POST-INDUSTRIALE – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici https://www.carmillaonline.com/2021/10/17/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-contesto-e-radici/ Sun, 17 Oct 2021 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68686 di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più [...]]]> di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più spietato edificando un modello teso a rappresentarsi immodificabile, come Margaret Thatcher non manca di scandire ad ogni occasione: “There is no alternative”.

L’Inghilterra plasmata dalle politiche thatcheriane dei primi anni Ottanta è un Paese afflitto dalla disoccupazione e dalla disgregazione sociale che si abbattono sulla working class tradizionale, dall’individualismo, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza che non sempre riescono a essere celati dietro allo scintillio delle prime avvisaglie di gentrificazione dei quartieri, agli status simbol esibiti da rampanti uomini e donne intenti a sgomitare con ogni mezzo necessario per conquistarsi “il successo”.

Le trasformazioni epocali inaugurate in apertura di quel decennio sono inevitabilmente accompagnate da una generale messa in discussione di identità che sembravano granitiche con cui, del tutto impreparati, si sono trovati a fare i conti individui sempre più atomizzati. Lo scrittore David Peace ha saputo far affiorare le macerie tra le immagini patinate di quel periodo tratteggiando nel ciclo di romanzi Red Riding Quartet il contesto in cui si danno alcuni crimini efferati tra miniere abbandonate, fabbriche chiuse o automatizzate, città in rovina e violente di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, oltre che individui e comunità dall’identità frantumata.

Gli anni Ottanta, in un modo o nell’altro, hanno plasmato l’immaginario contemporaneo tanto da fungere da serbatoio da cui si continua ad attingere, più o meno nostalgicamente, recuperando segni e testi culturali assecondando inclinazioni edonistiche o esistenziali. A questo secondo versante fa riferimento il volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021) che, analizzando in un percorso trasversale a più voci l’opera del gruppo di Salford, Greater Manchester, ricorrendo a un’ottica interdisciplinare, ricostruisce l’universo Joy Division indagato sia nel contesto in cui è nato che nel lascito da cui l’attualità continua ad attingere più o meno rispettando l’esperienza originaria. [A tale libro sarà dedicato un secondo scritto nei prossimi giorni su Carmilla]

Alfonso Amendola e Novella Troianiello muovono la loro indagine a partire dalla convinzione che un genere musicale non sia esclusivamente il prodotto di un determinato gruppo sociale ma che esso stesso contribuisca a generare delle identità sociali che concorrono a plasmare i confini e a mutare le forme culturali nel corso del tempo.

Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.

Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una

generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32).

Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate.

In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.

In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita ad una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30).

La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.

Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).

Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36).

Nel volume Daniele De Luca approfondisce il rapporto tra i Joy Division e l’area di Machester in cui crescono; una realtà urbana all’epoca in balia della disoccupazione e dal tessuto sociale lacerato in cui figli della classe operaia sembrano trovare per un istante nel punk, arrivato dall’odiata Capitale, un modo per rialzare la testa e dar voce alla rabbia accumulata in corpo.

Ma il punk era stata l’improvvisa scintilla per accendere un fuoco ancor più duraturo. Dopo la pubblicazione in puro stile do-it-yourself, nel gennaio 1977, di Spiral Scratch da parte dei Buzzcocks (con la produzione di Martin Hannett, il creatore indiscusso del suono dei Joy Division), la scena mancuniana stava per partorire qualcosa di nuovo. Nel 1978, il punk si stava trasformando nel post-punk: le idee scaturite dal punk venivano usate per creare un modo diverso di fare musica. Manchester diventerà leader della nuova scena. Il miracolo del riscatto era iniziato. I Magazine, i Warsaw (diventati ben presto Joy Division), i Fall, i A Certain Ratio inaugurarono la strada lastricata di sottile e prezioso alabastro della new wave (p. 43).

De Luca insiste su come il degrado urbano e lo sfilacciamento sociale di Manchester facciano parte della quotidianità dei Joy Division e di come questi ultimi derivino da un proficuo incontro tra ambiti sociali, luoghi e formazione culturale diversi da cui hanno saputo originare un sound capace di coniugare insicurezze, smarrimenti, energia repressa e, soprattutto, la sensazione della perdita che, insieme al senso di solitudine, pare davvero essere una delle caratteristiche che stanno alla base del gruppo e più in generale del post-punk nelle città dell’Inghilterra settentrionale.

Eugenio Capozzi pone l’accento su come l’esperienza post-punk nasca sull’onda delle grandi differenze che caratterizzano la generazione dei ventenni di fine anni Settanta da quella degli anni Sessanta. Se quest’ultima può dirsi caratterizzata da un’aspirazione a un «nuovo comunitarismo senza repressione, gerarchie, obblighi», la generazione del decennio successivo si contraddistingue per una rabbiosa e distruttiva assenza di progettualità attraversata da una visione del mondo decisamente soggettiva, quando non individualista.

Insomma, la controcultura/cultura hippie prima, il no future del punk dopo. La differenza tra l’atteggiamento assunto dalle punte più inquiete delle due “sub-generazioni” è quella tra utopia spericolata e disillusione; tra la fede misticheggiante in una sorta di ritorno all’innocenza neo-rousseauiano e la presa d’atto di una frammentazione “tribale” delle società occidentali su base “postmaterialista”, del dominio di una “cultura del narcisismo”. […] A partire dal punto di vista periferico della sua Manchester operaia, Ian Curtis appartiene in pieno alla seconda “subgenerazione” […] assimila, dunque, la rabbia nichilista del punk, ma nutrendola di un pessimismo filosofico dalle radici profonde, imperniato su una meditazione intorno al disorientamento dell’individuo rispetto a sistemi sociali, economici, culturali, istituzionali mossi da forze estranee, incomprensibili, crudeli (p. 47).

Se l’esordio dei Joy Division – con l’EP An ideal for living (1978) – sembra derivare da una necessità di estrinsecare una rivolta esistenziale ed etica attraversata da amarezza e disillusione – e quest’ultima rappresenta un’altra delle parole chiave dell’esperienza del gruppo –, con il primo album – Unknown pleasures (1979) – a emergere è soprattutto la solitudine dell’individuo e il senso di incomunicabilità che si manifestano in particolare attraverso «il rimpianto per una condizione ideale di armonia sentita come irrimediabilmente perduta e la domanda di affetto, solidarietà, comprensione» (pp. 48-49). Il senso di radicale distacco dal mondo diviene evidente, così come una certa indifferenza nei confronti della morte dal momento che ogni rapporto affettivo appare ormai come un semplice lontano ricordo. Ian Curtis, sostiene Capozzi, sembra per certi versi avviarsi ad abbandonare ogni impulso teso alla liberazione per trasformarsi in un “giovane vecchio”, intraprendendo un percorso personale che lo vede passare da una “rivoluzione senza utopia” a un “soggettivismo estremo” evitando di percorrere altre strade, all’epoca battute dai più, indirizzate invece verso derive edonistiche.

Nella sua improvvisa maturazione, o senescenza, si riflette in maniera deformata ma nel complesso fedele l’effimera fiammata della ribellione punk, la rapidissima involuzione dei baby boomers “maturi” dei medi anni Cinquanta da persone-massa della morente golden age, colpita dalla grande crisi economica degli anni Settanta, a ribelli iper-soggettivisti, privi di una piattaforma ideologica, fino a “soggetti smarriti” di una dinamica storica per loro ancora illeggibile ed incomprensibile: l’embrionale trasformazione dell’Occidente dagli Stati nazionali, dalla guerra fredda e dall’economia “mista” allo stato “liquido” della globalizzazione, la cui nascita sarebbe stata individuata almeno un decennio dopo (p. 50)

Il successivo album – Closer (1980) –, pubblicato dopo la morte di Curtis, appare a tutti gli effetti la resa definitiva di fronte alla sofferenza esistenziale dopo quella che può essere vista come l’ultima flebile e disperata richiesta di aiuto rivolta all’esterno espressa da Unknown pleasures. Quasi una “rinuncia per sfinimento”. Sarebbe però limitativo, suggerisce ancora Capozzi, limitare tutto alla sfera dei rapporti individuali; i testi di Closer evidenziano

la lancinante mancanza di una dimensione comunitaria. Una mancanza che si era già affacciata come nostalgia della gioventù e della “normalità” in Unknown pleasures, e qui si ripropone come una condanna, a cui Curtis fantastica ancora a momenti di poter sfuggire, ma senza crederci più [Non a caso] nel brano conclusivo, Decades, la rassegnazione all’estinzione viene raffigurata non come uno scacco individuale, ma collettivo, e addirittura generazionale […] Quella generazione dipinta spesso come fortunata, superficiale, votata al divertimento e al piacere, insofferente a ogni costrizione. E che invece, nella visione profetica costruita da Curtis sul ritmo di una sorta di reggae ibernato tra i ghiacci, è composta da individui precocemente invecchiati, curvi sotto un peso insopportabile, che nella loro breve vita hanno accumulato tutta la stanchezza e la disillusione di generazioni e generazioni precedenti […] Ha un significato storico inestimabile il fatto che l’ultima parola artistica di Curtis prima dell’atto finale di congedo, l’ultimo suo contatto con il mondo, sia un «noi». In Decades come in Love will tears us apart. Anche la fine dell’amore non è più per lui a questo punto un’esperienza puramente individuale, ma riguarda tutti coloro che condividono con lui l’aspirazione a ritrovarsi in una comunità ormai svanita (pp. 52 e 55).


Decades

Here are the young men, the weight on their shoulders,
Here are the young men, well where have they been?
We knocked on the doors of Hell’s darker chamber,
Pushed to the limit, we dragged ourselves in,
Watched from the wings as the scenes were replaying,
We saw ourselves now as we never had seen.
Portrayal of the trauma and degeneration,
The sorrows we suffered and never were free.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Weary inside, now our heart’s lost forever,
Can’t replace the fear, or the thrill of the chase,
Each ritual showed up the door for our wanderings,
Open then shut, then slammed in our face.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?


This video combines the 1980 studio version of this song with images from a live performance at the BBC Something Else Show in September 1979


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

 

]]>
‘O rumore mio… https://www.carmillaonline.com/2016/11/03/o-rumore-mio/ Thu, 03 Nov 2016 22:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34181 di Sandro Moiso

postindustriale Marcello Ambrosini, POST-INDUSTRIALE. La Scena Italiana Anni ’80, con una prefazione di Luther Blisset e un CD con 9 brani ( della durata di 55’ e 32’’), GOODFELLAS 2016, pp.288, € 22,00

«Gli strumenti a corda, i fiati, gli ottoni, ecc. devono essere sostituiti da una batteria di oggetti duri. […] E quanto al mezzo del suono sarà preferibile usare l’elettricità, il magnetismo, la meccanica, in quanto essi escludono più efficacemente l’intromissione dell’individuale» (Piet Mondrian, 1922)

La storia del rumore nella musica italiana, come riassume bene il testo appena pubblicato da Goodfellas nella collana Spittle, ha [...]]]> di Sandro Moiso

postindustriale Marcello Ambrosini, POST-INDUSTRIALE. La Scena Italiana Anni ’80, con una prefazione di Luther Blisset e un CD con 9 brani ( della durata di 55’ e 32’’), GOODFELLAS 2016, pp.288, € 22,00

«Gli strumenti a corda, i fiati, gli ottoni, ecc. devono essere sostituiti da una batteria di oggetti duri. […] E quanto al mezzo del suono sarà preferibile usare l’elettricità, il magnetismo, la meccanica, in quanto essi escludono più efficacemente l’intromissione dell’individuale» (Piet Mondrian, 1922)

La storia del rumore nella musica italiana, come riassume bene il testo appena pubblicato da Goodfellas nella collana Spittle, ha ormai più di un secolo di vita. Risale infatti ai primi esperimenti del futurista Luigi Russolo che lo teorizzò nel suo “L’arte dei rumori” comparso a Milano presso le Edizioni futuriste di «Poesia» agli inizi di Settembre del 1916 e lo espresse musicalmente a partire da un primo concerto pubblico tenuto a Modena il 2 giugno 1913.

In un paese in cui la tradizione “classica” e, soprattutto, del “bel canto” hanno dato e continuano a dare il peggio di sé avendo inficiato ogni genere musicale dal folk fasullo della canzone napoletana alle colonne sonore di Ennio Morricone passando per la passione per la musica lirica e il pop dei Pooh fino al mefitico Festival di San Remo, era inevitabile che, prima o poi, la reazione in termini artistici ed espressivi dovesse essere radicale e violentissima.

Anche se la musica post-industriale italiana degli anni ’80 ha preso per lo più spunto dagli esperimenti di musica industriale che alcuni gruppi come i Throbbing Gristle, i Nurse With Wound, i Cabaret Voltaire, i Clock DVA oppure i primi Einstürzende Neubauten avevano avviato fin dalla fine degli anni Settanta, in una sorta di marxiana “negazione della negazione” rispetto al punk nato tra il 1976 e il 1977,1 risulta evidente, a seguito di uno sguardo più attento e approfondito, che lo specifico culturale e musicale italiano ha avuto un peso enorme nel determinare l’estensione di un fenomeno che, ovviamente, senza avere avuto importanti risultati di mercato ha segnato in maniera importante l’ambiente della musica undeground nazionale. E non solo.

Ho citato alcuni esempi e vorrei chiarirli. E’ noto che tutta la musica napoletana più celebrata, da ‘O sole mio a ‘O surdato ‘nnammurato tanto per intenderci, non fu affatto il prodotto della cultura popolare ma piuttosto quello di poeti, giornalisti e musicisti che vollero ricondurre il canto sgraziato e i ritmi percussivi, poi riscoperti negli anni Settanta dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, della tradizione partenopea all’interno del bel canto espresso dalla prima musica pop italiana della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento: quella lirica che infiammava le platee e i palchi dei teatri e faceva sgorgare lacrime di commozione tra gli ascoltatori di ogni estrazione sociale. Alimentando quel mercato degli spartiti che avrebbe fatto la fortuna della Casa Ricordi e che non sarebbe potuto esistere sulla base della semplice produzione dal basso della musica folk, sempre modificata nei testi e nelle esecuzioni, secondo l’esperienza dell’oralità.

Così mentre in altri paesi, dal Nord Europa agli Stati Uniti, le dissonanze, il mancato rispetto dei canoni delle partiture musicali istituzionalizzate e le basi ritmiche e poliritmiche rimanevano a segnare la distanza tra un suono e l’altro e tra una cultura musicale “bassa” ed una “alta” all’interno delle musiche popolari o folk (dal blues ai reel scoto-irlandesi, tanto per semplificare con degli esempi), in Italia veniva istituzionalizzata e canonizzata la “musica d’autore”, con tutte le limitazioni creative e i guadagni che questa finiva col produrre.

Mentre, per fare un esempio, fin dalla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti rimaneva chiara la differenza tra la musica prodotta a Tin Pan Alley2 e quella di origine nera o derivata dal folk di origine europea, qui in Italia la musica popolare fu per eccellenza quella riconducibile ad un autore, possibilmente colto. Tanto da far sì che anche i canti della lotta partigiana finissero con l’essere il risultato dell’adattamento di canzoni di origine sovietica o slava, spesso entrati nella tradizione “resistenziale” pur essendosi diffusi a posteriori. Valga per tutti l’esempio di “Bella ciao”, il cui percorso di formazione è piuttosto complesso e contraddittorio, ma che nel contenuto, sostanzialmente nazionalistico e patriottico,3 rivela la propria funzione moderatrice e di unità nazionale e partitica, alla faccia di chi ancora adesso la intende come una canzone di lotta “rivoluzionaria”.

Ma, scusandomi con il lettore per essermi forse spinto troppo oltre con questo sintetico excursus, è giunto il momento ritornare all’argomento del libro in questione che espone, in maniera dettagliatissima, un’esperienza che, per quanto artigianale (come la definisce Luther Blisset nella prefazione) e molto spesso ai limiti della clandestinità, ha segnato significativamente i suoni dell’ultimo trentennio, tracciando, se mi è permessa la forzatura, una sorta di arco temporale e creativo ideale tra Russolo e certa visual art, la musica techno e la ricerca sonora degli ultimi decenni.

l-arte-dei-rumori Con le schede contenenti la storia e le discografie di più di cinquanta artisti e band, il testo di Ambrosini si presenta come l’opera più documentata su un genere musicale che non è stato accettato in ambito istituzionale e neppure in quello pop, per quanto alternativo. L’unico testo prodotto precedentemente in questo campo era stato quello inserito da Paolo Bandera all’interno del Manuale di cultura industriale edito dalla Shake.4

Per questo motivo e per il fatto che “il post-industriale (e la cassette culture più in generale) è una scena in cui l’estrema artigianalità del prodotto fatto-in-casa – come le copertine con singoli collage originali e titoli scritti a mano – e anche l’amatorialità e la mancanza di tecnica musicale paiono essere non dei disvalori bensì dei pregi.”,5 si potrebbe inserire il movimento in una sorta di folk o post-folk radicale, definizione che sicuramente potrebbe suscitare i brividi o l’opposizione di alcuni dei suoi membri e cultori.

Se non che “Si tratta del culto condiviso col punk per il non musicista (creativo) visto anche come estremo sberleffo alla patinata e vuota “professionalità” del mainstream, alla prevedibilità omologata dell’industria del rock (ma, attenti, quella del “genio dilettante” è soltanto una faccia di un poliedro dai molti lati, ci sono perfino artisti industrial diplomati al Conservatorio!). Tra i nuovi valori introdotti dal network non solo post-industriale ci sono tuttavia, per dirla col tape-artist Hal McGee, quelli della triade di principi operativi “Contatto – Comunicazione – Collaborazione”, che ci permettono di leggere il nuovo attivismo di rete anche in chiave di prolungamento e aggiornamento delle istanze controculturali delle generazioni beat-hippie, andando magari a riconsiderare anche l’occultato “lato oscuro” dei Cinquanta-Sessanta in reazione a un ventennio di “buonismo” di facciata (vedi la Family di Charles Manson, spesso citata e rivisitata al pari di altre inquietanti sette para-religiose, da Scientology a The Process). Le “tattiche dello shock” che caratterizzavano gli albori industrial, dando vita ad ambiguità politiche a non finire (critica e indagine “per non ripetere gli errori del passato”, o fascinazione ed exploitation di temi morbosi e perversi?), i suoni urticanti e le parossistiche urla in feedback del power electronics, sono una delle tante sembianze di una scena multimediale che si è poi avvalsa di strategie articolate e sofisticate, non solo rumore-e-grida ma anche impeccabile collagismo ed eretica improvvisazione post-lisergica (coi Nurse With Wound come capiscuola), rigorose disamine del linguaggio delle macchine (trovando nuovi e obliqui utilizzi per synth, drum machines, computer e strumenti auto-costruiti), un ritorno alle origini rituali e magico-religiose del ritmo, ricerche sulla “musica metabolica” e i poteri segreti del suono, esercizi nel riciclo di suoni catturati nell’ambiente naturale e urbano (seguendo i consigli del manuale burroughsiano «The Electronic Revolution» più che i maestri della musique concrète), rarefazioni concettuali che si abbeverano alle sorgenti dell’audio art e della performance art, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.6 Cosa che di fatto lo trasferisce e lo trattiene, quindi, all’interno di una modernità artistica ancora non superata.

«Ricordo che negli anni Ottanta, con 20.000 lire andavamo da un rottamaio e procuravamo strumenti per tutta la band; ferraglie abbandonate e arrugginite che prima erano servite per tutt’altri scopi. Riutilizzare materiale che a suo tempo era servito per il lavoro è stata per noi una sorta di rivendicazione».7 Questa dichiarazione di Osvaldo Orioli delle OFFICINE SCHWARTZ, gruppo nato a Bergamo nel 1983, riassume sicuramente bene un aspetto importante della prima generazione post-industriale.

Il suono della musica industriale, caratterizzato dall’impeto meccanico proveniente dalla macchina, è assorbito e restituito dalle Officine Schwar¬tz sotto forma di canto popolare. Le Officine, sorte a Bergamo nel 1983, sono i primi a considerare rilevante il fattore umano: la macchina non esisterebbe senza l’uomo, e sempre senza l’uomo non funzionerebbe. La fabbrica è il risultato di questa interazione, luogo che si nutre della vita dell’operaio rendendolo un ingranaggio, uno dei tanti, apparentemente superfluo.
Il fulcro del discorso affrontato dalle Officine parte proprio da questo binomio: da una parte il macchinario, dall’altra l’ingranaggio superfluo.
8

Però questa scelta è soltanto una di quelle possibili all’interno del magmatico e variegato movimento in cui, spesso, i nomi scelti dagli artisti e dai gruppi (Pankow, Mauthausen Orchestra, Laxative Souls, Swastika Kommando, solo per citarne alcuni) ci ricordano che l’intento provocatorio si abbinava ad un’indole iconoclasta che riprendeva, ampliava e per alcuni versi “aggravava” gli atteggiamenti musicali e la scelte estetiche del primo punk.

Sorgeva da quei solchi, ma sarebbe meglio dire nastri, un urlo, un bisogno di rottura che, in maniera magari più contenuta e intellettualistica era già stato espresso dalle sperimentazioni del Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza (GINC), fondato a Roma nel 1964 da Franco Evangelisti ed operativo fino alla metà degli anni Settanta, che alcuni rappresentanti del Post-industriale, però, come Pietro Mazzocchin avrebbero portato alle estreme conseguenze.

Attivo tra l’82 e l’85, Mazzocchin ha disseminato il panico sonoro attraverso
svariate sigle: Swastika Kommando, Observation Clinique, New Sadism, Noise & Kreg, Metabolismo Tossico, Terrorismo Genetico e Lyoto Music, quest’ultima in collaborazione con Zoppo.
L’opera di Mazzocchin è tra le più impressionanti e intense del panorama
europeo anni Ottanta. Nella sua musica ogni cosa è ridotta a maceria, come fosse stata distrutta da un terremoto e poi abbandonata. A volte si percepisce nella furia disumana un brandello di ritmo, e i pochi resti sono coperti da una colata di rumore bianco che, come vento forte e gelido, porta via anche l’ultima possibilità di vita. Il feedback è il sudario col quale Mazzocchin copre il cadavere della musica.
Quello operato da Mazzocchin è un attacco di immane potenza contro la realtà con cui quotidianamente si confronta. Le armi che utilizza scaturiscono da sintetizzatori e oggetti elettronici di uso comune, dai quali ottiene feedback, noise, riverberi e interferenze che utilizza per comporre maratone rumoristiche che spesso raggiungono anche la mezz’ora di durata. In tutti i suoi lavori, nessuno escluso, Mazzocchin porta avanti un discorso sin dall’inizio estremo […] In una società programmabile e programmata, Pietro Mazzocchin compie un’azione di valore uguale e contrario al comune modo di pensare e fare musica: caos sonoro allo stato puro, che va oltre l’udibile, oltre il dolore percepibile.
9

Divisi in una prima e in una seconda generazione e poi ancora suddivisi in Power Electronics e Post-industrial Esoterico, gli artisti raccontati e presentati da Ambrosini marcano una significativa differenza con le possibili musiche parallele e di ciò ci rende sonicamente edotti l’interessantissimo cd, abbinato al testo, in cui brani registrati tra il 1982 e il 1988 da Mauthausen Orchestra, Sigillum 5, Thee Three Rings, TAC, Tasaday, Luke X’s Ah Nahm Inc, Ain Sopha e F:A.R. finiscono col dare vita a una colonna sonora ideale per la sua lettura. In un tripudio di suoni disarmonici, tecniche estreme di cut’n’mix e rumori ottenuti dagli strumenti e dalle macchine più disparate.

Nonostante alcune ingenuità espressive, le autentiche degenerazioni sonore in cui sembravano precipitare i suoi principali esponenti e le sue talvolta ambigue proposte politico-musicali, il post-industriale italiano, nel suo tentativo di infrangere una retorica musicale e culturale soffocante, ha finito così con il ricollegarsi alle formulazioni più avanzate della teoria musicale del secondo Novecento.
«Noi abbiamo chiamato la nostra musica concreta poiché essa è costituita da elementi preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia esso rumore o musica tradizionale.
Questi elementi sono poi utilizzati in modo sperimentale,mediante una costruzione diretta a realizzare una composizione senza l’aiuto, divenuto ormai impossibile, di una notazione musicale tradizionale
» (Pierre Schaeffer, Traitè des objects musicaux, Edition du Seuil, Paris 1966)10

Buona lettura e buon ascolto dunque, poiché chiunque sia realmente interessato alla storia delle evoluzioni della musica contemporanea, in tutte le sue forme, non si pentirà di averlo fatto.


  1. Nel vuoto lasciato dal fallimento della retorica apocalittica del punk rock, l'”industriale” sembrava una buona idea. La concentrazione implicita del punk, nella sua forma più pura, sulla teoria situazionista […] aveva lasciato la porta aperta a un approfondimento ancora maggiore del decadimento del capitalismo. Nell’atmosfera surriscaldata della Londra del 1977, quando il 1984 (se non l’Apocalisse) appariva dietro ogni angolo degradato, quando migliaia di occhiali scuri nascondevano una paranoia clinica, quando la struttura della società inglese sembrava essere stata dipanata dal punk rock, in viscidi fili di lotte intestine settarie – violenza fascista e di sinistra nelle strade, crisi finanziaria – tutto sembrava possibile e, anzi, necessario. Il punk a quel tempo non era andato abbastanza lontano: il suo stile era diventato una posa, cosmesi da vetrina ‘produci e consuma’ attraverso i soliti canali commerciali. C’era bisogno di qualcosa di nuovo: ma cosa c’era? Se, fino a quel momento, l’industriale era stato l’esame più completo del decadente ambiente inglese, da un punto di vista sia fisico che psichico, allora era anche una reazione molto appropriata contro quello che era diventato il punk rock – buon vecchio rock’n’roll.” Jon Savage, Linee guida della New Music, Londra 1983, cit. in Manuale di cultura industriale (vedi oltre) pag. 19  

  2. Nome dato all’industria musicale newyorkese che dominò il mercato della musica popolare nordamericana tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo. In seguito il termine fu usato per designare l’intera industria musicale” https://it.wikipedia.org/wiki/Tin_Pan_Alley  

  3. Non contiene alcun accenno all’abbattimento del fascismo nostrano, ma soltanto alla lotta contro lo straniero invasore  

  4. Paolo Bandera ( a cura di), Manuale di cultura industriale. Socio-patologia musicale dagli anni Settanta al ventunesimo secolo, Shake nella collana Re/search, prima edizione 1997, seconda edizione ampliata 2011  

  5. Luther Blisset, Prefazione. Rumori e grida, pag.13  

  6. idem, pp.13 – 14  

  7. Cit. in Marcello Ambrosini, pag.90  

  8. idem, pag.87  

  9. ibidem, pp.168-169  

  10. cit. ivi, pag.27  

]]>