mai gli ha “parlato con un tono così freddo e minaccioso” e Pernath non capisce il perché.

Rientrato in casa, vi avverte una tensione incomprensibile e scivola in una sovraeccitata esperienza onirica. Una strana creatura grigia, con un globo di vapori al posto della testa, gli tende con insistenza dei grani simili a fagioli: “Che avrei dovuto farne?”. Pernath sente una responsabilità immane pesare su di lui… “Due piatti della bilancia, ognuno gravato dal peso di un emisfero del mondo, sono sospesi in qualche parte del Regno delle Cause, intuii – quello su cui gettassi un granellino, tracollerebbe al suolo”. E se non scegliesse, sarebbe come respingere i grani… Poi, in una notte inquieta in cui Wassertrum armeggia imprecando nell’atelier e nella visione lunghe file di “rigide maschere morte” – gli antenati di Pernath – culminano in un ultimo volto, quello del golem, appaiono intorno a lui due schiere, abbigliate l’una di violetto, l’altra di nero e rosso: capisce che dovrà prendere una decisione. Colpisce dunque la mano dello spettro coi grani, che rotolano per terra: le figure del cerchio rosso spariscono, quelle del blu sollevano in alto i grani…

Una tempesta si abbatte allora sulla città e una voce accanto a Pernath lo invita a restare calmo, “oggi è la Lelschimurin, la notte della Difesa”. Poi echeggia la frase “Colui che cercate non è qui”, il primo che ha parlato mormora qualcosa in cui ricorre il nome Enoch, cioè l’iniziato, e una delle figure fa comparire sul petto del Nostro la frase in caratteri prima latini, poi diversi e sconosciuti, CHEBRAT ZEREH OR BOQER (più o meno “Confraternita dei discendenti della luce del mattino”): allora Pernath cade in un sonno profondo senza sogni. Inevitabile pensare alla quantità di gruppi iniziatici cui s’era affiliato Meyrink, ma qui il contesto – è bene sottolineare – è essenzialmente onirico, un teatro di maschere e simboli interiori.

Le giornate sono piene, Pernath ha finito la gemma di cui ora Mirjam è felice, restaurato la lettera I del libro (che peraltro, nella realtà, gli appare un’edizione bella ma comune in ebraico, lingua che non capisce)… e scopre che, forse proprio mentre faceva cadere i grani, è crollato il ponte di pietra sul fiume. Gli tornano dunque in mente le volte in cui l’ha percorso, ma anche le cose della giovinezza e la casa dei genitori; e bacia la foto di Angelina. Vagheggia anzi di poter intrattenere una relazione con lei, hai visto mai che il marito muoia improvvisamente… e “Non era un miracolo […] che nello spazio di poche settimane si fossero destate in me capacità artistiche che già ora parevano di gran lunga al di sopra della media?”. Ma capisce che deve pensare a Mirjam, alla quale ha procurato artificiosamente un piccolo miracolo, una moneta entro la forma di pane del fornaio… Anche se ora si preoccupa di averlo fatto, ripensando ai discorsi con loro: “La nobiltà dell’intento non mi scusava in alcun modo: il fine non giustifica i mezzi, vedevo bene”. Di nuovo un uomo senza qualità, goffo come Zeno Cosini, che combina pasticci…

Mentre sta pensando a condurre Mirjam a fare un giretto, piomba da lui Wassertrum, untuoso e brutale come sempre,  con un orologio malconcio da far riparare: Pernath non realizza che il nome lì inscritto e faticosamente decifrato, Zottmann, è quello del tipo assassinato. In un linguaggio smozzicato, Wassertrum inanella una serie di allusioni volgari su Angelina: Pernath ribatte che i ricatti non arrivano a nulla, e quando il rigattiere mostra tutta la sua arroganza, il Nostro starebbe per passare alla violenza – ma compare Hillel. Alla sua presenza luminosa, il rigattiere è costretto a battere in ritirata, e si fa restituire l’orologio da Pernath.

Mentre Charousek latita, il Nostro si pastura in fantasie su Angelina, Mirjam e persino Rosina, ma dialoga anche con il proprio doppio e gli pone una serie di domande sui cose terrene e ultraterrene. Comincia a intuire che Mirjam vive forse un tessuto di eventi segreti simili ai suoi. La ragazza spiega che se mai scoprisse che l’episodio della moneta non era un miracolo ne morirebbe di delusione (un annuncio che terrorizza Pernath) ma poi non vuole affliggerlo con discorsi tristi e lo consola. Tanto più per la sensazione che gravi su di lui un grosso pericolo… Emerge poi che la madre di Mirjam avrebbe dovuto sposare Wassertrum, ma non l’ha fatto: e con lei è stato “sempre cordiale e buono”. Ma è un uomo tormentato, che non accetta la pietà degli altri: “un invasato – un uomo che diventa subito diffidente, in modo irreparabile, quando qualcuno gli tocca il cuore”, e vede “odio e tradimento dappertutto”. Unica eccezione, verso il figlio amatissimo; ma nella bottega tiene una figura di cera somigliante a una propria antica amante – “La madre di Charousek”, pensa Pernath. Che poi scherza con Mirjam in modo galante: la ragazza ha il sogno di sposarsi, vagheggia di fondersi con un altro essere come nel culto egizio di Osiride per dar luogo all’Ermafrodito, “unione magica dei generi maschile e femminile in un semidio […] principio di una vita nuova, eterna – che non ha fine”. Ma lei ha appena chiesto, per favore, di non parlare più di quel tema e appare Angelina, ciangottando capricciosa per portare Athanasius a fare la stessa gita in carrozza che lui aveva proposto a Mirjam. La quale si ritira in buon ordine: “Era come se avessi perduto tutto un mondo”, commenta lui. Ma poi esce con Angelina.

La dama, archiviato come noioso Savioli ormai fuori pericolo, vuole “tornare finalmente a godere” e si mostra civettuola: han sognato l’uno dell’altra, lui invaghito torna a casa ore dopo… però dopo quel pomeriggio vertiginoso si sente estraneo al proprio squallido alloggio e comprende che di quella felicità resterà solo “un dolce, dolente ricordo”. Così, prima di rientrare nel ghetto, torna a gettare col buio uno sguardo alle finestre dietro le quali Angelina dorme, ma si perde nella nebbia: finisce nel Vicolo degli Alchimisti e a sbattere contro un cancello di legno sul fondo, lì bussa a una finestra e vede un uomo vecchissimo dagli occhi vuoti tra storte e alambicchi…

Ripresa la strada, decide di soffocare la brama dei baci di Angelina con qualche ora in compagnia dei tre vecchi amici, e ascolta così da Zwakh la storia dell’assassino Babinski (di cui al già citato racconto su “Die Ernte”). Poi fanno parlare Pernath che racconta come si sia perso nel buio, abbia visto il misterioso alchimista (“Ma possibile…! Questo Pernath vive in prima persona tutte le leggende che ci sono”) – e gli spiegano che il presunto golem del ghetto è stato identificato banalmente nel mendicante ebreo Haschile che aveva recuperato in un portone degli antichi abiti (quelli appunto dismessi da Pernath). Quanto alla casa nel Vicolo degli Alchimisti si tratterebbe di una dimora arcana, “visibile soltanto con la nebbia e unicamente a persone elette dalla fortuna”, detta “il Muro all’Ultima Lanterna”: di giorno c’è solo una grossa pietra grigia e poi un precipizio, Pernath è stato fortunato a non fare un passo di più. Sotto la pietra si troverebbe un tesoro immenso sepolto dall’Ordine dei Fratelli Asiatici pretesi fondatori di Praga, “a fondamento di una casa che sarà abitata alla fine del mondo da un uomo, o per meglio dire da un Ermafrodito, una creatura che è uomo e donna insieme” e avrà nella propria insegna l’immagine della lepre simbolo di Osiride. A custodire il luogo starebbe Matusalemme in persona, per evitare che Satana fecondi la pietra e nasca un figlio, Armilos dai capelli d’oro, “occhi falcati e braccia lunghe sino ai piedi”. È possibile che i tratti asiatici del golem trovino qualche nesso proprio coi Fratelli Asiatici della fondazione di Praga.

Lasciati bruscamente gli amici intenti a discorsi un po’ pesanti suscitati dal grog, Pernath muove verso casa nella nebbia e si sente chiamare. Subito dopo, Rosina si stringe ardente contro di lui…

Si sveglia tardi, l’indomani, nella casa squallida, evidentemente dopo una sordida esperienza sessuale con la ragazza; e medita d’impiccarsi. I messaggi “dal regno dell’immortalità”, gli pare, non sono serviti a niente. Potrà ritirare il denaro e lasciare a Mirjam le sue pietre preziose, a Hillel una lettera in cui chiarisce la sua goffaggine col “miracolo”, ad Angelina un mazzo di rose. Ma arriva Wassertrum, che spera di non essere stavolta interrotto da Hillel: si finge amichevole e in pegno della pace fatta vuol donargli l’orologio già visto. Peccato che l’interruzione arrivi egualmente, è Charousek, che sa che Pernath non è solo e affetta tutta una commedia celebrando con lodi sviolinate la generosità di Wassertrum (che non si fa vedere). Lo studente racconta di non sapere chi fosse il proprio padre e di non aver mai visto sua madre – che però ha amato molto il padre, come attesta in una pagina strappata dal proprio diario e in suo possesso: dove però emerge anche la crudeltà di lui. Quindi Charousek cade in ginocchio maledicendo il genitore… e gli augura “la più orrenda delle fini che si possano immaginare”. Continua poi la commedia proclamando il suo affetto per il figlio di Wassertrum, il dottor Theodor Wassory e il suo dolore per il suicidio – in realtà causato da lui stesso – di quell’impagabile amico: chiede anzi che Pernath consegni a Wassertrum la boccetta del veleno memore di quell’infelice e una rosa tratta dal petto della sua salma… Pernath lo accompagna per le scale, non intende favorire il suicidio del rigattiere, ma Charousek spiega che il tipo si è certo già appropriato della boccetta e la suggestione psicologica ha fatto effetto:

 

Non c’è che il pathos più ripugnante a far presa su simili fottuti! Mi creda! Via via che parlavo, avrei potuto disegnarle le espressioni della sua faccia, a ogni mia frase. Nessun kitsch – come lo chiamano i pittori – è abietto abbastanza, per non agire da strappalacrime sulla massa intrisa sino al midollo di menzogna, per non colpirla direttamente al cuore! Se fosse diversamente, non crede che già da un pezzo tutti quanti i teatri sarebbero stati messi a fuoco? La canaglia la riconosci dal sentimentalismo.

 

Pernath è sconvolto. Poi Wassertrum passa loro accanto, e il Nostro rientrando in casa trova l’orologio al posto di boccetta e rosa: il rigattiere, come previsto dal manipolatore Charousek, se n’è in effetti appropriato.

Ma in banca Pernath non riesce a ritirare subito i suoi soldi – occorrono otto giorni – dunque non può ancora suicidarsi; in compenso un losco tipo dall’occhio di vetro ha preso a seguirlo, e la sera lo incantona e lo arresta. È un agente, scopre, della polizia segreta e lo trascina al posto di polizia. Lì il commissario cerca di confonderlo con domande su Angelina e Savioli, si finge un amicone e un amico del padre, ma Pernath resiste, finché quello non sbotta: “Assassino!”. E alla fine il Nostro capisce. Era stato ucciso quello Zottmann il cui nome campeggia sull’orologio: dunque, nonostante le minacce del commissario, Pernath fa mettere a verbale che l’orologio gliel’ha regalato quel mattino il rigattiere Wassertrum.

Tradotto in un carcere che sembra riproporre l’esperienza claustrofobica della stanza murata, vive tutte le brutture della situazione – qui Meyrink parla di esperienze vissute – con le angosce aggiuntive della situazione specifica, le carte di Angelina probabilmente in mano ai poliziotti e a Wassertrum… ma poi si tranquillizza pensando che a vegliare sulla situazione c’è Charousek. In cella trova anche il butterato Loisa, accusato lui pure dell’omicidio Zottmann, che gli chiede di Rosina.

Portato davanti al giudice istruttore barone Karl Zampadigatto, Pernath rifiuta di ammettersi colpevole e viene ributtato in cella. Passano le settimane, sulle vicende di Angelina è fatalista, mentre “Era la sorte di Mirjam […] a rendermi quasi folle di disperazione”. Abbrutito dalla vita in cella si pone domande sui propri amici: l’unica proccupazione delle autorità – e del medico del carcere dottor Petaldirosa – è che nessuno si impicchi. Una lima, comparsa inopinatamente in cella, viene fatta sparire da Loisa poi trasferito in un’altra.

Da tre mesi Pernath è in carcere, si angoscia che Mirjam possa essere morta; nessuno lo interroga – ed è ormai maggio, quando Zwakh usa battere la provincia coi suoi burattini. L’incendiario Vóssatka suo compagno di cella viene liberato, Loisa è evaso, il nuovo arrivato Wenzel fa in modo di sbagliare cella per recare un messaggio a Pernath: è uno sgrammaticato membro del “battaglione” del dottor Hulbert, gli porta una lettera di Charousek e lo esorta a fingere una crisi epilettica per fuggire, mostrandogli come fare.

Ma Pernath non vuole evadere, vuol essere scarcerato. Apprende da Wenzel notizie che lo deludono: Angelina ha divorziato ed è partita con la figlia e l’amante (“Mi ero dato tanta pena per amor suo, e adesso… ero già dimenticato”, forse lo credeva un assassino), mentre su Mirjam non sa nulla. Quanto a Wassertrum è stato assassinato con una lima in gola – da Loisa, il cui coltello è stato fatto sparire da Wenzel. Quando questi viene riportato alla cella giusta, Pernath legge ansioso la lettera di Charousek. Che lo tranquillizza: l’omicidio di Zottmann è stato commesso da Loisa, il fratello Jaromir ha trovato l’orologio e l’ha venduto a Wassertrum. A quel punto Charousek ha dato mille fiorini a Jaromir (e “solo Angelina poteva aver dato quella somma a Charousek”, dunque non si è dimenticata di lui), per cui il tipo testimonierà come abbia avuto l’orologio e Pernath verrà liberato. Charousek, malato di tisi, sa peraltro che morirà presto. “Una cosa però è certa: noi ci rivedremo”. Non tra i vivi e neppure tra i morti: ma in una situazione diversa, nota ai cabalisti. Una volta ha creduto anzi di vedere sul petto di Pernath un segno: probabilmente la citata scritta mistica della visione notturna. Quanto a Wassertrum, alla fine d’aprile la suggestione del diabolico studente stava iniziando ad agire su di lui: aveva anche fatto testamento ed era andato da un notaio. Nominando proprio erede proprio Charousek… il figlio tradito, l’unico al mondo per cui potesse riparare qualcosa, forse anche per la speranza di neutralizzarne la maledizione. Ma a quel punto, mentre Charousek attendeva il suicidio di Wassertrum, era arrivato qualcun altro ad ammazzarlo con una lima. Col risultato che ora Charousek si sente un reietto, “strumento giudicato indegno di stare nella mano dell’angelo della morte”. Potrà ancora versare il proprio a seguire quello del padre odiato… cui non offrirà appigli nell’aldilà, non toccherà un soldo di quell’eredità: metterà all’asta le case, brucerà gli oggetti e garantirà a Pernath un terzo del valore – a compenso di quanto Wassertrum, ha scoperto, aveva predato al di lui padre. Un altro terzo sarà diviso tra i dodici membri del “battaglione” che hanno conosciuto Hulbert;

 

L’ultimo terzo andrà in parti uguali ai prossimi sette assassini per rapina del paese, che vengano prosciolti per insufficienza di prove.

Di questo andavo debitore alla pubblica indignazione.

 

Terribile e insieme tenerissimo, Charousek è più puro – riflette il Nostro – di tanti uomini devoti.

Ma il giorno dopo in cortile Pernath conosce un altro di questi peccatori straordinari, quando viene avvicinato da un altro prigioniero, il delicato Amadeus Laponder. Reo confesso, scopre con sorpresa, nientemeno che di assassinio con stupro. Condividono la cella, Pernath è impressionato e preoccupato di quella presenza in apparenza così urbana, educata e metodica (anche nel piegare e appendere gli abiti la sera): e di notte, quando un raggio di luna gli batte sul viso, lo ode ripetere più volte “Lasciami”. Pernath è talmente impressionato dalla presenza dello stupratore assassino da non riuscire a dormire, e una notte sente la voce di Mirjam, “Interrogami. Interrogami”. Viene dalle labbra di Laponder, e quando Pernath pronuncia il nome di lei riceve una conferma: “Ella parlò del suo amore per me e della felicità indicibile di esserci finalmente ritrovati – e di non mai più separarci – in furia – senza pause – come chi tema d’essere interrotto e vuol approfittare d’ogni secondo”. E quando lui le chiede se sia morta, la voce risponde “No. Io vivo. Dormo”. Poi, dopo una pausa, arriva la voce di Hillel, che a più riprese lo chiama “Henoch!”, cioè l’iniziato, e gli spiega di non angustiarsi per Mirjam (e, sottinteso, per la storia del finto miracolo): spera di rivederlo, ma – come emerge a frasi spezzate e non del tutto comprensibili – potrebbe non riuscire perché partirà per la Palestina, verso Gad. Sopita quella voce, arriva quella di Charousek, ma con la frase di chiusura della sua lettera: “Stia bene e si ricordi qualche volta di me”.

Chiusa l’esperienza, Pernath si sente in colpa per non aver visto in Laponder altro che un deliquente, e mai l’uomo: è palesemente un sonnambulo (come il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari, 1920, dunque di poco successivo), sotto l’influsso della luna piena. Quando si sveglia, gli chiede scusa e Laponder mostra di comprendere; e alla domanda su cos’abbia sognato, risponde che non sogna mai – ma si sposta, esce dal corpo. Quella notte, racconta, si trovava nella strana stanza senza porta a cui si accede da una botola. Ma c’era un letto, in cui dormiva una bambina, e un uomo le teneva la mano sulla fronte. Mirjam e il padre… e dalla scala si scendeva in una stanza “dove stava un uomo con fibbie d’argento alle scarpe, una strana figura, come non ne ho mai viste: di colorito giallo in faccia e occhi obliqui; era chino in avanti e pareva aspettare qualcosa”. C’era anche un libro di pergamena che iniziava con una grande A d’oro… poi a un tratto Laponder fissa il petto di Pernath come a sua volta vi scorgesse qualcosa. Per cui gli afferra la mano e lo supplica di dirgli tutto, rivelazioni che lo riguardano da vicino: c’è poco tempo, di lì a poco gli comunicheranno la condanna a morte e lo porteranno via…

Così Pernath inizia il racconto degli strani eventi occorsigli, e quando cita la figura acefala che ha offerto i grani e lui li ha fatti cadere, Laponder commenta stupito che non avrebbe pensato a una terza via. Quei grani significano le forze magiche, non li ha rifiutati né accolti ma resteranno custoditi fino al tempo della germinazione. “Si vivificheranno allora le forze che adesso ancora sonnecchiano in lei”, custodite dai suoi antenati, le persone del sogno irradianti luce blu. Quando Pernath racconta di Mirjam e dell’Ermafrodito, Laponder piange, cereo… Nell’uccidere, spiega, non era libero di scegliere, ma considera la sentenza giusta: non è pazzo, ma pericoloso. Quando anche a lui era apparso il fantasma coi grani, li aveva presi e dunque ha percorso la via della morte. Comunque, si lascerà guidare dallo Spirito, anche fino al patibolo, così sarà libero.

Pernath ha perduto per l’ipnosi di un medico la memoria della giovinezza: “È questo il contrassegno – la stimma – di tutti coloro che sono stati morsi dal ‘serpente del regno dello spirito’” (facendo nel corso della propria vita “quel che nell’intera razza appare durante una generazione” e ritrovandosi alla fine profeti); e l’estinzione della memoria – tra un “prima” e un “dopo” – prende quel posto tra una vita e l’altra che in altri casi è della morte. “[…] l’attesa dell’ascesa al trono del proprio ‘io’ è l’attesa del Messia”, e all’incoronazione del re si spezzerà il legame col mondo. Laponder completa insomma la formazione di Pernath avviata da Hillel (triangolo dell’iniziazione).

Più che esoterica, insomma, la soluzione è mistica, ma insieme psichica ed esistenziale. Come le foglie portate dal vento di cui sopra, come i burattini degli spettacoli dei tre vecchi amici, il sonnambulo resta un archetipo del dominio da parte di forze altre: e burattinesche, nel senso di creature agite da incubo alla Caligari, si potranno definire varie figure della produzione meyrinkiana (si pensi all’inquietante Zrcadlo di Walpurgisnacht, 1917). Ma in questo senso burattinesca è la stessa realtà del ghetto, percorsa a ondate periodiche come da febbri pneumatiche, e ipostatizzata nello spettro del golem, spirito elusivo che sembra fondersi e confondersi nel vissuto profondo degli stessi abitanti. Laponder aspettava da Pernath una chiave, la storia dell’Ermafrodito, e ora è sereno. Arrivano a prenderlo, per impiccarlo l’indomani.

Per mesi Pernath sarà ancora in carcere, tormentato dalla brutalità della situazione e dall’angoscia: dalle parole di un arrestato gli è sorto il panico che la ragazza stuprata e uccisa da Laponder fosse Mirjam. E finalmente a inizio novembre (ma l’atto è di luglio, visto che il suo nome inizia per P, “e naturalmente nell’alfabeto si trova verso la fine”, continua la polemica contro la giustizia) viene prosciolto – e alla lettura perde i sensi. Apprende anche ufficialmente di essere erede di Charousek, suicida a maggio a faccia in giù sul tumulo di Wassertrum: “Aveva scavato due profonde buche nella terra, poi s’era tagliato i polsi e infilato le braccia in quelle buche. È morto dissanguato”. Si chiude così intorno a Wassertrum una nuova struttura triadica (triangolo dei suicidi) comprendente il figlio Wassory, la nemesi Charousek e lo stesso Pernath come aspirante suicida (che però con Wassertrum e Savioli rientra con altrettanta ragione in un triangolo dei suicidi mancati).

Rilasciato a mezzanotte dopo aver recuperato i propri beni, ma con le gambe quasi incapaci di funzionare, si fa portare rapidamente da una vettura in Hahnpassgasse 7, ansioso di vedere Mirjam. L’autista obietta che lì non si arriva, stanno risanando il quartiere ebraico. Ma arrivando alla casa, poco resta in piedi. La gente, oltretutto, è stata sgomberata per via del tifo; l’unico che pare di poter rintracciare è Jaromir, che a gesti comunica come tutti i suoi vecchi contatti siano partiti o scomparsi – anche Mirjam… con strazio di Jaromir, Rosina è divenuta l’amante di un principe.

In attesa di incassare i soldi, i propri e l’eredità, Pernath vende le pietre per affittare due stanzette in un punto risparmiato dallo sventramento del quartiere, nella soffitta di una casa dove una volta il golem sarebbe sparito. La notte di Natale si porta a casa un piccolo albero con candeline rosse; poi intende partire a cercare Hillel e Mirjam. E quella notte, per un attimo, il suo doppio appare sulla soglia della stanza, coronato e biancovestito. Ma subito dopo Pernath si rende conto che è scoppiato un incendio, fugge sul tetto, e mentre si sta calando giù con la corda di uno spazzacamino – come l’uomo che aveva tentato di occhieggiare dalla finestra della stanza murata, rimettendoci l’osso del collo – gli pare di vedere Hillel e Mirjam nel riquadro della finestra. Perde la presa – restando nella stessa postura dell’Appeso dei Tarocchi – e scivola tentando invano di afferrarsi al davanzale, di pietra liscia come un pezzo di grasso. Ma lui non muore nella caduta, e simbolicamente riesce a vedere la stanza segreta del Sé.

Ora l’uomo che nel suo letto d’albergo ha vissuto quest’esperienza interiore in neanche un’ora di sonno – e non si chiama affatto Pernath – si alza e prende il cappello che ha scambiato per sbaglio durante la messa nella cattedrale. Nella fodera appare a lettere d’oro il nome Athanasius Pernath. Senza por tempo in mezzo, vestitosi, corre dunque all’indirizzo ben noto nel quartiere ebraico – dove pure, l’avverte il custode, “non c’è più molto”. Con lui, avvolto in un foglio è il cappello di Pernath: ed eccolo raggiungere Hahnpassgasse, trovandola completamente diversa – e così pure il caffè Loisitschek. Apprende dalla cameriera che il ponte di pietra è crollato trentatré anni prima, Pernath dev’essere dunque sulla novantina. Attraverso le informazioni di vari avventori che discutono la credibilità dell’esistenza del leggendario Pernath, che abiterebbe al muro dell’ultima lanterna in un punto pericolosissimo, il narrante scopre però stranito che la casa della sua ultima visione nei panni di lui non è mai andata a fuoco. La realtà interiore e quella storica non si sovrappongono completamente, e il sogno pretende la sua parte.

Al mattino il narrante si fa traghettare oltre la Moldava raggiungendo il Vicolo degli Alchimisti – oggi meta fastidiosamente turistica, il Vicolo d’oro in cui abitarono Kafka (dal 1916 al 1917, dunque poco dopo l’uscita di Il golem) e Seifert è stato molto restaurato dai tempi in cui lo ricordava Meyrink – ma al posto del vecchio cancello che ricordava ne trova ora uno grandioso e mosaicato, con l’immagine di Ermafrodito, e un profumo di giacinti oltre il muro. Compare un servitore (ennesima maschera del golem, a giudicare dall’abbigliamento), gli chiede cosa desideri e lui gli tende il cappello incartato. Sullo sfondo, sui gradini di un edificio a forma di tempio, vede Athanasius (“immortale”, secondo l’etimo) e Mirjam. Il primo identico a lui, lei giovane e bellissima. Poi, al chiudersi del cancello riappare il servitore restituendogli il cappello giusto: il signor Pernath lo ringrazia, e lo prega di non considerarlo inospitale se non lo fa entrare. Si era accorto subito dello scambio di cappello e non l’ha usato; “Si augura solo che il suo non le abbia provocato dei mali di testa”.

Se davvero (come qui si ipotizza con la necessaria prudenza) Il golem vede tra le righe – a partire da una suggestione contingente che può aver colpito Meyrink – l’intreccio di linee e strutture geometriche che delinea l’Albero cabalistico della Vita, inevitabile ricordare come questo già sia stato inteso come simbolizzante una figura umana: a quel punto potrebbe suggerire la figura del golem o piuttosto dello stesso Ermafrodito della felice unione tra Athanasius e Mirjam.

Possiamo ignorare la questione se Il golem sia o meno un capolavoro della letteratura, ma certo è un testo straordinario, autenticamente letterario: un romanzo intenso e dotato di una poesia a tratti struggente, e un incitamento onesto alla ricerca interiore attraverso un teatro di maschere fondamentali che colpirà Jung. Un romanzo iniziatico, certo, ma in modo più sottile di quanto spesso indicato con questo termine. Sia perché all’autore interessa anzitutto varare un’opera letteraria, non un testo a chiave per corrucciati conciliaboli di eruditi, e dunque una storia che parli di sentimenti, nostalgie, amore, almeno quanto di riletture cabalistiche (peraltro molto libere, per necessità di narrazione) o esoteriche; sia perché i riferimenti arcani, piuttosto improbabili se singolarmente considerati, fungono da suggestioni che l’autore in realtà relativizza col suo libero uso – l’importante è il cammino, per ciascuno modellato in modo peculiare, al di là di maschere e categorie culturali; sia perché appunto si tratta della storia di una ricerca, scevra da ogni spocchia da presunti Maestri.

La peculiarità grottesca-fantastica del Golem, pur trovando in E. T. A. Hoffmann un illustre precedente, permette di apparentarlo solo a L’altra parte di Kubin, peraltro amico dell’autore. Al netto della dimensione onirica, si possono cogliere realismo e razionalità nel trattamento narrativo di una condizione mentale crepuscolare: le separazioni tra io e mondo esterno, tra io e l’altro – un Doppio trattato con riferimento a un antico linguaggio magico, ma in fondo riconducibile a meccanismi noti alle scienze umane – tendono a sciogliersi, e il linguaggio gotico, gli effetti gotici sono volti a esiti più sottile che in tanti precedenti per veicolare una visione spirituale. Facendo saltare alcune categorie letterarie di alto e basso, e permettendo di riconoscere una sincerità dell’autore nel suo progetto.

Certo la trama tende spesso a inabissarsi in un labirinto onirico e pneumatico, donde le accuse talora rivolte di testo soporifero. Ma è pur vero che alla mancata sovrabbondanza di fatti fantastici – che pure ci sono – corrisponde un felicissimo gioco d’ombre espressionista: un’inquietudine di visceri cui le tavole di Steiner-Prag illustrative della prima edizione restituiscono efficace forma visiva, e che coinvolge il lettore disposto a mettersi in gioco. Un romanzo insomma pienamente fantastico (si è parlato di urban fantasy), nell’accezione più ricca del termine evocante la sospensione/soglia tra realtà liminari, la ferita/feritoia su un mondo interiore e l’imbarazzo radicale dell’osservatore: qualcosa che non confligge con la dimensione interiore/“iniziatica”, ma ne rappresenta semplicemente la definizione narrativa.

La detenzione in carcere di Pernath, vera e propria morte iniziatica, segna il culmine della storia: quando finalmente viene liberato, trova che il mondo è cambiato, gli amici sono spariti, Mirjam stessa è andata via e occorre cercarla. Ma è un po’ tutto il microcosmo-ghetto come lui l’ha conosciuto a sparire, e non solo per la ristrutturazione urbanistica che lo sventra modificando la geometria di Praga. L’anonimo narratore che, a distanza di una trentina d’anni, si troverà a rivivere l’esperienza di Athanasius per il cortocircuito psichico di uno scambio accidentale di cappelli, dovrà fare i conti con quella svolta, il recupero di un’identità culturale e la sintesi tra gli opposti. Come in fondo il lettore, per lo scambio di cappello con Meyrink che lo proietta nel labirinto del protagonista: a riconoscere i propri imbarazzi, paure e rovine, ma anche la speranza finale di una ridefinizione profonda, di una maturazione in serenità e misericordia.

(5-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 4 https://www.carmillaonline.com/2024/11/26/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-4/ Tue, 26 Nov 2024 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85482 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (I)

 

La luce della luna batte sul fondo del mio letto e vi posa come una grossa, piatta pietra luminosa.

Quando la luna piena prende a raggrinzirsi e il suo lato destro comincia a sfaldarsi, come una faccia che va incontro alla vecchiaia da prima smagrisce e si solca di rughe su una sola guancia, verso quell’ora della notte s’impossessa di me un’inquietudine torbida, tormentosa.

Non dormo e non veglio, e nel dormiveglia si vengon mescolando nella mia anima cose vissute con cose lette e udite, al [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (I)

 

La luce della luna batte sul fondo del mio letto e vi posa come una grossa, piatta pietra luminosa.

Quando la luna piena prende a raggrinzirsi e il suo lato destro comincia a sfaldarsi, come una faccia che va incontro alla vecchiaia da prima smagrisce e si solca di rughe su una sola guancia, verso quell’ora della notte s’impossessa di me un’inquietudine torbida, tormentosa.

Non dormo e non veglio, e nel dormiveglia si vengon mescolando nella mia anima cose vissute con cose lette e udite, al modo che correnti varie per colore e trasparenza confluiscono insieme.

 

Inizia così Il Golem (trad. di Carlo Mainoldi, Bompiani 1977), avventura narrata come nel dormiveglia, a render vane le pretese di credibilità dell’una o dell’altra asserzione di un narrante più o meno inaffidabile. Dove l’immagine della pietra offre similitudine per lo scorcio illuminato dalla luna, ed è insieme eco di una lettura della sera dalla vita di Buddha (la roccia con l’aspetto di un pezzo di grasso, abbandonato da una cornacchia accortasi dell’errore: “così […] lasciamo l’asceta Gotama, poiché non sappiamo più godere di lui”). E quell’immagine cresciuta mostruosamente nel cervello fino a riempirne il dormiveglia – traghetta fino alla coscienza che il corpo

 

giace addormentato nel letto e i miei sensi sono sciolti e non più legati al mio corpo.

Chi è adesso “io”, questo vorrei chiedere a un tratto; poi mi prende la paura che la stolida voce si ridesti di nuovo e di nuovo cominci l’interrogatorio senza fine sulla pietra.

E do un altro corso ai miei pensieri.

 

Tutto avviene a Praga – práh, etimologicamente “soglia” o “guado”, con tutta la nebulosa di simboli sull’idea di passaggio – nel cui vecchio ghetto il Nostro si ritrova: vediamo con la bottega di un rigattiere ebreo, il turpe Aaron Wassertrum, e la scala verso casa occupata dal voluttuoso ingombro della procace Rosina, imparentata col rigattiere. Un mezzo piano più in basso, in quel brulicare di locali tra scale e anditi vari, è appostato Loisa, che freme per il corpo di Rosina e teme solo che il narrante le apra la porta – lui e il gemello sordo Jaromir sono coetanei di lei ed entrambi vogliosi, ma Loisa ha la meglio rispetto al fratello cui riserva crudeli malignità. Chiaro che in questo ambiente depresso – una Praga nera contrapposta all’absburgica Praga d’oro – il narrante non riesca a trovare la concentrazione per il suo delicato lavoro di restauratore. Vero, giungono anche risa allegre: un giovane signore distinto (il dottor Savioli, scopriremo) ha preso in affitto un laboratorio dal vecchio burattinaio Zwakh… ma a un tratto una donna irrompe mezza nuda e scarmigliata nella stanza del narrante chiedendo che la nasconda (al cattivo Wassertrum, naturalmente). Così il narrante scopre di aver nome Athanasius Pernath: o meglio, quel nome è riportato nel cappello scambiato per errore, e che sembra aver innescato un curioso scambio d’identità. Identità, sogno, fissazioni patologiche, pulsioni sessuali: siamo, a tutti gli effetti, in un contesto modernista.

 

L’origine del complesso del Golem come Doppelgänger dell’eroe e anima collettiva del ghetto risiede dunque nel sogno dello scrittore provocato da uno scambio di cappelli, che a sua volta rappresenta lo sdoppiamento dell’io narrante su tre piani di realtà: la realtà fittizia della cornice, la realtà del sogno del racconto e la realtà del sogno nel sogno, ossia delle visioni dello schizofrenico protagonista nella trama. La conoscenza della propria identità può avvenire soltanto in uno stato di semisogno intermedio tra veglia e sonno profondo, ossia in uno spazio di meditazione in cui il sogno è rivelatore dell’aldilà e assume caratteristiche più vere della stessa realtà. Non è un caso che il primo capitolo, il piano della cosiddetta realtà, sia intitolato Schlaf [“Sonno”], mentre il secondo capitolo, che introduce il lettore in una dimensione onirica, Tag [“Giorno”]. La duplicità dei piani narrativi prosegue fino alla fine del romanzo e legittima lo sconcerto dell’io narrante, che spesso si domanda se ciò che ha vissuto sia sogno o realtà [Marco Serio, Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, “Studia austriaca” XX (2012), 33-53]

 

Ma è allora che il narrante riceve una misteriosa visita, un tipo che si comporta come a casa propria e apre davanti a Pernath un libro dalla copertina di metallo incastonato con colore e pietre. Poi addita un capitolo, Ibbur (più precisamente Jbbur), “la fecondazione dell’anima” e lo incarica di restaurarne la grande iniziale I (o J) in rosso e oro: Pernath inizia a guardare, poi a leggere e le parole gli volteggiano davanti “come schiave dalle vesti variopinte […]. Sperava ognuna per un attimo che avrei scelto lei” e a un certo punto gli trascinano davanti una figura vagamente felliniana (le ragioni del sogno, ancora),

 

una donna tutta ignuda, dalle proporzioni gigantesche di un colosso di bronzo […] Il polso le batteva con palpiti tellurici, ed io sentii che la vita di tutto un mondo era in lei.

Di lontano si veniva appressando un corteo di coribanti.

Un uomo e una donna si avvinghiarono. Li vidi arrivar di lontano, sempre più vicini echeggiavano gli schiamazzi della processione.

Di quegli esseri in estasi udivo ora il canto fragoroso, e i miei occhi cercarono la coppia allacciata..

Ma la vidi ormai trasfigurata in una figura unica, metà uomo, metà donna: l’Ermafrodito era assiso su un trono di madreperla.

 

La visione prosegue, come onirica o lisergica, fino alla percezione che il libro gli parli, con “una voce che da me voleva qualcosa, che non comprendevo, per quanti sforzi facessi”:

 

non un libro ero venuto sfogliando, ma il mio stesso cervello.

Tutto ciò che la voce mi aveva detto io l’avevo portato dentro di me, nascosto e obliato, celato sino ad oggi alla mia mente.

 

Perché la crisi dell’io che reca da un lato lo sgomento di una perdita d’identità, dall’altro reca l’emergere straniante di un altro io, l’inconscio, insieme ritorno del rimosso e Perturbante presago di morte.

Uno straniamento che in fondo vale per la genesi stessa del romanzo, la cui revisione finale disorienta l’autore. Si rivolge dunque per aiuto all’amico Felix Noeggerath (1885-1960, filosofo e mitologo, ammirato da Benjamin come “genio universale”) per chiedere aiuto, e ne riceve un prezioso input: l’amico delinea una sorta di mappa stellare, con un punto per ogni personaggio del Golem e linee di collegamento con gli altri. Dei personaggi irrilevanti per il percorso e il significato del libro l’amico raccomanda l’eliminazione. Salta fuori così che l’elenco contiene ben 120 nomi, 90 dei quali completamente inutili. A rimuoverli, il quadro confuso diventa a Gustav chiarissimo. A questa struttura di punti e linee dovremo tornare.

Ma ora l’uomo che ha portato a Pernath il libro è sparito: tornerà a prenderlo dopo il lavoro? Ha lasciato il proprio indirizzo? Quali erano i suoi tratti? Di lui Pernath non ricorda nulla. Allora fa un tentativo interessante e surreale: si veste, esce di casa e rientra cercando di ripetere andatura e gesti dello sconosciuto. E inaspettatamente la mimesi funziona quasi a fissare una possessione, riesce a imitare il movimento dell’uomo e il viso cambia – “una faccia estranea, senza barba, con zigomi sporgenti, e guardavo con occhi obliqui” (inevitabile pensare allo straordinario golem interpretato da Paul Wegener in più pellicole espressioniste). E torniamo all’idea, già presente nella faccenda dello scambio di cappelli, che un indossare i panni altrui permetta – come una maschera nel pensiero antico – più che una mimesi, una vera identificazione, che gli reca persino momenti di angoscia. Di nuovo l’identità, il Doppio, il gioco “io è l’altro”… Poi però “le dita dello spettro” smettono di palpargli il cervello. Dell’interlocutore ha capito comunque

 

che lui è come in negativo, un’invisibile figura cava, di cui non so cogliere i lineamenti, ma nella quale è forza ch’io entri se voglio aver coscienza della sua figura e della sua espressione dentro di me.

[…]

La voce che s’aggira nelle tenebre per tormentarmi con la storia della pietra grassa mi è passata accanto e non mi ha veduto. E io so che viene dal regno del sonno. Ma quel che ho vissuto era la vita reale, era realtà, per questo non le è riuscito di vedermi e mi ha appostato invano, lo sento con certezza.

 

E questo lui – ipotizzerà tra poco l’amico Zwakh –, questa “invisibile figura cava” è probabilmente il golem.

Nel capitolo successivo la scena si apre, da titolo, su Praga, sulle sue vie dalle case incombenti e misteriosamente frementi e su tutto un mondo di abitanti – “come fantasmi, come esseri – non nati da madri – che in quel che pensano e fanno sembrano consistere di tanti pezzi messi insieme a casaccio” come appunto il golem della leggenda. Sarebbe affascinante scoprire quale selva di personaggi – una novantina, raccontava – l’autore abbia defalcato, ma i rimasti sono figure di grosso impatto: lo studente Innozenz Charousek che sembra leggergli nel pensiero, il ributtante Wassertrum e il defunto, potente e predatorio figlio dottor Wassory, il dottor Savioli che è stato uno strumento dell’oscuro Charousek per far cadere Wassory e spingerlo al suicidio… Più avanti facciamo la conoscenza degli altri deliziosi amici di Pernath: non solo il burattinaio Zwakh, ma il musicista Josua Prokop e il pittore Vrieslander, che sagomando un burattino si intrattengono a parlare del golem – una sorta di ebreo errante psichico, proiezione di paure e angosce represse di quegli immiseriti abitanti del ghetto che come lui crollerebbero (viene da pensare) quali fantocci inanimati al cancellare dalla loro mente i rituali della tradizione ebraica – e di lanterne magiche: come quella con cui forse il sapiente rabbino animatore dell’uomo artificiale ha evocato per l’imperatore Rodolfo le ombre dei trapassati.

La necromanzia riletta insomma in chiave di protocinema: una provocazione interessante dell’autore, che demisticizza in modo provocatorio un romanzo in ipotesi tanto esoterico (al punto che, funzionalmente, Meyrink stesso, animatore del Golem in quanto romanzo, si fa Doppio di quel Rabbi Löw che avrebbe fatto sollevare l’uomo d’argilla).

Così come proprio l’approccio suggerito da Felix Noeggerath all’autore, una struttura di punti e linee funzionale a portare ordine nel viluppo della storia, solo accidentalmente potrebbe evocare a livello di struttura visiva l’intreccio grafico, geometrico, dell’Albero della Vita cabalistico, l’Etz haHa’yim. È possibile che Meyrink, che collega/oppone i personaggi a coppie polari, triangoli e quadrati simbolici, sia stato colpito dalla suggestione, ed è pur vero che la storia del Golem potrebbe in quella struttura mistica ravvisare un efficace affresco generale: ma pretendere di spiegare i singoli nodi del romanzo in stretto rapporto ai gangli dell’Albero, a evocare una presunta verità criptata per sussiegosi iniziati, sarebbe davvero troppo.

Certo la vicenda muove attraverso un complesso reticolo di relazioni geometriche: quasi a evocare (di nuovo una suggestione, non un feticcio esoterico) le sfaccettature prismatiche di quelle pietre preziose che Pernath per professione intaglia, e che richiamano a un ricco simbolismo mistico-religioso. Se il sensibile Pernath è al centro della storia, i personaggi principali si combinano con lui e tra loro in ideali coppie di opposizione polare, triangoli e quadrati simbolici. A partire dai legami con Rosina, calamita nel ghetto degli istinti sessuali più torridi e bassi, e che trova in altre due figure della zona, i gemelli Loisa e Jaromir, referenti ideali (triangolo della miseria); con l’amico Zwakh, latore perplesso di storie su Praga, vertice di un ulteriore, impagabile trigono coi due compari, il musicista Prokop e il pittore Vrieslander, complici in vivaci serate all’osteria (triangolo degli amici) – e proprio il tema dei burattini che Zwakh porta in scena finisce con l’alludere a una dimensione più profonda e diffusa nel romanzo; con l’alleato Charousek, lo studente tisico legato al rigattiere da un torbido nesso di sangue e nondimeno votato a essere sua nemesi (triangolo del confronto col Male). Astuto e machiavellicamente rassicurante coi buoni quanto terribile con i cattivi (con Wassertrum e il suo losco figlio dottor Wassory forma un ideale triangolo dell’odio), Charousek si contrappone polarmente a Wassertrum nel segno della tragedia.

E questi sono solo alcuni dei triangoli ravvisabili nel Golem, altri li troveremo via via. Al netto della relativa interpretazione cabalistica, semmai più interessante un altro distinguo strutturale, quello da qualcuno proposto tra i tre stadi di maturazione di Pernath: si potrebbe cioè raccogliere i personaggi (compresi quelli disincarnati) in tre sfere, materiale, immateriale e spirituale. Ma va pur detto che tutti i personaggi sono in fondo funzioni di Pernath, e particolarmente Charousek e Laponder, a loro volta doppi del protagonista a diversi strati di coscienza.

Però tutto torna, non solo il golem: Rosina ripropone “sempre lo stesso viso” della madre e della nonna, e lo stesso nome: “l’una è ogni volta la resurrezione delle altre”, anche nelle abitudini di vita. Gli amici sospettano che Pernath (che credono sia addormentato) si sia sognato tutta la storia del libro Ibbur: in fondo, poveretto, è stato in manicomio… e si sforzano di non richiamargli dolorose memorie connesse alla sua follia. Il problema è che non stava dormendo, e ha sentito tutto. Come nel ghetto esiste “una stanza, uno spazio di cui nessuno riesce a trovare l’entrata – un essere umbratile che vi abita e solo qualche volta si aggira a tentoni per i vicoli, a suscitare l’orrore e il raccapriccio tra la gente”, così è la finestra della sua anima, chiusa come da inferriate. Al punto che Pernath si sente diventato il burattino che Vrieslander stava sagomando – ed è riuscito curiosamente simile alla maschera del golem – per essere poi lanciato con noncuranza giù nel vicolo.

Gli amici portano il Nostro al Loisitschek dove ascoltano musica e antiche storie, come quelle sul “battaglione” del giurista infelice e pietoso dottor Hulbert, frequentatore di quel locale dopo l’esplosione della sua vita privata, e consulente dei poveracci sul filo della malavita (“mendicanti e vagabondi, ruffiani e prostitute, ubriaconi e cenciaioli”) contro le oppressioni di polizia. Il “battaglione” ha una cassa comune e propri riti; e quando Hulbert viene trovato morto su una panchina, i membri si dissanguano per organizzargli un funerale solenne. In suo ricordo, a mezzogiorno, ogni membro del “battaglione” riceve nel locale una minestra gratis. Si è osservato un certo dickensismo del mondo criminale del Golem, frutto dell’influenza del maestro inglese di cui ha tradotto vari romanzi, ma anche in fondo, della repulsione di Meyrink per divise e poliziottismi.

Però arriva la polizia, che contesta danze abusive e la chiusura del locale. La presenza sul posto di un principe indurrà l’arrogante commissario a rimangiarsi le minacce: ma lasciato il gran sabba di Loisitschek con Rosina ubriaca, Pernath ha un cedimento psichico, e gli amici lo affidano alle buone mani dell’archivista Hillel, “è pratico di queste cose”. L’incontro per Pernath si dimostra prezioso, e l’interpretazione offerta da Hillel sull’apparizione del tipo col libro (“il risveglio del trapassato ad opera della vita spirituale”, del resto “Tutto ciò che è divenuto forma, prima era uno spettro”) prelude alla rivelazione che leggendo il libro la sua “anima è stata fecondata dallo spirito della vita”. Se finora ha percorso una via seguendo la propria libera volontà, ora viene chiamato da se stesso: e con la sapienza, a poco a poco, “torna anche la memoria. Poiché sapienza e memoria sono la stessa cosa”. Tranquillizzato da Hillel, Pernath resta “in uno strano stato intermedio, che non era sogno né veglia né sonno”: e nella lucidità raggiunta, ha l’euforia di riuscire a cogliere una serie di soluzioni a problemi che s’era posto. Non riesce però a tornare ai ricordi del proprio passato oltre l’immagine di un portone ad arco, e al nuovo passaggio della mano di Hillel sui suoi occhi si assopisce profondamente.

La storia prosegue con la lettera e l’appuntamento offerto da una misteriosa “signora che lei conosce”, a suo tempo allieva di suo padre, e la sorpresa che si rivolga a lui. Si incontrano alla cattedrale, riconosce la donna che aveva cercato ospitalità da lui, mezza nuda, contro la malignità di Wassertrum. Questi ora la minaccia: Savioli, il suo amante, è malato e non può difenderla. Lei chiede dunque a Pernath di trattare con Wassertrum e consegnargli gioielli per rabbonirlo, evitando che scoppi uno scandalo che, in ragione del suo matrimonio, le farebbe portar via la figlia. Se si è rivolta a Pernath, è stato in grazia di due parole da lui spiccicatele tanti anni prima: e all’improvviso il Nostro ricorda. “[…] un amore troppo sconvolgente per il mio cuore aveva roso, roso per anni il mio pensiero, e la notte della follia era venuta a stendersi come un balsamo sul mio spirito ferito”. Intanto un avviso murale sulla sparizione di un anziano signore viene affisso in città.

Indeciso su come salvare la dama – si chiama Angelina – e deciso a non infastidire una “figura così gigantesca” come Hillel con simili vicende mondane, quella notte Pernath sente qualcuno che armeggia nelle stanze di Savioli e della dama: vi si reca, fa scattare il chiavistello e trova Charousek che armeggia intento alle proprie indagini contro Wassertrum. Ecco, come suggeritogli da una sorta di visione alla cattedrale, colui che può essere suo alleato: e in effetti lo studente gli affida della corrispondenza delicata trovata nell’alloggio. Pernath è perplesso dell’odio che anima Charousek contro il rigattiere; ma soprattutto è perplesso delle strane forze che sembrano ora dominare la sua vita.

 

Fa un effetto così singolare quando degli oggetti che di solito giacciono immobili prendono a un tratto a svolazzare intorno. […] Un nero sospetto mi sorse allora; non poteva essere che anche noi mortali si sia come quei fogli di carta? Forse che un invisibile, inafferrabile ‘vento’ non spinge anche noi di qua e di là e fa che le nostre azioni sian quelle che sono e non altre, mentre noi, ingenui, crediamo di disporre di un tutto nostro libero arbitrio?

 

Torna dunque all’atelier di Savioli e spinto dalla curiosità scende giù da una botola che vi si apre: nel buio raggiunge un camminamento sotterraneo che probabilmente (riflette), come tanti altri nel ghetto, conduce al fiume. Procede con prudenza, per non compromettere con un improvvido incidente il caso della dama che a lui si è affidata; e finalmente trova i resti di una scala a chiocciola. La risale e si imbatte in una botola di legno a forma di stella, emergendo in una stanza piccola e semivuota. Non sembrano esserci porte, ma c’è una fitta inferriata alla finestra, da dove s’intravede una via del quartiere ebraico. Alcuni vecchi vestiti e un mazzo di Tarocchi – riconosce il Bagatto – giacciono nella polvere di una stanza evidentemente abbandonata da decenni, e oltretutto gelida. Questa stanza senza porta – per occhieggiare la quale dalla finestra un tipo appeso a una fune sarebbe un giorno precipitato, morendo – è in fondo la mente stessa di Pernath, trattata (vedremo) da un medico con ipnosi a bloccare il motivo del dolore e dunque “murata”, gelida e coperta della polvere del tempo. Non è un caso che lì il golem, ombra del rimosso, vada a sparire.

Ma sempre per responsabilità verso la dama e le sue lettere, reagisce alla possibilità di morire di freddo lì: prende a gridare “Aiuto!” dalla finestra e indossa quegli abiti strani, sdruciti e fuori moda. E mentre sta pensando a come farsi soccorrere al mattino dai passanti realizza che quella è la stanza senza accesso “nel vicolo della Vecchia Scuola, che tutti evitavano!”, perché appunto vi scomparirebbe lo spettro del golem. E intanto la carta del Bagatto, illuminata dalla luce lunare, sembra riflettere il suo proprio volto e lascia emergere in lui antichi ricordi sui giorni di scuola – ma quando sentendo rumori in strada, si affaccia alla finestra con le inferriate, la gente atterrita lo scambia per il golem, nell’ennesimo gioco di rimescolamento identitario. Il romanzo di Meyrink è in effetti una delle grandi narrazioni classiche sul Doppio, tema battutissimo nella letteratura fantastica dell’Ottocento e ancora nel secolo dopo: dove il riferimento è al Doppio di Pernath, un narrante in travaglio identitario, e insieme alle maschere cangianti di quel golem che pure è un Doppio, un sosia e si rifrange illusionisticamente di continuo.

 

Per gli scrittori tedeschi di Praga, la capitale della Boemia austroungarica è un ossimoro che sintetizza due sentimenti dissonanti: la nostalgia di un passato aureo di crogiolo di popoli, lingue e religioni diverse (ceca, ebraica, tedesca, austriaca) e il rancore nutrito per i disordini causati dal violento antisemitismo del nazionalismo slavo. Come tutta la letteratura dell’orrore, il romanzo meyrinkiano diviene un’immagine speculare inversa della realtà storica, poiché mitizza la situazione di precarietà esistenziale nella dimensione dell’onirico, del patologico e del fantastico, in cui rifugiarsi dalle tensioni politiche e sociali. […] Nei primi anni del Novecento, la cultura mitteleuropea è teatro di una dissoluzione spirituale in cui l’io, lungi dall’essere simbolo di una visione del mondo panottica e antropocentrica, si scompone in una miriade di frammenti. Le ricerche scientifiche di Sigmund Freud, Jean Martin Charcot, Joseph Breuer e Ernst Mach testimoniano il vivo interesse per l’«uomo psicologico», antitetico all’«uomo razionale» della tradizione liberale in quanto creatura dotata di istinti e pervasa di emozioni, nonché aggregato di relazioni psichiche, scomponibile in unità minime di significazione. All’«insalvabilità dell’io», generata dall’assenza di un principium individuationis che riconduca la molteplicità del reale a un Tutto organico e conchiuso, si contrappongono, su un piano letterario, i frammenti di un’esperienza vissuta col cuore, che racchiudono un elevato potenziale di significazione, poiché cristallizzano in istanti di comunione mistica l’inarrestabile fluire delle cose. È soltanto in attimi epifanici, non volontariamente evoca-ti ma scaturiti da un inspiegabile processo di selezione fra le cose e gli e-venti del mondo, che l’io riconquista la «facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento» [Marco Serio, Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, cit.]

 

Certo discutibile – o almeno da intendere – è la definizione de Il golem come racconto dell’orrore (vediamo le reazioni della gente, vedremo l’incubo dello spettro acefalo). Sicuramente si tratta di una storia inquietante nel segno del Perturbante, ma la natura del riconoscibile non riconosciuto va a braccetto con un rimosso che ha caratteri personali (il passato di Pernath) e comunitari (la memoria culturale del ghetto), dunque di strazio e di spaesamento più che di paura in senso proprio o di orrore nell’accezione classica.

“Dovevo forse aspettare lì per ore o sino al giorno dopo che arrivassero dei poliziotti – questi furfanti di Stato, come li chiamava Zwackh”: e ci rendiamo conto che l’autore è sempre quello dei racconti, ostile alle divise e ai poteri costituiti che spadroneggiano.

Ma a quel punto, con i barbagli fiochi della luce del giorno, si arrischia a rifare la strada dalla botola e si ritrova nella scuola dei suoi ricordi. Prima di tornare a casa, involontariamente spaventa per strada un anziano passante e vari altri, tutti convinti di trovarsi davanti al golem. Allora, infilatosi in un portone, si strappa quei cenci di dosso e un attimo dopo una folla armata di bastoni lo oltrepassa urlando alla ricerca del mostro.

Pernath cerca invano Hillel, e parla con Mirjam, vagheggiando di scolpirne il ritratto su una gemma. Poi però sta per nascondere meglio le lettere della dama, una foto scivola fuori e gli occhi gli cadono sul nome di lei in una dedica, Angelina – e a quel punto “la cortina che mi velava gli anni della giovinezza si lacerò di colpo interamente”. La memoria torna a strappi, illumina passaggi prima non riconosciuti come in una seduta psicanalitica: Athanasius Pernath è il fratello più malinconico di Zeno Cosini, e la scoperta schiude un dolore che gli fa rimpiangere la “morte apparente di prima”. Ma a furia di fissare la foto, a poco a poco riesce a dominarne l’influsso.

Torniamo alle relazioni triadiche. Due insomma sono le donne da cui Pernath si trova attratto (triangolo dell’amore), cioè la sofisticata Angelina e la mistica, angelica Mirjam: la messa a fuoco da parte di Athanasius della profondità dei sentimenti per Mirjam procederà con il suo progresso interiore, ma lo sviluppo sentimentale apparentemente scontato viene gestito da Meyrink con delicatezza e sobrietà. D’altra parte Angelina e Mirjam costituiscono a loro volta una seconda struttura triadica (triangolo delle donne) insieme alla volgare e procace Rosina, a cui Pernath finirà più avanti col concedersi.

Pernath frequenta Mirjam ma anche il padre di lei, il santo e carismatico cabalista Schemajah Hillel, la cui azione di taumaturgo dell’anima permetterà al Nostro di avanzare nel proprio peculiare cammino iniziatico liberandosi da ombre e paure (triangolo delle relazioni di salvezza). Contrapposto polarmente a Hillel e punto di riferimento del Male con cui Pernath deve fare i conti (triangolo delle direzioni esistenziali) è invece il sordido Wassertrum, che pare incarnare fisicamente lo stereotipo del “cattivo giudeo” alla Werner Krauss, ma con uno spessore tragico e tormentato tale – vedremo – da far sovrabbondare il pathos sull’antipatia.

È Wassertrum a voler perdere Angelina, scatenando il meccanismo drammatico della vicenda: e un’altra relazione triadica lega Pernath e Angelina all’amante di lei, il dottor Savioli (triangolo degli amanti), affittuario come il protagonista di una stanza dall’anziano burattinaio Zwakh (triangolo della casa, cioè lo spazio dove si consumano da un lato il feuilleton dello scandalo da sventare, e dall’altro le visitazioni pneumatiche ad Athanasius).

Pernath resta però deluso quando Hillel torna a dargli del lei, dopo la confidenza vibrante dei loro primi scambi. Il fatto è che c’è anche Zwakh, stanno succedendo delle cose; è riapparso il golem, e anche stavolta tutto è iniziato con un assassinio, quello del grosso Zottmann, direttore dell’omonima Società di assicurazione; Rosina è scomparsa e Loisa è stato arrestato. Il sorriso di Hillel svela che non crede alla storia del golem, e neanche al legame con gli omicidi: “Quando spira il vento australe, qualcosa si sommuove alle radici. In quelle dolci come in quelle velenose”. Poi, a Zwakh che l’ha definito rabbino, Hillel offre una risposta interessante: “Io non sono ‘rabbino’, anche se potrei portare questo titolo. Sono soltanto un misero archivista al municipio ebraico e tengo il registro dei vivi e dei morti” (corsivo mio). Un ruolo, insomma, che la dice lunga, considerando che anche il golem – di volta in volta inteso come io vissuto e io vivente – intreccia queste dimensioni.

A quel punto Zwakh gli pone qualche domanda sul pensiero cabalistico e in particolare il Sohar. Libro dello Splendore, che – commenta – è troppo poco a disposizione della gente “comune”. Puntualizzando che contiene “solo alcune chiavi”, Hillel spiega però che occorre concentrare tutti i propri desideri se proprio si aspira a una simile meta di sapienza; e a Pernath che riflette che dovrebbe esserci “un libro contenente tutte le chiavi degli enigmi dell’aldilà, e non soltanto alcune” risponde con un sorriso:

 

Ogni domanda che un uomo possa fare ha già la sua risposta nell’istante medesimo in cui l’abbia posta al suo spirito. […] L’intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme, che hanno in sé il germe della risposta – e di risposte gravide di domande. Chi vi vede qualcosa d’altro non è che un pazzo. […] Colui che domanda riceve la risposta di cui ha bisogno: se così non fosse, le creature non prenderebbero la vita dei loro desideri. Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato – se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita.

 

Finiscono col parlare dei Tarocchi, dove – spiega Hillel – precipita un’intera conoscenza esoterica, e Pernath ripensa al mazzo trovato nella casa del golem. Ma Hillel cita anche la figura del Doppio, l’Habal Garmin, “soffio delle ossa”, che abiterebbe in una misteriosa stanza senza porte, c’è solo una finestra…

 

(4-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/09/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-3/ Sat, 09 Nov 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85113 di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia [...]]]> di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia (Lago di Garda, Praga, Berlino, Svizzera) e produce in varia forma. Tra il 1909 e il 1914, per necessità alimentari, traduce opere di Charles Dickens (Nikolas Nickleby, David Copperfield, Oliver Twist, Il circolo Pickwick), Rudyard Kipling, Lafcadio Hearn e Camille Flammarion. Legittimo pensare che l’immersione in Dickens possa giovare ai suoi progetti di romanzo: in questa fase si ha infatti l’incubazione del capolavoro Der Golem, avviato a Monaco fin dal 1907. Intanto, in collaborazione con lo scrittore Alexander Roda Roda (1872-1945), incontrato in un cenacolo viennese frequentato da Eckstein e pure autore del “Simplicissimus”, vara diverse commedie, via via rappresentate: Bubi (Schuster & Loeffler, Berlino 1912), Il Consiglio medico (Schuster & Loeffler, 1912), Lo schiavo di Rodi (un adattamento dall’Eunuchus di Publio Terenzio Afro, Schuster & Loeffler, 1913), L’orologio (Ahn & Simrock, Berlino 1914). Le annotazioni scenografiche di Gustav rivelano l’influenza delle concezioni artistiche degli studi viennesi, e questi testi (assieme alla sua trasposizione teatrale di varie novelle, in particolare L’albino) rivelano un genuino interesse per il teatro, dove inietta le sferzanti satire dei racconti. Se l’insuccesso riscontrato raffredderà le cose, Gustav inizierà a guardare alle ricche possibilità di un’altra arte più di recente emersa, il cinema; e d’altra parte, come mostra l’esperienza del cinema ungherese (brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori, a interagire coi propri personaggi: cfr. qui) i due mezzi mostrano al tempo anche interessanti ibridazioni.

Gustav vagheggia anche la fondazione di una rivista “di pura bibliofilia”, contro il gusto che imperversa a Monaco: titolo previsto, “Gent”, e dovrebbe uscire nel settembre 1913 – ma nei fatti il progetto non decolla. Nel marzo 1913 e poi fino all’anno successivo riprende anche un vecchio progetto (1907-08, con Richard Teschner) di teatro di marionette, ma anche questo senza seguito. Negli anni che precedono la Grande guerra, è poi coinvolto dall’amico Hans Ludwig Held, direttore della Stadtbibliotek di Monaco, quale potenziale collaboratore di una vagheggiata Accademia tedesca di Letteratura e Arte “per evitare il tramonto della letteratura tedesca”: una sorta di risposta ai livorosi attacchi dei circoli nazionalisti tedeschi, iniziativa che però non trova concreti sviluppi.

Nel 1913 esce in tre volumi per Langen di Monaco la grande raccolta di suoi racconti Des deutschen Spiessers Wunderhorn per i tipi Langen di Monaco (malizioso fin dalla copertina, parodizza il romantico Des Knaben Wunderhorn di Achim von Arnim e Clemens Brentano, ma Il corno magico – cioè la cornucopia – del titolo non è del fanciullo bensì del piccolo borghese tedesco); e il volume Der Kardinal Napellus. Erzählung seguirà per Bachmair sempre di Monaco nel 1915. Ma Gustav non smette di scrivere testi brevi, seppur meno numerosi.

Così troviamo anzitutto L’imperatore segreto. Frammento (Der heimliche Kaiser: Fragment), scritto nel 1907 e pubblicato nel 1909 come cap. XII dello scherzo letterario a più mani Der Roman der XII di “Peter Squentius Vindobonensis” (uno pseudonimo collettivo per con Hermann Bahr, Otto Julius Bierbaum, Otto Ernst Schmidt, Herbert Eulenberg, Hanns Heinz Ewers, Gustav Falke, Georg Hirschfeld, Felix Hollaender, Gabriele Reuter, Olga Wohlbrück, Ernst von Wolzogen più appunto Meyrink: il sottotitolo Fragment appare però nella riedizione nella raccolta Fledermäuse: Ein Geschichtenbuch, 1917). L’aspetto forse più interessante dell’esperimento è dato dalla partecipazione di Meyrink assieme a quell’Ewers – brillante ed equivoco visionario e pornografo – che in fondo è una sorta di suo ideale contraltare.

Per racconti veri e propri, Il cardinale Napello (Der Kardinal Napellus, “Süddeutsche Monatshefte” 1913), presenta la storia di Hieronymus Radspieller – forse un ex-monaco, che ormai scrive eruditissimi libri contro fede, speranza e promesse bibliche – residente nel piano affittato e sontuosamente arredato di un castello, e che passa molto tempo nella sua barchetta sul lago. Ha messo a disposizione alcuni locali a un gruppo di quattro amici pescatori: tra loro è il botanico Eshcuid, che un giorno arriva con una pianta velenosa strana e altissima, il napello. A un certo punto Radspieller li raggiunge, ma la situazione è stranamente tesa: la sua sonda di piombo ha raggiunto finalmente il fondo del lago, “il punto più profondo della Terra che uno strumento abbia mai raggiunto!”.

Beninteso, l’evento non gli interessa dal punto di vista dell’astratta scoperta scientifica: “la scienza per noi è solo un pretesto per compiere qualcosa, qualsiasi cosa, non importa cosa”, visto che la vita ha prosciugato loro l’anima. Col risultato di far loro inseguire “capricci infantili per dimenticare quanto [hanno] perduto” e solo per quello. Ma quei capricci hanno anche un altro senso, “Non c’è nulla che possiamo fare che non sia magico”: il suo scandagliare nelle ombre è stato solo un atto esteriore, “ma colui che sa vedere e interpretare, già dall’ombra informe sulla parete sa riconoscere chi si è posto davanti alla lampada…”. Poi, alla domanda di uno dei pescatori su quale evento di vita gli abbia inflitto una ferita tanto amara da lasciarlo così rabbiosamente scettico, spiega di non essere mai stato prete ma suo padre era morto in preda al delirio religioso e lui ne aveva ereditato le angosce.

Nella valle dov’è nato, i membri della setta dei Fratelli azzurri cui lui è appartenuto a lungo, all’approssimarsi della morte si fanno seppellire vivi: e nello stemma del loro monastero spicca una pianta velenosa, il cui petalo superiore somiglia al cappuccio di un monaco – è l’aconitum napellus, il napello blu… Nel giardino del monastero cresce quest’erba azzurra, annaffiata con il sangue delle piaghe che i monaci si autoinfliggono a frustate. All’ingresso nell’ordine si pianta un esemplare che riceve il nome del nuovo adepto. Anzi, sul tumulo del fondatore della setta, il leggendario cardinale Napello, sarebbe cresciuta in una notte di plenilunio una pianta mentre il cadavere di lui scompariva, trasformato in essa, e di lì sarebbero venute le altre. I confratelli si alimentano dei semi tossici del napello, che li portano in uno stato tra vita e morte alla mutazione dei loro cuori… ma dopo un po’, resosi conto dell’effetto di accumulo del veleno per assurde speculazioni misticheggianti, Hieronymus aveva distrutto la pianta che recava il suo nome. La notte aveva poi avuto una visione del cardinal Napello con in mano la pianta dai fiori azzurri, i tratti cadaverici – solo gli occhi erano vitali – e spaventosamente uguale a lui… Allora s’era recato di soppiatto al refettorio, aveva forzato l’urna con le reliquie del cardinale e vi aveva trovato solo il mappamondo che ora è lì nella nicchia, ma l’aveva accompagnato nella fuga dal monastero. Per profanare maggiormente la reliquia l’aveva venduta, donando il ricavato a una prostituta: ma il mappamondo era in seguito tornato in suo possesso in modo casuale tramite un amico…

Ora lì tra vette montane e profondità del lago si era liberato di una religiosità necrotica e della “menzogna che la vita avrebbe uno scopo profondo”, mentre non c’è che terra… Ma a quella confessione tutti sono angosciati, e il botanico cerca di reagire studiando il mappamondo, evidentemente una falsa reliquia moderna che riporta i cinque continenti perfettamente tracciati – c’è persino riportato il piccolissimo lago locale… Hieronymus sta sbeffeggiando il cardinale che non gli appare più nei sogni, ma all’improvviso si accorge con orrore e un rantolo strozzato del napello portato lì dal botanico stesso: il quale nel frattempo ha staccato con un ago la pergamena a copertura del mappamondo, che rivela all’interno una sfera di cristallo dov’è fusa “la figura eretta di un cardinale con mantello e cappello che teneva in mano, quasi fosse un cero ardente, una pianta con i fiori a cinque petali dal colore dell’acciaio”.

A quel punto Hieronymus, similmente immobile e con il napello in mano, precipita nella follia. I quattro amici abbandonano il castello e si separano, per non incontrarsi più; ma tornato sul luogo molti anni dopo, il narrante trova solo rovine del castello, con un’enorme aiuola di fiori ad altezza d’uomo. “[…] era l’aconitum napellus”.

Scritto nel 1913, I miei tormenti e le mie gioie nell’aldilà: comunicati attraverso suoni di colpi spiritici (Meine Qualen und Wonnen im Jenseits: Durch spiritistische Klopflaute mitgeteilt, “Simplicissimus”, 13, 1914) è una farsesca storiella sullo stesso Meyrink, in ipotesi suicida per impiccagione, che racconta scene dell’aldilà dopo il passaggio sulla “chiatta, guidata dal primo presidente del club di canottaggio Caronte” e l’incontro con un’angelicata figura femminile dall’“odore pungente di latte di capra” (un odore, ricordiamo L’anello di Saturno, associato alle beghine) che si rivela Emmeline Pankhurst, la leader delle suffragette. In seguito la sua strada si incrocia con quella di Anubi, Torquemada e Lucrezia Borgia… e il tutto si risolve in una satira sulle rivelazioni degli spiritisti.

“Che cosa siamo noi esseri umani se non burattini indifesi, guidati dai fili da un destino crudele – qua e là, solo per poi abbandonarci all’improvviso senza capo né capo, come per un capriccio infantile?”: La storia del rapinatore-assassino Babinski (Die Erzählung vom Raubmörder Babinski, “Die Ernte”, 3, 1915) è narrata da un uomo che sente ormai estranea la sua casa e prende a peregrinare come un wanderer in una Praga nebbiosa sotto monumenti incombenti. Il testo, che troviamo quasi completamente assorbito nel Golem (capitolo “Donna”), vede la comparsa di tre vecchi amici del protagonista, il burattinaio Zwakh (ispirato all’amico pittore e scultore Richard Teschner, 1879-1948, con cui Gustav ha vagheggiato un teatro di marionette), il pittore Vrieslander (l’amico illustratore John Jack Vrieslander, 1879-1957) e il musicista Prokop. “‘Si siederanno nella locanda del ‘Vecchio Ungelt’ con un bicchiere di grog’, immaginai, ‘e si racconteranno storie grandiose e grottesche’”. Ma la sorpresa maggiore per il lettore del racconto è quando il protagonista entra nel locale dove si ritrovano gli amici e viene chiamato Pernath, come appunto il protagonista del Golem: i tre prendono a raccontargli la storia del truce Babinski.

 

“A poco a poco nelle migliori famiglie si cominciò un bel giorno a registrare la scomparsa di questo o quel congiunto, atteso per il pranzo e invece mai più rincasato. Per quanto in principio nessuno dicesse nulla, perché la cosa aveva in certo modo un suo aspetto positivo, dovendosi così durar meno fatica attorno ai fornelli, non si poté d’altra parte passar sopra al forte rischio che ne venisse a soffrire la propria reputazione e si divenisse oggetto di spiacevoli chiacchiere tra la gente.”

 

Babinski, curiosamente, vive nell’idilliaco di Krtsch presso Praga, in una casetta dal giardino fiorito di gerani: e prende a seppellire le vittime sotto un tumulo erboso che attira sospetti con la sua crescita progressiva. Infine arrestato, viene condannato a un’economica impiccagione, ma allo spezzarsi della corda del cappio la pena è commutata in ergastolo. Viene apprezzato dai funzionari dell’istituto, e infine, amnistiato, è assunto come portinaio nel monastero delle Sorelle della Misericordia. Si emenda, e dalla locanda il sabato sera torna sempre presto, rattristato dalla bassa morale degli avventori. Indignato che a Praga si vendano sue statuette in cera come pericoloso assassino, biasima il fatto che si continuino a sottolineare gli errori di giovinezza di una persona – ed espressosi così sul letto di morte otterrà il divieto di quel commercio.

Come il dottor Hiob Paupersum portò rose rosse alla figlia (Wie Dr. Hiob Paupersum seiner Tochter rote Rosen brachte, “Simplicissimus”, 20, 1915), ambientato a Monaco, è un apologo di critica a una società cinicamente indifferente alle sofferenze dei poveri (il protagonista ha il nome parlante di Giobbe – in riferimento al personaggio biblico – “Pauper sum”, “Sono povero”): dopo aver portato un mazzo di rose alla tomba della figlia, Hiob si taglia le vene, conficca le mani nella terra e il sangue cola “giù verso colei che riposava là sotto”. La scena richiama la morte di Charousek nel Golem, ma, nel caso del povero padre, “Sul suo volto bianco […] era dipinto lo splendore di una pace superba che nessuna speranza era più in grado di turbare”.

Il gioco dei grilli (Das Grillenspiel, “Simplicissimus”, 23, 1915) richiama invece una visione avuta dall’autore nel 1915 sulle cause occulte che starebbero dietro alla Grande guerra. Apparentemente si ambienta nel mondo degli entomologi: in questione è “la scoperta di una nuova specie di grillo bianco” nel luglio 1914 in Bhutan, allora Tibet sud-orientale e oggi stato autonomo, “usato dagli sciamani per pratiche magiche ed è chiamato Phak, una parola che è anche un epiteto ingiurioso per tutto ciò che ha somiglianza con un europeo o con un individuo di razza bianca”. A turbare l’autore della scoperta, lo studioso Johannes Skoper, è l’incontro con un Dugpa, un sacerdote-diavolo della religione Bön che sostiene di discendere dal demone dell’Amanita muscaria (ricordiamo le commistioni umane/vegetali dei racconti e i personaggi che si chiamano come vegetali tossici) ed esperto nel sentiero della Mano Sinistra: ha “il volto dai bagliori verde-olivastri come non avevo mai visto in nessuna creatura vivente” (cfr. il successivo romanzo Il volto verde), un cappuccio rosso in testa ed è addirittura un Samtscheh Mitschebat, “un essere che non è più lecito definire uomo” con illimitati, allarmanti poteri,. Tanto più dopo una scena che mostra l’influsso strano del Dugpa sulla specie di grilli sconosciuta: al comando magico del sacerdote-diavolo, in grado di sciogliere e legare, gli insetti hanno preso a combattere furiosamente e dilaniarsi in modo ripugnante.

 

Non riuscivo a liberarmi da quelle parole: Egli scioglie e lega. A poco a poco esse venivano ad assumere nella mia mente un significato spaventoso e nella mia fantasia quel mucchio di grilli sussultanti si trasformava in milioni di soldati morenti.

Mi mozzava il respiro l’incubo di un senso di responsabilità inspiegabile e mostruoso che era tanto più tormentoso tanto più ne ricercavo invano dentro di me la causa.

 

Lo studioso non torna vivo dal Tibet, mentre si rivela vivo l’esemplare di grillo creduto morto, e chi si appresta a conservare. Invano inseguito dagli studiosi:

 

Scuotendo la testa, il vecchio [Demetrius, il custode] li osservava da dietro la grata della finestra inseguire il grillo con i retini per le farfalle, poi volse lo sguardo verso il cielo serale che imbruniva e mormorò: “Che strane forme assumono le nuvole in questi terribili tempi di guerra! Quella nuvola là ha le sembianze di un uomo, il volto verdastro e il cappuccio rosso, se gli occhi non fossero così distanti avrebbe quasi un aspetto umano. È proprio vero che anche in veneranda età possiamo diventare superstiziosi”.

 

Sempre nel filone delle storielle maliziose con animali, Amadeus Knödelseder, l’incorreggibile avvoltoio degli agnelli (Amadeus Knödlseder, der unverbesserliche Lämmergeier, “Simplicissimus”, 30, 1915) è una favola satirica fino allo sberleffo sui compatrioti bavaresi (ma ce n’è anche per gli italiani).

Racconti insomma nel complesso interessanti, anche se il periodo va soprattutto ricordato come quello di incubazione e presentazione del capolavoro di Meyrink, Der Golem. Il romanzo è apparso serializzato su “Die Weißen Blätter” tra dicembre 1913 e agosto 1914, e dopo vari rifiuti viene edito infine a Lipsia per i tipi Kurt Wolff, 1915. Che la stampa decisa di duemila copie venga realizzata in ventimila per un errore editoriale pare ovviamente una leggenda: ma il risultato è un bestseller che esaurisce le copie in pochi mesi (145.000 copie vendute in due anni) e a oggi continua a essere riedito e ristampato, anche in Italia.

Tradotto in italiano nel 1926 (in due volumi, per i tipi Campitelli di Foligno, dal goriziano Enrico Rocca, amico di Stefan Zweig, sull’onda del successo per la scrittura modernista che – come vedremo – connota l’opera), in ceco, inglese e francese alla fine degli anni Venti, il romanzo presenta la storia di Athanasius Pernath, un restauratore e intagliatore di pietre preziose che vive nel ghetto di Praga. Ma la presenta facendola vivere con uno stratagemma narrativo molto interessante, che già conduce sulle vie sottili dell’interiorità: all’inizio del Novecento un giorno, nella Cattedrale, l’innominato narrante – uno scrittore che legge un libro sulla vita di Siddhartha Gautama prima di andare a letto, virtualmente Meyrink stesso – scambia per errore il suo cappello con quello dell’ormai anziano Pernath, e ne rivive la vita da trent’anni prima, la sua ricerca identitaria nonché la rete di vicende di una serie di persone a lui connesse. Risvegliatosi dopo un inquieto dormiveglia nei panni del quarantenne Pernath, si vede dunque commissionare da un misterioso sconosciuto (il golem?) il restauro di un antico, fatale libro, Ibbur, che gli spalanca le dimensioni dell’interiorità. Accanto a Pernath e idealmente alle sue spalle, come i geni antitetici del male e del bene del Faustus di Marlowe, sono due personaggi del ghetto: il ricco, spiacevole rigattiere Aaron Wassertrum, uomo dell’Ombra e forse assassino – sorta di repellente precipitato di tutti gli stereotipi razzisti antiebraici – fronteggiato dalla sua nemesi e figlio naturale, lo studente di medicina tisico Innozenz Charousek, di cui ha sfruttato sessualmente la madre (il personaggio pare ispirato a Meyrink dallo scacchista ungherese Rudolf Charousek, 1873-1900); e il luminoso, saggio mistico Hillel, impiegato al municipio ebraico, mentore di Pernath sulla via del Talmud e della Cabala, della cui compassionevole figlia Mirjam, la ragazza che crede ai miracoli, il Nostro s’innamora.

Circondato da presenze deliziose (i tre impagabili amici Zwakh – il burattinaio suo padrone di casa –, il pittore Vrieslander e il musicista Prokop) o torbide (la ripugnante prostituta quattordicenne dai capelli rossi Rosina, in apparenza parente di Wassertrum; i gemelli Loisa e Jaromir; l’ambiguo adultero seriale dottor Savioli e la contessa Angelina sua amante…), tra cadute morali e aspirazioni alla luce, Pernath viene accusato falsamente di omicidio e finisce in carcere – come Gustav anni prima. Peccato che durante quel periodo lo sventramento urbanistico del quartiere ebraico e una serie di convulse vicende cancellino il suo mondo e facciano sparire gran parte dei personaggi… Così quando il Nostro viene liberato si mette alla ricerca di Mirjam. La restituzione del cappello alla fine (teniamo presente che Meyrink stesso vede alla luce del passato e della distanza la Praga da cui è partito tanto tempo prima) ha il sapore di un lieto fine e di un riposizionamento spirituale, di un recupero identitario su un piano più alto.

La stile onirico, ellittico e febbricitante – ma anche, a tratti, surrealmente vignettistico e caricaturale, in un legame mai perduto con la produzione breve dell’autore – si collega anche con la genesi editoriale e la forma a puntate della narrazione che deve ogni volta rilanciare sia nel segno del mistico che degli effetti di “presa” sul lettore. Merita ricordare che le illustrazioni inizialmente varate da Alfred Kubin per Il golem (la corrispondenza risale al 1907), a fronte dei ritardi di Gustav, finiranno nel romanzo kubiniano L’altra parte: e in effetti, senza alcuna necessità di denunciare imprestiti tra l’una e l’altra opera, tra l’onirica Praga di Meyrink e la straniante Perla di Kubin emergono interessanti analogie.

A questo quadro sfuggente pertiene la stessa figura del golem: qui non un gigante d’argilla sollevato misticamente dai rabbini a tutela della comunità del ghetto, come nelle leggende, ma una creatura sfuggente, perturbante (emblematico il volto attribuitogli da Hugo Steiner Prag nell’edizione originaria, oggi riprese in quella italiana per Tre Editori, 2015) che vediamo di rado ma pare evocare gestalticamente spirito e psiche collettiva del ghetto – dove appare con regolarità – e dei suoi abitanti, prendendo consistenza dalla sofferenza storica dei medesimi. E che, come un doppio, rispecchia anzi qualcosa dell’anima della singola persona che lo incontra, delle sue ossessioni e angosce. Insomma,

 

La leggenda dell’essere formato da polvere o argilla che prende vita attraverso l’evocazione rituale di una combinazione di lettere per aiutare la comunità nel testo di Meyrink assume da subito sfumature moderniste. […] La rappresentazione del golem, più che essere la figurazione mistica della tradizione, in Meyrink si lega perciò già all’inizio del romanzo a una riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico. [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, “Ticontre. Teoria Testo Traduzione”, 18 (2022)]

 

D’altra parte, così come rende interiore e psicologica la funzione del golem, allo stesso modo Gustav compone un intreccio che – descrizioni d’ambiente a parte – è tutto interiore. Hillel spiega a Pernath che Sapere e Memoria sono identici, trascendendo le polarità di razionale e irrazionale. I momenti di sogno sono sempre più numerosi, il racconto ne viene via via saturato e la coscienza (lo si veda nell’uso stesso dei tempi) viene inghiottita dal subconscio.

Vano dunque porsi il problema dell’oggettività delle esperienze di Pernath e in fondo dell’anonima voce narrante: il tutto si traduce a sogni, visioni, allucinazioni o eventi interiori, trascendenti, che ritmano la vicenda lungo il suo corso. Tra l’altro emerge che Pernath ha avuto in passato un crollo mentale per mal d’amore, ed è stato a lungo ricoverato in manicomio prima di un blocco della memoria indotto dall’ipnosi – ma il tutto resta sfuggente e rimosso, come il suo stesso pregresso giovanile, per riemergere all’incontro con Angelina, oggetto del suo antico sentimento. Da perfetto narratore inaffidabile, guardato con perplessità dagli amici nella sua stabilità mentale, il protagonista sfida così il lettore a capire quanto gli eventi siano reali – almeno su un certo piano – ma, appunto, il problema rischia d’essere malposto.

Freddino sull’insieme, Kafka vedrà in Meyrink e nella Praga del Golem anzitutto la forza di una pittura d’atmosfera: e certo l’ambientazione resta uno straordinario punto di forza dell’opera. A dispetto di ogni banalizzazione turistica odierna sulla Praga “magica”, l’attenzione dei lettori può così focalizzarsi su quello storico quartiere ebraico di Praga che al momento della pubblicazione è ormai completamente ridisegnato.

Il risultato è un enorme successo editoriale. Presentato in modo un tantino forzato: un “sensazionale romanzo poliziesco” sul “Demone di Praga”, che insieme crea suspense e stimola una riflessione etica sui temi dell’anima del destino. Se non manca chi lodi la dimensione filosofica e teosofico-religiosa del romanzo, molti vi vedranno semplicemente un fantastico tout court dalle caratteristiche un tantino cervellotiche, o magari un semplice, per quanto suggestivo, romanzo dell’orrore. Per quanto Meyrink flirti talora con le sirene della Schauerliteratur, con le sue perversioni e le forti tinte tanto vivide nei colleghi Ewers e Strobl, dove “il compiacimento nell’orrore si allea ad una segreta accettazione dell’ordine costituito” (Jean-Jacques Pollet), il suo posto è piuttosto in un altro filone di inquietudine, dove l’espressionismo traduce il turbamento in una visione apocalittica e imposta l’interrogativo identitario nella domanda radicale: “Chi è adesso ‘io’” con cui si chiude il primo capitolo del Golem. Quel che nasce qui è un nuovo tipo di fantastico, prettamente novecentesco. virato sullo sguardo di chi vede piuttosto che sull’oggetto visto.

Altro equivoco, la mancanza di filologicità di Meyrink rispetto alla tradizione sapienziale ebraica: da cui critiche ingenerose e dogmi interpretativi infondati. Scholem, grande studioso di Cabala, pur apprezzando del testo la forte suggestione d’ambiente, criticherà l’uso fantastico fino al grottesco delle idee teologiche ebraiche, le forzature sincretiste nel segno del pensiero indiano e di un certo confuso esoterismo alla Madame Blavatsky: il golem diventa nel romanzo una sorta di ebreo errante, lontanissimo dal profilo della tradizione. Ma se, proprio a Scholem, Meyrink chiederà allegramente di spiegargli alcuni aspetti del romanzo che lui stesso non avrebbe capito bene, sembra di vedervi un ridimensionamento del peso dell’elemento mistico – pur presente – a favore di quello narrativo e psicologico. Non è un caso che, incontrando il golem, i personaggi vi ritrovino qualcosa come una rifrazione oscura di sé, almeno parziale: a rinnovellare col modernismo la grande riflessione letteraria sul doppio.

Tanto più che in realtà inizialmente il titolo generale non faceva affatto riferimento alla figura mitica ebraica, e suonava Der Stein der Tiefe. Ein Guckkasten (La pietra del profondo. Un mondo nuovo) – così il frammento pubblicato sulla rivista di letteratura e arte “Pan” nel 1911 –, con Golem come titolo del quinto capitolo. Il cambio viene suggerito dall’editore: ciò a ridimensionare non la simpatia di Meyrink verso la cultura ebraica ma il peso della medesima nell’economia del romanzo, che – com’è stato osservato – va letto piuttosto nel segno dell’attenzione modernista alla psicologia (la pietra del profondo in questione, che somiglia a un pezzo di grasso, è un oggetto delle ossessioni di Athanasius, e non c’entra con il pensiero cabalistico). Torniamo così alla citata “riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico”. Semmai qualcosa della tradizione ebraica – ma non solo – può emergere nel sottotitolo: il Guckkasten è il mondo nuovo o mondonovo nel senso della macchina ottica anticipatrice del cinema, e nel romanzo si ricorda come Rabbi Löw avrebbe proiettato con una lanterna magica immagini paurose di defunti alla corte di Rodolfo II. Ma ciò finisce con l’evocare anche le ombre del cinema al tempo in evoluzione (inevitabile pensare ai film espressionisti sul golem poi varati con grande successo), e comunque un tipo di visione narrativa a base di giochi d’ombre inseguita in tutto il testo. Come sintetizza Fossaluzza, “Il risultato è una dimensione narrativa in cui sogno e realtà, psicologia e mondo reale si fondono completamente”. E il golem si rivela in fondo una figura umbratile e sfuggente da lanterna magica, oggetto di una “narrazione prolifica” (la leggenda udita invade il racconto): “Né sveglio né dormiente, scivolo in una sorta di sogno in cui ciò che ho vissuto si mescola a ciò che ho letto e sentito”. La coscienza collettiva afferra l’Io, l’Io è un Altro. Ma dunque il golem è insieme anche doppio e revenant (il ritorno del rimosso, il Perturbante): la sua apparizione è un ritorno, conduce alla stanza proibita dove incontrare il Subconscio. La sostituzione dei cappelli non è un semplice artificio buffo, ma rimanda a uno sdoppiamento. E il finale garantirà della fondatezza del sogno, almeno fino a un certo punto: l’imbarazzo del fantastico resta, e l’Io appare in scena – e questo è autenticamente espressionista – attraverso il teatro del mito.

L’equivoco condurrà peraltro alle critiche più stolide, livorose e incarognite al romanzo, quelle da parte dell’estrema destra nazionalista. Sui relativi giornali Meyrink viene accusato di propaganda a favore della “politica e cultura ebraica”: su “Deutsches Volkstum” e nell’opuscolo Gustav Meyrink und seine Freunde, Albert Zimmermann manifesta i suoi sospetti che Meyrink debba essere ebreo, tanto è interessato ai temi ebraici, e avvicina le satire antimilitariste dell’autore agli scritti critici del poeta ebreo tedesco Heine. Per Carl Gross, l’obiettivo principale del Golem sarebbe senz’altro “promuovere la politica e la cultura ebraica”. Invano interverranno a difesa di Gustav l’Associazione degli autori tedeschi e letterati come Heinrich Mann ed Hermann Hesse; e più tardi, alla salita al potere dei nazisti, i libri di Meyrink verranno pubblicamente bruciati come espressioni di “uno spirito non tedesco” (maggio 1933), con la distribuzione delle sue opere vietata. Ma al tempo lui è già morto (4 dicembre 1932), e mentre si avviava alla fine della vita sentiva l’approssimarsene come una grazia.

Mentre l’enfasi squilibrata sugli aspetti esoterici, a detrimento delle altre dimensioni presenti – compresa una che potrebbe definirsi pre-surrealistica – renderà il libro gradito agli estremodestri italiani, il sottomondo del Gruppo di Ur e i loro eredi anche odierni.

 

Su un piano poetologico, la concatenazione di “realtà”, “psicologia” e “magia”, […] non è tuttavia solo lo sfondo tematico del romanzo. “Realismo”, “psicologia” e “magia” sono anche le categorie estetiche su cui esso si fonda. Letto in questo senso, Il Golem non appare più solo come il manifesto letterario delle correnti mistico-esoteriche di quegli anni, ma si rivela essere un romanzo genuinamente modernista. Il Golem è infatti uno dei pochi testi della letteratura di lingua tedesca riconducibile ante litteram alla corrente estetica che nel 1925 il critico d’arte Franz Roh (riferendosi alla pittura) proprio in Germania definirà «realismo magico». [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, cit.]

 

Col che non si intende, come ovvio, che nel Golem la dimensione esoterica manchi, ma che sia stata sopravvalutata in modo deformante a danno di altre, meno rispondenti alla facile chiacchiera e meno facilmente prone a fantasie e ossessioni di alcuni critici predatori e dei relativi bacini di lettori (l’esoterico piace e intruppa sotto labari che conosciamo). Sul tema dovremo comunque tornare.

(3-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 2 https://www.carmillaonline.com/2024/10/26/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-2/ Sat, 26 Oct 2024 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84989 di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Innesti da raccapriccio e mamozzi di cera (racconti 1905-1908)

Abbiamo lasciato Meyrink a Vienna: nel frattempo si è risposato con Philomena Bernt, ma per evitare tre anni di galera in Austria per le sue posizioni antimilitariste si trasferisce con la moglie a Montreaux in Svizzera (1905-1906, dove nasce la figlia Sibylle Felizitas). In qualche modo all’Austria renderà la pariglia rifiutando di considerarsi uno scrittore austriaco: come chiarirà a Korfiz Holm della casa editrice Langen (lettera 2 aprile 1915), Gustav non accorda alcun valore al criterio della nazionalità. Altro schiaffo, in fondo, alle letture [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Innesti da raccapriccio e mamozzi di cera (racconti 1905-1908)

Abbiamo lasciato Meyrink a Vienna: nel frattempo si è risposato con Philomena Bernt, ma per evitare tre anni di galera in Austria per le sue posizioni antimilitariste si trasferisce con la moglie a Montreaux in Svizzera (1905-1906, dove nasce la figlia Sibylle Felizitas). In qualche modo all’Austria renderà la pariglia rifiutando di considerarsi uno scrittore austriaco: come chiarirà a Korfiz Holm della casa editrice Langen (lettera 2 aprile 1915), Gustav non accorda alcun valore al criterio della nazionalità. Altro schiaffo, in fondo, alle letture ultradestrorse dell’autore.

Continua a scrivere racconti, anche se ha in testa l’idea di un romanzo. La sua scrittura si consolida coi connotati che abbiamo imparato a riconoscere – una vena fortemente visionaria, immaginifica: spesso i suoi racconti si reggono su alcune immagini di forte impatto, che fanno pensare alle trovate del futuro espressionismo cinematografico tedesco. Del resto a Praga Gustav era stato amico di artisti (pittori, scultori), a Vienna di Adolf Loos, uno dei pionieri dell’architettura moderna, e di Fritz Wärndorfer, banchiere e mecenate di studi artistici – che l’aveva aiutato economicamente dopo l’uscita di prigione – e le concezioni artistiche di quegli ambienti, per esempio lo Jugendstyl, influiranno la sua scrittura. Importante sarà poi anche la lunga amicizia e la stima per Alfred Kubin, poi richiamato in uno dei suoi racconti. Come spiegherà Gustav stesso nel saggio Immagini nello spazio aereo (Bilder im Luftraum, “Berliner Tagblatt”, 1927) il suo pensiero è costituito principalmente da immagini, e questa caratteristica sarà poi evidentissima anche nei romanzi.

È questa la stagione di alcuni racconti molto noti, a partire dall’inquietante Bal macabre (Bal macabre, “Simplicissimus”, 12, 1905) che in tono grottesco alla Poe evoca un ritrovo in una sorta di locale notturno da fantasia di Otto Dix, il Club Amanita: qualcuno vi affabula di una comunità di soggetti considerati morti ma conservati in stato di catalessi dall’inquietante gobbo Arum Maculatum – il nome di una pianta velenosa – che con un certo procedimento permetterebbe alle loro anime di vagare e darsi ai vizi più corrotti, attaccandosi come zecche ai viventi per causarne la degradazione, e derubando “le masse delle loro sensazioni per arricchirsene esse stesse”. In un clima delirante, i presenti finiscono tutti intossicati: il narrante sembra l’unico a salvarsi, ma sospetta che gli altri siano finiti, solo apparentemente morti, sotto le cure di Arum Maculatum. Il fatto che personaggi e gruppi richiamino al mondo vegetale è di nuovo parallelo alla presenza di vegetali senzienti come quelli di Cinderella o in qualche modo la tossica Mercedes di Lacrime bolognesi.

Seguono un paio di deliziose favole con animali largamente antropomorfizzati (come peraltro spesso nelle favole). Chitrakarna (Tschitrakarna, das vornehme Kamel, “Simplicissimus”, 17, 1905) vede in scena alcuni predatori (Pantera, Leone, Volpe, Corvo) intenti a giocare a carte, domandandosi perplessi il senso di quella moda del bushido – intesa come eleganza cavalleresca – giunta dal Giappone. Arriva tra loro, prima preoccupato e poi sussiegoso, Enrico S. Chitrakarna, il Cammello comme il faut, che dopo aver letto Oscar Wilde importa tra gli animali proprio quella moda: diventa tanto fastidioso che, con la stagione delle piogge a esasperare i carnivori, troveranno un modo molto beneducato di mangiarselo. “Già, Bushido non è proprio roba da cammelli”.

La storia del leone Aligi (Die Geschichte vom Löwen Alois, “Simplicissimus”, 31, 1905) è una fiaba lieve e sottilmente beffarda: in Afghanistan, un leoncino – è il leone asiatico, meno noto dell’africano – rimasto senza madre viene adottato da un branco di pecore. L’incontro con un vecchio leone starebbe per convincerlo della verità, ma “il dottor Simulans, il signor Pastore” lo convince trattarsi di un inganno del Nemico e lo esorta a sposare la pecorella che gli piaceva, Scolastica Ceterum. Segue lieto fine…

Di nuovo agghiacciante, Le piante del dottor Cinderella – o Cenerentola (Die Pflanzen des Doktor Cinderella, “Simplicissimus”, 43, 1905) prende le mosse dall’ossessione per una statuetta egizia in bronzo dissepolta accidentalmente a Tebe, che un vecchio collezionista arabo spiega essere imitazione di un geroglifico a indicare “un ignoto stato d’estasi”. Il narrante è colto dall’intuizione di dover imitare la postura della statuetta: dopo aver provato a lungo finisce in stato catalettico e vive un’esperienza di uscita dal corpo, ma da allora soffre di sempre più frequenti accessi tormentosi di una forma simile alla follia. Ode suoni strani, vede luccicare colori, gli appaiono esseri enigmatici e la sua anima viaggia di continuo nell’oscurità. Come una notte, strappato dal letto da qualcosa che lo spinge nelle tranquille, sinistre stradine della Kleinseite. Lì avverte di essere occhieggiato da qualcuno – dal basso, come farebbe un cane – e poi si scopre a spingere la porta accostata di una misera casa asfittica, dove attraversa un corridoio e scende in cantina come fosse casa sua. Qualcuno è seduto su un gradino, ma con le mani piegate in modo stranissimo, quasi fosse un cadavere; lui riprende a camminare a tentoni e si trova a sfiorare un graticcio per piante rampicanti: tocca anzi “un oggetto tondo della grandezza di una noce, freddo al tatto e che subito si ritrasse”. Ma un balenio di luce plausibilmente dall’esterno gli permette l’orrenda visione del muro completamente “coperto da una rete di tralci di vene turgide di sangue da cui sporgevano, come acini, centinaia di occhi spalancati”. Non spoileriamo oltre sugli orrori della cantina – “Chi poteva essere il diabolico giardiniere che aveva concepito quell’orrenda creatura?” – ma alla fine eccolo portato al commissariato e interrogato per il suo comportamento sospetto. Biascica qualcosa circa “un assassinio in una cantina della Tuschengasse”, ma il commissario gli ribatte che è assurdo, “il dottor Cinderella è un grande studioso, un egittologo e coltiva molte piante nuove che si nutrono di carne”… finché un personaggio con l’aria da ibis d’un dio egizio non appella il protagonista stesso come dottor Cindarella. Tutto ciò tre settimane prima: da allora, a scissione ormai consumata della sua identità, si trova “il volto diviso in due parti differenti e trascin[a] la gamba sinistra”. Ma non ha più trovato quella casa, e al commissariato nessuno sa niente di quella notte.

È a questo punto che Meyrink si trasferisce a Monaco (1906) dove l’anno dopo pubblica la sua terza raccolta e inizia la stesura del Golem. Sta continuando a scrivere racconti, ancora spesso per il “Simplicissimus”. Non è che ne condivida in toto le vedute, in particolare politiche, che in fondo gli interessano fino a un certo punto: del resto, sui suoi obiettivi non ci sono equivoci.

Castroglobina (Schöpsoglobin, “Simplicissimus”, 7, maggio 1906) vede il batteriologo di fama mondiale professor Domiziano Dredrebaisel, che ha appena fatto una scoperta sbalorditiva, convocato dal ministro della Guerra. In realtà di invenzioni in giro ce ne sono varie, compresa quella del capitano di fanteria Gustavo Comodini in tema di parola d’onore, “un codice automatico d’onore per gli ufficiali, ad acqua compressa” che semplifica in chiave meccanica le speculazioni sul tema. Ma dell’invenzione di Dredrebaisel, spedito apposta in Borneo, non si sa nulla. Finché un telegramma non giunge ad annunciare che lo studioso e molti membri della sua spedizione sono stati fatti a pezzi dagli orangutan. Da una lettera a un collega di tale dottor Egon Ipse emerge che questi ha conosciuto l’ex-assistente del morto, che ha anzi cercato invano di piazzarne la scoperta. La sintesi di un vaccino, la Castroglobina, per far montare l’istinto di difendere la patria, e la somministrazione agli oranghi li ha spinti a cercarsi un capo – l’esemplare che in cattività s’era fatto notare per cretineria –, a marciare in cupa estasi, a costringere un renitente ad allinearsi e a ornarsi di carta dorata il sedere. Le offerte del vaccino agli stati europei conducono qualcuno a rifiutare per osservare l’azione degli altri o invece a declinare perché i propri cittadini sarebbero già attestati a quel livello di patriottismo. In attesa di vaccinare un rinoceronte, hanno comunque badato a non correre più rischi con le scimmie ornandosi a loro volta il sede con carta dorata e avendo “cura di sopprimere ogni dimostrazione d’intelligenza”, il che li ha resi molto considerati.

Clima ben diverso è quello di “Buddha è il mio rifugio” (Der Buddha ist meine Zuflucht, “Simplicissimus”, 16, 1906), ispirato alla lunga immersione dell’autore nei filoni del pensiero orientale: lì un vecchio musicista impoverito, abbandonato dalla moglie e privato del figlio da una malattia non curata proprio per la sua povertà viene a conoscere le parole di Buddha sul distacco dagli oggetti d’amore e da ogni tipo di desiderio, pena o gioia. Prima cupo, poi più sereno prende allora a mormorare tra sé “Buddha è il mio rifugio”. Raccoglie anzi i soldi per recarsi nelle terre dell’asceta Gautama, ma a una raccolta di fondi per bambini privi di sostentamento versa tutto quanto ha guadagnato. Visitato dalla visione del Buddha e poi dalla luce della Conoscenza, realizza – lui musicista – che tutto è stato originato dal suono, dal battito nascosto dell’universo a quello del proprio cuore, e finalmente trova la pace. Il racconto, come vedremo, si proietta idealmente nel futuro dell’autore, che proprio in Buddha troverà rifugio ancora nelle ultime sofferenze della vita.

Hilligenlei (Hilligenlei, “Simplicissimus”, 24, 1906) è un’altra parodia farsesca – “Da leggere con i guanti di cotone e con la voce stridula” – di un romanzo del corrucciato Gustav Frenssen (Hilligenlei, 1905).

Il cervello svaporato (Das verdunstete Gehirn, “Simplicissimus”, 33, 1906) parla delle disavventure dell’inventore Hiram Witt, capace di produrre da cellule animali, tramite campo magnetico e rotazione meccanica, dei cervelli umani perfettamente formati. Dopo aver tentato invano di far riconoscere alla scienza le sue scoperte, deve contentarsi di fornire i cervelli (o per meglio dire le cervella) a una trattoria. Dopo una notte di accanite sperimentazioni, riesce infine a produrre un piccolo cervello con un inizio di midollo spinale: il cervello si comporta rispetto a esso come la gravitazione rispetto alla forza centrifuga, e Witt intuisce che dietro tutto ci siano astratte quantità matematiche. Serviva poco, come pure lui ha fatto in una versione aggiornata delle teorie di Frankenstein, produrre un intero corpo da piccole cellule. Una serie di convulsi avvenimenti – prima l’arrivo di un vagabondo e del suo babbuino in uniforme da ufficiale, poi l’irruzione, con alcune guardie e un cannone, di un ufficiale che posa il proprio elmo sul cervello sopra la tavola – precede la bizzarra scoperta che mettendoci l’elmo sopra il cervello sparisce e si muta in una bocca spalancata. Forse effetto, chissà, della punta metallica dell’elmo chiodato…. L’inventore finirà con l’impazzire, intonando l’inno tedesco al manicomio.

Se, com’è stato detto, il grottesco di Meyrink è legato allo scetticismo e alla disperazione, l’ironia all’angoscia, non è però così vero che “la sua satira, politica non lo era affatto” (Gianfranco de Turris). Il modo corrosivo di Meyrink di vedere le istituzioni, la società e quei feticci che una certa politica conservatrice – e diciamo pure di destra – sorreggeva, pur non essendo satira politica nel modo più banalmente inteso, ha direzioni ben precise – inevitabile pensare alle tavole terribili dello spartachista George Grosz contro gli stessi obiettivi – e una forza critica che a Gustav causerà anche qualche problema.

Meyrink sarà per esempio contrario alla prima guerra mondiale, il che lo porterà ad essere denunciato dai nazionalisti tedeschi; il giornalista tedesco “Völkisch” Albert Zimmermann (1873-1933) lo definirà “uno degli oppositori più abili e pericolosi dell’ideale nazionalista tedesco. Influenzerà – e corromperà – migliaia e migliaia di persone, proprio come fece Heine”. E questo riguarda anche i racconti: nel 1916 Des deutschen Spießers Wunderhorn verrà bandito in Austria. Satira non politica?

Per venire a un registro diverso, davanti all’angosciosissimo L’urna di San Gingolph (Die Urne von St. Gingolph, “Simplicissimus”, 42, 1906) verrebbe da pensare che Meyrink conoscesse L’innocente di D’Annunzio (1892, edito in tedesco nel 1896). Ma certo qui la situazione – un sogno angoscioso del narrante, non sappiamo quanto fondato – richiama più il gotico o il romanzo d’appendice, con il terribile coniuge che confermato nella scoperta della colpa della moglie dalle sue stesse manifestazioni di disperazione ai piedi di una croce, chiude il figlio adulterino a morire in un’urna di pietra – e le ne coglie solo vagamente il pianto.

Il segreto del castello di Hathaway (Das Geheimnis des Schlosses Hathaway, “Simplicissimus”, 48, 1906) combina invece il tema del sonnambulismo – poi di grosso successo nell’espressionismo – con un montare di cupezze gotiche che volge infine in beffa sulle grandi famiglie squattrinate. In un dialogo davanti al sonnambulo Ezechiele von Marx, si discute lo strano caso della famiglia dei conti di Hathaway: il giorno in cui ciascuno di loro compie il ventunesimo anno, all’improvviso una melanconia invincibile gli piomba addosso. Lo scozzese che parla ha conosciuto l’attuale erede, Viviano, un giovane pieno di vita e la madre Lady Ethelwyn, afflitta che il marito passi tanto malinconicamente e da solo il suo tempo a caccia sui monti. Ed è lei che narra la storia della stanza segreta – nota solo al conte e al vecchio, sinistro custode – dove il giovane erede dovrebbe restare dodici ore al fatale compleanno per uscirne pallido, distrutto. La dama aveva fatto appendere capi di bucato a ogni finestra e quella che resta senza biancheria doveva corrispondere alla stanza irreperibile. Ma si parlava anche di un ospite invisibile del castello: e una notte di plenilunio la dama aveva visto il custode condurre “in giro segretamente una figura spettrale, scimmiesca, d’una bruttezza raccapricciante che emetteva delle specie di rantoli”. Quando poi si inizia ad avvertire la presenza dell’invisibile ospite si diffonderebbe un’esalazione che un servo aveva avvicinato all’odore di cipolla…

Ma alla fine anche Viviano ha dovuto soccombere alla malinconia. E mentre i presenti s’interrogano sulla natura del problema, il sonnambulo cade in trance e viene posto in comunicazione magnetica (per permettere d’interrogarlo su tali misteri, sulla base delle presunte abilità che a lungo sono state atribuite a sonnambuli e magnetizzati). Eccolo dunque citare un primo nome, che risulta un banchiere di Budapest; poi identifica la creatura scimmiesca come il dottor Max Lederer (in apparenza quello dell’altro racconto), che risulta essere l’avvocato socio del banchiere. E in ultimo spiega che nel luogo fatale gli eredi vengono iniziati ai conti di famiglia…

Nel 1907 Meyrink riceve la cittadinanza bavarese. Lo strappo la suo passato è ormai sempre più netto.

Ne L’automobile (Das Automobil, “Simplicissimus”, 11, 1907) Tarquinus Zimt, divenuto progettista di automobili, di passaggio a Greifswald va a trovare il suo vecchio professore di fisica e matematica, ottusamente ripiegato in conoscenze soltanto teoriche che gli fanno rifiutare le novità della tecnica. La surreale esplosione di tre cilindri dell’auto confermeranno il vecchio arcigno nelle sue posizioni.

Il racconto intitolato Il libro di Giobbe (Das Buch Hiopp : oder wie das Buch Hiob ausgefallen wäre, wenn es Pastor Frenssen und nicht Luther übersetzt hätte, “Simplicissimus”, 22, 1907) è tutto scritto in un tedesco dialettale, e reca il sottotitolo Come sarebbe riuscito il “Libro di Giobbe” se l’avesse tradotto il pastore Frenssen e non Lutero. Si tratta di una divertita parodia del libro biblico, con qualche frecciata al solito razzista Gustav Frenssen e ammiccamenti al mondo contemporaneo.

Anche più nel profondo di una suggestione espressionistica ci conduce il racconto Il baraccone delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett, “Simplicissimus”, 35, 1907): non solo in grazia del film che diciassette anni più tardi il regista tedesco Paul Leni dirigerà, appunto Il gabinetto delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett, stesso titolo con trama differente), 1924, ma per il nesso classicamente espressionistico, prima fiabesco e poi cupamente onirico tra un baraccone, figure-manichini più o meno perturbanti (la narrativa di Meyrink ne sarà piena), il topos del Tiranno e un materiale, la cera, che – come in fondo l’argilla del Golem di altri film del filone, o il gesso del terribile racconto L’albino – permette di plasmare simulacri d’uomo. Nel racconto troviamo di nuovo degli amici preoccupati – il chimico Christian Sebaldus Obereit, Sinclair (forse quello già apparso ne “Il preparato anatomico”) e Melchior Kreuzer chiamato da loro – nonché il terribile persiano Daraschekoh alla terza apparizione, stavolta proprietario di un Panokticum al Baraccone presentato da “Mr. Congo Brown”.

Il colpo d’occhio è inquietante fin dall’ingresso, di fronte al quale una figura femminile di cera muove la testa e ogni tanto si contorce per effetto di un meccanismo elettrico. Scopriamo un’orribile storia pregressa: alla deriva di una malattia mentale, tal Thomas Charnoque tormentava con scenate di gelosia la moglie Lucrezia; era nato loro un figlio, ma Charnoque l’aveva rapito ed era scomparso con lui. Avvistato in compagnia di Daraschekoh – e poi più volte anche del bambino – Charnoque era stato infine trovato impiccato, e i suoi accompagnatori s’erano defilati. era stato plagiato dal persiano? Costui comunque, a detta di Charnoque, sarebbe stato “l’unico essere vivente iniziato agli orribili misteri di una specie d’arte segreta preadamitica, in base alla quale (gli scopi sono incomprensibili) si può decomporre l’uomo in diverse parti viventi”.

Lo spettacolo inizia, e dopo il numero “Fatme, la Perla dell’Oriente” la gente vaga esaminando il materiale in cera, dal turco morente che attraverso un sistema di molle mostra un respiro pesante, agli Obeah Wanga, i teschi magici del Vudù – tre orrende teste umane che potrebbero non essere di cera (i due termini obeah e wanga hanno in realtà un significato assai più complesso nel panorama dei culti sincretisti afroamericani). Gli amici pensano di interrogare l’artista che si è appena esibita, ma ecco c’è un nuovo numero, i gemelli magnetici Vayu e Dhanándschaya di otto anni. Mentre Kreuzer comunica di aver scoperto che “il persiano vive a Parigi sotto altro nome” ed esorta a recarvisi, davanti al pubblico raccapricciato si esibisce cantando una sorta di cadavere d’affogato vestito da paggio, mentalmente ritardato, alto come un adulto a dispetto degli otto anni, con un fagotto in mano: è Vayu e nel fagotto compare Dhanándschaya,

 

una testa grande quanto un pugno con occhi penetranti: un viso attraversato da una rete bluastra di vene, un viso da neonato, eppure un’aria senile con un’espressione così malignamente malvagia e deformata dall’odio, così colma di una viziosità indescrivibile che gli spettatori istintivamente indietreggiarono.

 

Kreuzer sta per svenire e viene portato fuori: il neonato ha il viso di Charnoque buonanima. Kreuzer esorta i due amici a partire per Parigi e far arrestare il persiano.

Si ritroveranno a distanza di tempo, e Kreuzer dovrà dare lunghe spiegazioni. I due non sono riusciti a mettere le mani sul persiano, ma Lucrezia è morta e Congo Brown è scappato di prigione portandosi dietro i propri misteri. Il fatto è che i medici legali non potevano credere a quanto emerso, parlando di mere suggestioni e menzogne. Congo Brown aveva rivelato di aver ricevuto in regalo dal persiano tutto il baraccone delle attrazioni per i suoi precedenti servigi. I gemelli sarebbero “una doppia creatura prodotta artificialmente da un unico bambino”, appunto quello di Charnoque, “preparato” dal persiano otto anni prima con l’uso di “diverse correnti magnetiche che ogni essere umano possiede”, e che si potrebbero separare, scomporre e manipolare con surrogati animali, fino a trarre da un corpo due con coscienze diverse. Anche le teste Obeah Wanga erano state vive per molto tempo; mentre Congo Brown a tratti si immedesimava nel persiano fino a mutare i tratti del volto (lo spunto di una sinistra plasticità di connotati ritornerà ne La notte di Valpurga), irradiando una forza magnetica tale da mietere vittime tra i più piccoli, far perdere i sensi al giudice istruttore che lo interrogava e rivelare nel corpo di Brown un’elasticità senza pari. Anzi il tipo teorizzava che la vita dell’uomo sia composta di diverse correnti magnetiche interne ed esterne, il cui predominare spieghi le diverse caratteristiche psichiche… Comunque i raccapriccianti gemelli sono ora morti: il liquido in cui uno dei due era immerso per parte del giorno si era prosciugato.

Di nuovo a cavallo tra occulto e satira, L’anello di Saturno (Der Saturnring, “Simplicissimus”, 44, 1907) vede un gruppo di discepoli d’un professore, il Maestro, arrivare di soppiatto nel suo osservatorio astronomico. Uno tra loro, più sensibile, nota senza neppure porre l’occhio al telescopio che questo deve puntare verso Saturno, il cui influsso soffocante satura la stanza.

 

Chi – come io faccio da molto tempo – chi vigila la notte coi sensi in agguato, non impara soltanto a sentire il lieve, inafferrabile respiro degli astri, ed a distinguerli; non percepisce soltanto il loro fluttuare, il loro ondeggiare, e come si impadroniscono del nostro cervello con tacita presa annullando i nostri propositi e cacciandone altri al loro posto – e come queste forze maligne, piene d’odio, lottano in silenzio per avere il predominio nel dirigere il vascello della nostra sorte…; egli impara anche, vegliando, a sognare ed a vedere come in certe ore della notte i fantasmi inanimati dei morti corpi celesti si insinuino, avidi di vita, nel regno della realtà, e illudano misteriosamente l’intelligenza per mezzo di strane mimiche esitanti, che destano un vago, indicibile raccapriccio nell’animo nostro…

 

Con i discepoli, preoccupati, c’è il medico alienista Mohini: dovrà osservare di nascosto se il loro Maestro sia impazzito o invece in una condizione di spirito ignota. Gli indicano la grande boccia che due poli metallici alle pareti avvolgono in un campo elettrico (si rammenti la goccia tra due punte d’argento del racconto La goccia di verità), dove il Maestro avrebbe a lungo conservato un’anima umana, affinandone le forze e scoprendo poi che è fuggita… il dottore è perplesso, li sente “parlare dei misteri d’un regno verde, occulto, e di abitanti invisibili d’un mondo violetto”… ma a questo punto si accorgono grazie al telescopio che Saturno ha un nuovo anello.

Arriva però il Maestro, spengono la luce e si nascondono, lo sentono borbottare che l’anello cresce, “ha persino formato dei denti, è spaventoso”. Poi sposta la boccia vicino al telescopio, posa a terra tre oggetti e si inginocchia “prendendo con le braccia e col petti delle posizioni strane, simili a figure geometriche ed a triangoli”, mormorando frasi monotone con singole “vocali strascicate come ululi”. I discepoli comprendono che sta cercando di rimprigionare l’anima sfuggita, se non riuscisse si suiciderebbe. Ha smesso di litaniare.

 

Poi, improvvisamente, un molleggiare a tentoni traverso la stanza, come d’un corpo floscio, invisibile, che sfuggisse in fretta, a corti rapidi salti.

Sul suolo comparvero delle palme di mano violette, luminose; sdrucciolarono incerte, brancolando, di qua e di là, vollero stendersi dalla superficie verso i corpi, e ricaddero senza forza. Degli esseri sbiaditi, fantomatici – resti macabri, senza cervello, di uomini – s’erano staccati dalle pareti, ed erravano in giro, senza senso, senza meta, semicoscienti, con le mosse barcollanti, a strattoni, dei cretini storpi, gonfiando le gote fra risate misteriose da mentecatti – adagio e furtivamente, come se volessero mascherare qualche perfido, inesplicabile progetto – o guardavano con fissità maliziosa in distanza per lanciarsi avanti all’improvviso – fulminei come vipere – di qualche passo.

Senza rumore, cadevano dal soffitto dei corpi vescicosi, si svolgevano e strisciavano in giro: gli orribili ragni bianchi che popolano la sfera dei suicidi, e tessono, dalle croci mutilati, la rete del passato che cresce incessantemente d’ora in ora.

 

Ma mentre spira quest’orrore, l’alienista piomba a terra morto. e la situazione precipita: la sfera si frantuma, “le pareti proiettano ombre fosforescenti. / Sul bordo dell’abbaino e nel vano delle finestre, per un strano processo di putrefazione, la pietra dura si cambia in una massa tumida, come di esangui gengive degenerate, e questa putredine” si allarga velocemente a mura e tetto. Il Maestro balza in piedi, e si pianta in petto un coltello sacrificale. I discepoli accorrono, ma la ferita è mortale: in compenso tutte le stranezze che hanno visto sono scomparse. A quel punto il Maestro morente prende a confortarli: ancora un istante, e tutto sarebbe divenuto putredine, mentre le tracce di bruciato a terra sono state lasciate dagli abitanti dell’abisso che hanno tentato di afferrare la sua anima. L’intervento dei discepoli ha spezzato il fenomeno,

 

“Poiché tutto ciò che è ‘durevole’ sulla terra, come dicono gli stolti, prima è stato fantasma – fantasma visibile o invisibile – e non è altro che fantasma ‘immobilizzato’.

“Perciò qualunque cosa, il Bello o l’Odioso, il Sublime, il Bene o il Male, la Serenità con la morte nascosta in cuore, o la Tristezza con la serenità nascosta in cuore, tutto conserva sempre qualcosa del fantasma.

“Se anche pochi nel mondo sentono il lato fantomatico, pure esso c’è, continuo ed eterno.

 

Per acquistare una più alta sapienza ed esaminare un’anima, il Maestro ha cercato un essere umano da sacrificare – ma ne cercava, bontà sua, uno “proprio inutile sulla terra”. Dopo aver indagato tra avvocati, medici e militari, aveva quasi afferrato un professore di liceo ma alla fine si risolveva a lasciar perdere. Finché non ha messo a fuoco l’esistenza di un’intera categoria che soddisferebbe la sua ricerca, “Le beghine!”. Ne ha tenuta d’occhio tutta una serie:

 

le ho viste continuamente “rendersi utili”, tenere riunioni “per il progresso dei domestici”, fare delle orribili calze calde per i poveri bimbi negri che si godono la divina nudità, distribuire regole di buona condotta e guanti di cotone protestante; e molestarci, noi povera travagliata umanità: su via, raccogliete pezzi di stagnola, sugheri vecchi, ritagli di carta, chiodo storti e altre porcherie, perché “niente vada perduto”!

Ma quando le vidi disporsi a procreare nuove società di missionari, e ad assottigliare, con lo spurgo di delucidazioni “morali” i misteri dei Sacri Libri, allora la coppa della mia collera fu colma.

 

Sta per sacrificarne una, “una bestiola ‘tedesca’ d’un biondo stoppa”, ma desiste quando si accorge che è incinta. Così “una seconda, una decima, una millesima”, tutte incinte. Finché non ne becca una che ha appena partorito, “una lepretta sassone coi capelli lisci e spartiti e degli occhi azzurri da oca”: la tiene imprigionata nove mesi per scrupolo, e quella riesce a scrivere di nascosto un grosso volume Parole del cuore come dote per le fanciulle tedesche al loro entrare nel numero delle persone adulte… che lui brucia subito. Separata poi l’anima dal corpo e isolatala nella boccia, un giorno sente “un odore indistinto di latte di capra andato a male” e capisce che l’anima è fuggita: cerca allora di recuperarla coi più “potenti mezzi d’attrazione”, piazzando alla finestra “un paio di mutandine di fustagno rosa (marca di fabbrica ‘Lama’), un raschiaschiena d’avorio, persino un album da poesie in velluto azzurro con borchie dorate”, invano.

 

Ora, essa vive libera nell’universo, e insegna agli ingenui spiriti planetari l’arte infernale dei lavorini donneschi.

E oggi persino attorno a Saturno… essa ha fatto un nuovo anello all’uncinetto!!!

 

Realizza così che se sull’essenza di una beghina agisce uno stimolo, lei lavora all’uncinetto, se lo stimolo non c’è si moltiplica soltanto. Poi il Maestro si spegne. Come spiega un discepolo: “Egli è entrato nel regno della pace; sia l’anima sua eternamente beata!”. Dove attenzione, in questione in questa feroce satira impastata di fantastico allucinatorio non è tanto l’umanitarismo contro cui si scaglia Evola, ma un certo moralismo borghese, che svilisce la spiritualità ad asfittici discorsi moraleggianti e buonistici. Per Meyrink una certa mania religiosa è del resto un fenomeno parallelo al materialismo, sorta di Scilla e Cariddi.

Sapienza del bramino (Die Weisheit des Brahmanen, “Simplicissimus”, 48, 1907) è un’esilarante parodia, condotta con un ritmo cantilenante fintoindiano a base di continue ripetizioni, dei racconti sapienziali dell’oriente. Quale il significato del lugubre grido che echeggia e terrorizza tutti, e si suppone vada attribuito a una temuta effigie del demone Madhu? Gli eremiti attendono di rivolgere la domanda agli Swami, i santi pellegrini, attesi per celebrare la festa del Bala Gopala; ma quando questi arrivano – quattro Swami “senza gioia, senza pena, che hanno respinto da sé i pesi dell’emozione” – tre di loro si rivolgono al “quarto, vecchissimo, della casta dei Brahamini, del quale nessuno sapeva più il nome. Della casta dei Brahamini, del quale nessuno sapeva più il nome”. A più riprese gli pongono la domanda su chi stia urlando, finché lui spiega che non si tratta del demone, ma di un “penitente, cui manca la conoscenza. Cui manca la conoscenza”. Passa un anno, ma il grido continua senza interruzione e dunque si chiede al sapiente Brahmino di intervenire. Lui allora parte, viaggia fino a trovare il penitente urlante, la cui mano “stringeva spasmodicamente una pesante palla di ferro irta di punte, e quanto più le dita la stringevano, tanto più profonde penetravano nella carne le punte. Nella carne le punte”. Il Brahmino si ferma lì per cinque giorni, con l’altro che continua il suo ululato. E finalmente, chiedendogli scusa con un piccolo colpo discreto di tosse, il Brahmino gli domanda cosa lo spinga “a dare al suo dolore uno sfogo incessante?… ehm, a dargli uno sfogo incessante?”. Il penitente indica la palla di ferro, allora il sapiente si immerge in una riflessione lunghissima, attraverso i Veda, poi sempre più profonda – intanto viene l’autunno. E la salamandra spiega alla forbicina e a sua moglie che lo conosce, quel maestro tanto sapiente, nel centro della terra ha letto il suo “certificato di vaccinazione, tutto ingiallito” ed è vecchissimo… poi la salamandra si mangia i due piccoli interlocutori. Ma il sapiente si è riscosso ed esorta l’asceta “La… la… lasci andare la palla, Signore!”, quella rotola via e il dolore finisce. “Juch-hu, gridò il penitente, alla tirolese, e tutto contento, diritto e libero dal tormento si allontanò a salti. Si allontanò a salti”.

Ma Meyrink continua a scrivere su varie testate: e i suoi Orienti paradossali vengono per esempio richiamati su due numeri di “März”, un mensile letterario con cui collaborerà fino al 1908, in Fachiri (Fakire, “März”, 1907) e Il percorso dei fachiri (Fakirpfade, “März”, 1907).

Nel segno dell’orrido, si dipana invece  L’albino (Der Albino, prima pubblicazione invece nella raccolta Das Wachsfigurenkabinett, 35, 1907): nella sede di un Ordine esoterico – una massoneria di frangia? – nell’attesa di celebrare festosamente alla mezzanotte i cent’anni dalla fondazione, il Gran Maestro Ariost vive i propri rovelli: l’Ordine è in declino, i confratelli commentano ironicamente la cosa ma Ariost soffre. A gravare sul tutto è anche un’oscura profezia sulla terribile punizione di chi aprirà l’ultima reliquia dell’Ordine, la Lettera sigillata di Praga, prima che l’ora sia compiuta: “Il suo volto sarà inghiottito dalle tenebre da cui non si libererà più […] cancellato dal mondo dei contorni […], simile al gheriglio nella noce”. A confortare il vecchio è il giovane Corvinus, fidanzato con sua figlia, che poi si allontana con gli altri giovani per farsi fare una maschera di gesso – per una burla, dice – da uno strambo scultore albino che lavora solo la notte, lo straniero Iranak-Essak.

Trovatosi solo con gli altri vecchi, Ariost confida allora un suo vecchio peccato: trent’anni prima Gran Maestro era il dottor Kassekanari, un nero di Trinidad, mentre lui era il suo primo Arcicensore. Ariost aveva tradito il superiore assieme alla di lui moglie Beatrice, e uno dei figli di Kassekanari, Pasqual, era in realtà figlio suo. Scoperta l’infedeltà della moglie, Kassekanari aveva lasciato Praga assieme ai due figli, meditando una tenebrosa vendetta e lasciando sprofondare nella follia la bellissima Beatrice. Kassekanari  aveva poi inviato ad Ariost una lettera in cui si diceva convinto che, dei due figli, fosse suo il più piccolo Pasqual, e che invece Manuel fosse figlio di Ariost – che inizialmente è sollevato. Salvo inorridire quando prendono ad arrivargli resoconti e foto di terribili “esperimenti fisiologici e di vivisezione” a carico del piccolo Manuel, non figlio del dottore come Ariost aveva tacitamente ammesso. Tormentato da orrore, sensi di colpa e sordido sollievo che così il dottore si accanisse contro il proprio figlio, Ariost non si suicida solo per la speranza di liberare un giorno la vittima. Gli esperimenti – proseguiti fino alla morte di Kassekanari  – comprendono “trasfusioni con il sangue di animali bianchi degenerati, di quelli che schivano la luce del giorno”, a sbiancare la pelle nera, ed estirpazioni di particelle di cervello fino a rendere il paziente un “essere spiritualmente morto”.

Alla fine le disperate ricerche di Ariost lo portano a rintracciare il figlio, che però si fa chiamare Emanuel Kassekanari – non era Pasqual? sostiene di non essersi mai chiamato così – cioè il giovane Corvinus. Col risultato che da allora perseguita Ariost il dubbio che la vittima degli esperimenti sia stato Pasqual e non Manuel… ed emerge il sospetto che gli esprimenti con gli animali bianchi possano aver condotto all’albinismo. Quello magari dello scultore Iranak-Essak…

Intanto Corvinus e i suoi compagni sono andati da Beatrice, si fanno passare per burla la famosa Lettera sigillata di Praga di cui poi fantasticherebbero gli effetti con gli anziani, e con la ragazza si recano dallo scultore , “che aveva fatto una preziosa invenzione, una maschera di gesso che all’aria diventava immediatamente dura e indistruttibile come granito”. Arrivano infine a una casa tra viuzze storte e palazzi in rovina ed entrano nella tenebra assoluta di una dimora labirintica. Beatrice ha paura, e non migliora la situazione la voce atona, sinistra di Pasqual Iranak-Essak. Comunque Corvinus scompare dietro una porta, e gli amici spiegano alla ragazza come si prepari un maschera, con cannucce per bocca e narici che fuoriescono dal gesso. Solo pochi minuti, li informa come da lontano l’albino con un tono tanto spiacevole e sinistro da lasciarli paralizzati: ma si rendono conto che ha citato il giovane con il suo nome massonico, Corvinus, che non potrebbe conoscere. E in quel momento echeggia una violenta scossa come per la caduta di un enorme peso, che fa precipitare calchi di gesso e maschere mortuarie appese alle pareti; quindi gran fracasso di porte abbattute, qualcuno che corre – e da uno squarcio nella stoffa alla parete spunta una figura con la testa coperta di gesso, “il corpo e le spalle trattenuti da sbarre e da assicelle incrociate”. Gli amici riescono a farlo entrare, è Corvinus, agonizzante per il soffocamento – l’albino (nel frattempo dileguatosi) ha tolto le cannucce e coperto di gesso la bocca: i giovani tentano invano di spezzare quella materia pietrificata. Corvinus muore soffocato e Beatrice si dispera. Nell’impossibilità di sfondare quella ricopertura, la vittima della vendetta che rimonta alla generazione prima finirà sepolta – come diceva la profezia – con “il volto invisibile e racchiuso, / simile al gheriglio nella noce”.

Dell’anno dopo è A cosa serve la merda di cane bianca? (Wozu dient eigentlich weißer Hundedreck?, “Simplicissimus”, 15, 1908), ancora uno scherzo surreale. Febbre (Das Fieber, “Simplicissimus”, 44, 1908), dai toni nuovamente concitati e surreali, è coronato da un incipit alchemico. Parte in modo vagamente fiabesco, “C’era una volta un uomo che odiava talmente il mondo che decise di non levarsi più dal letto”: ma finirà con l’alzarsi per inseguire nella città un sembiante di ala di corvo visibile in cielo. Dialogherà di temi esistenziali con un corvo nero e con uno bianco (qui la simbolica alchemica è ben avvertibile), prenderà coscienza della propria avidità, e poi, tornato a letto, si vedrà prescrivere da un medico un farmaco antifebbre. Il cinghiale Veronika (Das Wildschwein Veronika, “Simplicissimus”, 52, 1908), porta invece in scena il successo artistico di una scrofa, in spirito ancora una volta beffardo.

E ancora, L’assalto a Sarajevo (Die Erstürmung von Sarajewo, “März”, 1908) è un sarcastico racconto su una fantomatica guerra nei Balcani: ovviamente Meyrink non può sapere che pochi anni dopo proprio Sarajevo vedrà accendersi la Grande Guerra. Come al solito, oggetto di frecciate parodistiche sono i militari, come quello che conclude ineffabile:

 

Da parte mia, non vorrei per nulla al mondo perdere il ricordo del periodo trascorso durante la guerra. Quando penso a me stesso in questo modo e mi accarezzo i baffi marziali, mi sento sempre così speciale, non puoi davvero esprimerlo a parole. – Sei semplicemente qualcuno, e se un capo dei vigili del fuoco o qualcosa del genere ti incontra da lontano e vede la decorazione più alta, ti farà un forte saluto o ti dirà “Attenti!”. E se calpesti l’erba in un luogo pubblico o qualcosa del genere, nessuno osa dire nulla. No, e soprattutto i vermi!

 

(2-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 1 https://www.carmillaonline.com/2024/10/19/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-1/ Sat, 19 Oct 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84933 di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o [...]]]> di Franco Pezzini

Tra le spire dell’orchidea (racconti 1901-1904)  

Mentre scrivo, ho davanti una foto di Meyrink ormai anziano: il cranio lucido, gli occhi grandi, febbrili di visioni, i baffi curati nel viso ben sbarbato. Porta un cravattino a farfalla su una giacca di tessuto spesso. Un uomo della Mitteleuropa, un mistico dalla presenza carismatica, una persona perbene, dagli interessi certamente curiosi ma neppure troppo considerando l’epoca.

In Italia ha fatto il possibile per lottizzarlo l’estrema destra evoliana, con cui in realtà Gustav Meyrink ha ben poco a che vedere. Per lui l’esoterismo non è ricerca di poteri (interiori/psichici o esteriori/politici), che miri a influire sulla storia e sulla politica, come teorizzato loscamente dal nostrano Gruppo di Ur di Evola & soci, che a suo tempo propone Meyrink in traduzione italiana per la prima volta. Una di quelle scoperte che sarebbe stato meglio rimandare in attesa di promotori migliori: commovente il sussiego con cui in certe realtà si enfatizzi il tema della lotta (anche di Meyrink) contro i materialismi cattivi, da parte di persone e gruppi crociati dello spirito che però mirano a risultati di potere grettamente materiali e materialistici. Come peraltro i loro eredi ultradestri, tra lottizzazioni di spazi e giochi di poltrone, che con lo spirito c’azzeccano poco. Al contrario l’esoterismo, per Meyrink, è essenzialmente linguaggio congruo a una crescita interiore: niente insomma di facilmente arruolabile sotto i labari di una rivoluzione conservatrice che troppo spesso simpatizza proprio coi mondi poliziotteschi-militari da lui disprezzati con vigore.

Anzirazzista e anzi affascinato dalla cultura ebraica (cui pure non appartenne per lignaggio, come spesso si crederà in grazia del nome di sua madre, la bella attrice Maria Wilhelmina Adelaïde Meyer, destinata a divenire una delle interpreti tragiche favorite da Ludwig II di Baviera) in anni di antisemitismo acceso, nemico di ogni tentazione totalitaristica in un mondo germanico in cui incubava il totalitarismo di destra, antimilitarista in un momento in cui le sirene di nazionalismo aggressivo, militarismo e libido da uniforme connotano non solo l’estrema destra militante ma la borghesia industriale e finanziaria con cui essa flirta e la “pancia” popolare che vi garantisce assenso nella ricerca di capri espiatori delle proprie frustrazioni, Meyrink (1868-1932) va collocato nel suo tempo anzitutto per le forme (pre)espressioniste che offre alle narrazioni. Il grottesco, l’onirico, l’orrido sono chiavi di una sensibilità che troverà epifania collettiva nell’arte di Weimar, ma già in lui mostra i primi frutti.

Figlio illegittimo di un ministro del Württemberg, il barone Karl von Varnbüler und zu Hemmingen, e dunque cognominato Meyer come la giovane madre, Gustav nasce protestante nella cattolica Vienna – probabilmente perché la sorella maggiore, Dustmann-Meyer, nata nel 1841, era cantante presso il Vienna Court Opera fin dal 1857. Certo, la sorella si muove nel mondo scintillante dello spettacolo, ma la Vienna del tempo non si esaurisce in quella stereotipa dell’Opera e dei valzer di Capodanno, delle serate al Grinzing o delle fantasie alla Sissi – La giovane imperatrice: il paese, coinvolto in tensioni internazionali su vari fronti ma con un’identità sempre più divorata dal vicino tedesco, esperisce dimensioni di tristezza e inquietudine, soffocato com’è – come rilevano per esempio osservatori britannici – da una greve burocrazia, dall’ingombrante presenza dell’esercito e da un moralismo che trova ideale contrappunto nell’eros convulsivo di bordelli e parafilie. Quello in particolare repertoriato da Richard von Krafft-Ebing nel suo enorme affresco idealmente dalle stelle alle stalle dell’impero… Quanto tutto ciò influisca sulla produzione di colui che dopo Hoffmann e Paul Scheerbart resterà il terzo grande autore di romanzi fantastici di lingua tedesca possiamo solo immaginare, ma certo è un’eredità che arriverà in forma frenetica alle fantasie di Weimar.

Fino a tredici anni Gustav vive a Monaco, vi completa gli studi elementari, quindi passa per un paio d’anni ad Amburgo con la nonna materna e infine si trasferisce con la madre a Praga (1883), dove studia in una scuola commerciale, per poi iniziare a lavorare da impiegato in una ditta di esportazioni. È la città in cui vivrà vent’anni, fino al 1904 (ma non seguirà a San Pietroburgo la madre, peraltro indifferente a lui): la città a cui il suo nome rimarrà associato, di cui parlerà continuamente con pagine bellissime, e non è inopportuno ricordare che Kafka (del 1883, quindici anni in meno) nasce a Praga nello stesso anno in cui Gustav vi trasloca. Ma con Praga (e con la stessa Monaco) Meyrink intrattiene sentimenti di amore & odio ben più complessi di quanto suggerisca la facile cartolina da “Praga magica” che si troverà appioppato con la fama popolare sulla città rudolfina.

Nel 1889, assieme al nipote del poeta Christian Morgenstern tenta anche l’avventura nel campo finanziario diventando titolare del Primo ufficio del cambio cristiano Meyer und Morgenstern, una piccola banca aperta in Piazza San Venceslao nel 1889 con un capitale lasciatogli dal padre e svincolato alla maggiore età. Depresso, come vedremo, in questi anni tenta il suicidio. Nel 1892 si sposa una prima volta, con Hedwig Aloysia Certl, ma anche se il matrimonio sarà disastroso lei acconsentirà al divorzio solo nel 1905, quando poi lui si risposerà (in Inghilterra, per non creare scandali) con Philomena Bernt, figlia di un banchiere e cugina di Rilke. Dal 1895 prende a far parte dell’Associazione degli artisti visivi tedeschi in Boemia, assieme, tra gli altri, allo stesso Rilke, a Emil Orlik, Oskar Wiener e Hugo Steiner: su questa dimensione in lui della visione e dell’immagine dovremo tornare. E finalmente nel 1901, prende a scrivere e pubblica il suo primo racconto sulla rivista “Simplicissimus”.

Tra vita privata, frecciate narrative e attività finanziaria pesta qualche piede, guadagnandosi l’ostilità di burocrati di pochi scrupoli che gliela giurano; inizia a soffrire (1900) di diabete e tubercolosi al midollo spinale, e viene ricoverato in sanatorio per un periodo (1901). Nel 1902, attaccato su tutti i fronti – dal corpo al lavoro –, vittima di una campagna delatoria orchestrata a base di falsità, arriva a sfidare a duello l’intero corpo degli ufficiali di un reggimento praghese, ma deve chiudere la banca, i cui conti pure sarebbero a posto, e viene imputato ingiustamente per frode. Passerà due mesi e mezzo in prigione prima dell’assoluzione (dell’esperienza offre conto il suo romanzo più celebre, Il Golem, 1913-14), ma la carriera finanziaria è stroncata e tenterà invano di essere riabilitato. La salute sta cedendo, e si riprende con la pratica accanita dello yoga. Però – come dice il proverbio – quando si chiude una porta, si apre un portone, e proprio la scrittura ne sarà lo strumento. Nel 1903 esce la sua prima raccolta di racconti, Der heiße Soldat und andere Geschichten, con satire al vetriolo, tratte dai racconti pubblicati su rivista.

Fino al 1891, ammetterà lui stesso, è stato un uomo senza qualità con soltanto tre interessi nella vita, cioè donne, scacchi e canottaggio. L’esperienza negli affari non sembra offrirgli esistenzialmente nulla: e nonostante alcuni aspetti della sua vita giovanile facciano pensare a quella di un connazionale che nella Trieste asburgica cercherà soluzioni nella psicanalisi come poi Gustav nell’esoterismo, lo Zeno Cosini del quasi coetaneo Svevo (sei anni di più, nato nel dicembre 1861 e Gustav è del gennaio 1868), il tentato suicidio che per il cognato di Zeno termina goffamente in tragedia avrà esito diverso per Gustav. Afflitto da taedium vitae e da ripetuti fallimenti sentimentali, probabilmente oppresso dalla pessima avventura finanziaria, un giorno d’estate 1891, il Nostro banchiere ventiquattrenne è in piedi accanto al tavolo e sta per farsi saltare le cervella, quando all’improvviso un commesso di libreria gli fa scivolare sotto la porta un opuscoletto con il titolo L’Aldilà. Racconterà: “Presi il fascicolo e cominciai a sfogliarlo. Contenuto: spiritismo, occultismo, stregoneria” – tutti temi di cui ha sentito parlare. Jung non ha ancora elaborato la categoria della sincronicità, ma quella coincidenza fatale intriga il giovane che abbassa la pistola, la chiude nel cassetto e inizia a occuparsi di occulto. Cioè teosofia, Kabbalah, misticismi d’Oriente, la sofiologia di qualche successo nella Russia coeva… tutti temi che torneranno nei suoi romanzi.

Prende a sperimentare alcune droghe (in particolare l’hashish, le relative allucinazioni lo interesseranno molto) e a praticare appunto lo yoga; partecipa con Karl Weinfurter alla costituzione della Loggia Zum blau Stern (Allo stella blu) e aderisce a vari ordini esoterici. Ha qualche contatto con la teosofa e socialista Annie Besant (1847-1933), si interessa al lavoro di un esperto di tradizioni esoteriche, il viennese Fritz Eckstein (1861-1939), e intraprende gli studi mistici con l’occultista rosicruciano e medium Alois Mailänder (1843-1905), frequentando anche i giri spiritisti: per esempio, come Thomas Mann, partecipa agli incontri con il medium austriaco Willi Schneider, organizzati dal barone Albert von Schrenck-Notzing a Monaco – ecco di nuovo Zeno, con le sedute spiritiche tanto divertitamente descritte da Svevo… – ma come molti cultori di un esoterismo profondo resta deluso dalla superficialità e dalla poca affidabilità degli interlocutori attorno al tavolino, contribuendo anche a smascherare falsi medium. La sua è un’ansia genuina di sapere, che gli fa approfondire una serie di temi e tecniche, anche se i suoi esperimenti di occultismo e discipline mistiche proseguiranno – si è detto – a tentoni. Per mesi mangia solo legumi, assorbe due volte al giorno gomma arabica diluita nella minestra, dorme solo tre ore per notte e pratica pericolosi asana che gli fanno rischiare la morte per soffocamento. Tentato più volte di mollare, prosegue con cocciutaggine e ha anche esperienze di veggenza. Diventa così il Meyrink “ciarlatano mistico” di cui parlerà con divertita sufficienza Angelo Maria Ripellino, giudizio che però non gli rende giustizia: negli scritti di Meyrink, al di là del linguaggio esoterico, c’è molta più interiorità e profondità umana di quanto gli enfatizzatori del magico saranno pronti a riconoscergli. D’altronde, critico tagliente, Meyrink lo è pure sugli ambienti dell’esoterismo: non solo quelli di fanatici e truffatori, ma la teosofia – che considera religiosità di gente di scarsa cultura – e il pensiero di Rudolf Steiner (1861-1925), che pure mostra rispetto per lui, cui rivolgerà qualche frecciata.

È comunque l’occultismo che gli offrirà la fama come narratore, permettendo al dandy di mutare in asceta e scoprire una genuina, febbricitante dimensione visionaria della scrittura: e assume lo pseudonimo Meyrink. Ci si attenderebbe anzi che prendesse a scrivere subito di esoterismo: e invece il primo frutto di quella alchimia interiore sono racconti, talora angosciosi ma più spesso grotteschi, di critica sociale, precipitato delle sue delusioni e del suo disgusto. Diventa così una delle firme più apprezzate della rivista umoristica viennese “Der liebe Augustin” e soprattutto del “Simplicissimus” di Monaco, la più importante rivista satirica tedesca (con una lunga storia, fondata nel 1896, sospesa 1944-54 per poi trovare la fine nel 1967 – nel complesso relativamente moderata). E va detto che le sue relazioni con i circoli rosicruciani sembrano allentarsi fin dall’epoca dei primi testi editi sul “Simplicissimus”.

L’esperienza in carcere, ma forse più ancora l’esperienza umana del mondo triste da cui ha cercato di smarcarsi e le brutture ideologiche che ha visto suppurare offrono materia ai suoi racconti in tanti casi sferzanti. Obiettivi la Germania prussificata e un’Austria-Ungheria che ha perso la propria identità, e vivacchia all’ombra del potente vicino; una borghesia filistea e ottusa; il militarismo dilagante. L’atteggiamento nazionalistico della borghesia tedesca lo spinge dalla parte dei cechi, la cui critica letteraria non gli lesinerà tuttavia freddezze, accusandolo di falsificare la vita praghese – in effetti non gli interessa affatto descrivere storicamente le tensioni tra comunità tedesca e ceca. La sua è una Praga visionaria e fantastica.

Le sue prime storie sono racconti appunto apparsi sul Simplicissimus, e più tardi raccolti in quattro volumi: Der heiße Soldat und andere Geschichten (Monaco 1903, dieci racconti), Orchideen. Sonderbare Geschichten (Monaco 1904, diciannove racconti), Gustav Meyrinks Wachsfigurenkabinett. Sonderbare Geschichten (Monaco 1908, quindici racconti), Jörn Uhl und Hilligenlei (1908, dove parodizza opere dello scrittore razzista Gustav Frenssen, 1863-1945, poi accanito nazista). In seguito li riunirà, assieme ad altri lavori critici sulla borghesia tedesca, in Des deutschen Spiessers Wunderhorn (Monaco, 1913, tre voll., cinquantatré storie). Interessante notare come da racconti inizialmente semplici, basati su una pungente provocazione in cauda, Meyrink costruisca macchine narrative via via sempre più sofisticate.

Sappiamo che Gustav ama il mondo dei caffè, e Max Brod lo ricorderà come la figura centrale (assieme a Gustav Kauder) del gruppo al Caffè Continental, dove si gioca a scacchi e si discute di temi sociali e letterari. Il lavoro “praghese” di Meyrink si collega idealmente al gruppo neoromantico della Giovane Praga (Viktor Hadwiger, Paul Leppin, Richard Teschner, Oskar Wiener) con alcune tangenze stilistiche e ideali. Precede dunque quello dei due gruppi che Max Brod chiamerà il grande e il piccolo circolo di Praga (nati rispettivamente a partire dal 1883 o decisamente più giovani): nel primo figurano Kafka, Felix Weltsch, Oskar Baum, Ludwig Winder che pubblicano a partire dal 1904, nel secondo Franz Werfel, Willy Haas e iniziano a pubblicare quando Gustav ha ormai da tempo lasciato Praga. Da Paul Leppin sappiamo che Gustav, poco prima dello scandalo che lo travolge, esprime davanti agli amici l’intenzione di scrivere un libro. Lo guardano incuriositi.

Se i primi tentativi letterari noti dell’autore risalgono al 1897 (lo studio psicologico Tiefseefische, forse L’albergo delle tre colonne), il primo racconto edito è Il soldato bollente (Der heiße Soldat, “Simplicissimus”, 29, 1901), che sbeffeggia insieme medicina positivistica e mondo militare: in Indocina, in seguito al trattamento di un fachiro, un soldato boemo della Legione Straniera presenta – senza morire – una temperatura corporea così assurdamente alta da spingere i sacerdoti del tempio locale a cuocere il pollo su di lui, e i medici a prodursi in impagabili, spocchiose dichiarazioni.

Izzi Pizzi (Izzi Pizzi, “Simplicissimus”, 5, 1902) è il divertente racconto della tentata seduzione di una chansonette da parte di un perdigiorno. Decisamente più originale, grottesco e divertitamente paradossale, La morte viola (Der violette Tod, “Simplicissimus”, 8, 1902) vede dilagare nel mondo fino al remoto 1950 – anni in effetti di fantascienza scatenata – i paradossali effetti di una magia tibetana, scatenata per effetto dell’impresa di un ardimentoso inglese: al risuonare di una certa parola, non importa se pronunciata senza intenzione, la gente che ascolta si trasforma all’improvviso in forme geometriche solide di muco gelatinoso viola. Iniziamo a capire perché i contemporanei di Meyrink non lo vedano tanto come autore del fantastico, quanto del grottesco.

Tutt’altro è il clima di Terrore (Der Schrecken, “Simplicissimus”, 12, 1902 – lo stesso anno della detenzione per frode), che della claustrofobia del carcere esprime tutto l’orrore. Gran parte dei detenuti sono malati di scorbuto, uno reo di omicidio dovrà essere impiccato (la suggestione tornerà nel Golem) e in seguito al suo sconvolto accesso d’ira è stato legato con cinghie su una panca – “E gli hanno messo addosso un crocifisso!”. In quella situazione da incubo espressionista, il Terrore si presenta incarnato nella forma di una spettrale, gigantesca sanguisuga emersa da una cassapanca per succhiare sangue ai prigionieri, compreso il condannato. Che ha ormai messo distanza dal proprio crimine, non ucciderebbe più – o almeno non la vittima, forse invece il cappellano… salvo svegliarsi la notte e prendere a gridare. Mentre nel cielo, lettere uncinate di nubi in disfacimento sembrano esortare a non giudicare per non essere giudicati.

I toni sono molto vari. Alla satira “Si fa – si fa – principessa” (“Thut sich – macht sich – Prinzeß”, “Simplicissimus”, 18, 1902), con due borghesi in treno che mostrano la loro vuotezza e ipocrisia tra frasi senza senso, estasi culinarie e senso indebito di superiorità morale, segue per esempio lo straziante Tutta la vita è dolore ardente (Das ganze Sein ist flammend Leid, “Simplicissimus”, 24, 1902). Che parte di nuovo da un carcere dove Jürgen, un poveraccio detenuto per otto mesi prima d’essere assolto per mancanza di prove, avvia una triste vita come commerciante di uccellini – nel frattempo è diventato zoppo, gli è stato amputato un piede congelatosi dormendo su una panchina al parco. Ma uno studente ha dimenticato al suo negozio un libro recante una traduzione dall’indiano sul tema della vita come dolore ardente e la spinta alla purificazione: Jürgen pensa allora agli uccellini delle sue gabbie, ed è colto da un tale dolore da trovarsi le lacrime agli occhi. Quando una supponente dama arriva a consegnargli alcuni usignoli per farglieli accecare (“Sì, accecarli… estrargli gli occhi o bruciarli, non so come si faccia. Lei come commerciante di uccelli deve saperlo”), Jürgen non va a dormire e prende una decisione: porta le gabbie sulla Piazza del Mercato, libera i volatili, torna al negozio e si impicca.

Acido di Bock (Bocksäure, “Simplicissimus”, 32, 1902) narra di disinvolte e buffe gesta enologiche in un monastero di Malaga. Più interessante, Petrolio! Petrolio! (Petroleum, Petroleum, “Simplicissimus”, 35, 1902) si ambienta nel futurissimo 1951: Kunibald Jessegrim, uno scienziato deluso che più volte ha avuto la tentazione di farla finita, vuole punire le ottusità del mondo: per far ciò fa esplodere una dopo l’altra le pareti divisorie delle cavità sotterranee della Terra che (calcola) sono colme di petrolio. Arrivato all’ultima esplosione che farà tracimare tutto quelle immense quantità di petrolio nell’oceano, abbandona il Messico dove vive, per recarsi a New York. Agli americani la catastrofe ecologica (a suo modo di terribile bellezza) interessa molto per l’impatto sul prezzo del petrolio, mentre gli europei non sono turbati, presi come sono dal varare una serie di leggi demenziali, come l’“abolizione del nome proprio degli individui maschili […] che avrebbero dovuto stimolare l’amor patrio e rendere gli animi più atti a prestare il servizio militare”. Comunque Jessegrim calcola che in meno di trenta settimane, immaginando un identico flusso, tutti gli oceani della terra saranno coperti di petrolio e l’acqua non potrà più evaporare: e in quella situazione il vecchio ordine delle cose viene messo radicalmente in crisi. Si comincia a gridare “Basta con il militarismo che divora… divora… divora il nostro denaro! Costruite macchine, escogitate mezzi per salvare dal petrolio l’umanità disperata!” e si vagheggia di licenziare le truppe per riconvertire i soldati agli usi civili. Ma ciò che a questo punto preoccupa i governi di fronte alla catastrofe è cosa fare di tutti gli ufficiali…

Tra macabro e grottesco, Il cervello (Das Gehirn, “Simplicissimus”, 44, 1902) racconta la strana storia di un uomo che, in seguito a un trauma subito teme la vista di un cervello – al punto che muore per lo shock a trovarsene uno accidentalmente davanti. Il racconto è un’occasione per mettere nuovamente in luce la supponenza aggressiva dei medici e l’ottusità diffusa. Sempre in tema patologico, “Malato” (“Krank”, “Die Gesellschaft”, 1902) è il resoconto enfatizzato e concitato di un’attesa nella sala di ritrovo d’un sanatorio: in un’“atmosfera […] indicibilmente uggiosa e triste” che pare pronta per un’esplosione di rabbia, con “insulsi motti tedeschi a nere lettere lucide” a campeggiare intorno, di fronte a un ragazzino dall’aria stupida vestito dalla madre con pessimo gusto (impagabili le guarnizioni di pizzo bianco cucite sulle maniche di velluto) e che non riesce a sistemare dei pezzi di domino in una scatola, sempre troppi o troppo pochi rispetto alla medesima, il narrante si sente contagiato e depresso.

 

Presi a sognare tutte le tetre esperienze della mia vita: esse si guardavano l’una con l’altra con occhi neri da domino, quasi fossero alla ricerca di qualcosa d’indefinibile, ed io le volevo allineare in una bara verde… ma ogni volta erano o troppo numerose o troppo poche.

 

“Praga mente e russa come una venditrice ubriaca”: così La morte di Selchers Schmel (Der Tod des Selchers Schmel, “Die Zukunft”, 1903), storia di  Amadeus Veverka, promosso superieur inconnu nell’ordine occulto della Confraternita Ermetica di Luxor. Con le tecniche apprese beneficia di una serie di visioni, come questa:

 

Un corteo imprevedibile avanza ritmicamente a ritmo: la terra trema. Sono maiali – maiali! Maiali che camminano in posizione eretta! – Soprattutto i più nobili tra loro, i primi nel corso della trasmigrazione delle anime, che erano già i più coraggiosi sulla terra – e ora indossano berretti viola e nastri colorati, affinché tutti possano vedere in quale forma un giorno si reincarneranno.

 

Ma dal tipo di risveglio risulta che ha avuto un incubo…

Jörn Uhl (“Simplicissimus”, 2, 1903), come accennato, gioca con le storie di costume della Germania profonda dello scrittore Gustav Frenssen (1863-1945), poi ardente nazista, autore appunto del romanzo Jörn Uhl (1901).

La sfera nera (Die schwarze Kugel, “Simplicissimus”, 5, 1903) evoca il singolare caso per cui una tecnica dei Sikkim che permette di veder ricreati in un’ampolla i pensieri di un bramino – con paesaggi di indescrivibile bellezza –, ottiene risultati deludenti se a pensare è un occidentale, e addirittura apocalittici se è un militare tedesco. Compare una specie di buco nero destinato a inghiottire l’universo…

Ambientato a Praga, “Il preparato anatomico” (Das Präparat, “Simplicissimus”, 12, 1903) è invece un vero e proprio racconto dell’orrore pre-espressionista: due amici, Ottokar e Sinclair, intendono scoprire cosa sia stato di un terzo, Axel, il cui corpo sarebbe nelle mani di un losco anatomista persiano, il dottor Daraschekoh. Questo è stato allievo di tal Fabio Marini che potrebbe trovare ispirazione in Girolamo Segato (1792-1836), virtuoso dei corpi pietrificati: “con questi occhi a Firenze ho visto il cadavere di un bambino preparato da Marini”, e Segato ha lasciato proprio a Firenze una serie di reperti trattati. Il dubbio è che Axel, vendendo anticipatamente al persiano il proprio cadavere, fosse solo addormentato. Allontanato dunque dalla città Daraschekoh con un trucco, i due penetrano nella sua casa: troveranno qualcosa peggiore d’ogni loro fantasia nera. Per quanto l’orrore sia tanto e in alcune immagini paia prefigurare H.R. Giger, resta comunque uno scarto dalle disturbanti, insistite e morbose saghe di corpi di Hanns Heinz Ewers (1871-1943, cfr. qui e qui), ideale e più giovane contraltare di Meyrink.

L’acqua densa (Das dicke Wasser, “Simplicissimus”, 14, 1903) è una storia buffa nel mondo del canottaggio, da Meyrink frequentato appassionatamente; mentre Il dottor Lederer (Dr. Lederer, “Simplicissimus”, 24, 1903) è un apologo grottesco dai connotati fantastici. All’apparizione nel cielo di un disco luminoso con un’immagine – così pare – di camaleonte al centro, la signora Cinibulk incinta di otto mesi partorisce per lo spavento: ma il bambino è talmente orrendo che il marito, il consigliere civico Cinibulk cita in giudizio per adulterio con sua moglie un tal dottor Lederer – che in effetti sembra un camaleonte. Al processo l’avvocato di lui fa osservare che il bambino presenta sulle piante dei piedi delle macchie che possono essere ereditarie: chiede dunque di far controllare i piedi del padre e di Lederer. I piedi malformati di quest’ultimo sembrano zampe di camaleonte, e il difensore domanda in amicizia al medico legale se la malformazione potrebbe far desumere un’alienazione mentale. “Certo che potrei… posso far tutto, visto che una volta sono stato medico del reggimento; ma aspettiamo che rientri il consigliere civico”, che è andato a lavarsi i piedi prima di mostrarli. Insomma, questa del medico del reggimento è una nuova frecciata all’esercito.

E finalmente interviene l’ottico Cervenka: ammette che la colpa è dell’innovativo riflettore da lui inventato, con cui ha proiettato contro il cielo per esperimento una piccola immagine (non di un camaleonte, ma) proprio del singolare dottor Lederer fotografato ai bagni turchi. Ciò ha impressionato la signora che ha partorito un figlio con quei connotati. In compenso sotto le piante del consigliere civico ci sono macchie simili a quelle del figlio, ma si “doveva ancora cercare di vedere se per caso non andavano via lavandole”. L’imputato viene assolto per mancanza di prove. L’apologo presenta grottesche fantasie scientifiche, ed è inevitabile vedervi una sorta di anello di congiunzione tra il mondo delle lanterne magiche e quello del cinema espressionista. L’uomo bestiale di questa e altre fantasie è del tutto speculare alle bestie antropomorfizzate di vari racconti di Meyrink.

Si torna all’horror – quasi surrealista – con L’opale (Der Opal, “Simplicissimus”, 27, 1903), sulla pietra che la signorina Hunt porta al dito nell’ammirazione generale, ereditato dal padre e che avrebbe “in sé un che di mobile, d’irrequieto, come l’occhio di una persona”. A quel punto il signor Jennings legge una storia dagli appunti di viaggio in India del fratello. Meta, Mahawalipur, la favolosa città scavata nella roccia e segue una descrizione molto vivida del loro avvicinarsi e del luogo inquietante con statue riferite “a misteri di inaudita profondità di cui noi occidentali abbiamo appena un’idea”. L’atmosfera è impressionante, c’è anche la statua di Kala Bhairab, la dea del colera: escono nella notte, e a un tratto odono dal tempio un grido raccapricciante e ripetuto. Tornano all’interno, e trovano un fachiro con le collane degli adoratori di Durga in stato di estasi: ai suoi piedi sono i corpi decollati di due dei sepoys della loro spedizione. Il fachiro sfugge alla loro presa con forze inimmaginabili, e dietro l’altare trovano le teste mozze dei due sepoys. Qui al manoscritto manca un foglio, e Jennings completa a voce. L’espressione delle teste era indescrivibile, “sembrava la risata distorta di un pazzo” ma a impressionare erano soprattutto gli occhi: “quando li esaminammo, sembrò che fossero diventati dei veri opali”, e così verrà confermato dalle analisi chimiche.

 

“[…] In che modo i globi oculari potessero trasformarsi in opali, per me rimarrà sempre un mistero. Lo chiesi ad un bramino di grado elevato ed egli sostenne che ciò avviene tramite la cosiddetta Tantrika, una parola magica, e che il processo si compie con grande rapidità e, per precisione, partendo dal cervello: ma chi potrebbe crederci! Allora egli soggiunse che tutti gli opali indiani hanno la stessa origine e che portano sfortuna a chi li possiede, poiché sono offerte per la dea Dhurga, la distruttrice di ogni organismo vivente, e tali dovrebbero restare”.

 

Di nuovo, in sostanza, una mineralizzazione anatomica, cioè un nuovo balzo da un regno a un altro della Natura. Il racconto finisce con la signorina Hunt che chiede a Jennings di frantumare la pietra…

Blamol. Una storia di Natale (Blamol, “Simplicissimus”, 39, 1903), ambientato tra la vigilia e il giorno di Natale in fondo al mare, tra polpi, cavallucci marini e loschi granchi poliziotti, vede una pastiglia di Blamol, farmaco equivoco dal naufragio di una nave, finire ingoiata da una creatura marina: ma “Blamol è stato abbandonato da tempo, è un farmaco di ieri, oggi si usa generalmente il cloro idiotino (la medicina avanza inesorabilmente)”. E anche “La maledizione del rospo – La maledizione del rospo” (“Der Fluch der Kröte — Fluch der Kröte”, “Simplicissimus”, 47, 1903) è un apologo favolistico con animali, stavolta ambientato in India: un rospo riesce a danneggiare l’odiato millepiedi, che in seguito al suo messaggio fintamente cerimonioso, messo in confusione, non riesce più a ricordare in quale ordine muovere le zampe.

Ben più amaro, La regina dei Braghi (Die Königin unter den Breghen, “Simplicissimus”, 51, 1903) racconta del crollo del pragmatico e apparentemente inscalfibile dottor Jorre: forse in rapporto con la caduta di una vecchia rosa appassita accanto al suo letto – il filo consunto si è ormai spezzato – il sogno simbolista di una donna coronata che emerge gloriosa dalla palude gli annuncia che “Colei che una volta fu Regina del tuo cuore, ora è qui Regina dei Braghi!”. Ignora il significato della parola Braghi (Breghen, inventata dall’autore sulla base di bragós, fango/palude), ma la tristezza che gli evoca lo abbatte irreversibilmente. Il richiamo sghembo ed enigmatico a un antico amore rimosso in nome dell’efficienza borghese può abbattere l’uomo più solido… dove quella palude è già indicativa.

Il racconto dal curioso titolo Lacrime bolognesi (Bologneser Tränen, “Deutsche Arbeit”, 1903) – riferite a un tipo di gocce di vetro dalla punta filiforme – è una cupa, potente storia espressionista di dark lady e stregonerie. Il povero Tonio è impazzito, ma era stato un amico. Al tempo, tanto prima, la fatale creola Mercedes – ormai sparita, chissà che ne è stato – era l’amante di un giovane russo: il narrante e Tonio la conoscono a una festa al Club delle Orchidee, con mille fiori strani a velarla e come a “bisbigliarle all’orecchio nuovi ed inauditi peccati”. Queste orchidee espressioniste da fantasie Jugendstyl sono simili a serpenti, come una quasi senziente che poco dopo apparirà e sembra gioire della propria padrona: in Meyrink esiste tutta una botanica da incubo (vedremo presto il famoso Le piante del dottor Cinderella) ma è un tema simbolista diffuso quello della donna-pianta assassina, a invertire in chiave allarmante il mito di Dafne: si pensi solo alla mandragora dell’Alraune di Ewers (1911). D’altra parte Mercedes sarà l’allarmante antesignana di alcune donne fatali dei romanzi più maturi di Meyrink.

Poi un servitore di colore entra e offre delle “lacrime bolognesi”: Mercedes ne passa una al russo, che la trattiene tra le labbra e poi la ridà all’amante. Peccato che, il giorno dopo, il povero giovane finisca ammazzato dall’esplosione di una caldaia, che “lo ridusse in atomi”. Mercedes diventa allora amante – “un amore impetuoso, furioso” – del fratello di lui, Ivan: e a un tratto anche lui muore male, cadendo da una mongolfiera. Ma lei, apparsa in carrozza qualche settimana dopo, è imperturbabile come uno dei colossi di Memnone. Al ritorno del narrante da un viaggio, scopre che l’amante in carica di lei è ora Tonio, totalmente succube: ma un giorno lo trovano sconvolto, distrutto. Alcuni scritti trovati a casa di lei testimoniano che è una strega, e ha fatto morire i due giovani russi con le fatali “lacrime bolognesi”, tenute in bocca dalla futura vittima a stabilire un legame magico e spezzate in chiesa durante la messa… Gli amici tentano di suggerire a Tonio che forse Mercedes lo ama diversamente, ma quando riceve una lettera in cui lei gli chiede una “lacrima bolognese”, il giovane impazzisce.

Un cupo bozzetto espressionista è ancora quello di Sibili alle orecchie (Ohrensausen, Der heisse Soldat, cit., 1903), dove il pozzo chiuso da una botola di ferro, sottostante una certa casa di Praga in cui vive soltanto gente scontenta, è nottetempo ostello e ricetto per le larve della cupidigia attive di giorno nel mondo, e che là sotto, nel mezzo dello spazio, affilano gli artigli su un disco di pietra grigia rotante a folle velocità: “l’ha temprato il Male al fuoco dell’odio, millenni or sono, molto prima che Praga sorgesse”. Tappandosi le orecchie, “si potrà sentirla sibilare dentro di sé”.

Hony soit qui mal y pense (Hony soit qui mal y pense, “Simplicissimus”, 4, 1904) è un ilare bozzetto di costume ambientato alla festa del Capodanno 1929 con il conte Oskar Gulbransson e una serie di convitati orientali.

Nel divertente Ma… allora! (Das—allerdings, “Simplicissimus”, 33, 1904) alcuni spiritisti sottopongono al celebre filosofo svedese Arjuna Zizerlweis il caso di un medium che agirebbe su soggetti in modo tale da permettere una fotografia del loro futuro. Ma il filosofo smonta scetticamente sia il caso del soggetto sano che mostra segni apparsi due mesi dopo per il vaiolo (si tratterebbe, obietta, di pustole in germe riconosciute più acutamente dalla lastra), sia quello del giovane con una macchia nera in mezzo alla fronte come poi la avrà per il colpo di pistola con cui si suicida (ma è chiaro che ha tratto una suggestione dalla foto, probabilmente era una macchia banale). Zizerlweis si convincerà (“Hum, hum – ma allora, ma allora!”) solo con il caso di un commesso in un negozio di verdura la cui testa sparisce nella foto per lasciar posto a luci nella disposizione della Costellazione dell’Ariete – infatti entrerà militare in fanteria…

Di nuovo terribili orientali – quelli reinventati nel cinema espressionista con cerone e bistro sugli occhi – tornano in L’uomo sulla bottiglia (Der Mann auf der Flasche, “Simplicissimus”, 47, 1904): una festa mascherata è occasione per una lussureggiante parata di trovate oniriche, costumi fantastici, marionette sinistre. Come afferma un convitato vestito da Salamandra,

 

“Non credo che questo spettacolo voglia avere un senso vero e proprio. Solamente cose che non rappresentano nulla d’intellettuale sono in grado di trovare l’accesso segreto dell’anima […] E come vi sono individui che alla vista delle secrezioni acquose dei cadaveri dissanguati sono colti da un’ebbrezza erotica ed emettono fioche grida estatiche, egualmente esistono anche…”.

 

Quest’ultima frase sembra evocare fantasie alla Ewers. Ma sull’onda di un più classico gotico ottocentesco, lo spettacolo messo in scena dal principe Darasche-Koh – chiamato come l’anatomista crudele dell’altro racconto, potrebbe essere lo stesso personaggio o piuttosto una figura-funzione, che in effetti tornerà ancora – è in realtà finalizzato a punire atrocemente un tradimento della moglie con il conte de Faast. In modo diverso i due vengono soffocati (rileviamo il tema, dovremo tornarvi).

Stregoneria e satira si abbinano in Coagulo (Coagulum, “Die Zukunft”, 47, 1904), dove il vecchio Hamilkar Baldrian invoca il demone Astaroth, identifica un tesoro sepolto e traccia una mappa per ritrovarlo, ma muore; lo scrittore suo nipote avvia la ricerca, ma nella cassetta rinvenuta nella brughiera e portata trionfalmente fino all’ufficio municipale si trova solo una “molle massa elastica nero-giallastra, dalla superficie luccicante”. Le perizie non riescono a stabilire cosa sia, ma a quel punto la sostanza non ha valore economico; e il mistero resta, finché il nipote non riceva la rivelazione da uno spirito. “[…] si tratta della parola d’onore di un ufficiale, coagulata e fossilizzata” (ecco il senso del titolo Coagulo), di nuovo con una sferzata satirica non da poco.

Nel 1904 Gustav Meyrink si è trasferito a Vienna (iscrizione nel registro 1904 come suddito del regno di Baviera, certificato di residenza agosto 1905), dove è diventato caporedattore – maggio-novembre 1904 – della rivista umoristica “Der liebe Augustin”, che in realtà chiuderà molto presto, ma su cui pubblica alcuni racconti degni di nota.

Alchimia e critica sociale, conoscenza iniziatica e conoscenza di apparato si combinano per esempio in La goccia di verità (Der Wahrheitstropfen, “Der liebe Augustin”, 9, 1904), con la storia grottesca di una goccia d’un misterioso liquido che, collocata tra due punte d’argento a formare una sfera perfetta permetterebbe arcane visioni. Suggestiva l’intuizione del “sottile setaccio costituito da atomi roteanti e [del fatto che] se si fossero trovati i raggi giusti, niente avrebbe impedito di guardarvi attraverso”, precedente l’elaborazione compiuta del modello atomico di Rutheford. Ma alla fine il povero protagonista viene arrestato e “incarcerato sotto l’imputazione di matricidio plurimo” e lo strano fluido confiscato.

Il titolo Decadenza (Der Untergang, “Der liebe Augustin”, 12, 1904) evoca un tema all’epoca molto dibattuto: il termine usato nel titolo di questo racconto è Untergang e non Entartung, “Degenerazione” come nel celebre saggio di Max Nordau datato 1892-1893, ma ci si muove su provocazioni parzialmente simili. Il racconto è fortemente evocativo di un’epoca: ecco il povero, nervosissimo Chlodwig Dohna che vive ogni realtà dotata di limiti e confini – dal corpo umano agli oggetti – come soffocante, al punto da farsi saltare le cervella, quasi un caso da psicanalisi; ecco la località modaiola di cura come luogo d’incontro di personaggi peculiari – a Levico in Trentino, presso il lago di Caldonazzo, il protagonista conosce un bramino; ecco l’alta marea dell’irrazionale, una decadenza che Meyrink biasima e deride. Così ci vengono presentate le speculazioni del bramino su un futuro evento catastrofico in Asia per il 1914; la notizia che a Praga un reincarnato, Jan Doleschal, ne fosse informato tramite vie sottili; la surreale comunità di Doleschal e i discorsi estatici di lui. Il tutto in un’Europa che tra registrazioni di traumi e psicopatologie (eventualmente sessuali, come quelle repertoriate da Richard von Krafft-Ebing, morto nel 1902), stazioni termali e comunità d’illuminati (il Sanatorium del Monte Verità di Ascona, 1902) con transiti su e giù dall’Oriente, offre non poche suggestioni alle narrazioni meyrinkiane. A recare a Dohna un trauma fatale è una scioccante avventura nel tempio di vetro di quella setta, con il rischio di morire soffocato come il conte de Faast è morto soffocato nel vetro del racconto L’uomo sulla bottiglia. Qui – come in altre opere – Meyrink sviluppa la critica a un misticismo d’accatto: non vuole confondere la ricerca interiore seria con le ubbie estatiche al tempo tanto diffuse.

Nel frattempo ha pubblicato (a Monaco, come detto) la seconda raccolta Orchideen. Sonderbare Geschichten; la patologia al midollo spinale si aggrava e viene dichiarato incurabile, ma in un anno si riprende e attribuisce il successo alle pratiche yoga. Ma continua a scrivere.

In Chimera (Chimäre, Orchideen, 1904) la rivelazione a un viandante da parte di un vecchio circa un favoloso filone aurifero sotto la chiesa va a braccetto con la fallacia dell’idea – appunto la chimera –  che quell’oro possa trovare un utilizzo virtuoso in un mondo tanto avido. Sotto testo può esserci l’idea della tanto scarsa attenzione a lui e al suo lavoro nell’ottusa realtà del suo tempo.

Suggestione (Eine Suggestion, Orchideen, 1904) si presenta invece come stralci di diario, blocchetti di indicazioni datate, ma in ipotesi scritte in cifra. A scrivere sarebbe un pluriomicida (ha avvelenato due persone, uno zio e il signor Erben, con un tossico di cui si è sforzato di saper poco, la curarina, per evitare impatti sulla propria immaginazione), convinto che la coscienza esiste solo se ci si crede: ha fatto sparire le tracce, ma anche – vorrebbe – il senso di colpa… Alla data successiva, tre giorni dopo, ammette però di aver sognato i due morti dietro di sé e cerca di rimuoverli; alla data ancora successiva, sono otto notti che li sogna. Medita di andare a teatro, ma è in scena il Macbeth, non proprio la storia migliore in quel contesto… un paio di giorni più tardi mostra di valorizzare al contrario il consiglio di Paracelso: per sognare regolarmente, occorre scrivere un paio di volte i sogni. Dunque non lo farà più. Risolto quel problema, circa una settimana dopo viene spinto da un rumore a guardarsi indietro – da tempo ha la sensazione che qualcuno lo segua dal lato sinistro – e vede una delle sue vittime, certamente un precipitato dei sogni fatti e delle relative emozioni; ma un’altra settimana dopo le vede entrambe. E una decina di giorni dopo (1 novembre, la data pare significativa), avendo continuato a vedere il fantasma di Erben, prende ad arrovellarsi: le figure sono scissioni del suo Io – ma sarebbe orribile pensare di nutrirle con la propria vita – o esseri autonomi, autentici? E la stessa scrittura segreta a cui sta ricorrendo sembra dettargli i contenuti, per cui decide di ricopiare il manoscritto in chiaro…

Passano dieci giorni ed eccolo annotare: “Sono esseri reali. Mi hanno raccontato in sogno la loro agonia” e lo vogliono strangolare. Di più: ha controllato, i sintomi della curarina sono proprio quelli del sogno. “Dio mio, se mi avessi detto che si continua a vivere dopo la morte non avrei ucciso”. Due giorni dopo conclude di essere malato. Intende parlare col medico, e poi impedire che vada a raccontare qualcosa. Ma il giorno dopo il diario reca solo la data e puntini, a far sospettare una drastica interruzione dell’ossessione…

Di carattere completamente diverso, e la varietà è interessante anche se torniamo al Meyrink polemista nel segno del grottesco, G.M. (G. M., Orchideen, 1904) richiama le iniziali con cui l’avventuriero americano George Mackintosh, inventore di una macchina per fiutare rabdomanticamente (si dice) la presenza dell’oro, ritiene sufficiente farsi conoscere a Praga: arricchitosi in modo misterioso, acquista case nel centro città per farle abbattere in cerca d’oro. Ma gli antichi palazzi sono stati spianati, l’oro non si trova e appare sui giornali un messaggio dell’impagabile straniero: è costretto ad andarsene ma dona alla città un pallone aerostatico e il suo biglietto da visita. Si scopre che ha venduto segretamente tutte le aree edificabili, e compare nella vetrina di un fotografo la foto di Praga dall’alto, dove le aree degli edifici abbattuti formano megalomaniacalmente le iniziali del suo nome G M… Il racconto può richiamare quegli sventramenti immobiliari della città vecchia che avranno un rilevante peso ne Il Golem, ma a ben vedere la proiezione delle lettere sulla terra è speculare a quella pre-cinematografica dell’uomo-camaleonte di Il dottor Lederer.

(1-continua)

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Nostalgia di un Occidente, forse, mai esistito https://www.carmillaonline.com/2024/05/15/nostalgia-di-un-occidente-forse-mai-esistito/ Wed, 15 May 2024 20:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82446 di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma [...]]]> di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma pensava a come ogni frase sarebbe suonata in francese, di chiarire al suo pubblico le « parole chiave », le « parole trabocchetto », le « parole d’amore » attorno alle quali erano costruiti i suoi romanzi.

Dalla riunione dei due testi, entrambi usciti in origine su « Le Débat », risulta evidente la volontà di rivendicare un’appartenenza occidentale per la città e la cultura letteraria, ma non soltanto, del paese d’origine di un autore di cui Adelphi è stata la prima e fortunatissima casa editrice in Italia, mentre la Francia, che lo aveva ospitato fin dal 1975, costituiva la seconda patria. Se non la prima, considerato che Kundera è stato spesso indicato come «scrittore, poeta, saggista e drammaturgo francese di origine cecoslovacca e etnia ceca». Una rivendicazione e una forma di nostalgia che derivavano sia da una forma di riconoscenza nei confronti del “nuovo mondo” che lo aveva accolto nell’esilio e, contemporaneamente, dalla nostalgia tipica del profugo nei confronti della patria lasciata alle spalle.

Una rivendicazione ostentata di accostamento, se non di appartenenza, non solo della sua opera ma di un’intera cultura nazionale che si scontra però, in maniera paradossale, con la storia di una città che, come altre ai “confini orientali” d’Europa e un tempo integrate nell’impero asburgico o austro-ungarico, ha visto incrociarsi sul suo territorio e nel suo background culturale lingue, religioni, popoli e culture spesso profondamente diverse. Sicuramente la lingua tedesca, quella ebraica e yiddish, quella slava insieme alle rispettive religioni di appartenenza (cattolica, protestante, ortodossa ed ebraica). Cosa che se da un lato può aver dato vita a conflitti e divisioni in numerosi momenti storici (si pensi soltanto alla defenestrazione dei delegati cattolici a Praga del 1618 che di fatto diede vita alla guerra dei Trent’anni e che, invece, l’autore nel testo in questione sembra voler far coincidere con la rivendicazione dell’occidentalità della cultura praghese, mentre quello fu proprio l’inizio di una divisione interna all’Europa che, di fatto, sembra non essersi chiusa ancora adesso nonostante la leggenda dell’unità europea e delle sue radici cristiane), dall’altro ha creato quelle condizioni di ricchezza culturale e linguistica che ha caratterizzato la sua letteratura.

Basti far riferimento a Franz Kafka e alla sua famiglia, in cui le origini e le tradizioni ebraiche del padre in qualche modo si scontravano con quelle “tedesche” della madre. Anche a livello linguistico. Motivo per cui lo scrittore scrisse le sue opere in tedesco, risultando poi essere il principale esponente della letteratura ebraica in quella lingua.

E’ soltanto un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, per riportare sui giusti binari la polemica a favore dell’identità culturale ceca che anima l’opera e l’intento di Milan Kundera (Brno, 1929 – Parigi, 2023). Ma è anche chiaro, però, che la polemica e la rivendicazione ceco-occidentale di uno dei più conosciuti autori praghesi della contemporaneità, contenuta in un testo scritto nel 1980, è dovuta soprattutto alla pesante e massiccia azione di rimozione e risistemazione culturale e politica operata dall’Unione Sovietica a seguito della spartizione territoriale d’Europa seguita al secondo conflitto mondiale e alla Conferenza di Yalta.

Una forma di sudditanza agli interessi sovietici che, anche se fatta rispettare direttamente dagli scagnozzi in divisa e dai burocrati di Stalin e degli altri segretari del PCUS fin quasi alla caduta del muro di Berlino, derivò proprio dalle scelte politiche e militari di quell’Occidente liberale e democratico che troppo spesso l’autore sembra idealizzare. In fin dei conti quella spartizione conveniva ad entrambi i reggitori del mondo, come la fine del condomino russo-americano sul pianeta ha finito con il dimostrare anche a danno dell’immagine statunitense, cosicché i popoli che ne furono vittime nell’Europa Orientale (dai lavoratori in rivolta a Berlino Est nel 1953 agli insorti ungheresi del 1956, fino agli studenti praghesi del 1968 e gli operai polacchi degli anni Settanta e Ottanta) possono ancora “ringraziare” tutt’ora sia i carri armati sovietici che le fasulle promesse democratiche americane per la repressione, quasi sempre durissima, che li colpì ripetutamente ad ogni tentativo di rialzare la testa.

Così il nazionalismo culturale di Kundera, perché è di questo che si parla in sostanza, rinvia a quell’immagine delle piccole patrie già così ben descritta, nel loro livore e nelle loro divisioni fratricide, nei reportage di George Simenon contenuti in Europa 331 che, nel 1933, sottolineava le ambizioni, le piccinerie, gli egoismi e le rivalità che separavano tra di loro le piccole nazioni sorte sul finire del Primo conflitto mondiale ad opera della suddivisione dell’impero austro-ungarico messa in atto a Versailles, sotto l’influenza e l’azione del presidente americano Wilson.

Odii, rivalità, pretese, sabotaggi politici ed economici che vediamo in atto ancora oggi, in occasione del conflitto russo-ucraino, e che spesso i media mainstream riducono a filo-putinismo o a disattenzioni per le regole democratiche dettate dall’Unione Europea, ma che in realtà nascondono interessi politici, economici e territoriali infinitamente complessi e spesso dettati da un nazionalismo di origine, tutto sommato, recente per alcuni casi (ad esempio la divisione tra Repubblica ceca e Slovacchia) o più antico e ancora caratterizzato da mire espansionistiche in altri (come i rimpianti imperiali della Polonia che pensa ancora in termini simili a quelli della dinastia jagelloniana, che in realtà era di origine lituana, oppure alle rivalità sui territori e popoli della Transilvania tra Ungheria, Romania e Ucraina stessa).

Ed è per i motivi qui appena delineati che dispiace vedere tirate in ballo l’indiscutibile grandezza e l’ironia incomparabile, questa sì autenticamente praghese, di autori come Franz Kafka, Jaroslav Hašek (forse il più grande scrittore antimilitarista di tutti i tempi) e di Bohumil Hrabal, tutti e tre sicuramente “universali” nella loro fulgida grandezza letteraria, per sviluppare un discorso che nel difendere l’identità letteraria e culturale ceca e praghese finisce con l’esaltare un nazionalismo fasullo che finge una coincidente linea di attrazione “fatale” tra cultura e politica boema e libertà occidentali (sempre e soltanto presunte anch’esse).

A chiarire, diciamolo pure, la sudditanza culturale, questa sì, dello stesso autore nei confronti di un Occidente di cui è stato a lungo corteggiato ospite, dovrebbe bastare una delle ottantanove definizioni date nel secondo testo: quella di ROMANZO (europeo), di cui Kundera giunge a dare la seguente definizione e definitivo giudizio:

Il romanzo che io definisco europeo nasce nel Sud dell’Europa agli albori dei Tempi moderni e rappresenta in sé un’entità storica che in seguito amplierà i propri confini al di là dell’Europa geografica(in particolare nelle due Americhe). Per la ricchezza delle sue forme, l’intensità vertiginosamente concentrata della sua evoluzione, il suo ruolo sociale, il romanzo europeo (così come la musica europea) non ha eguali nelle altre civiltà2.

Manifestando così una sorta di nostalgia per un’Europa e una cultura che ancora si pretendeva superiore sul resto del mondo, più che una coscienza delle infinite trasformazioni, delle lotte e dei conflitti che ne hanno definito e disfatto, allo stesso tempo, l’identità e la sua crisi, sviluppatasi in forme drammatiche e contraddittorie fino ad oggi e, certamente, non soltanto a causa dei “barbari” provenienti dall’Est.


  1. G. Simenon, Europa 33, Adelphi Edizioni, Milano 2020. In particolare nel lungo reportage che da il titolo al volume da p. 11 a p. 126.  

  2. M. Kundera, Ottantanove parole, in M. Kundera, Praga, poesia che scompare, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 91.  

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Ripellino, un magico prosatore https://www.carmillaonline.com/2024/03/18/ripellino-un-magico-prosatore/ Mon, 18 Mar 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81772 di Paolo Lago

Giuseppe Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Mucchi, Modena, 2023, pp. 124, euro 16,00.

La scrittura saggistica di Angelo Maria Ripellino non è semplicemente una scrittura saggistica, come si potrebbe intendere nel senso comune della parola. Una scrittura, cioè, oggettiva, fredda, distaccata, razionale, pacata, sorta dalla scienza accademica e non dal cuore. E direi che di scritture siffatte, all’interno della critica letteraria, al giorno d’oggi ce ne sono anche troppe. È per questo che oggi si fa sempre più forte la mancanza di una penna come quella di Ripellino, grande studioso e slavista, poeta e scrittore, della cui [...]]]> di Paolo Lago

Giuseppe Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Mucchi, Modena, 2023, pp. 124, euro 16,00.

La scrittura saggistica di Angelo Maria Ripellino non è semplicemente una scrittura saggistica, come si potrebbe intendere nel senso comune della parola. Una scrittura, cioè, oggettiva, fredda, distaccata, razionale, pacata, sorta dalla scienza accademica e non dal cuore. E direi che di scritture siffatte, all’interno della critica letteraria, al giorno d’oggi ce ne sono anche troppe. È per questo che oggi si fa sempre più forte la mancanza di una penna come quella di Ripellino, grande studioso e slavista, poeta e scrittore, della cui produzione saggistica l’opera più nota è probabilmente Praga magica (1973). Ripellino è sicuramente un magico prosatore, artefice di una scrittura critica evocatrice di dimensioni ‘altre’, una scrittura capace di aprire varchi verso un altrove narrativo e poetico che non può restare imbrigliato nella fredda scrittura critica. Perciò, ogni saggio di questo autore si può leggere come un romanzo o come una poesia, facendo attenzione alle figure di stile e di suono, alle immagini evocate e magicamente rappresentate, come in un rituale sciamanico.

Recentemente è uscito un breve saggio che abbraccia, nei suoi punti essenziali, con attenzione e rigore, l’intera produzione critica e saggistica di Ripellino. Si tratta di Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore di Giuseppe Traina, che per la prima volta distende uno sguardo analitico sulle prose del grande slavista siciliano. Come rende noto l’autore nella premessa, dopo questa analisi della prosa ripelliniana, farà uscire un altro studio dedicato all’opera poetica di Ripellino, dal titolo Autunnale ripelliniano. Adesso, sotto il rigoroso e capace occhio analitico di Traina c’è, appunto, la produzione saggistica dello slavista (che, poi, come vedremo, definire Ripellino semplicemente “slavista” è sicuramente riduttivo): la sua critica letteraria, la sua critica d’arte, la sua scrittura politica, la sua critica teatrale lasciando da parte – poiché sicuramente estrinseca ad un discorso incentrato sulla saggistica – la prosa narrativa di Storie del bosco boemo.

Il viaggio nella prosa critica ripelliniana comincia con il già ricordato Praga magica, vero e proprio capolavoro di Ripellino nonché frutto del lavoro e dello studio di una vita. Non è un caso che Traina abbia scelto come titolo del primo capitolo del suo libro, dedicato a Praga magica, “Il flâneur”. Si tratta infatti di un’opera di viaggio, di movimento, di scoperta incessante della città “vltavina” (cioè attraversata dalla Vltava, la Moldava), per utilizzare una definizione dello stesso Ripellino. È quest’ultimo a definire Praga magica come “un libro sconnesso, sbandato, a frastagli, scritto nell’insicurezza e nei mali, con disperàggine e con pentimenti continui, con l’infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa” (Einaudi, Torino, 1973, p. 22). Ripellino è un “flâneur” che, con uno sguardo incantato, si muove incessantemente per Praga e ci conduce alla scoperta dei suoi risvolti più magici e misteriosi, dei palazzi antichi e vetusti – quelle “nere casacce streghesche, sorgenti di maleficio” – dell’arte cupa e meravigliosa che si nasconde nei suoi vicoli, delle arcane vetustà e incantamenti del quartiere ebraico, del Golem, di Rodolfo II e dell’Arcimboldo, degli spettri e delle superstizioni, dei percorsi e delle suggestioni kafkiane. Tra l’altro, Franz Kafka (insieme ad altri autori boemi) è uno dei principali protagonisti letterari del libro che, come altri misteriosi e spettrali personaggi, compare preferibilmente di notte (una frase che ricorre diverse volte, nella narrazione di Praga magica, è infatti la seguente: “Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka torna a via Celetná, vestito di nero”). Lo scrittore, nelle magiche pagine ripelliniane, diviene egli stesso un personaggio magico. La penna di Ripellino, muovendosi come un Omero o un Apollonio Rodio, inanella i luoghi come perle sulla collana di parole del poeta – come scrive Bertrand Westphal riguardo alla geografia letteraria delle opere antiche. È il suo sguardo a caricare di senso nuovo ogni angolo di Praga, un senso nuovo dominato dalla sua capacità medianica di incantatore.

Traina, giustamente, sottolinea la pluralità di stili e di registri sottesa alla tessitura del libro: alla melanconia spesso infatti subentra una “felice buffoneria e una «condizione clownesca»”. Né si deve dimenticare che Ripellino è un autore per il quale gioca un ruolo estremamente importante l’immaginario circense legato all’attorialità e alla clownerie, alla dimensione spettacolare in senso positivo. Praga magica – secondo Traina – si configura quindi come “un libro-specchio di straordinaria leggibilità: dove l’estro funambolico di certe pagine e la precisione filologica di altre richiamano strettamente i precedenti risultati della saggistica ripelliniana e le meravigliose poesie delle sue sillogi, agglutinandosi in un’immagine da orafo che è squisitamente praghese e rodolfina”.

Il secondo capitolo, intitolato “Il saggista”, prende in esame due saggi di Ripellino: Il trucco e l’anima, dedicato alla cultura teatrale russa del primo Novecento, e Letteratura come itinerario nel meraviglioso, una raccolta di saggi pervasa da uno straordinario senso di unitarietà. Anche in questi saggi-romanzi (in Ripellino la forma saggio è in continua metamorfosi e si dilata inevitabilmente verso altri lidi narrativi), Traina rileva peculiari tratti stilistici dello studioso e poeta, come l’iperbole lessicale, la ricerca del neologismo e le neoformazioni linguistiche, la predilezione per il “sinonimo anticato, da vocabolario”. Tali peculiarità stilistiche conducono la prosa ripelliniana verso il territorio del “barocco del Novecento”. D’altra parte, in questi saggi si trovano diversi “spiragli stranianti aperti sull’oggi, che possiedono, di volta in volta, una valenza «politica» o morale di stampo benjaminiano che ben appartiene al Ripellino maggiore: al poeta, al saggista, al testimone del tempo che ha vissuto”. L’apertura verso sempre nuovi orizzonti nonché il fastidio per il settorialismo accademico che imbriglia gli studiosi esclusivamente ad una disciplina è espresso nell’Introduzione a Letteratura come itinerario nel meraviglioso dove rivendica l’anti-accademismo del proprio lavoro critico: “Fin dall’inizio la slavistica fu da me concepita come evasione dalla «slavistica» e dalle indagini «specializzate» per pochi savi – come inusitata riserva di tesori poetici e pretesto di comparazioni (Einaudi, Torino, 1968, p. 5). Come chiosa Traina, in queste parole troviamo “la scelta dell’anti-accademismo come contravveleno esistenziale e l’opzione per la slavistica come volano d’una vocazione da comparatista sommo”. Ripellino è stato infatti un “comparatista sommo” che, per poter districarsi nell’intricato (allora sicuramente meno di oggi) mondo accademico, ha dovuto imboccare una via di ‘specializzazione’.

Il capitolo successivo di Primaverile ripelliniano è dedicato al “critico delle arti visive” e viene quindi analizzata la raccolta di saggi dal titolo Il sogno dell’orologiaio, curata da Alfredo Nicastri nel 2003. Anche i saggi di critica d’arte sono pervasi della magia lessicale e stilistica che avvolge le parole del Ripellino critico letterario: un ingrediente “inconfondibile” che, in questo caso, “rivela particolarità retoriche, sintattiche e prosodiche che lo arricchiscono”. Anche da un punto di vista tematico e contenutistico, lo studioso utilizza spesso le opere d’arte analizzate come uno specchio nel quale rivedere ciò che gli sta più a cuore come, ad esempio, nel caso di Paul Klee: “Nelle opere di Klee Ripellino ritrovava uno specchio delle proprie predilezioni: la presenza dell’opera buffa, della clownerie, del teatro, anche di marionette”. Un articolo dedicato a Chagall, invece, ripropone un andamento diaristico ed autobiografico caro allo studioso. Qui, Ripellino passa con straordinaria disinvoltura dal ‘fuori’ al ‘dentro’ di un quadro del pittore russo: come scrive Traina, “la descrizione della folla che s’assiepa alla mostra trapassa analogicamente nell’ecfrasi della folla che popola i dipinti di Chagall”. Ripellino critico d’arte – pensando che l’arte sia inscindibile dalla letteratura – diviene poi anche poeta e inserisce nei suoi excursus critici delle poesie dedicate ai suoi amici artisti Dorazio e Perilli.

A chiudere il saggio di Giuseppe Traina incontriamo un capitolo dal titolo “Il reporter”, dedicato agli articoli raccolti prima in I fatti di Praga e poi in L’ora di Praga, nei quali è possibili incontrare di nuovo lo stile inconfondibile del Ripellino “saggista-poeta e poeta tout court”. Ripellino, qui, seguendo l’urgenza dei fatti praghesi da raccontare nei mesi del 1968, adotta la forma del reportage: rapida, disinvolta, dominata più dai fatti che dalle parole. Sono articoli redatti per “L’Espresso” nei mesi precedenti e immediatamente successivi l’agosto 1968, quando giunsero a Praga i carri armati sovietici. La rabbia e il dolore, negli articoli successivi all’agosto – come scrive Traina – sembrano stemperarsi “in un sentimento più tipico di Ripellino, in una malinconia struggente di cui sente, sia pure a distanza, il riverbero nell’azione residua dei suoi amici praghesi, almeno di quelli che sono rimasti, che non sono riparati in esilio”.

Dulcis in fundo, Primaverile ripelliniano è arricchito da una postfazione di Luigi Weber dal titolo “Necessità di Ripellino”, in cui lo studioso ribadisce la necessità, oggi, di un saggio critico su Ripellino prosatore; un vuoto ben riempito, appunto, dal volume di Traina. Weber sottolinea poi l’importanza ancora maggiore di questo studio poiché va a colmare anche il vuoto dato dalla mancanza di studi critici sulla saggistica e, nella fattispecie, sulla grande saggistica italiana contemporanea. Allora, a fianco di Ripellino possiamo ricordare, fra gli altri, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, Cristina Campo, Piero Camporesi, Carlo Ginzburg, dei quali viene tracciato un quadro delle opere più significative. Perché la critica “è l’esercizio più prossimo alla fantasia” e si trova nella libertà straordinaria di penetrare il reale e consegnarlo alla complessità. La critica e la saggistica letteraria, cinematografica, teatrale, artistica dischiudono mondi e immaginari liberati e ciò vale soprattutto per Angelo Maria Ripellino, che scriveva una pagina critica nello stesso modo in cui scriveva una poesia o un racconto. Perché la critica dovrebbe essere sempre creatività, arte, libero immaginario e meno che mai mero esercizio accademico.

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Un divertissement (anti)complottista https://www.carmillaonline.com/2021/05/05/un-divertissement-anticomplottistico/ Wed, 05 May 2021 20:42:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65964 di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

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di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

Il testo in questione è Pandemonium di Diego Gabutti, edito da Longanesi nella collana La Gaja scienza, da tempo dimenticato ma ancora facilmente reperibile nel mercato dei libri usati, e oggi, a detta dello stesso, neppure troppo amato dall’autore.
Eppure, come al solito, eppure…
Un testo che riesce a mettere insieme Aleister Crowley, la P2, i servizi segreti italiani “deviati”, Satana in persona (ma soltanto nei sogni dei personaggi principali), brigatisti pentiti, baroni siciliani cornuti, magia sexualis e ricerca dell’homunculus è ancora degno di un’occhiata, magari anche attenta.

Si era agli albori dell’uso delle reti, o rete qual dir si voglia, attraverso l’utilizzo di BBS (Bulletin Boatd System)1, in cui già l’autore individuava la sciagurata possibilità di produrre informazioni incontrollate e bufale a go-go (perché poi oggi si preferisca l’anglicizzante fake news all’italianissimo, e soprattutto evidentissimo nel significato, bufale, è una questione ancora tutta da chiarire).

Un autentico oceano in cui nuotano enormi cazzate mescolate a notizie vere, fasulle, presunte, controllate ed incontrollate (che, in fin dei conti possono reciprocamente rovesciarsi nelle une o nelle altre). Uno stagno per la pesca degli scemi (soggetti ideali sia come pescatori che come pesci), un mare in cui scatenare la fantasia degli agenti dei servizi per comunicare tra di loro oppure per creare eventi improbabili, ma parzialmente credibili oppure assolutamente incredibili, ma luccicanti come oro per i tordi di turno. Che spesso si accodano convinti di svolger un qualche ruolo significativo ai confini di un mondo sospeso in permanenza tra realtà, magia e politica: quello dell’eterno complotto.

Insomma il regno dell’impostura globalizzata in cui ogni impostore, cosciente o meno di esserlo, sogna e immagina di giocare un ruolo significativo nel gran ballo delle balle.
Una enorme commedia degli equivoci in cui, se non ci andassero di mezzo gli innocenti veri (nel caso di Pandemonium delle giovani prostitute uccise o, meglio, sacrificate, per fini oscuri e irrealizzabili, nella realtà le vittime di attentati e violenze indiscriminate giustificate spesso da visioni del mondo reazionarie e folli) ci sarebbe soltanto da sbellicarsi dalle risate (così come capita per gran parte delle lettura del libro).

Il big complotto in questo caso si vorrebbe cosmico, universale, capace di rifondare il mondo e sostituire il suo signore e creatore con un altro, magari dotato, quest’ultimo, di corna, zoccoli, attributi di ambigue dimensioni e demonietti irrispettosi e burloni di contorno. Esoterismo e magia si snodano tra la Sicilia, Milano e Torino. Città, quest’ultima, dove fino ad un decennio or sono era possibile trovare numerose librerie dedite esclusivamente all’argomento; tutte dai nomi improbabili e memori del mito della città magica per eccellenza al centro dei triangoli bianchi e neri (come la maglia della squadra foraggiata dalla ex-FIAT) che attraverserebbero ancora l’Europa tra Lione e Praga, l’est e l’ovest come un Treno ad Alta Velocità del potere e della Grande Bestia.

C’è da ridere, ma anche da piangere, come quasi sempre capita, nel pensare alla serietà con cui i media ufficiali, autentici produttori di fake news ad oltranza si dedicano oggi al disvelamento delle fake news non autorizzate dalle veline di Stato. Un’autentica caccia alle streghe messa in opera da stregoni che in questo modo rendono tutte le bufale degne di attenzione.

Così, dopo aver letto il romanzetto e riflettuto sull’oggi e le sue scie chimiche circondate da manovre per ridurre la popolazione bianca schiava di quelle di altri colori oppure sul negazionismo vero sprofondato in un uso fin troppo spregiudicato del termine per demonizzare qualsiasi avversario delle verità “di Stato”, sorge spontaneo un altro dubbio: il complottismo è davvero soltanto di destra? Oppure anche questa è soltanto un’altra fake news, sorta in un territorio in cui Giorgio Gaber (cos’è di destra, cos’è di sinistra) avrebbe sguazzato ridendo con Enzo Jannacci?

In un territorio dell’immaginario dove la cabala della finanza finge di saper quali sono le soluzioni migliori per il destino del mondo e la scienza si trasforma in esoterismo in nome del profitto; Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (destra) si incrocia con i segreti cosmici di Peter Kolosimo (sinistra) e dove l’inossidabile Gianni Flamini (sinistra “democratica”), con i suoi eterni studi sull’abilità dei servizi “infedeli” di controllare quasi ogni evento della storia italiana recente, in particolare la lotta armata, e soprattutto senza mai prendere in considerazione il fatto che i servizi possano essere, in realtà, “fedelissimi” e proprio per questo motivo agiscano così come hanno fatto e continuano a fare, incrocia la penna in un duello infinito con i convinti assertori delle presenza dei Visitors (destra fantascientificamente “fessa”) nelle sfere del potere mondiale, non ci sarebbe forse soltanto da sbellicarsi dalle risate?

E invece no, poiché ancora troppo spesso coloro che si pensano investiti di un occulto dovere di informazione oltre che dotati di un’innata verbosità, ritengono necessario rendere tutto ciò noiosamente serio, quasi a voler rilanciare, più ancora che a soffocare, il discorso complottistico e la sua diffusione in rete e oltre, contribuendo così ulteriormente allo spostamento dell’attenzione dalla necessaria e radicale negazione della dominante narrazione tossica dell’esistente finalizzata alla difesa ad ogni costo (anche quello di cadere ripetutamente nel ridicolo, come accade in questi giorni di fallimenti presentati come trionfi della scienza e della politica) del modo di produzione attuale.

Allora meglio seguire le vicende di un romanzo che si snoda tra gli anni Venti e gli anni Novanta, tra orge nei cimiteri siciliani, esperimenti per la cattura dell’energia orgonica di reichiana memoria all’interno di bordelli più o meno di lusso, riti massonici celebrati da personaggi incappucciati ma privi di mutande, agenti segreti in combutta con brigatisti esoterici sulle cui tracce sono altri ex-prigionieri politici in cerca di vendetta, in una girandola narrativa in cui tutti coloro che risultano infoiati dal desiderio di potere politico, economico, magico e religioso vengono definitivamente messi alla berlina.
Poiché non potrà essere nient’altro che una risata a seppellirli tutti insieme e definitivamente.


  1. Si tratta di un sistema telematico che consentiva a computer remoti di accedere ad un elaboratore centrale per condividere o prelevare risorse. Il sistema era stato sviluppato negli anni settanta e ha costituito il fulcro delle prime comunicazioni telematiche amatoriali. Tra le novità consentite dai sistemi BBS, le principali furono la messaggistica e file sharing centralizzato  

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Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri https://www.carmillaonline.com/2019/04/26/qualcosa-di-meglio-biografia-partigiana-di-otello-palmieri/ Thu, 25 Apr 2019 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52257 di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico [...]]]> di Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri

[Dopodomani – 28 aprile 2019 – Otello Palmieri, Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri presenteranno “Qualcosa di meglio. Biografia partigiana di Otello Palmieri” (Ed. Pendragon, 2019) presso il Centro Sociale Antenore Lanzarini di Stiore (Bologna). La pubblicazione del libro e la sua prima presentazione pubblica sono ulteriori tappe di un viaggio nato dall’incontro tra un partigiano esule e migrante e due ricercatori di storie e conflitti. Alfredo Mignini, già autore di Un lavoro da non sfruttare nessuno, ed Enrico Pontieri, hanno incontrato Otello Palmieri e attraverso le conversazioni, le fotografie e i ricordi si sono immersi, con il benestare del protagonista, nella sua vita rocambolesca. Si sono così ritrovati a combattere i fascisti, a scappare dall’Emilia alla Cecoslovacchia incolpati dell’uccisione dell’oste fascista di Oliveto, a migrare in Svizzera per sbarcare il lunario e in molte altre storie personali e collettive.. in un gioco di specchi tra passato e presente, politica e sopravvivenza, che solo all’apparenza può sembrare anacronistico. Chi è nei dintorni non perda l’occasione di ascoltare le storie di Otello e chiedere ad Alfredo ed Enrico perché storie come queste dovrebbero essere raccontate. Intanto, a seguire, un assaggio del loro lavoro. ss].


Crespellano, sabato 4 marzo 2017, mattina

Otello è titubante, restio. «Io penso che è già tardi… ai giovani non c’interessa più!». Rincara: «sono cose che io penso che non interessano più alla gente». Ecco, pensiamo noi, ci siamo di nuovo. Il novantenne che ha fatto il partigiano, la ferocia che si tramuta in febbre del fare, la Repubblica e la Costituzione, i giovani che non capiscono. Un copione già scritto. Forse. Ma intanto oscilla, apre qualche spiraglio: «le sapevo raccontare meglio», invece adesso la memoria, dice lui, non lo supporta più e «non vorrei che perdeste del tempo per niente». Sorridiamo e pensiamo a una prima domanda per rompere il ghiaccio. Come se non aspettasse altro, però, Otello inizia a raccontare senza preamboli e senza aspettare le domande. Riprende i fili di un discorso interrotto anni e anni fa. La sua è la storia di «quelli che erano incolpati per i fatti del-del-del… di Togliatti! Quando hanno attentato a Togliatti». Sembra un messaggio in codice, il suo modo di mettere le carte in tavola: sono uno che non sta lì a girarci intorno. E noi giù di penna, quasi mandiamo di traverso il caffè per trattenere qualcosa del suo slancio.

Altro che novantenne, ci diciamo con uno sguardo, questo qui va spedito.

Gli appunti si riempiono di righe frettolose, sigle, segni e numeri storti. Un enorme punto di domanda campeggia accanto alla scritta «14 luglio 1948». Quella mattina Antonio Pallante si presentò all’uscita di Montecitorio ed esplose quattro colpi di pistola contro Palmiro Togliatti, capo del Partito comunista e punto di riferimento quasi indiscusso per chiunque avesse qualcosa per cui battersi. Per la base, e forse anche per i dirigenti, era «il Migliore». Dalle risaie e dai campi occupati per protesta e necessità a lui s’intonava, riadattato, un vecchio canto di lotta: L’Italia l’è malada / Togliatti l’è ’l dutùr. È per questo che quando si diffuse la notizia che Ercoli era più morto che vivo, lo sciopero fu la risposta immediata. Generale, spontaneo, rincorso dal sindacato. Di quelli che basta un niente per fare l’insurrezione. I giorni seguenti furono fra i più incandescenti della storia repubblicana, ma è chiaro che la pentola bolliva da un pezzo e le revolverate di Pallante non furono altro che un modo per sbarazzarsi del coperchio.

Una lunga freccia solca tutto il foglio e termina sulla parola: «Praga». Dal resto s’intuisce però che parliamo della fuga, non tanto della meta. L’espatrio suo, di Filippo e di Ivo – ma anche, scopriamo, di tale Nardi di Borgo Panigale – è ridotto a una sequenza di pallini ripassati una, due, tre volte. Primo «la Bastèrda (bosco vicino a Oliveto – andarci con Mario)», secondo «la Muffa», quindi «Portonovo (Medicina)», poi «via Fiume 15, Bolzano» e infine «San Candido (Dolomiti)».

Tornano e si moltiplicano i punti interrogativi: «Attentato a Togliatti – Bologna??». Siamo perplessi, è evidente. Sentirlo insistere sul 14 luglio ci sembra strano. Che la febbre dell’insurrezione abbia colpito anche le colline bolognesi? E tutti quei libri che ci spiegano che qui il partito è sempre stato il primo della classe, allineato, fatto di militanti disciplinati e quadri lungimiranti? Non erano quelli delle feste dell’Unità, della “falce e tortello”? Mica è l’Amiata!, sussurriamo appena, mica son le fabbriche milanesi, ma non osiamo interrompere. Il flusso di annotazioni sovverte le leggi della cronologia, gli stessi eventi tornano con una circolarità bizzarra, inspiegabile. […]

Otello è un fiume in piena. Regala frammenti, aneddoti, battute. Esplode in risate inaspettate, soprattutto raccontando delle volte in cui sarebbe dovuto morire e non è morto, durante la guerra, sempre col ritornello «e anche lì son stato fortunato». I suoi ricordi si accavallano a quelli di Mario, che ricompone i pezzi dei racconti di suo padre, o a Fabrizio che ci spiega la sua idea del libro che sarà. Noi per lo più ascoltiamo, una parola ogni tanto, a metà fra la voglia di entrare in confidenza e quella di vestire i panni dei professionisti. Dopotutto il progetto è solo abbozzato e a giocarsi male la prima impressione si fa presto.

L’ora che segue è un concentrato di tutte le storie che avremmo ascoltato in un mese di incontri, caffè e registratori. Ne emergono appena tratteggiati i contorni, si va formando una mappa di luoghi e spostamenti, sempre rocamboleschi. Man mano i toponimi si fanno oscuri e le due versioni di appunti sono più un intralcio che un’astuzia. Confini attraversati sempre di notte e sempre a piedi, passaggi in moto da una casa di compagni all’altra, paesi frammentati in zone d’occupazione. E poi uomini cui affidarsi sulla base di curiosi segni di riconoscimento, polizie occhiute che interrogano e controllano. In fondo al tunnel, České Budějovice e, finalmente, Praga. Lì c’è la scuola di partito, il lavoro agricolo delle “brigate”. Poi, i modernissimi impianti al confine con la Germania. Da Bologna notizie poco rassicuranti, il processo in stallo e gli «avversari» sempre pronti a screditare: «sono andati a rubare in qualche posto – a me, me l’ha scritto mia mamma perché io ero già in Cecoslovacchia – [e] un signore che abitava a Oliveto, al gîva par al paäiṡ: “Ah, ma i an da magnêr quî ch’i îran là int la Bastèrda[1]», dovranno pur mangiare quelli nascosti nel bosco, «la gente a Oliveto ci credeva […] banditi». E soprattutto li credeva a due passi da casa, nei rifugi partigiani.

Quelli, invece, stavano oltrecortina.

Spuntano finalmente le due valigie da dietro al mobile. Le sbirciavamo con la coda dell’occhio dal nostro arrivo, senza azzardarci a chiedere. Otello non ne è geloso, le apre e sparpaglia il contenuto sul tavolo. Saltano fuori i quaderni, pagine fitte con gli accenti sulle consonanti, testi brevi e termini copiati in sequenza, qualche disegno geometrico. «1953» si legge sull’etichetta sbiadita di un quaderno nero. Ci fiondiamo a sfogliarlo, magari troviamo qualcosa del 5 marzo. Cinque tre cinquantatré, il giorno in cui i comunisti di tutto il mondo piansero la scomparsa di Iosif Vissarionovič Džugašvili, al secolo Stalin.

Ma Otello è preso da altro. Legge, commenta, precisa i ricordi, aggiunge particolari e traduce all’impronta dal ceco. «Lavoro individuale, vedi? Se lo devo dire [non riesco], però se lo vedo scritto…» e ride. «È una lingua difficilissima, ci sono due-tre consonanti insieme» e non si sa come pronunciarle. Per impararla, quelli con la quinta elementare come lui avevano dovuto ripartire dalla grammatica italiana, riprendere la mano con gli esercizi. Ed è così che lui ha contratto la malattia della lettura e oggi legge tutto ciò che gli capita a tiro, come allora girovagava per Praga in cerca di biblioteche e vecchi volumi nella lingua ritrovata. A Bolzano, da fuggiasco, scoprì la Commedia, versi d’esilio che hanno percorso i secoli per acciuffarlo poco prima che passasse la frontiera. Le valigie riportano a galla i libri, per lo più manuali e qualche romanzo. Volumi che venivano «da casa», arrivati dall’Italia dentro plichi e doppifondi che i dirigenti di Botteghe Oscure, o i connazionali col passaporto in regola, recapitavano all’ufficio di via Opletalova, appena dietro piazza San Venceslao.

Casa. Passa mai la voglia di tornare a casa? Forse sì. Quando si va nel socialismo realizzato, quando si tocca con mano l’eden. «A dire che si era comunisti, noi eravamo orgogliosi, perché eravamo in un paese… quello che volevamo noi secondo il nostro…» e al diavolo se «invece non era così», se «non era il paradiso che pensavamo noi»! Comunque meglio dei processi ai partigiani e dei fascisti liberi di riprendere le posizioni di un tempo.

O no?

Certo Oliveto, o Bologna che sia, è qualcosa di diverso, è casa. E allora quando gli dicono che il processo è chiuso, lui non esita: «voglio andare a casa. Mé a vói andèr a vàdder mî pèdar e mî mèdar[2]… la mia ragazza». Ci guarda e ride. Ma certo, come si fa a non capire? Meglio il buongoverno del sindaco Dozza a casa tua che una vita di sradicamento sotto il Patto di Varsavia. Ma allora perché nel ’54 non fa in tempo a tornarci, in quella casa, che se ne va in Svizzera?

Mario insiste sulle relazioni forti che legano i partigiani fra loro e alla loro terra, ci suggerisce l’inevitabilità del ritorno anche per chi ha scelto di invecchiare altrove. «Sì, sì…», fa Otello, «io sono rimasto legato qui, sennò non sarei tornato». Quindi la Svizzera è ancora meglio del Pci e di Giuseppe Stalin? cosa sta cercando di dirci?

[…]

Arriva il momento di salutarci e siamo frastornati. Una matassa di appunti fitti ma ci sembra di non capire nulla. Scorgiamo almeno tre vite – la lotta armata partigiana, l’esilio oltrecortina e l’emigrazione nel bernese – che solo in parte si spiegano l’un l’altra. […] Otello legge, impara, scrive, torna, si sposa, riparte, affronta un lutto terribile. Otello sceglie. E questa storia dell’esilio accettato con muta rassegnazione non convince, elude tutte le domande che affollano i nostri pensieri. È probabile che sappia, ma il suo non è martirio, questo è chiaro. Otello tirava (tira?) dritto, credeva (crede?), è determinato. Quelli incolpati quando hanno attentato a Togliatti, ripeteva. Ma che c’entra il 14 luglio 1948 con l’uccisione di Mignani, più vecchia di quasi tre anni? Quello che ci sembrava un classico regolamento di conti con gli (ex?) fascisti perde centralità nel suo racconto, scolora di fronte al resto. Come lo spieghiamo nel libro?

«Non lo so» fa uno di noi due.

«Sarà il caso di tornare su a Crespellano a chiederglielo» fa l’altro mentre ci fiondiamo sulla provinciale in direzione est.

[1]     Diceva per il paese: “Ah, ma devono mangiare quelli, che saranno là, alla Bastèrda”.

[2]     Voglio andare a trovare mio padre e mia madre.

]]> Heda Margolius Kovály: autobiografia, memoria e storia del Novecento https://www.carmillaonline.com/2017/07/27/heda-margolius-kovaly-autobiografia-memoria-e-storia-del-novecento/ Wed, 26 Jul 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39591 di Armando Lancellotti

Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00

«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E [...]]]> di Armando Lancellotti

Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00

«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E con una prosa precisa ed uno stile asciutto che denotano rigore ed estrema lucidità di pensiero Heda Bloch – Margolius e Kovály sono i cognomi dei due mariti – narra le vicende autobiografiche vissute tra il 1941 e il 1968, nel cuore dell’Europa – a Praga – e a metà di quel “secolo di ferro” che è stato il Novecento. Si tratta di uno di quei casi in cui gli avvenimenti e gli episodi di una esistenza individuale e privata diventano un tutt’uno con i fatti e gli eventi universali e collettivi della Storia, che travolgono i primi come un tragico ed ineluttabile destino di ingiustizia, di dolore e di morte che è impossibile contrastare.

Heda Bloch nasce in una famiglia di praghesi ebrei nel 1919 ed è poco più che ventenne quando nel 1941 ha inizio la deportazione degli ebrei cecoslovacchi verso i ghetti prima e i centri di sterminio poi nella vicina Polonia. Ne ha invece poco più di trenta nel 1952, quando il marito – Rudolf Margolius, viceministro al Commercio estero del governo comunista della Repubblica cecoslovacca di Klement Gottwald – viene giustiziato poiché coinvolto nel caso Ślanský, quel processo farsa che con metodi pedissequamente stalinisti epurò il partito comunista cecoslovacco e ne eliminò importanti esponenti, quasi tutti ebrei. Infine di anni Heda ne avrà quarantanove quando nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia e il crollo delle speranze riposte nella Primavera praghese, abbandona il paese per recarsi in esilio negli Stati Uniti.

Sono queste le coordinate temporali che delimitano il periodo storico che Heda Margolius Kovály ricostruisce secondo la prospettiva della narrazione autobiografica, ed è a Praga, cioè in una città e in un paese per eccellenza mitteleuropei, che tutta la violenza di cui il XX secolo è stato capace si concentra e si scatena: ad un totalitarismo se ne sostituisce un altro, quasi senza soluzione di continuità e all’invasione, all’occupazione e ai crimini nazisti seguono il colpo di stato, l’occupazione, l’invasione e i crimini stalinisti e sovietici più in generale.

Quello che l’autrice offre al lettore con questo prezioso racconto autobiografico, pubblicato per la prima volta in Canada nel 1973 ed ora tradotto in italiano da Adelphi, è uno spaccato dell’Europa tra il secondo conflitto mondiale e la guerra fredda e al tempo stesso è un’acuta e profonda riflessione sul totalitarismo, sulle sue costanti strutturali e soprattutto sulle sue conseguenze, che si ripercuotono sulle esistenze individuali e collettive, private e sociali e che si manifestano nella soppressione della libertà, nello stravolgimento della verità e nella violazione della dignità e della vita umane.

Per un regime totalitario non è difficile mantenere la gente nell’ignoranza. Non appena rinunci alla libertà – per “implicita necessità”, per disciplina di partito, per conformità al regime, per la grandezza e la gloria della Patria, o per qualunque altro dei surrogati offerto in modo tanto convincente – ti privi del diritto alla verità. La tua vita comincia a scorrere via adagio, goccia dopo goccia, come si ti fossi tagliato le vene; ti sei volontariamente condannato all’impotenza (p. 16).

Nel 1941 le autorità tedesche del Protettorato di Boemia e Moravia ordinano la deportazione in massa degli ebrei praghesi e la famiglia Bloch viene inviata in Polonia, nel ghetto di Łódź, di cui la scrittrice fornisce una descrizione scarna, fatta di immagini dure e ruvide, che al meglio rappresentano la violenza e la disperazione della non-vita in un ghetto, a cui fa seguito una tappa ancora peggiore verso l’annientamento dell’umano progettato dai nazisti, cioè la deportazione ad Auschwitz, dove l’intera famiglia Bloch trova la morte, eccezion fatta per Heda, che, dopo un periodo di lavoro in un altro campo e presso una fabbrica di mattoni, viene destinata al trasferimento a Bergen Belsen, quando ha inizio lo smantellamento dei grandi lager a Est, in seguito all’avvicinamento della linea del fronte e dell’Armata Rossa. È proprio in occasione di questa “marcia della morte” che Heda, insieme ad alcune compagne, tenta l’impensabile e l’impossibile: la fuga e il ritorno a Praga.

A spingere le fuggitive non è solo l’istinto di sopravvivenza, che nonostante tutte le brutalità subite non è stato ancora sopraffatto dalla rassegnazione alla morte, ma è anche e forse soprattutto il desiderio intenso di rivivere, fosse anche solo per un breve momento, la sensazione di essere libere, cioè esseri umani capaci di autodeterminarsi, di scegliere. È una fuga verso la libertà e per la riconquista di quella dignità umana che il ghetto prima e il campo poi avevano loro negato. Ed il ritorno a Praga, dopo pericoli e difficoltà inimmaginabili, in una città cioè ancora nelle mani delle forze di occupazione e della Gestapo che le dà la caccia, mette Heda Margolius Kovály da un lato nella condizione di sentirsi di nuovo un essere umano, «una donna con un passato e un futuro» (p. 31), ma dall’altro la indirizza verso una via crucis fatta di nascondigli improvvisati, della paura di essere catturata o denunciata e dello spaesamento causato dal ritorno alla vita libera e alla sua città dopo anni nei quali era stato come se avesse (non)vissuto in un (non)mondo a parte che difficilmente gli altri avrebbero potuto capire o anche solo immaginare.

Ma ciò che più sconvolge l’autrice e turba il lettore è l’esperienza della codardia e della fredda indifferenza dei conoscenti e anche degli amici di un tempo, che – chi per paura, chi per insensibilità, chi mostrando addirittura disappunto dinanzi alla ricomparsa di chi credeva morto – più o meno garbatamente chiudono la porta in faccia all’ebrea fuggita dal campo, all’appestata da evitare a tutti i costi. Sono proprio queste le pagine più incisive e più riuscite della prima parte del libro, pagine che vedono la protagonista errare per la città, col rischio di essere catturata, alla ricerca di qualche amico del passato che sia disposto ad aiutarla. Negli occhi di quasi tutti, e non solo di quelli che le chiudono la porta in faccia, Heda coglie un insieme di spavento, stupore, incredulità, come se costoro si trovassero di fronte ad un essere alieno, ad una donna tornata dal regno dei morti. Ed in effetti ella, come gli altri ebrei deportati, per quattro anni ha fatto parte di un altro mondo, di un non-mondo fisicamente vicino, ma ontologicamente lontanissimo, in quanto destinato al non-essere, all’annientamento non solo dell’esistenza dell’uomo, ma anche della sua essenza, in altri termini un mondo collocato in un altrove infernale dal quale nessuno avrebbe dovuto fare ritorno.

L’epifania di un volto noto, ma quasi reso irriconoscibile dalle brutalità sofferte nel lager, agisce come un potentissimo richiamo alla coscienza di ognuno, inchiodata a fare i conti con se stessa e con il proprio senso di colpa. Pertanto non solo la paura di essere accusati dalla Gestapo di complicità con una ebrea fuggiasca, ma forse ancor di più l’imbarazzo di fronte alla cruda verità che si presenta con i lineamenti di un volto femminile stravolto dalla deportazione ad Auschwitz, immobilizzano molti degli amici e dei conoscenti del passato, che non vogliono, non possono, non riescono ad aiutare una donna in fuga dalla disumanità e alla disperata ricerca di prove che attestino che nonostante tutto l’umanità sia ancora possibile.

Scrive l’autrice: «mi toccava fare i conti con un nemico peggiore: la paura e l’indifferenza degli uomini. […] cercavo un essere umano nel quale l’umanità si dimostrasse più grande della paura» (p. 34).

E proprio perché spaesata, disorientata e isolata in quella città tanto amata e altrettanto vagheggiata durante la prigionia, Heda prende la decisione, l’unica possibile, di cercare rifugio all’interno della Resistenza, di lottare per la propria sopravvivenza combattendo il nemico. Una scelta fatta e per necessità e per considerazioni quasi più etiche che propriamente politiche. Sono la ricerca dell’umano dopo aver sperimentato la disumanità e la volontà di agire come donna libera e cosciente della propria dignità che inducono Heda alla militanza partigiana, ben più della coscienza politica o dell’adesione convinta agli ideali del socialismo e del marxismo.

Finalmente la primavera del 1945 porta con sé anche la vittoria, la liberazione dal nazismo e il ritorno a Praga di Rudolf Margolius, marito di Heda dal 1939, anche lui deportato prima a Łódź, poi ad Auschwitz e a Dachau, da cui era riuscito a fuggire. La pace sembra riportare nella vita di Heda la possibilità della felicità dopo gli abissi del dolore, ma la realtà sin da subito si dimostra tutt’altro che facile.

Due mesi dopo la liberazione, gli applausi e gli abbracci erano finiti. La gente non regalava più cibo e vestiti, ma li vendeva sul mercato nero. Coloro che si erano compromessi durante l’occupazione cominciarono a calcolare e a tramare, a controllarsi e a spiarsi a vicenda, a coprire le proprie tracce, ansiosi di mettere al sicuro le proprietà acquisite grazie alla collaborazione con i tedeschi, alla viltà e alle denunce, oppure saccheggiando le case degli ebrei deportati. Ben presto il senso di colpa e la paura della punizione generarono odio e sospetti contro le vere vittime dell’occupazione: gli oppositori attivi e passivi, i partigiani, gli ebrei e i prigionieri politici, le persone oneste che avevano resistito alle persecuzioni senza tradire i propri principi. Gli innocenti diventarono un rimprovero vivente e una potenziale minaccia per i colpevoli (p. 62).

Sono mesi ed anni al contempo molto difficili ed entusiasmanti quelli immediatamente successivi al 1945: la Cecoslovacchia ritorna ad essere una repubblica indipendente e sovrana, un intero paese ed un’intera società sono da ricostruire, da reimpostare su nuove e migliori fondamenta. Il piccolo appartamento che viene assegnato ai Margolius si riempie quasi tutte le sere di amici e conoscenti che discutono di politica, di democrazia, di socialismo, di comunismo, della guerra, degli errori del passato, dei limiti del modello liberal-democratico e delle nuove speranze e prospettive proposte dal socialismo, dell’Unione Sovietica come paese amico ed alleato. La scelta comunista di Rudolf Margolius è anteriore e molto più convinta di quella della moglie, che alla fine, nonostante molte perplessità, si iscrive al Partito per amore del marito e fiducia assoluta nella bontà delle sue idee e per considerazioni – ancora una volta – di ordine morale più che politico. Il crollo del mondo del passato e dei suoi valori dimostratisi fallimentari, la volontà di non rassegnarsi alla malvagità e alla meschinità della natura umana e di credere che nonostante tutto sia possibile lavorare per una società libera, giusta, uguale portano anche Heda a seguire il marito all’interno del Partito comunista.

A quel tempo i comunisti continuavano a sottolineare le basi scientifiche della loro ideologia, ma io so che la strada che portò molti cecoslovacchi tra le loro file era lastricata di forti e buone emozioni (p. 68).

Emozioni, appunto, passioni, sentimenti o impressioni, come quelle suscitate dal comportamento dei comunisti all’interno dei lager e che la scrittrice così ricorda:

Il nostro condizionamento rivoluzionario era cominciato nei campi di concentramento. Forse eravamo rimasti particolarmente colpiti dall’esempio dei nostri compagni di prigionia, comunisti che spesso si comportavano come esseri superiori. L’idealismo e la disciplina di partito conferiva loro una forza e una resistenza che nessun altro poteva eguagliare; sembravano soldati ben addestrati in mezzo a una folla di bambini. […] Nei campi di concentramento si era creato un forte senso di solidarietà, l’idea che il destino di ciascun individuo fosse in ogni modo legato al destino del gruppo, sia che si trattasse del gruppo di prigionieri, dell’intera nazione o di tutta l’umanità (p. 70-71).

Ma l’esperienza del lager risulta fondamentale, secondo le acute analisi dell’autrice, anche per comprendere quella predisposizione psicologico-emotiva riguardo al diritto e al concetto di libertà che contribuì a far sì che molti, in quelle particolari circostanze, quasi inconsapevolmente compissero passi sempre più decisi vero una nuova, una seconda, dittatura.

Gli anni di prigionia ebbero un altro effetto paradossale. Per quanto desiderassimo essere liberi, il nostro concetto di libertà era cambiato. Rinchiusi dietro il filo spinato, privati di ogni diritto, compreso quello alla vita avevamo smesso di considerare la libertà come qualcosa di naturale e assiomatico […] Di solito il ragionamento era più o meno questo: se per costruire una nuova società è necessario rinunciare momentaneamente alla libertà, subordinare qualcosa che amo a una causa in cui credo con forza, sono disposto a fare questo sacrificio. […] Questa vocazione al martirio era più forte di quanto generalmente si pensasse (p. 71-72).

E proprio il dogmatismo, la richiesta da parte del Partito di un atteggiamento quasi fideistico e religioso, la riduzione del marxismo a facile formulario di risposte semplici a problemi complessi sono gli aspetti della militanza nel partito comunista, ancor prima del colpo di stato sovietico del 1948, che sconcertano maggiormente Heda Margolius, in quanto, come sperimenterà personalmente, «un sistema politico che non può funzionare senza martiri è un sistema guasto e distruttivo» (p. 73).

Prima di quello che sarebbe poi stato definito il “Febbraio vittorioso”, cioè il golpe sovietico, in Cecoslovacchia molti comunisti credono ancora che potranno liberamente scegliere la propria via nazionale verso il socialismo e si guarda con maggiore interesse alla Jugoslavia di Tito che all’Urss di Stalin, ma il 1948 pone una pesante pietra tombale su queste speranze ed ha inizio una seconda, lunga, dura dittatura totalitaria che trasforma la Repubblica cecoslovacca in un satellite, uno dei più fedeli, del sistema staliniano. L’intero paese, le sue istituzioni, la sua economia, la sua società vengono sovietizzati e tutto il potere è esercitato in modo assoluto dal monolitico e burocratico Partito comunista di Klement Gottwald: era così nata una nuova Cecoslovacchia in cui «contavano solo la coscienza di classe e le origini di classe, l’atteggiamento verso il Nuovo Ordine e, soprattutto, la devozione all’Unione Sovietica» (p. 103).

Rudolf Margolius di quel sistema e di quel governo diviene parte integrante, sale di posizioni nel partito e diventa viceministro al commercio estero, impegnandosi a fondo in un’attività politica in cui ancora crede convintamente, ma al tempo stesso trasformandosi in ingranaggio di un gigantesco e centralistico sistema burocratico statale-partitico che è sempre più chiuso su se stesso e lontano dalla società, dal mondo del lavoro, dal paese reale, sui quali però con le proprie decisioni e pianificazioni politiche incide pesantemente.

Molto più tardi sarei arrivata a chiedermi se non facessero apposta ad assegnargli un carico di lavoro così folle: chiunque occupasse un posto di responsabilità nel governo non aveva un momento libero per controllare l’effetto del suo lavoro sulla vita quotidiana delle persone. I funzionari del governo e del Partito socializzavano solo tra di loro; si vedevano solo tra loro a conferenze, incontri e assemblee; giudicavano lo stato del paese basandosi solo su relazioni e documenti ufficiali, spesso insensati o del tutto falsi (p. 101).

Col passare degli anni e il radicamento del sistema stalinista le cose continuano a peggiorare, iniziano la repressione poliziesca, le persecuzioni nei confronti dei presunti nemici e sabotatori del socialismo e delle spie al soldo dell’Occidente, gli arresti indiscriminati, anche di persone del tutto insospettabili, i processi dagli esiti già scritti e che irrimediabilmente si concludono con una confessione piena dell’imputato, di conseguenza condannato come nemico del popolo.

Alla fine non dicevamo più niente. La nostra unica reazione era un silenzio attonito, terrorizzato. Solo allora alcuni cominciarono a capire che eravamo sì vittime di un complotto, ma non organizzato dall’Occidente. […] Più il Partito si sforzava di dipingere un’immagine dignitosa e benevola dell’Uomo, meno gli uomini in carne e ossa contavano qualcosa nella società. Più la nostra vita appariva prospera e felice sulle pagine dei giornali, più era triste nella realtà. La crisi degli alloggi divenne disperata. […] Davanti ai negozi c’erano code infinite; mancavano quasi tutti i generi di prima necessità. […] Le imprese nazionalizzate andavano a rotoli. […] Nel 1951 persino l’ottimismo di Rudolf era ormai scomparso, sostituito da un’autopunitiva dedizione al lavoro (p. 109 -111).

Ma il momento peggiore per i Margolius è certamente rappresentato dall’anno 1952, quando in Cecoslovacchia va in scena un “processo farsa” staliniano da manuale: il “processo Ślanský” e cioè un caso di epurazione interna al partito e al governo che vede coinvolto, sulla base di accuse infondate e di prove di alto tradimento del tutto inesistenti l’allora segretario generale del Partito – Rudolf Ślanský appunto – e un’altra dozzina di alti dirigenti ed esponenti del governo, non a caso quasi tutti di origini ebraiche, tutti condannati a morte come nazionalisti borghesi, trotzkisti e sionisti; uno di questi è Rudolf Margolius.

Per Heda Margolius inizia un periodo tremendo, innanzi tutto per la perdita insensata del marito e del padre di suo figlio ed in secondo luogo perché sono l’intera città di Praga, tutta la società cecoslovacca, il paese nel suo insieme che le si rivoltano contro. Prima il sospetto, a cui seguono l’isolamento, poi l’espulsione dal lavoro – in un paese in cui la disoccupazione è considerata reato e atteggiamento antisociale – e da ogni altro luogo o ambito sociale, poi vengono l’ostracismo pubblico, il disprezzo e l’odio. Le stesse circostanze già vissute quando dopo la fuga dal lager era stata respinta quasi da tutti si ripetono tragicamente: Heda è un’appestata, in quanto moglie di un traditore del Partito, della patria, del proletariato e delle sue infallibili guide, Gottwald e soprattutto Stalin. Pertanto vive in condizioni disperate, nella più nera miseria, elemosinando lavori mal pagati per sfamare almeno suo figlio, ammalandosi gravemente più volte e più volte rischiando seriamente di morire nella quasi assoluta indifferenza di un’intera società ormai inebetita dal regime da cui è stata plasmata. La società cecoslovacca infatti si regge sul conformismo, sull’omologazione agli slogan propagandati, sulla religiosa fede nel Partito, ma ancor di più sulla paura, sul sospetto e sulla delazione. Tutti aspetti questi che non mutano, se non forse impercettibilmente, nel passaggio da un totalitarismo ad un altro.

Il soccorso di colui che diventerà poi il suo secondo marito – Pavel Kovály, docente di filosofia, già amico di Heda e di Rudolf Margolius – insieme alla straordinaria tenacia e al disperato coraggio le permettono di vivere e di sopravvivere alla morte di Stalin (1953) e di assistere così alla destalinizzazione del 1956. E da quel momento prende il via un nuovo eroico capitolo della vita di Heda, ora Kovály, la battaglia per la riabilitazione di Rudolf Margolius. Ma ancora una volta si tratta di uno scontro impari, che vede prevalere le logiche autoconservative del regime e del Partito che solo parzialmente riabilitano i condannati del processo Ślanský ed ammettono i propri errori, senza però rivedere il processo nel suo insieme e senza rendere pubbliche le proprie colpe, i crimini compiuti e l’innocenza dei condannati.

Il Partito comunista cecoslovacco riuscì a eludere la questione del processo per tutti gli anni Cinquanta e per i primi anni Sessanta. Ciò che pose fine a quell’epoca non fu il malcontento interno, che il Partito poteva permettersi di ignorare, bensì la pressione crescente dall’estero. In Ungheria, Bulgaria e Polonia le vittime dei vari “processi farsa”, come ora venivano chiamati, erano state riabilitate da tempo. Solo nel nostro Paese non c’era nulla che scalfisse la superficie di quello stagno fangoso (p. 187).

Solo nel 1963, ma con molte riserve e cautele, il

Comitato centrale preparò un documento intitolato “Una comunicazione”, a uso esclusivo degli iscritti, che venne letto a porte chiuse alle assemblee di tutte le organizzazioni di partito. […] Solo alcuni funzionari accuratamente selezionati ebbero il permesso di vedere il documento, mentre ai membri del Partito che ne ascoltarono il testo venne severamente proibito di parlarne. Tuttavia, malgrado il divieto, nel giro di un giorno il contenuto del documento mi era stato riferito praticamente per intero, parola per parola (pp. 187-188).

Solo cinque anni più tardi, nel 1968, la Corte suprema cecoslovacca avrebbe decretato pubblicamente la piena riabilitazione di molti condannati ingiustamente e tra questi anche le vittime del caso Ślanský. Ma il ’68 è anche l’anno della Primavera di Praga, che riaccende in Heda Margolius Kovály e in tanti altri suoi connazionali la speranza di poter mutare radicalmente il socialismo cecoslovacco, di renderlo più simile a come idealisticamente molti lo avevano pensato e immaginato subito dopo il 1945, di poter smuovere le acque stagnanti e marce di quella palude politica che nonostante la destalinizzazione permaneva immutata negli anni.

Heda ora è una donna matura di quarantanove anni, ha alle spalle un vissuto privato e politico durissimo e per lo più fatto di dolorosi drammi personali, di sconfitte e di cocenti delusioni, ma con entusiasmo partecipa e dà il proprio contributo a quella così cruciale pagina della storia del proprio paese dell’Europa intera; entusiasmo che traspare palesemente nelle pagine del libro – le ultime – che raccontano di queste vicende.

Non dimenticherò mai la prima grande manifestazione giovanile, nel marzo di quell’anno. Circa ventimila fra studenti e giovani operai si stiparono nel grande salone della Fiera, altre migliaia si ammassarono nelle sale attigue, a altri ancora si radunarono all’esterno, dove poliziotti confusi e arcigni tentarono invano di provocare un incidente come pretesto per interrompere il raduno.
Tutti quei giovani erano nati e cresciuti in una società attanagliata dalla censura, dove l’espressione di qualunque opinione indipendente era trattata come un crimine. Cosa potevano sapere della democrazia? Come potevano sapere anche solo cosa volevano? Eppure, man mano che procedeva la serata, noi che eravamo più vecchi li ascoltavamo sempre più stupiti e ammirati, colpiti non solo dalla precisione e dalla chiarezza delle idee espresse, manche dall’alto livello della discussione e della disciplina di quella massa di giovani. Sapevano benissimo cosa volevano e cosa non volevano, su cosa erano aperti al compromesso e a cosa non volevano rinunciare.
La primavera del 1968 ebbe l’intensità, l’ansia e l’irrealtà di un sogno avverato. […]
Quello era il socialismo che Rudolf aveva perseguito. Vent’anni prima era un’illusione; ora stava diventando realtà (pp. 201-204).

Ma nella notte tra il 20 agosto e il 21 agosto, truppe di Unione Sovietica, DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria varcano il confine cecoslovacco, puntando sulla capitale; i vertici del Comitato centrale e del Partito comunista cecoslovacco che avevano introdotto il “nuovo corso” vengono rapidamente deposti; la resistenza e l’opposizione popolari bruscamente e violentemente represse e la “normalizzazione” sovietica fa, ineluttabile, il suo corso. È l’ennesima, cocente delusione che Heda è costretta a conoscere, ma questa volta la conduce a prendere la decisione di abbandonare la propria città – teatro di molte delle brutture subite nei trent’anni precedenti, ma ugualmente amata – il proprio paese, il proprio passato per iniziare un futuro diverso altrove, in esilio.

Il treno non si fermò a lungo al confine, e quando cominciò a muoversi mi sporsi dal finestrino più che potevo per guardare indietro. L’ultima cosa che vidi fu un soldato russo, che montava la guardia con la baionetta in canna (p. 214).

A Praga Heda Margolius Kovály ritornerà molto più tardi, dopo la caduta del Muro, dopo la fine dell’Unione sovietica, dopo la divisione tra Repubblica ceca e Repubblica slovacca e solo qualche anno prima della sua morte, avvenuta il 5 dicembre 2010.

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