postmoderno – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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Muhammad Ali: cazzotti e parole verso la società dello spettacolo https://www.carmillaonline.com/2017/06/16/muhammad-ali-cazzotti-e-parole-verso-la-societa-dello-spettacolo/ Thu, 15 Jun 2017 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38588 di Gioacchino Toni

marco_mazzeo_sofista nero_coverMarco Mazzeo, Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 132, € 13,00

Non siamo di fronte né all’ennesima celebrazione del grande campione dei pesi massimi, né ad un ritratto volto a smitizzarlo mettendo in luce i suoi aspetti peggiori. Il sofista nero è piuttosto una biografia allegorica che si apre con una suggestiva, ed impegnativa, analogia tra Charles Baudelaire e Muhammad Ali. Come il poeta rappresenta, secondo Walter Benjamin, il modello della trasformazione subita dal concetto di esperienza nel capitalismo tardo ottocentesco, così [...]]]> di Gioacchino Toni

marco_mazzeo_sofista nero_coverMarco Mazzeo, Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 132, € 13,00

Non siamo di fronte né all’ennesima celebrazione del grande campione dei pesi massimi, né ad un ritratto volto a smitizzarlo mettendo in luce i suoi aspetti peggiori. Il sofista nero è piuttosto una biografia allegorica che si apre con una suggestiva, ed impegnativa, analogia tra Charles Baudelaire e Muhammad Ali. Come il poeta rappresenta, secondo Walter Benjamin, il modello della trasformazione subita dal concetto di esperienza nel capitalismo tardo ottocentesco, così il pugile può essere visto, secondo Marco Mazzeo, come l’analogo contemporaneo. Il “boxeur-parlante” afroamericano viene affrontato dal volume come personaggio complesso che vive ed anticipa quella forma del tardo capitalismo definita da Guy Debord “società dello spettacolo”.

Il controverso boxeur afroamericano può essere interpretato come una contemporanea riproposizione della figura del sofista mercenario colpevole, secondo la tradizione, di aver «inquinato il mondo aureo dell’antica Atene» (p. 6). Ecco allora la proposta di Mazzeo: vedere nel pugile afroamericano una sorta di “sofista nero” capace di riportare alla luce conflitti dimenticati. Secondo tale lettura, tra gli anni Sessanta ed Ottanta l’afroamericano avrebbe riportato «sulla scena l’orrore della lotta totale chiamata “pancrazio”, le ingiustizie della guerra e della segregazione razziale, la separazione irrealistica tra razionalità del discorso e brutalità del corpo» (p. 6).

La prima parte del volume è incentrata sul periodo che va dagli esordi del pugile sul ring fino al celebre incontro di Liston del 1964, mentre la seconda si sofferma su Muhammad Ali che rifiuta di arruolarsi e prende a cazzotti Foreman, Fraizer e Spinks. Se nella prima parte lo studioso presenta una serie di riflessioni filosofiche attorno alle gesta ed alle parole del boxeur, nella seconda parte l’analisi si concentra attorno «ai problemi costituiti da uso e produzione nel mondo contemporaneo» (p. 7).

Nell’analisi di alcune celebri affermazioni del pugile lo studioso rintraccia modalità retoriche, “mettere l’altro alla prova”, comuni tanto alla moderna società dello spettacolo che all’età antica (tradizione sofista) e preantica (pankration). Secondo Mazzeo il fatto che attorno al pugile siano sorte tanto letture apologetiche che denigratorie (Ali come businessman) delinea un personaggio ambivalente che «rappresenta un caso paradigmatico per il mondo contemporaneo. Per due aspetti: uno legato alla retorica e alla parola, l’altro connesso all’esperienza di chi sfida» (p. 14).

Da un lato il pugile anticipa e corrobora i tempi della società dello spettacolo, da un altro costringe il mondo in cui vive a confrontarsi con tracce residuali di tempi lontani» (p. 15). Tale cortocircuito tra futuro e passato viene definito dallo studioso come “anacronismo innovativo”. Alì ricorda molto da vicino il sofista antico nel suo essere one man show. «Se il cinema di Hollywood farà del duello western l’apogeo della retorica nazionalista della frontiera, Clay/Ali metterà sotto i riflettori della scena gli aspetti violenti e spietati di una forma di combattimento che l’Occidente consce sin dai tempi della Grecia arcaica (pp. 15-16).

Mazzeo analizza, parola per parola, il celebre discorso tenuto dal pugile, ancora Cassius Clay, nel 1960 all’aeroporto di Louisville, di ritorno dall’oro conquistato alle Olimpiadi di Roma. Si tratta di un testo autoelogiativo ove il boxeur affronta la questione del proprio nome vantandosi del fatto che in Italia viene dichiarato più forte del Cassio latino. Nel 1964, dopo aver battuto Liston, il pugile cambia il proprio nome dapprima in Cassius X, poi in Muhammad Ali. Il passaggio da Cassius Clay a Muhammad Ali anziché essere ricondotto alle consuete letture che mettono in luce le motivazioni religiose, secondo lo studioso può essere spiegato in altro modo: Muhammad è un nome talmente diffuso da approssimarsi a quello che la grammatica indica come “nome comune”, dunque una sorta di proclama di appartenenza al genere umano.

Nel corso della conferenza stampa che precede il combattimento con Liston nel 1963, Ali si lascia andare ad un procedimento retorico che lo studioso definisce poetic assault. Ad una prima parte del discorso elogiativa, ne succede una di biasimo e insulto, dunque una di carattere profetico-predittivo che anticipa il vero e proprio scontro fisico sul ring. Non male per uno che di mestiere tira cazzotti sul ring. Fino a questo momento la figura del pugile è sempre stata quella di un individuo privo di parola ma l’afroamericano cambia le carte in tavola con i suoi discorsi e non di rado mostra abilità di sovvertimento verbale della realtà e ricorre non tanto a promesse o giuramenti di vittoria ma a vere e proprie previsioni ordaliche.

Nel testo del 1963, Clay ripropone la logica dell’ordalia in un mondo del tutto diverso: si sottopone a una prova dolorosa per mostrare, costruendola, la verità che lo riguarda. Il pugile riporta lo scontro della boxe alle sue origini di “messa alla prova”, un duello che decreti chi ha ragione. […]
La predizione di Clay mette in cortocircuito diretto credibilità retorica e performance agonistica giacché si apre proprio con la nozione di prova: “Predico che vincerò in otto riprese per provare che io sono grande”. A chi darà prova che egli è grande? A tutti: a Liston, al pubblico, a se stesso (p. 27).

Astutamente nel corso del discorso tiene aperto un ventaglio di possibilità in modo da rendere più facile il pronostico ma al di là dell’atto di furbizia mette in campo una drammatizzazione epidittica della profezia esaltante la sua potenza e minaccia l’avversario suggerendogli di evitare di scontrarsi inutilmente. Si tratta di una retorica, suggerisce lo studioso, capace di fondere corpo e verbo, pungi e parole, trasformando la prova sul ring in un fatto legato alla parola. La violenza del pugilato si fonde con l’aggressività retorica, logos e praxis si intrecciano e quel che è più scandaloso nell’America del tempo è che tutto ciò è messo in pratica da un afroamericano.
Nel discorso del 1963 le parole non si limitano a descrivere fatti, esse li producono. Si tratta di una retorica doppiamente performativa, suggerisce Mazzeo,

che accentua, esaspera e riscopre i tratti performativi propri di ogni atto retorico. Gli assalti poetici, infatti, sono inscindibili da attacchi corporei veri e propri, da performance atletiche di aggressività ritualizzata ma non per questo priva di effetti. Questo aspetto, l’intreccio tra parola e combattimento, riporta sulla scena d’Occidente un tema inquietante: non solo il rapporto tra retorica e azione corporea, ma tra retorica e violenza […] la produzione performativa di Clay (poi Ali) mette al centro della scena due figure famigerate connesse tra loro. La prima è il pancrazio, una lotta totale, l’attività atletica più prossima alla guerra di tutti contro tutti, di quel che la filosofia moderna chiama “stato di natura”. La seconda è il sofista, l’oratore più discreditato del mondo antico (pp. 31-32).

Se per certi versi la boxe è erede del pancrazio, il pugile che usa anche la parola riesuma i fantasmi del sofista e non è un caso se i denigratori di Ali insistono sul suo parlare troppo.

Un boxeur afro-americano dalla lingua sciolta infrange, in un sol colpo (è il caso di dirlo), due tabù. Il primo riguarda il ring: come lo schiavo nel mondo classico può testimoniare in pubblico solo sotto tortura, così il nero di metà Novecento per dire la sua deve incassare una pioggia di cazzotti. Il secondo tabù riguarda le scienze dell’argomentazione: l’abilità persuasiva di un pugile nero che sconfigge gli avversari con le parole e con i pugni confuta la presunta dicotomia tra irrazionalità del corpo e logica cristallina del discorso. [Ali] svela che linguaggio e boxe sono entrambe forme di combattimento. A tal proposito la retorica di Ali interviene in una complessa stratificazione etico-politica per mezzo di due strumenti innovativi: previsioni autoconfermative e un’opera di biasimo straordinariamente aggressiva (p. 36).

Nell’ultima parte del discorso di Liston il boxeur compie un rovesciamento tra antecedente e conseguente, sovverte il canone che solitamente regola il rapporto tra parola ed azione. Nella boxe non è necessaria alcuna provocazione essendo uno scontro programmato, il biasimo con cui le parole di Ali colpiscono il contendente può essere visto in sé come modo di colpire. Clay/Ali ricorre ad un procedimento retorico che consta nell’animalizzazione dell’avversario ricorrendo ad un immaginario razzista che trasforma l’avversario di colore in una scimmia, un orso. Così facendo il pugile «rovescia lo stereotipo del nero animalesco che fa la boxe perché non sa parlare, nel contempo quello stereotipo è utilizzato dal pugile contro l’avversario. […] La stessa persona che pochi giorni dopo l’incontro proclama di aver combattuto per liberarsi della schiavitù impiega un argomento razzista che fa di Liston il negro da picchiare» (pp. 41-42)

L’epiteto animale può essere sia occasione di lode che di scherno; nell’antichità i migliori lottatori di pancrazio vengono spesso definiti “leonini” con finalità elogiative così come in epoca recente indicare come “pantera” un pugile intende celebrare le sue qualità. Ali, invece, ricorre a riferimenti animaleschi col dichiarato intento di coprire d’infamia l’avversario; «da mezzo di lode, l’epiteto animale diventa strumento di biasimo» (p. 52).
Ali risulta anche un campione della retorica epidittica tanto nel biasimo che nell’elogio (rivolto a se stesso) e soltanto nell’autoelogio l’epiteto animale riconquista una connotazione positiva.

malcolm-x-and-muhammad-aliNegli anni Sessanta, ricorda Mazzeo, la boxe non è molto amata dai movimenti di contestazione; la Nation of Islam vede in essa l’esibizione dei neri sottomessi e la sinistra radicale americana la denuncia come veicolo di distrazione di massa. Ebbene Muhammad Ali modifica il punto di vista di entrambi i movimenti. «Ali incarna un aspetto della boxe che è il contrario della distrazione delle masse […] Il pugilato non è per forza palcoscenico dello schiavo. È forma ritualizzata di una “prova di realtà”, esibizione circoscritta e cruda di un aspetto fondamentale di quel che significa fare “uso della vita”» (p. 64).

Walter Benjamin individua nella poesia di Baudelaire un’espressione dell’esperienza nel capitalismo avanzato e concentrandosi sulla folla vi individua «una delle forze in grado di produrre continui “choc” per il cittadino metropolitano» (p. 73). Nella società dello spettacolo, sostiene Mazzeo, Muhammad Ali rappresenta una figura chiave perché agisce all’interno della struttura concettuale ricostruita da Benjamin.

Da questo punto di vista, il sofista nero merita di essere annoverato tra i più zelanti allievi di Baudelaire. Con pugni e parole egi testimonia i cortocircuiti dell’esperienza che nei versi del poeta francese trovavano una delle più intense raffigurazioni. Come ambivalente è Baudelaire che adora gli choc ma perora la figura del flâneur, lento contemplatore di vie parigine, così ambivalente è Muhammad Ali. Da un lato il pugile è l’antesignano del mondo che sarà: fenomeno globale che supera i confini degli Stati nazionali, personaggio nel quale è indistinguibile l’attore dalla parte che recita, inquieto presagio del rapporto tra Islam e Occidente. Dall’altro Ali riesuma, suo malgrado, forze meno controllabili e potenzialmente sovversive legate a figure antiche come lo schiavo, il sofista e il pancraziaste. Egli rappresenta l’apogeo precoce di quel che sarà l’esperienza del mondo del tardo capitale: un susseguirsi caleidoscopico di choc, urti tattili che secondo la ricostruzione di Benjamin trovano incarnazione esemplare nella catena di montaggio, nella folla, nello scatto fotografico così come nelle puntate disperate del giocatore d’azzardo (p. 74)

Dunque, se Baudelaire, secondo Benjamin, è un “traumatofilo” che con la sua persona intellettuale e fisica tenta di parare gli choc che arrivano da ogni parte, altrettanto Ali assorbe i colpi altrui come nessun altro pugile è in grado di fare. Banjamin, nella sua riflessione sullo choc insiste soprattutto sulla fotografia e sulla figura operaia sottoposta alla catena di montaggio. Nel campione afroamericano produttore di choc, secondo Mazzeo,

emerge un incrocio non banale tra il sofista nero e le trasformazioni del lavoro tipiche del secondo Novecento […] Muhammad Ali ha messo in scena sul ring, anticipandoli, i caratteri di un mondo del lavoro in rapida trasformazione. Qui la cifra del suo scandalo, qui il suo potenziale innovativo. […] Alì è scandaloso perché, prima di altri, inserisce la parola nel lavoro manuale. Produce choc contemporaneamente tattili (colpi di guanto) e verbali (assalto poetico, biasimo e invettiva, predizione che autoavvera). […] fa della parola il nucleo dello scontro: non il contorno ma la pietanza principale. Se la boxe è lavoro manuale, Ali mostra che svolgere una simile attività secondo forme verbali è più efficace. [nel mondo del lavoro contemporaneo] non è difficile trovare una casistica sempre più ampia di operai della parola. Oggi è indistricabile il rapporto tra retorica e lavoro (p. 85-86)

L’introduzione del linguaggio in un lavoro fino ad allora manuale trasforma il boxeur in un soggetto pensante; il lavoratore della parola è anche lavoratore cognitivo che vende le mani ed i neuroni. Ali è stato spesso accusato di eccedere nell’autopromozione ma quel che all’epoca appare scandaloso oggi è un tratto costituivo di ogni attività lavorativa. L’autopromozione e la formazione permanente attuata attraverso il lavoro (il ring per il pugile) oggi rappresentano un tratto distintivo della contemporaneità a partire dalla scuola-lavoro e dagli stage non retribuiti. Inoltre, continua lo studioso, il campione afroamericano incarna il passaggio da uso a consumo: è simbolo d’uso in quanto il suo pugilato retorico rappresenta il carattere conflittuale di ogni impegno della vita umana ed al tempo stesso la boxe esplicita la caducità dell’atleta nella società dello spettacolo.
Se gli ultimi anni della carriera di Ali palesano la struggente decadenza, dall’altra la fine della sua carriera sembra suggerire la fine della boxe stessa così come la si è conosciuta. «Anche in questo il sofista nero annuncia il tempo presente: sconforto per un passato mitico già lontano, apparente mancanza di pagine future» (p. 93).

Quasi un secolo dopo Baudelaire, Muhammad Ali ripropone il problema dello choc. Lo imposta in termini nuovi perché mette in questione il modo nel quale esserne produttori: come produrre choc sovversivi e non solo avvilenti? Se li si confeziona sotto forma di merce, si viene inevitabilmente travolti dalla dinamica del consumo, col risultato di ritrovarsi non più agenti d’uso ma consumatori usurati. Allo stesso tempo essere produttori di choc significa rinunciare alla nostalgia melanconica dei tempi andati quando l’assenza di antibiotici consentiva a un’influenza di farti fuori e per attraversare l’Italia occorreva un settimana. […] Usare la propria vita significa metterla alla prova […] la sfida costituisce la forma più estrema di messa alla prova del al realtà, di uso della vita. È il culto della specializzazione professionale a rendere quel gesto caricaturale poiché impolitico, fuori contesto, isolato. Chi celebra i fasti della divisione del lavoro desidera che il pugile se ne sita chiuso nel ring e che la filosofia rimanga chinata sul proprio libro (pp. 93-94).

Nell’ultimo capitolo del Sofista nero, intitolato “Il filosofo boxeur. Muhammad Ali e l’operaismo”, lo studioso propone un curioso parallelismo tra il pugile ed uno dei filoni più radicali del pensiero politico italiano.

Come Muhammad Ali ha fatto uscire la boxe dal ring portandola nel mondo della guerra e della segregazione, così una filosofia non subalterna è priva di speranze se ridotta all’interno del quadro di un combattimento accademico. Il sofista nero ha fatto entrare nella boxe la parola e il conflitto sociale. In modo analogo la filosofia operaista accoglie a braccia aperte ogni fenomeno del mondo contemporaneo […] Il sofista nero non interpreta lo sport del pungo, bensì ne muta le coordinate di fondo. In modo speculare, l’operaismo fa propria l’ultima delle cosiddette Tesi su Feuerbach di Karl Marx: è una filosofia che non mira a interpretare il mondo ma a trasformarlo (p. 102).

Il volume di Marco Mazzeo individua in Muhammad Ali l’ambivalenza del mondo postmoderno, le forze dominanti ed il rischio di resa incondizionata ma anche le sue crepe interne e le opportunità sovversive. The future is unwritten.

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In un distopico XXIII secolo, quando la Puglia sarà una megalopoli infernale https://www.carmillaonline.com/2017/02/26/36752/ Sat, 25 Feb 2017 23:18:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36752 di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione. APULEIA. Duemila chilometri quadrati [...]]]> di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.

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Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

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Teneri Violenti: lo sguardo di Ivan Carozzi https://www.carmillaonline.com/2016/11/05/teneri-violenti-lo-sguardo-ivan/ Fri, 04 Nov 2016 23:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34073 di Marco Rovelli

carozzi_teneri-violentiIvan Carozzi, Teneri violenti, Einaudi, 2016, pp. 151, € 17.00

Il protagonista di Teneri violenti di Ivan Carozzi è uno sguardo. Uno sguardo “alieno” che tale si mantiene per tutto il racconto. Osserva Milano senza giudizio, perlustra la città, e in quella città il tempo presente. Lo perlustra due volte, il tempo presente, e da diverse prospettive: sia attraversando i luoghi della città, sia lavorando alla redazione di un quiz televisivo. Da una parte ci sono i luoghi di una Milano che sembra un puzzle da [...]]]> di Marco Rovelli

carozzi_teneri-violentiIvan Carozzi, Teneri violenti, Einaudi, 2016, pp. 151, € 17.00

Il protagonista di Teneri violenti di Ivan Carozzi è uno sguardo. Uno sguardo “alieno” che tale si mantiene per tutto il racconto. Osserva Milano senza giudizio, perlustra la città, e in quella città il tempo presente. Lo perlustra due volte, il tempo presente, e da diverse prospettive: sia attraversando i luoghi della città, sia lavorando alla redazione di un quiz televisivo.
Da una parte ci sono i luoghi di una Milano che sembra un puzzle da ricomporre ogni volta, con le sue tessere precarie; dall’altra, la fucina dell’immaginario contemporaneo, e della sua precaria futilità. Colto dalla vertigine di quell’equilibrismo, “Ivan” si profonda nel passato: il suo lavoro infatti è raccogliere dai giornali degli anni Settanta notizie di ogni tipo: dalla nera alla politica. E da quelle fantasmagorie del passato “Ivan” si fa cogliere, sedurre, conquistare: diventa un collezionista del passato, dei suoi squarci, dei suoi margini, che prendono corpo in storie di amanti suicidi, di fughe da casa, di follie.
Lo sguardo, dicevo, è il protagonista del romanzo: già, perché non si tratta di quello sguardo disincantato, o cinico, che ci si potrebbe aspettare in una vita la cui cifra è la precarietà. È, invece, uno sguardo che si fa illuminare dagli squarci di una tenerezza che viene da un altrove – forse lo stesso altrove da dove viene lo sguardo, o forse un altro ancora, chissà. “Tenerezza”, come ci indica lo stesso titolo del libro, è la parola chiave. Come per la trasmissione televisiva in cui “Ivan” lavora, è una “buffa tenerezza” che “si confonde ogni volta con la pietà”. Solo che l’occhio-Ivan non è satirico. Col programma condivide solo la sua grammatica, il suo “smontaggio” che in altri tempi si sarebbe detto postmoderno (“in altri tempi”: oggi il postmoderno è vintage, e fa tenerezza).
Quello sguardo perlustra Milano facendosi abbacinare dai particolari, e a disegnarsi non è una figura definita con dei contorni, ma un flusso infinito di singolarità tutte egualmente significative, e dunque tutte egualmente prive di senso. Cascate di nomi, di frammenti, si riversano in quello sguardo attento e equanime, che riflette la realtà senza catalogarla, che ne coglie la natura partendo dai margini delle cose, dai dettagli, dalle risonanze. E, sempre, con quella tenerezza che è la natura stessa di quello sguardo.
In quell’oceano, in quel flusso senza fine, lo sguardo cerca sempre delle fessure da cui farsi toccare da un possibile “altrove”. Così, quell’altrove barbaglia in un cinema semideserto, dove siedono “gruppi sparpagliati nella sala”, e “Ivan” si sente “accerchiato da un mormorio d’ossa, tenere e friabili”. E quell’altrove si fa presente negli archivi di notizie degli anni Settanta a cui “Ivan” lavora, per mettere insieme “pezzi minuti di un collage sbriciolato”. Facendosi “palombaro” in quell’oceano, “Ivan” sprofonda in un’altra dimensione, che lo chiama, in cui può esercitare “l’infinita dolcezza” dello sguardo. Brani di vita e storie, quelle che “Ivan” incontra, che lo catturano con la loro corporeità, la loro materialità, come a rappresentare un mondo corposo, non smaterializzato come quello in cui a lui accade di vivere: un mondo dove il corpo, e l’incontro (e lo scontro, e la violenza stessa), erano il solido fondamento di grandi narrazioni, della possibilità di trovare un senso, di stabilire un centro di gravità delle cose.
Si tratta, ovviamente, di un tentativo paradossale, visto che “Ivan” ha a che fare solo con le vestigia di quel tempo, e legge le cose che gli si presentano già declinate nel loro immaginario: la realtà, per lui, è già da sempre mediata. Dai giornali, dalla televisione, dagli stili, dai meme, dal web. Perciò questa rammemorazione delle vestigia non ricostruisce un senso, ma segue la seduzione di un ritorno a qualcosa che non è mai stato: perché è da sempre una rappresentazione. Non c’è temporalità concepibile per un figlio dell’epoca presente se non in chiave di spettacolo, di rappresentazione: una rappresentazione infinitamente rimodulabile, ricomponibile, in un gioco senza inizio né fine dove l’unico senso è quello soggettivo di una smisurata malinconia, di una mancanza.
Ma se è anche un tentativo paradossale, e probabilmente fallimentare, non importa: bisogna seguire quella “nostalgia cannibale”. Che è cannibale perché ha “fame di altri esseri umani”. È amore, tenerezza, dolcezza. È un inestinguibile “slancio amoroso per un paese scomparso”. È per questo amore che “Ivan” si fa affascinare da storie di passione estrema: storie di cronaca nera, prima che politiche (dove l’icona assoluta è quella di Moro). Come se cercare in quegli anfratti oscuri significasse cercare il fondo di quell’altrove che non è più. Per accorgersi, magari, che “forse l’affresco troppo fosco che ci si è formati di quegli anni è stato preparato e disegnato dai quotidiani del tempo”.
Questa storia dell’occhio-Ivan si incrocia con una storia d’amore con una certa Silvia: anch’essa, va da sé, storia iper-precaria e impossibile. Un incontro, quello con Silvia, che apre e chiude il romanzo: è per la sua seduzione che “Ivan” cercherà di sciogliere uno dei tanti enigmi incontrati nelle sue immersioni da palombaro, di dare un volto finalmente presente a una di quelle persone la cui storia lo hanno avvinto. Ma compiere le cose, nell’immenso flusso in cui a “Ivan” tocca vivere, non è dato.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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Alle origini della narrativa europea dell’homo epistemologicus https://www.carmillaonline.com/2015/07/03/alle-origini-della-narrativa-europea-dellhomo-epistemologicus/ Fri, 03 Jul 2015 21:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22901 barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i [...]]]> barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i parametri alla base delle diverse epoche culturali.

Occorre iniziare da una questione terminologica: il termine “contemporaneo” viene utilizzato dall’autore per evidenziare come la produzione narrativa trattata nel saggio si differenzi rispetto alle proposte proprie dell’epoca moderna. Altrove, Barilli propone un ampliamento della nozione di “postmoderno”, fino a renderlo paritetico al termine “contemporaneo”, estendendolo sino a farlo partire dal finire del Settecento. (Tutto sul postmoderno, 2013). Vale la pena, in questo caso, mantenere ancora il tradizionale ricorso al termine contemporaneo, come d’altra parte decide di fare lo stesso autore sin dal titolo del saggio.
La distinzione tra moderno e contemporaneo, sottolinea l’autore, risulta evidente se si prende in esame la rivoluzione epistemologica che porta a modalità totalmente nuove di concepire il comportamento umano nei confronti della realtà esterna. Ad un homo oeconomicus, caro alla modernità, in omologia al positivismo ed alle forme narrative proprie del realismo-naturalismo, succede un homo epistemologicus, intento ad indagare la sua soggettività profonda. All’analisi della produzione narrativa dell’homo oeconomicus, l’autore ha dedicato Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna (2003) e La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj (2010), all’attuale testo spetta di affrontare la produzione narrativa europea dell’homo epistemologicus.
L’attenzione rivolta agli eventi minimali del vissuto, alla corrente di coscienza in evidente omologia con l’elettromagnetismo dell’età contemporanea, sancisce la fine dell’esigenza moderna di orientare gli atti di coscienza verso finalità positive: “Succede allora che, nello statuto della narrativa contemporanea, quello che secondo la Poetica aristotelica sarebbe pur sempre il primo ingrediente, l’azione, la diegesi, il mito (…) fa un passo indietro, mentre prevale l’ethos, cioè appunto l’analisi coscienziale, con la conseguente esclusione che si possa raggiungere un esito finale”. Come avviene ai coetanei in ambito tecnico-scientifico, i narratori contemporanei possono tralasciare i “grandi” avvenimenti, differenziandosi così dalle modalità moderne.
Nell’introduzione, l’autore non manca di motivare diverse esclusioni eccellenti tanto tra i predecessori ed i coetanei degli autori analizzati, come ad esempio Gabriele D’Annunzio, Henry James, Joseph Conrad e Thomas Mann, quanto i limiti “in avanti”, oltre ai quali non si spinge la trattazione.

Tra gli autori passati in rassegna da Barilli, Anton Cechov risulta essere forse il più problematico da inserire nella compagine di narratori entrati a pieno titolo tra i fondatori della narrativa europea contemporanea. Più giovane di un paio di decenni rispetto agli altri protagonisti trattati dal testo, Cechov può essere considerato un autore di transizione che mantiene ancora qualche legame con le caratteristiche tipiche del moderno, come ad esempio la persistenza di tracce dell’universo pauperistico ottocentesco ma, al contempo, non manca di fare i conti con “questioni contemporanee” come la difficoltà di amare e di dar vita e mantenere rapporti di coppia. Barilli sostiene che mentre “l’amore spontaneo” rappresenta una dinamica psicologica tipica della stagione moderna del naturalismo, in ambito contemporaneo si assiste all’intervento di una sorta di “freno autocritico” che porta l’individuo ad indagarsi allo specchio: l’atto di amare diventa un’impervia scalata che sottopone ostacoli a ripetizione, soprattutto interni. A proposito della permanenza, nel russo, di questioni pauperistiche, occorre dire che, nei suoi racconti, egli si limita però ad indicare genericamente la causa degli ultimi, senza mai giungere ad una critica sociale esplicita e puntuale. I suoi personaggi possono anche lasciarsi andare ad un minimo di empatia per i deboli ma, dopo averlo fatto, si rifugiano nel dibattito interno, psicologico, in linea con le caratteristiche dell’homo epistemologicus, dell’età contemporanea: “l’impegno verso fini sociali può solo essere agitato, enunciato a livello programmatico, ma mai imbracciato come effettiva via da percorrere”. Sul versante teatrale, se Cechov può dirsi contemporaneo per l’abilità nell’analisi del vissuto psichico, dunque a livello contenutistico, molto meno può esserlo per questioni formali; il teatro cechoviano fatica a reggere il confronto con le grandi prove del teatro novecentesco, non raggiungendo mai, sostiene Barilli, i livelli pirandelliani, pur se, ad onor del vero, conseguiti dall’italiano successivamente alla scomparsa del russo.

Con tutti questi “limiti” che lo rendono, per alcuni aspetti, in bilico tra moderno e contemporaneo, il suo inserimento nel gruppo indagato, si rivela utile a Barilli per poter introdurre gradualmente il ben più innovativo James Joyce, a partire dall’analisi delle analogie e delle differenze tra i due. Non mancano, infatti, analogie tra gli scritti di Cechov e la prima opera in prosa di Joyce, Gente di Dublino. Sebbene l’Irlanda non conosca la servitù della gleba, e dunque l’irlandese, a differenza del collega russo, non sia tenuto a fare i conti con la tematica ottocentesca del pauperismo, se si confrontano i protagonisti, le somiglianze di certo non mancano. In Cechov domina un ceto medio composto da ex proprietari andati in malora ed eterni studenti ed, a ben guardare, tale mondo non è molto diverso da quello dei personaggi mediocri ad un passo dal fallimento, che si rifugiano nell’alcool, che popolano Gente di Dublino. Tanto il russo quanto l’irlandese si guardano bene dallo “sporcarsi le mani” con i grandi eventi delle rispettive terre; i due preferiscono non dare troppo rilievo a tale ambito. In linea con la logica della narrativa contemporanea, così come Cechov evita di battersi contro la burocrazia statale e per il riscatto delle classi subalterne appena uscite dalla servitù della gleba e Joyce si sottrae dal prendere parte alla battaglia per l’indipendenza contro gli inglesi, anche Marcel Proust si mostra refrattario a lasciarsi coinvolgere dall’affaire Dreyfus che scuote la Francia dell’epoca. In tutti tre i casi le grandi questioni vengono tenute sullo sfondo preferendo a queste l’indagine psichica dei personaggi o il perdersi nella narrazione dei dettagli. In fin dei conti i grandi eventi storici finiscono per essere abbassati al ragno di dettagli che, mestamente, prendono posto tra altri dettagli: sono presenti ma pari grado alle inezie. A tal proposito, sostiene l’autore, “L’homo oeconomicus, che dominava la scena dell’ottocentesco teatro ‘moderno’ non aveva tempo per concedersi questi spazi fuori rotta, non così il contemporaneo homo epistemologicus che sa bene come il qui e ora sia solo una provvisoria e momentanea cresta dell’onda, incalzata da altre onde passate e future che si succedono senza tregua”.

Mentre la logica dell’homo oeconomicus è di tipo selettivo, nell’Ulisse joyciano, coerentemente con la logica contemporanea dell’homo epistemologicus, si intende afferrare la totalità degli accadimenti. A tal proposito Barilli indica un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo William James, volto a dare il massimo rilievo alla nozione di flusso di coscienza in opposizione all’economicità moderna. La narrativa moderna impone una selezione rigorosa, volta a cogliere ed a dare rilievo soltanto agli elementi utili all’affermazione del singolo, al soddisfacimento dei suoi bisogni materiali, collocando in subordine gli effetti psicologici, da tutto ciò “deriva anche la necessità di costruire un andamento, una sequenza delle occasioni, dei passi da compiere, il che corrisponde a quanto viene definito usualmente coi termini della trama, del ‘mythos’ nell’accezione originale aristotelica”. Nella narrativa antieconomica contemporanea, pertanto, alla logica lineare e consecutiva ne subentra una a “gorgo”. Se nell’epistemologia di James si vuole che la totalità di sentimenti e percezioni si presenti qui e ora, in Henri Bergson, invece, viene introdotto “un asse verticale-diacronico”, come a dire che molte di quelle sensazioni, le epifanie joyciane, vengono immagazzinate in una sorta di inconscio freudiano dal quale possono essere recuperate “solo se sollecitate da qualche impressione rinvenibile nel qui ed ora”.

Proust, pur essendo un autore molto diverso da Joyce, vanta con esso alcuni elementi in comune. In linea con la cultura contemporanea che intende ricavare “fiumi di energia” anche dal frammento minimo di qualsiasi materia, entrambi si focalizzano sul materiale d’esperienza che meglio conoscono; Joyce insiste sul piccolo mondo di Dublino, mentre Proust sul mondo salottiero parigino. Così come Barilli individua un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo James, analogamente, riscontra un’omologia tra il pensiero di Bergson e la trama di idee su cui si basa la Recherche di Proust. Nell’ambito della medesima epistemologia contemporanea, volta a superare la logica selettiva e narratologica moderna, che raggiunge il culmine nel corso dell’Ottocento, le coppie James-Joyce e Bergson-Proust, rappresentano, secondo Barilli, due differenti procedure. La prima coppia adotta un criterio di “attualismo assoluto”, costretto, inevitabilmente, a fare i conti con una perdita del vissuto che può, però, essere richiamato. L’urgenza di questi recuperi induce Joyce a procedere per brevi attimi, adottando tecniche di registrazione che giungono a spezzare le frasi ed a sperimentare il ricorso alle onomatopee e le pratiche del cislinguismo finendo col negare, in definitiva, ogni possibilità diegetica. La via Bergson-Proust risulta decisamente differente. In James il dato irrilevante resta a premere nelle retrovie ma può riaffiorare nel presente, in Bergson il dato irrilevante affonda lungo l’asse verticale celandosi alla vista e lasciando il primo piano alle condotte abituali. In Bergson una parte della memoria involontaria, le sensazioni inutili ed antieconomiche, sottratta al controllo dell’intelligenza, si deposita in un sottofondo remoto, simile all’inconscio freudiano, mentre in primo piano, a livello orizzontale, domina una “memoria in atto” che fa corpo con i nostri gesti, che, nella scrittura proustiana si traduce nel ricorso a lunghi tratti di narrazione “simil-moderna”. Proust non ricorre alla registrazione diretta, prelinguistica, joyciana, egli struttura un’architettura narrativa complessa e labirintica pur parimenti antieconomica nel mirare alla riemersione di momenti di assoluta gratuità. Joyce, in linea con la logica di James, in funzione dell’immediatezza, deve ricorrere a testimoni, Proust, invece, alla meditazione individuale.

Ai citati narratori pienamente contemporanei, Joyce e Proust, il saggio aggiunge Virginia Woolf e Robert Musil. Nel, 1922, con l’uscita de La stanza di Jacob, si compie la svolta che porta la scrittrice ad entrare con la sua opera pienamente in ambito contemporaneo. La moltiplicazione dei soggetti percipenti permette alla Woolf di accumulare un’ampia massa di dati ove si mescolano elementi ambientali con altri di natura antropologica. Il contatto con Thomas Stearns Eliot risulta importante non solo per le suggestioni che ne riceve, ad esempio dal suo processo di ibridazione tra prosa narrativa e poesia ma, sostiene Barilli, anche per il collegamento, seppure indiretto, che la scrittrice finisce per avere con la produzione filosofica di Francis Herbert Bradley, grazie al fatto che questa era stata studiata da Eliot. Una filosofia che “predica una immersione totale nell’esperienza come in un bagno unificante, in cui spariscono i confini tra i soggetto e l’oggetto, i due momenti mescolano le loro acque in un tutto unico, che può essere una pienezza di dati o anche una notte oscura, comunque qualcosa di ultimativo e finale”.
A Musil tocca chiudere la rassegna degli autori trattati dal saggio ed, a differenza degli altri, egli è in effetti l’unico a stabilire un collegamento diretto con una delle figure fondamentali che segnano il passaggio dal moderno al contemporaneo; si tratta dell’epistemologo Ernst Mach. Musil, infatti, stende la sua tesi di dottorato proprio sulla produzione filosofica di Mach. In questo caso la presenza fissa e costante dell’oggetto lascia il posto ad uno sciame di frammenti. Musil ne deriva una concezione in cui oggetto e soggetto risultano inscindibili, essi diventano “funtivi di un’azione unica, collegati da un nesso relazionale”. In L’uomo senza qualità, del 1925, il protagonista dell’opera risulta essere, secondo la lettura barilliana, “il portatore privilegiato ed esemplare di ogni possibile concomitanza con la grande rivoluzione epistemologica di fine Ottocento”. Si giunge davvero ad un passo da una “puntuale applicazione dell’empiriocentrismo di Mach e, assieme ad esso, di ogni altra concezione fondata sul principio di indeterminazione, tale da ‘porre a casa’ l’universo e le sue fondamenta”.

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Carlotta Susca: David Foster Wallace nella Casa Stregata https://www.carmillaonline.com/2013/10/02/carlotta-susca-david-foster-wallace-nella-casa-stregata/ Wed, 02 Oct 2013 21:55:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9663 di Girolamo De Michele

dfw_casa_stregataCarlotta Susca, David Foster Wallace nella Casa Stregata. Una scrittura tra Postmoderno e Nuovo Realismo, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 218, € 18.00

Infinite Jest, seppur ambientato nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, dice molto più sulla realtà di quanto faccia un saggio sulla crisi economica o il manuale per l’esame di Teoria delle comunicazioni di massa. E in più è scritto dannatamente bene.” (p. 163)

Il destino di David Foster Wallace in Italia è stato bizzarro. L’Italia è uno dei primi paesi in cui DFW [...]]]> di Girolamo De Michele

dfw_casa_stregataCarlotta Susca, David Foster Wallace nella Casa Stregata. Una scrittura tra Postmoderno e Nuovo Realismo, Stilo Editrice, Bari 2012, pp. 218, € 18.00

Infinite Jest, seppur ambientato nell’Anno del Pannolone per Adulti Depend, dice molto più sulla realtà di quanto faccia un saggio sulla crisi economica o il manuale per l’esame di Teoria delle comunicazioni di massa. E in più è scritto dannatamente bene.” (p. 163)

Il destino di David Foster Wallace in Italia è stato bizzarro. L’Italia è uno dei primi paesi in cui DFW è stato tradotto, uno dei primi in cui si è creata quella rete di howling fantods che contrassegna ovunque la diffusione delle sue opere. Nondimeno, i critici laureati hanno reagito con fastidio e/o indifferenza al “fenomeno DFW”, e in particolare alla produzione di critica letteraria autonoma, dal basso o dal web, che abbatteva la distinzione – e soprattutto le gerarchie, oh, le gerarchie! – tra narratore e critico, o tra lettore e critico. Se ogni scrittore, ogni lettore si crede legittimato a fare il critico, dove andremo a finire, signora mia?
E così, mentre libri, saggi, racconti e reportage di DFW circolavano, si diffondevano leggende sul conto del loro autore: in realtà DFW è un autore di cui tutti parlano, ma che nessuno legge; in fondo DFW coincide col suo opus magnum, cioè Infinite Jest, che è il-leg-gi-bi-le; peggio, è un collage di cut&copy da blog altrui di cui DFW non indica la fonte; e poi si sa che non è scritto per essere letto, per cui non importa leggerlo.
È davvero spassoso (e, se perdonate l’assonanza, penoso) l’effetto-specchio che producono queste (pseudo-)critiche. Il tal risaputo inner circle critico-letterario non ammette l’esistenza di una critica post oppidum: quelli che la tenterebbero sono non-critici, dunque non-persone, dunque nessuno legge DFW, giacché i soli che esistono, cioè noi, non lo leggono. I talaltri pigiatoro di tastiere, adusi a copincollare dal web piuttosto che millantare letture non fatte (o non capite: perché bisogna anche capirli, i libri letti), vedono in opere di cui parlano senza leggerle il riflesso dei propri pezzulli, e s’inventano il libro copiato dal web o scritto per non essere letto: inutile negarlo, in questa critica c’è del metodo.

michiko_kakutaniDel resto anche in USA, dove i critici i libri li leggono davvero, può capitare che Michiko Kakutani [a sinistra], la temutissima e severissima critica del NYT (“a very charming Japanese lady from the New York Times ” la definì DFW nella intervista a “Salon”) concluda la propria recensione a Infinite Jest  lamentando, in quanto «lettore old-fashioned che nutre la vaga speranza di connessioni narrative e un inizio, un centro e una conclusione» [maddai!, il triangolo di Freitag! Ma allora ditelo…] di essere rimasta «sospesa a mezz’aria», insomma di non averci capito molto «in quel mucchio caotico di dettagli e incidenti che è Infinite Jest»1. Ma capita pure che un semplice laureando, l’howling fantod Christopher Hagen spieghi nella propria tesi di laurea che IJ «inscrive una curva parabolica su un vertice collocato all’esatto centro matematico del romanzo. La conclusione, della quale secondo alcuni critici il libro è privo, non è nel testo, ma è cronologicamente e spazialmente giusto davanti al romanzo, che come un’antenna satellitare fa convergere una miriade di raggi di luci, voci o informazioni su quella soluzione centrale senza mai toccarla»2. Detto altrimenti, IJ non è un libro per critici old-fashioned – ma questo è un problema loro. IJ è un libro che, come il suo autore, si rivolge a un lettore in grado di trovare quelle connessioni, quel punto di convergenza che la macchine dell’oggetto narrativo produce: la macchina pigra, in questo caso, è il critico, non il libro.

Questa lunga premessa serve a introdurci nel saggio di Carlotta Susca, una di quelle lettrici-howl.fan. che si dedicano con una certa sfrontatezza alla critica letteraria senza chiedere permesso. E che ci ha dato, assieme al saggio del matematico di professione e critico per passione Roberto Natalini Verso l’infinito e oltre. David Foster Wallace e la Matematica ( qui), una delle migliori letture italiane di DFW.
Non è una mappa equivalente all’impero, questo saggio critico: Carlotta Susca ha delimitato il territorio entro confini tracciati con chiarezza dal sottotitolo – salvo che… ma ne parliamo tra un po’.

davidfostwallacePostmoderno Vs Nuovo Realismo, dunque. In apparenza. Per ora, diciamo. Non solo in IJ, ma nel complesso dell’opera di DFW. Dell’opera: perché Susca ha ben chiaro che è dell’opera che si deve parlare, non dell’autore, non delle insignificanti minuzie di cui si occupava durante la stesura di questo o quel testo, men che meno di quale persona “reale” abbia fornito lo spunto per questo o quel personaggio “fittizio”. Un antidoto, questo DFW nella Casa Stregata, a quel regressivo ritorno alla biografia come chiave interpretativa che è Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace di D.T. Max, libro cui bisognerebbe apporre come epigrafe il motto hegeliano “Nessuno è eroe per il proprio cameriere”3.

La questione del postmodernismo, e del ritorno al realismo, dunque. Che, a volerla dir tutta, sarebbe più complessa: DFW ha avuto come obiettivo polemico non solo i postmoderni (tra i quali John Barth), ma anche i minimalisti epigoni di Carver (i “Carver Malriusciti”) e il Brat Pack degli yuppie nichilisti come McInernery e, soprattutto, Bret Easton Ellis e il suo American Psycho. In tutti i casi, è questione dei rapporti tra il reale e il linguaggio che non riesce a descriverlo.
Il postmodernismo risolve la questione col trucco di dire che tutto è finzione: sia lo strumento che descrive, che l’oggetto descritto.
Gli “ultraminimalisti” usano un trucco diverso: fanno aderire linguaggio e reale al prezzo di una radicale mutilazione tanto dell’uno quanto dell’altro – cosa che, se non hai il dono carveriano di far star tutto nel frammento, suona di nuovo artificiale.
I “nichilisti dagli stipendi a sei cifre”, infine, replicano con maestria l’orrore del mondo in cui viviamo, senza mai porsi il problema etico di quale sia l’utilità di una duplicazione dell’orrore da parte di chi dovrebbe invece chiedersi come sopravvivere all’oscurità del tempo presente, cosa significa essere «un fottuto essere umano» – qualcosa che ha a che fare con l’immaginazione di un diverso stato di cose presente, e con le cause della «times’ darkness»4.
Cosa che invece fa la letteratura sperimentale (Pynchon e DeLillo, per rimanere ai gusti di DFW): «C’è una serie di magie che la letteratura può compiere per noi […] una ha a che fare con la sensazione di […] cogliere l’effetto che ha su di noi il mondo circostante in una maniera in cui al lettore viene da dire: “Allora un’altra sensibilità come la mia esiste!. […] E così il lettore si sente meno solo. […] E sono le cose avanguardistiche o sperimentali che hanno ala possibilità di portare avanti questa impresa. Ecco perché sono preziose». Sono preziose, ma spesso «fanno cacare»: perché a volte «parlano di che effetto fa stare al mondo, invece di offrire un sollievo all’effetto che fa stare al mondo»5.

Ed eccoci al punto: se lo sperimentalismo è una sorta di post- o iper- postmodernismo, del quale continua ad usare gli strumenti formali, il problema, piuttosto che di etichette o categorie, non sarà di come inserire il contenuto, cioè l’etica, all’interno del postmoderno? Cogliendo la centralità della questione Susca può bypassare la critica agli ultraminimalisti o al Brat Pack letterario, fregarsene della presunta questione del “Ritorno al Realismo” (e di definizioni tipo “Realismo Isterico” o “Realismo Grunge”, che vi prego di credere non mi sto inventando), e chiedersi cosa è davvero il “Realismo”. E, dopo aver smontato il gioco di specchi e rimandi tra Perso nella casa stregata di John Barth e Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso di DFW (facendo del confronto una sorta di chiave di lettura generale dei rapporti tra DFW e il postmoderno), arrivare, grazie alla mediazione di John Barth6 (e del Perec di La vita, istruzioni per l’uso), al confronto tra DFW e Italo Calvino.

Carlotta Susca, beata gioventù!, non aveva l’età quando una lettura, che pareva scaturita dalle pagine del Vernacoliere più che dall’Università di Pisa, faceva di Calvino la fonte di tutte le nequizie e i disimpegni. Invece è proprio in Calvino che troviamo il tema-chiave di DFW: l’inserzione dell’etica e dell’impegno nella perfezione stilistica di una letteratura il cui “eroe” ha abdicato alla responsabilità etica, sostituendola con quella forma di distacco ironico mediato dalla televisione, che fa dell’ironia un innocuo e impotente strumento espressivo. Il risultato, scrive Susca citando Rovatti, è di «buttare via il bambino insieme all’acqua sporca: peggio, di buttare nella spazzatura il cosiddetto bambino e tenerci l’acqua sporca». E magari, aggiungerebbe il don Florestano Pizzarro di Corrado Guzzanti, usarla per cuocerci la pasta.
A cosa porta il parallelismo tra DFW e le celebri Lezioni americane di Calvino? A enucleare, attraverso la presenza di leggerezza, esattezza, molteplicità, visibilità e rapidità nella scrittura dfwallaciana, la presenza di nuclei calviniani: la peste del linguaggio originata dalla pervasività della comunicazione televisiva; la quantità crescente di informazioni inutili (i “fattoidi” di DFW) che ci assediano, e dai quali dobbiamo discernere le informazioni davvero utili e rilevanti; la presa di coscienza della perdita d’innocenza del linguaggio «tutt’altro che innocuo, che è in grado di creare mondi. In effetti le parole cambiano la realtà e modificano la relazione tra gli eventi» (pp. 167-168).
Nuclei che si condensano nella definizione di immaginazione come «repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere». Definizione che apre un intero mondo: perché se l’immaginazione è repertorio del potenziale, potenziale, cioè in fieri, in divenire, non pre-formattato né sottomesso alla fatalità è anche quel fatturo essere umano che tanto stava a cuore a DFW. E potenziale è il mondo stesso in cui viviamo, cioè il “reale”: tanto quello che sta “al di fuori” del libro, quanto quello che vi sta dentro – il reale tout court. Potenziale, dunque costituito: e dunque è importante scoprire cosa costituisce il mondo, e gli essere umani che lo abitano, e l’oscurità, la times’ darkness che lo avvolge: è anche di questo che parla Infinite Jest.

«Non c’è lieto fine nella storia del dolore per quelli nati con la predisposizione alla disperazione. Il mondo è, dopo tutto, un posto rude, brutale e crudele. Si tratta solo di sapere quanto a lungo puoi viverci», ha scritto Elizabeth Wurtzel ricordando DFW7. Riuscire a mostrare quantomeno le scaglie del Leviatano è qualcosa che ha a che fare col procurare sollievo all’effetto che fa stare al mondo; creare la magia di far sentire meno solo il lettore ha a che fare con le cause, gli apparati, le istituzioni che usano solitudine e tristezza come forme di governo; rompere la crosta di consuetudine e rassegnazione della rappresentazione dello stato di cose esistente ha a che fare col compito del narratore: che è oggi (p. 164) «l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere nuovamente strano ciò che è familiare».


  1. Michiko Kakutani, A Country Dying of Laughter. In 1,079 Pages, “The New York Times”, 13 feb. 1996, qui: «At the end, that word machine is simply turned off, leaving the reader — at least the old-fashioned reader who harbors the vaguest expectations of narrative connections and beginnings, middles and ends — suspended in midair and reeling from the random muchness of detail and incident that is “Infinite Jest”». 

  2. «Infinite Jest’s structure does internalize something of late twentieth-century technological energy, but something remarkably ‘centering.’ The text inscribes a parabolic curve (diving into an engaging world & plot, then turning and pulling out of that world and lumbering towards a close as gradual as any novel’s beginning), oriented symmetrically about a vertex (a crucial point, though different from a climax) located at the novel’s precise mathematical center. And, as with most parabolic curves nowadays, Infinite Jest’s text functions rather like a satellite dish: the resolution that reviewers complain the novel lacks isn’t in the text, but sits chronologically & spatially in front of the novel proper, which, as a satellite dish, serves to focus myriad rays of light, or voices, or information, on that central resolution without actually touching it», qui

  3. “Non perché quello non sia un eroe, ma perché questi è un cameriere”, chiariva Hegel. È davvero irritante il modo in cui D.T. Max ci conduce in una visita guidata della vita di DFW, indicandoci ora il ramo del primo supposto tentato suicidio, ora il divano sul quale giaceva depresso, o la poltrona nella quale si rincoglioniva davanti alla televisione, e le calze e gli asciugamani appesi ad asciugare proprio lì, e wow!, le sue bandane sudate!, per poi introdurci nel Garage, sì, proprio quel Garage. E che dire il modo voyeuristico con quale spia dal buco della serratura le avventure sessuali di DFW, ammiccando (senza conoscenre il monito del cantautore milanese: tanto che importa a chi [ti] ascolta se lei c’è stata o non c’è stata, e lei chi è?), all’allora-giovane-scrittrice-famosa-un-tempo-depressa? In cosa la nostra comprensione dei testi di DFW migliora, una volta che abbiamo appreso che il tal personaggio sarebbe la trasposizione di un Edipo irrisolto (niente male per un autore che stigmatizzava gli scrittori da «niente personaggi senza traumi freudiani in un passato accessibile»), il talaltro una trasfigurazione per vendetta (tipo: «nun me l’hai data e io te distruggo»), e così via? A cosa ci serve sapere che sì, DFW si nascondeva dietro piccole bugie che l’impietoso biografo svela una per una – se non a chiederci, una volta imparato che DFW dissimulava o anche mentiva, come si possa fondare su lettere e conversazioni di un timido insincero una biografia verosimile? 

  4. La vera risposta di Ellis a DFW (non il famoso tweet stile “la corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”), e cioè Lunar Park (=”che cosa credevate di aver capito di American Psycho? È tutta una finzione, è persino postmoderno – non crederete che io sia davvero così cinico e gelido: è che mi ci vestono così…”), nella sua debolezza, dice già tutto su quanto a fondo sia andata la critica dfwallaceana. 

  5. David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, minimum fax, Roma 2011, citato in DFW nella Casa Stregata, p. 199. 

  6. Che DFW fa bene a criticare e superare, ma che resta uno scrittore di racconti di un nitore e una perfezione encomiabili, vi assicuro. 

  7. Elizabeth Wurtzel, Beyond the Trouble, More Trouble. Depression in the best of us, “New York Magazine”, 21 sept. 2008, qui

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