postmodernità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Felicità e panico nella società distopica contemporanea https://www.carmillaonline.com/2024/03/07/felicita-e-panico-nella-societa-distopica-contemporanea/ Thu, 07 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80668 di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve [...]]]> di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve dai media gratificanti inviti al godimento insieme a scariche sensoriali che gli rendono le catastrofi familiari.

Riprendendo i concetti di postmodernità e ipermodernità, Giulio de Martino segnala come se posti in opposizione, questi tendono ad avere connotazioni rispettivamente utopistiche e antiutopistiche, mentre se collocati in sequenza indicano due epoche differenti: la postmodernità corrisponde all’espansione occidentale novecentesca mentre la ipermodernità al periodo più prossimo alla contemporaneità interpretata «come epoca di esplosione distopica delle contraddizioni e dei conflitti interni ed esterni all’Occidente» (p. 55).

A proposito della postmodernità Lyotard aveva evidenziato come comportasse la crisi dell’“universalità” conoscitiva, mentre Virilio si era preoccupato di sottolineare come con essa si entrasse nell’epoca della “condivisione dell’incertezza” e dell’empatia instabile. La postmodernità ha dunque finito per trasformarsi in una “condizione ipermoderna” eclissante l’universalismo antropologico (il cosmopolitismo) alla luce di una sorta di «coesistenza incomunicante (la globalizzazione). Una situazione in cui la pluralità definita delle persone e delle culture ha lasciato il posto al pluralismo indefinito degli “account” e dei “profili personali” sui social.

Dal punto di vista tecnologico, la Web culture è una postcultura includente e generalista, in cui si registra la presenza simultanea di tutte le culture e di tutte le lingue. Vi trovano spazio tutti i livelli di conoscenza, disposti senza gerarchia in un menù sempre attivo di generi e specializzazioni. La distinzione “verticale” fra la cultura High, Middle e Low (o “popular culture”) – come pure la distinzione “orizzontale” fra aree e gruppi locali culturalmente differenziati – ne risulta ridefinita e modificata.
Dal punto di vista cognitivo, la Web culture può provocare una scarsa interiorizzazione dei contenuti e una incerta differenziazione dovuta alla marcata astrazione digitale rispetto alla varietà degli ambienti e dei gruppi. Osservandola in atto nei numerosi dispositivi che la attivano, si può definire come una cultura “extramentale” e “transindividuale” di massa. La società cosiddetta omologata resta pluralista e discorde, ma non ha vie di uscita: consente soltanto percorsi di spostamento e di redislocazione al suo interno. La spettacolarizzazione e l’autofruizione indotte dalle tecnologie degli old e dei new media si svolgono nelle forme più estreme della semiosi e della metacomunicazione (dire qualcosa per dire altro). La trasformazione delle ideologie in mode e dei comportamenti divergenti, individuali e collettivi, in esibizioni e in messaggi prodotti all’interno dei mass media mostra come le azioni si riproducano come news. La guerra, la divergenza, la rivolta, il saccheggio, il crimine, il suicidio ecc. diventano Breaking News […]
La condizione di sradicamento dalla prossimità e di fruizione indifferente di tutto ciò che accade al mondo – ciò che Virilio chiama la “cecità” – non segnala un bivio davanti a cui l’umanità si trova, ma un evento già avvenuto. La postmodernità non pone un dilemma per l’Occidente. Piuttosto induce a livello planetario una situazione distopica che si chiama “ipermodernità” e che ha come conseguenza la crisi della certezza di vivere in un mondo di valori.
Il postmodernismo ha spinto la società occidentale ad esagerare le sue potenzialità e ad interpretare la società del “passato” e quella del “futuro” come se fossero la sua ombra e la sua anima. Il possibile e il probabile sono apparsi più reali di ciò che era avvenuto nel passato e di ciò che accadeva nel presente. Mentre nel mondo tradizionale, l’“oggi” veniva spiegato sulla base di ciò che era già avvenuto […] adesso il presente viene giudicato sulla base del futuro che ci si prospetta e la futurità si preannuncia nella forma della felicità, ma anche del panico e del terrore (pp. 58-59).

Nel volume Lo spettatore turbato, alla ricostruzione filosofica delle tappe principali che hanno condotto l’Occidente dalla postmodernità alla ipermodernità operata da De Martino, fa seguito un’appendice di Edoardo Ferrini, La sublime epidemia, incentrata sulle Esplosioni pandemiche nel cinema americano, ruotante attorno al concetto di rifugiato tecnologico derivato da Giorgio Agamben (A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet 2021).

A partire da una riflessione sul racconto La maschera della morte rossa (1842) di Edgar Allan Poe – da cui Roger Corman ha tratto l’omonimo film –, Ferrini evidenzia come in esso lo scrittore abbia messo in guardia «rispetto a due pericoli o dinamiche antropologiche concrete. In primo luogo, il Nemico virale è interno, non è racchiudibile all’esterno confinando i “sani”. […] Inoltre, il capro espiatorio da bandire – l’homo sacer di Giorgio Agamben – può tramutarsi in una forza autodistruttiva perché eccessivamente immunitaria». La peste mascherata narrata da Poe e, successivamente, da Corman,

agisce come gli odierni falsi positivi, è osmotica rispetto alla reale pandemia, anche se camuffata con le persone, che nella trovata finzionale del racconto ballano mascherate. Il falso positivo ha lo stesso linguaggio dell’uomo comune, gli effetti del virus non si vedono, sono come mascherati. Oltretutto […] mai come prima dell’insorgere del Covid-19, il linguaggio mediatico e sociale ha avuto una coincidenza così forte con i sintomi virali. La chiusura da lock-down, una delle conseguenze dei social media e della connessione “privata”, insieme alla proliferazione mediatica, globalizzata e virale delle notizie. Il tutto oggi rafforzato dalla tornata paura nucleare. In questa ricerca la distopia atomica e quella virale scorrono davvero in parallelo, a cominciare dal fatto che contengono alcune somiglianze fondamentali: l’esplosione nucleare causa malattie “virali” – la velocità di propagazione – la difficile localizzazione che crea il senso angosciante della Minaccia globalizzata. […]
La distopia non è esattamente una contro-utopia che magari esisteva prima di una reale od eventuale Nuova Atlantide, oppure che arriva Dopo in maniera del tutto antitetica rispetto all’utopia. No, a dire il vero le distopie sono utopie rovesciate, degenerate. […] L’effetto distopico è contaminato da paura-terrore, è dilagante, pandemico, ed è anche un effetto di rimpianto e di perdita, verso una protezione utopica non del tutto “ancora” realizzata. L’ordine militare, di certo una delle se non l’Utopia contemporanea, è ancora un “farmaco” protettivo, almeno dopo il crollo del muro di Berlino?
Il linguaggio mediatico a sua volta è quello che più di tutti ha affondato le radici nelle distopie. La premediazione è come una sottile interfaccia tra la realizzazione disastrosa e lo schermo protettivo. L’effetto è un duplice cortocircuito tra la minaccia imminente e il bisogno difensivo e catartico che l’esposizione mediatica dovrebbe procurare, aiutando lo spettatore turbato ad ambientarsi in un am­biente minacciato (pp. 231-232).

Dunque Ferrini prosegue il suo itinerario prendendo in esame Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick, Brazil (1985) di Terry Gilliam, la serie televisiva Better Call Saul (2015-2022) di Vince Gilligan e Peter Gould, World War Z (2013) di Marc Forster e The Batman (2022) di Matt Reeves, rapportando tali opere alla recente pandemia ed ai conflitti militari che stanno ridefinendo la vita degli individuali e delle collettività.

Se nell’opera di Kubrick l’aspetto distopico può essere identificato nella bomba, nel film di Gilliam, sottolinea Ferrini, esso è rappresentato dall’esercito che, al di là del presentarsi come garante della Sicurezza, agisce secondo finalità oscure mettendo in pericolo i cittadini che dovrebbe garantire.

Il patto hobbesiano per cui il Leviatano ha il potere assoluto, senza mai però attentare alla sicurezza degli “ominidi”, in questo caso crolla. E, seguendo Giorgio Agamben (2021), nel paradigma pandemico, il cittadino tende a tramutarsi nel rifugiato. L’esercito è ingovernabile, agito da un linguaggio assurdo che rende le operazioni militari pericolose quanto le “minacce” che dovrebbero sventare. Ecco, di nuovo l’utopia della sicurezza che cozza contro la distopia del Contagio, bellico nel film, fatto di fuoco, sparatorie, esplosioni (p. 234).

Difficilmente nei film pandemici viene messa in discussione l’esistenza del virus. Solitamente questo, al pari delle forze complottiste e negazioniste che alimenta, si presenta come una forza antisistemica fonte di divisione e disgregazione che si propaga orizzontalmente, nelle modalità proprie della biopolitica o del biopotere di cui si è occupato Michel Foucault rifiutando

la derivazione verticale dei o dai “poteri forti”. È quindi più giusto parlare di ritorno alla distopia del totalitarismo nel suo paradigma immunitario, oggi. O quantomeno esiste il pericolo. Anche se tale distopia si avverasse, sarebbe di certo diversa dal classico totalitarismo staliniano diretto dall’Alto.
E, soprattutto se tale potere dall’alto esistesse veramente, la storia mostra che non è infallibile, come testimonia esemplarmente l’esplosione del reattore di Chernobyl. Rimane la distopia della contro-informazione, del proliferare altrettanto virale delle fake news. Nei totalitarismi basati sull’apologia e l’assolutizzazione del Sistema rispetto agli Individui, non fare trapelare le responsabilità del potere è più importante di sventare la minaccia effettiva (p. 243).

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Futuro prossimo o remoto: mala tempora currunt https://www.carmillaonline.com/2016/12/19/futuro-prossimo-remoto-mala-tempora-currunt/ Mon, 19 Dec 2016 22:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35013 di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente [...]]]> di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente percepite difficoltà e paure odierne di pensare, immaginare, progettare il tempo futuro. La società nel suo insieme ed ogni singolo individuo per la propria parte vivono a capo chino, con lo sguardo rivolto ad un angusto presente, come timorosi di guardare davanti a sé o impossibilitati a farlo per la miopia di un occhio per cui la linea dell’orizzonte è così lontana da risultare sfocata ed indefinita.

È alla cultura allora che si richiede di diradare le nebbie, di tracciare e definire i contorni delle cose, immaginando la società del futuro, prossimo o remoto ed è uno sforzo predittivo ed immaginativo non facile a compiersi nell’epoca di quella post-modernità che sembra aver mortificato ed inibito le moderne speranze/velleità di leggere e comprendere in continuità il passato ed il presente e di indirizzare/immaginare il futuro; non facile – scrive Bordoni – per «lo spirito odierno, permeato d’incertezze, che spinge ad aggrapparsi al presente e a farne una nicchia di sopravvivenza, di cui si conoscono almeno i contorni e le criticità» (p. 9). Il presente critico e problematico impaurisce e preoccupa, ma il futuro – osserva l’autore – indefinibile, inafferrabile, insomma ignoto, sembra atterrirci e immobilizzarci con il raggelante sentimento dell’angoscia oppure ci sprofonda nella più rassicurante, ma sterile, nostalgia del passato.

Dalle opinioni raccolte in questo volume risulta evidente come non solo nella percezione comune, ma anche sul piano dell’immaginario colto oggi prevalgano le letture in negativo del futuro che ci attende, visioni talvolta catastrofiche, che «richiamano gli echi delle apocalissi medievali che predicavano la fine del mondo se gli uomini non si fossero pentiti dei loro peccati e non avessero seguito gli insegnamenti della religione» (p. 15). Ma al posto del pentimento del peccatore, oggi si richiederebbe il «ravvedimento dei sistemi politici e dei governi che non si preoccupano dell’esaurimento delle risorse e del degrado del pianeta. […] La differenza è però evidente: allora la minaccia della fine del mondo era strumentale, serviva a controllare il comportamento delle moltitudini in assenza di un forte potere sovrano, lo Stato-nazione. Adesso la minaccia è concreta, fondata e quantificabile. Più che una maledizione, è una denuncia pubblica al fine di risvegliare le coscienze e spingere a prendere provvedimenti prima che sia troppo tardi» (p.15).

Il tempo, la storia, il loro senso costituiscono una materia complessa ed opaca che spesso la filosofia si è sforzata di mettere a tema e per questo iniziamo la presentazione di alcuni dei tanti contributi raccolti da Carlo Bordoni proprio da un filosofo, Remo Bodei, che muove da un assunto fondamentale: l’idea di una storia orientata da una logica intrinseca che la guida appare ormai tramontata definitivamente; abbiamo dovuto rinunciare ad essa e scivolare dal piano di una Storia a quello di molteplici particolari storie che faticano a rientrare in un quadro comune di destini interconnessi. La prospettiva escatologica o comunque variamente finalistica del tempo storico che aveva spronato e sostenuto la progettualità umana nel corso dei secoli ha lasciato il posto ad una storia “invertebrata”, di cui si dimentica la provenienza e si ignora la destinazione.

Tre – ritiene Bodei – sono le conseguenze immediate di questa situazione i cui effetti a lungo termine ancora non sono del tutto evidenti. In primo luogo, la difficoltà odierna di rapportarsi al futuro secondo una modalità proiettiva, che sia in grado di collocarvi traguardi da raggiungere. Ne consegue che la prospettiva della nostra attesa viene a tal punto ridotta da risultare tutta schiacciata sul presente, ma un presente immediato e puntuale, o poco più, che fatica a costruire relazioni con un tempo che lo trascenda. Viene meno la possibilità di pensare ad un riscatto prossimo di qualsivoglia specie – il progresso, la libertà, la società senza classi – e questo alimenta l’indifferenza, la rassegnazione o induce all’angoscia. Ma produce anche qualcosa di peggiore: l’assolutizzazione del presente, un presente senza futuro che induce all’opportunismo predatorio, proprio di uomini e società, sistemi economici e politici che non sono più in grado di «preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato» (p. 33).

In secondo luogo, lo sbriciolamento di aspirazioni e progetti collettivi, pubblici ed universalistici, che dal secolo dei Lumi in poi avevano tracciato l’orizzonte di senso dell’uomo in Occidente, ha dato spazio ad aspettative sempre più private e quindi particolaristiche ed atomizzate, ad una privatizzazione del futuro che si trasforma nella «fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa» (p. 33). In terzo luogo, sia il pensiero politico sia la sua prassi non sono più in grado di proporsi come strumenti di ideazione e realizzazione di traguardi venturi, prossimi o remoti e finiscono per essere imprigionati nel ristretto spazio amministrativo del presente contingente.

Conclude pertanto Bodei che il «presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole. […] Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico ed insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro — che aveva preso il sopravvento su quello verso l’alto — tende di nuovo a restringersi, permettendo a quest’ultimo di risollevarsi parzialmente» (p. 33).

L’arroccamento nella cittadella fortificata del presente per fuggire da un futuro che ci terrorizza è – secondo Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma – il nostro odierno atteggiamento verso il tempo e l’esistenza. Seguendo concetti e stilemi di pensiero heideggeriani, Di Cesare fissa il mal-essere attuale «nella chiusura dell’avvenire» (p. 61), in quanto “l’aspettare” (erwarten) ha sostanzialmente sostituito “l’attendere” (warten) come modalità di rapportarsi al futuro. “L’aspettativa” riguarda qualcosa di conosciuto, programmato, immaginato che, pertanto, induce l’uomo al calcolo, alla previsione, alla proiezione statistica, nell’estremo tentativo di estendere il controllo anche sul tempo, sul futuro per renderlo anticipatamente familiare, per disinnescarne la carica di potenziale inquietudine. «Il dominio del futuro è l’aspirazione ultima, il contrassegno e il sigillo della nostra epoca. Quanto più il futuro ci terrorizza, tanto più vogliamo dominarlo. In una vertigine senza fine, dove si moltiplicano analisi, misurazioni, sondaggi, previsioni» (p. 62).

“L’attesa” invece riguarda qualcosa di inaspettato, di non calcolabile, contempla l’alterità, l’eterogeneità dell’imprevedibile; l’attesa è apertura dell’avvenire. Abbandonarsi all’attesa vuol dire aprirsi all’avvenire. «Nell’attesa di ciò che viene, e avviene […] l’apertura non è preclusa e il futuro si rivela perciò a-venire, tempo che porta con sé la possibilità dell’impossibile. Nell’avvenire aperto dell’attesa si mantiene l’eterogeneità dell’evento che interrompe il presente, lo oltrepassa, eccedendo ogni estremo, superando ogni éschaton» (p. 62).
Pare essere proprio l’attuale incapacità di attendere il tempo a-venire che ci induce a rifugiarci nella cittadella fortificata del presente assediata dai fantasmi di un futuro che, disorientati ed impauriti, aspettiamo.

Zygmunt Bauman ritiene che se prevedere il futuro è operazione di per sé difficile, a maggior ragione lo è oggi, in un’epoca in cui si moltiplicano gli «eventi che testimoniano l’assenza di una logica di sviluppo nella condizione umana e quindi anche di conseguenza nelle imprese umane» (p. 25). Le società contemporanee si trovano nella condizione di non essere più in grado di concepire le forme del proprio futuro e i modelli del proprio sviluppo, in particolare a causa del fatto che è venuta meno la fiducia riposta nelle principali «agenzie di azione collettiva – i partiti politici, i parlamenti, il governo – di riorganizzare/riformare e mantenere le loro promesse» (p. 26).
A monte di questa inettitudine di istituzioni ed organi socio-politici, il sociologo polacco colloca la separazione attualmente prodottasi tra potere e politica, «tra il potere (la possibilità di fare cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose devono essere fatte)» (p. 26); una divergenza che a sua volta è conseguenza della globalizzazione in atto, che ha investito il potere, ormai globalizzato, ma non la politica. «La maggior parte dei poteri epocali», scrive Bauman, «che determinano la condizione e la capacità umana di agire in modo efficace sono già sul globale, sfidando il principio della sovranità territoriale degli organismi politici – mentre gli attuali organismi politici, le cui competenze sono racchiuse entro i confini di uno stato territoriale, rimangono confinati a livello locale come un centinaio di anni fa. I poteri globalizzati si trovano oltre la portata delle attuali istituzioni politiche. Ci sono poteri esenti dal controllo politico, a fronte di una politica spogliata di gran parte del suo antico potere» (p. 26-27).

In assenza di strumenti socio-politici adeguati a poteri globalizzati, l’attuale condizione degli uomini, considerati individualmente o collettivamente, è del tutto simile – sostiene Bauman con una immagine oltremodo efficace – a quella del plancton: siamo come organismi acquatici, sospesi in balia delle correnti, per i quali non è ragionevolmente possibile prevedere alcuna direzione di spostamento.

Sul piano dell’analisi economica dell’odierno capitalismo globalizzato si sviluppa il ragionamento di un altro sociologo, Wolfgang Streeck, docente dell’Università di Colonia, che vede le società occidentali avviate a proseguire nei prossimi decenni un trend complessivo di declino sociale che già da anni si manifesta nelle forme della disuguaglianza crescente, della stagnazione economica, dell’aumento dell’insicurezza e della frammentazione politica. Si tratta di un piano inclinato lungo il quale la società contemporanea sta precipitando con accelerazione crescente e senza che si intravedano possibilità concrete di frenare tale corsa rovinosa. Questo processo ha «a che fare con la rapida espansione dell’economia capitalista su scala globale. Vale a dire una scala che le regole della politica democratica e le altre forze contrarie al capitalismo non possono assolutamente arginare, benché in passato fossero riuscite nell’insieme a contenerle e a incorporarle» (p. 143).

Rifacendosi al pensiero di Karl Polanyi, Wolfgang Streeck ritiene che la globalizzazione abbia ormai impresso una forma “mercantile” all’intero mondo e abbia prodotto un’accelerazione mai vista prima alla mercificazione del lavoro, del denaro e della natura, che possono «essere trattate come merci pure e semplici solo a rischio di una catastrofe sociale. Si stanno cominciando a vederne i risultati: mercati del lavoro deregolamentati con successo e declino a livello globale delle condizioni di lavoro, a fronte di un rapido avanzamento del degrado ambientale e di sempre più gravi crisi finanziarie. Al centro del marciume sociale che vedo avanzare trovo l’economia capitalista liberata di ogni controllo, avendo sciolto il suo matrimonio forzato con la democrazia, che era stato consumato dopo la seconda guerra mondiale» (p. 144).

Pertanto, continua Streek, il neoliberismo mondializzato, liberatosi da ogni vincolo o condizionamento politico, ha fatto sì che oggi l’economia capitalista non sia più capace di sostenere la società capitalista e abbia prodotto disordine, ingovernabilità e ingiustizia dilaganti.
«L’ascesa inarrestabile della disuguaglianza nei paesi che una volta avevano fatto dell’uguaglianza uno dei loro obiettivi etici e politici più importanti, è solo un altro aspetto della crescente ingovernabilità del capitalismo globale» (p. 144), che conduce Streek a conclusioni desolanti riguardo l’immediato futuro che ci attende. «L’ordine sociale del momento è rappresentato da lavoratori precari trasformati in consumatori fiduciosi (Colin Crouch) per effetto di continue pressioni sociali generate dalla grande industria della pubblicità e dello spettacolo, alleata a uno sproporzionato settore finanziario. […] Gli immigrati, che in numero sempre maggiore forniscono alla classe media servizi privati a prezzi accessibili – in forza della sottomissione a un modello orientato al mercato e sempre meno in grado di rinunciarvi – saranno esclusi formalmente o di fatto dai diritti civili. Le classi medie, incantate da un individualismo meritocratico, essendo abituate dalla privatizzazione a difendersi e a pagare per sé, perderanno interesse per la politica. Ciò corrisponderà alla crescita del dominio tecnocratico sulla spesa pubblica da parte delle banche centrali e delle organizzazioni internazionali, imponendo ai governi l’austerità e il consolidamento per fare spazio al consumo privato e dare nuova fiducia ai mercati finanziari. La partecipazione politica diminuirà ancora di più tra il sottoproletariato, che non ha più nulla da aspettarsi dalla politica pubblica» (p. 145-146).

Questi qui considerati sono solo alcuni degli interventi che compongono l’interessante lavoro curato da Carlo Bordoni che fornisce un contributo apprezzabile allo sforzo odierno di pensare ed immaginare il futuro, in un contesto di incertezza e disorientamento crescenti ad ogni livello della vita sociale, ma anche con la consapevolezza che – come dice J.M.Keynes, da Bodei citato nel suo breve saggio – l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.

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Il libro raccoglie saggi di: Marc Augé, Zygmunt Bauman, Remo Bodei, Edoardo Boncinelli, Valerio Castronovo, Vanni Codeluppi, Domenico De Masi, Donatella Di Cesare, Àgnes Heller, Giuseppe O. Longo, Michel Meffesoli, Patrizia Magli, Paolo Maria Mariano, Michel Meyer, Edgar Morin, Elga Nowotny, Alberto Oliverio, Telmo Pievani, Stefano Rodotà, Alessandro Scarsella, Denise Schmandt-Besserat, Wolfgamg Streeck, Keith Tester, Silvia Vegetti Finzi.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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