Porcile – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 22 Apr 2025 20:00:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Uno spazio inquietante: “L’invenzione di Morel” di Emidio Greco https://www.carmillaonline.com/2022/08/15/uno-spazio-inquietante-linvenzione-di-morel-di-emidio-greco/ Mon, 15 Aug 2022 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73535 di Paolo Lago

L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento [...]]]> di Paolo Lago

L’invenzione di Morel, il film che Emidio Greco trae nel 1974 dal romanzo di Adolfo Bioy Casares, fin dall’inizio presenta una successione di spazi che avvolgono il protagonista (un naufrago che si ritrova su una misteriosa isola deserta, interpretato da Giulio Brogi) secondo modalità inquietanti e allucinatorie. Dapprima, il personaggio, esanime su una piccola imbarcazione, appare preda dell’immensa spazialità del mare che sembra sovrastarlo. Quello del mare è uno spazio fluido e magmatico, in continuo movimento, e le inquadrature iniziali mostrano la figura umana completamente avvolta e circondata dallo spostamento delle onde fra correnti e risacche. Successivamente, il personaggio (che si scoprirà in seguito essere un galeotto fuggito da un carcere) viene inglobato dalle concrezioni petrose dell’isola. Dopo aver abbandonato la barca, si insinua fra le gole di pietra, fra caverne e anfratti che lambiscono la costa rocciosa del luogo in cui si trova, ancora una volta prigioniero. L’inquietante suono del vento che incessantemente spira sull’isola è la manifestazione corporea di un tormento mentale che proviene da altre spazialità sconosciute, perdute negli anfratti di un’angoscia che sembra essersi trasformata in pietra, quella stessa pietra di cui è composta l’isola.

Vediamo infatti il primo piano del personaggio sferzato dal vento, abbandonato a una posa di lento e rassegnato dolore mentre, quasi stancamente, si incammina attraverso le lande desertiche dell’isola. Appare allora inglobato nello spazio desertico che racchiude e serra la sua figura, vestita di un povero abito dai colori chiari che sembrano quasi confondersi con i colori della terra e della sabbia pietrosa che egli solca con un’andatura incerta e innaturale. Sembra quasi un esploratore spaziale giunto su un pianeta sconosciuto, del quale percorre le lande desolate con angoscia e circospezione. E, come un esploratore straniero, improvvisamente si trova di fronte una strana costruzione dalla forma geometrica, una sorta di arcano e abnorme tempio, sul cui sfondo adesso si staglia la sua figura. Si può perciò così riassumere l’alternanza di spazi nei quali, in modo inquietante, è stato inglobato il personaggio: dapprima il magma del mare, poi le concrezioni cavernose e petrose dell’isola, successivamente le lande desertiche che sembrano quasi annullare e annichilire la figura umana e, infine, le costruzioni geometriche che, nuovo, angosciante sfondo, sembrano attirarlo verso di sé e nuovamente annichilirlo.

Di fronte a tali costruzioni, egli, mentre il vento continua incessantemente a soffiare e sibilare intorno al suo corpo, si muove lentamente, a scatti, come un automa, quasi divenuto, appunto, un “automa del pensiero” e una “mummia spirituale”, per utilizzare due espressioni di Gilles Deleuze. Avvolto dalla temporalità annullata dell’isola, il naufrago riesce soltanto a muoversi a scatti, mimando l’incedere di un tempo rarefatto su sé stesso, increspato di concrezioni mentali e angoscianti. Il vento che soffia ogni dove è il segno tangibile del deserto, dello spazio annichilente, lo stesso che incontriamo in molto cinema di quegli anni, dal Fellini-Satyricon (1969) di Federico Fellini fino a Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini e a Sotto il segno dello scorpione (1969) dei fratelli Taviani. In questi film, il vento è un corpo desertico che annichilisce i corpi stessi dei personaggi fino a trasformali in puri oggetti mentali, automi meccanizzati da inenarrabili spazialità abnormi. Anche in Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, i due personaggi appaiono totalmente avvolti dallo spazio desertico e barbarico, uno spazio “liscio”, per utilizzare un’espressione di Deleuze e Guattari, che si contrappone alla rigidità geometrica e irreggimentata dell’elegante villa satura di oggetti di consumo che nel finale esploderà come se fosse pervasa fino al limite di quel vento nomadico e annichilente.

Ne L’invenzione di Morel, nel momento in cui il personaggio si avvicina agli edifici geometrici, la macchina da presa si esibisce in una carrellata su di essi per poi entrare insieme a lui nello spazio interno, non meno inquietante di quello esterno. Mentre sentiamo l’incessante sibilo del vento, che continua in una dimensione sonora più allontanata, vediamo oggetti incastonati in rigidi contorni: un tavolo, una scrivania, delle lampade e dei libri posati sul tavolo. Tutto appare come cristallizzato in un passato ormai bloccato e segnato dall’angoscia mentre come cupi rintocchi risuonano i passi dell’uomo-mummia che si avventura all’interno di quegli edifici erosi dal tempo. I passi sono lentissimi e cadenzati, abnormi espressioni sonore di un tempo che sta per fermarsi, un tempo volto solo al passato, lontano dalle complicate plaghe di qualsiasi presente. Gli oggetti sono ricoperti di una polvere che proviene forse da altre ere, da altri lontani crepuscoli. Aggirandosi nelle stanze, il personaggio apre dei vecchi armadi e il suono ligneo delle porte stride con sonorità perdute in un passato dalle parvenze spettrali. In queste stanze, la macchina da presa, ad un certo momento, effettua una carrellata sul corpo del naufrago e quest’ultimo appare bloccato in una posa mummificata, abbandonata al proprio destino, figura umana completamente annichilita dalle spazialità degli esterni e degli interni dell’isola.

Successivamente, egli si reca in una stanza dove, al pari degli altri oggetti, si trovano bloccati dal tempo dei vecchi motori ed emerge perciò un altro spazio inquietante, quello ove macchinari imbambolati riposano senza requie in uno stupefatto, macchinico passato. E se appaiono estremamente diversi dalle spazialità ferine e ‘corporee’ dell’isola, dalle pietre e dalla terra, dal ribollire del magma marino, quelle macchine non sono altro che l’inquietante rovescio della medaglia. E, successivamente, dopo che è riuscito ad avviare il macchinario che permette la fuoriuscita dell’acqua corrente, il naufrago si siede sull’orlo di una piscina in un paesaggio segnato da linee geometriche mentre sullo sfondo riluce un angolo di mare che adesso pare inglobato esso stesso nella spazialità geometrica delle costruzioni. Del suo magmatico ribollire, ora rimane solo un lembo lontano e tremante.

Dopo essere penetrato in una stanza dove rintoccano ossessivamente grevi suoni metallici, il personaggio fugge verso la spazialità aperta dell’isola, come richiamato dalla ferinità del vento, della roccia, della pietra e del mare, degli sfondi azzurri del cielo. L’essere umano sembra non aver quindi del tutto rinunciato alla propria natura: rifugge gli ambienti geometrici e metallici, robotici e segnati da cupi rimbombi per tornare correndo verso spazialità ferine e corporee. Ed è dagli estremi lembi di queste ultime che il protagonista si accorge di alcune figure che danzano sinuosamente, al ritmo di un’elegante musica. Mentre il personaggio del galeotto sembra appartenere in tutto e per tutto agli spazi ferini e terrei dell’isola, le nuove figure che cominciano ad apparire sono immerse in cerei limbi, in falde di passato rapprese in colori pastello, come se fossero soltanto delle sovrapposizioni eteree e spettrali inserite nell’ambientazione dell’isola. Nello spazio inquietante di quest’ultima, infatti, c’è posto anche per le figure spettrali che sembrano adesso perseguitare il personaggio: è soprattutto una figura femminile, intrappolata nel suo limbo di un’era annegata in un passato lontano, a esercitare un fascino ambiguo e fantasmatico sul galeotto. Se quest’ultimo, poi, appartiene ormai all’universo afasico e barbarico dell’isola, le figure umane che lo circondano sono gli alfieri di una parola ripetuta in serie come in una catena di montaggio, essendo destinate a ripetere per sempre gli stessi gesti e a pronunciare le stesse frasi e gli stessi dialoghi. Muovendosi, i loro passi sono irrigiditi e meccanici, come nella sequenza che vede Morel camminare assieme al capitano della nave. Sono gli automi di un passato scardinato dallo stesso scorrere del tempo, un passato che non è tempo ma rigida ripetizione di uno spettrale spettacolo.

Il protagonista, infatti, si renderà conto che le figure umane improvvisamente apparse sull’isola sono solo delle proiezioni del passato, emerse dalla macchina di Morel, il quale ha intrappolato la sua immagine e quella di alcuni amici nel circuito senza requie del tempo. Morel e gli altri personaggi sono i fantasmi della ripetizione, sono gli ologrammi di un passato che non cesserà mai di ripetersi e il protagonista interagisce con essi come all’interno di un universo digitale. Se all’inizio crede che le figure siano reali, e si nasconde da esse, nel corso del film si rende conto che, invece, sono solo delle immagini proiettate dal macchinario creato dal genio mefistofelico di Morel. Il protagonista appare quindi circondato da immagini irreali che all’inizio egli scambia per vere: la sua vicenda non appare poi tanto diversa da quella degli individui contemporanei che, interagendo nel mondo digitale della rete, scambiano il falso per il vero e il vero per il falso. La confusione si è ormai generata e non ci sarà mai una interrelazione, mai una mescolanza autentica fra la corporeità ferina del protagonista e l’eleganza astratta e spettrale degli altri personaggi. Nello stesso modo, l’individuo contemporaneo, irretito dall’universo digitale, perde coscienza di sé e dei confini del proprio corpo e della propria coscienza.

Anche i personaggi intrappolati nel meccanismo della ripetizione sono vittima di una ‘decorporeizzazione’ che conduce all’annichilimento e alla morte. Infatti, chi viene sottoposto ai raggi della macchina di Morel, che hanno il potere di registrare le immagini dei corpi e di rendere pressoché immortale la loro immagine, è destinato a morire ricoperto di piaghe purulente. Quello sottoposto al processo di digitalizzazione, inserito nei meccanismi mostruosi di una macchina che condanna all’infinita ripetizione, è ormai un corpo putrefatto, inesorabilmente toccato dall’annientamento, destinato a trasformarsi in ombra inconsistente. Anche i personaggi del passato, intrappolati nel macchinario di Morel, in una illusione infinita come quella dei terribili marchingegni che David Cronenberg ci mostra in Videodrome (1983), sono gli inconsapevoli protagonisti di uno spettacolo che ha divorato il loro corpo e la loro anima, come gli utenti dell’universo digitale contemporaneo.

Lo stesso protagonista si renderà conto di essere fuggito da un carcere per capitare in un carcere ancora peggiore, in uno spazio inquietante e annichilente. Ormai trasformatosi definitivamente in automa e innamoratosi di una donna-immagine, simulacro spettrale di tutte le donne reali (come la bambola meccanica di cui si innamora il Casanova ne Il Casanova di Federico Fellini, che uscirà due anni dopo L’invenzione di Morel), sceglie di sacrificare il proprio corpo e la propria vita per consegnarsi volontariamente alla finzione, alla ripetizione, all’annichilimento del corpo e della coscienza per divenire ombra, spettro, immagine riproducibile all’infinito rischiando di restare imprigionato nella stanza dei macchinari, nella quale il sibilo barbarico del vento è sostituito da un cupo e insistente ronzio meccanico. E se alla fine il protagonista distruggerà, in un estremo impeto di ribellione, quelle crudeli macchine, lo spazio inquietante ha avuto ormai il sopravvento, uno spazio che avanza inesorabile e che renderà inquietante ogni lembo di qualsiasi presunta, sopravvissuta realtà.

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Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini https://www.carmillaonline.com/2020/06/04/lo-spazio-e-il-deserto-nel-cinema-di-pasolini/ Thu, 04 Jun 2020 21:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60153 di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Mimesis, Milano-Udine, 2020

Il libro in uscita proprio in questi giorni di Paolo Lago indaga il ricorso a contrapposizioni di ordine estetico, sociale e politico nella cinematografia pasoliniana, concentrandosi in particolare sull’insistenza con cui nei film Edipo re (1967), Teorema (1968), Medea (1969) e Porcile (1969) viene messo in scena il conflitto tra lo spazio delle fredde, geometriche e controllate ambientazioni borghesi e quello desertico e desolato del “mondo periferico” abitato e attraversato da personaggi erranti appartenenti a un universo estraneo agli schemi della razionalità capitalista.

Nelle pellicole pasoliniane sembra quasi che sotto lo spazio ordinato e geometrico della borghesia si muova «un magma tellurico, un deserto barbarico e mitico che promana dalle profondità della coscienza dei personaggi. Sembra che lo spazio cereo e geometrico possa essere annullato da un momento all’altro dall’incedere dello spazio desertico, astorico e atemporale, connotato nel profondo dal mito della barbarie.» (p. 11)

Detto che la barbarie in Pasolini assume una connotazione positiva – quasi sinonimo di mitico, puro e primitivo –, la contrapposizione spaziale proposta dal regista riflette quella fra la società industriale e la società arcaica e contadina dello spazio desertico delle periferie italiane o dei deserti africani. Secondo Lago lo spazio desertico messo in scena da Pasolini può essere letto ricorrendo alla definizione data da Gilles Deleuze e Felix Guattari di “spazio liscio”, abitato da comunità nomadi contrapposto allo “spazio striato” della città sottoposto al controllo.

Se la contrapposizione tra rigore urbano e barbarie “periferica” è ravvisabile sin da Ragazzi di vita (1955), Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), è però con Edipo re che, sostiene lo studioso, nel cinema di Pasolini emerge la dimensione di uno spazio desertico rappresentante una forma di società altra e alternativa a quella capitalistica. «La dialettica fra spazi diventa dialettica fra società: da una parte, quella barbarica, arcaica, pura e quindi mitica che, ormai, si può solo trovare nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, dall’altra, quella borghese e capitalistica, precipitata nell’inferno dei nuovi consumi […], connotata da colori smorti e pallidi e da interni rigidi e geometrici.» (p. 17). Il regista esplicita così come a suo modo di vedere, fuori dello spazio borghese che, asservito com’è alla forma merce della società neocapitalistica, impone nelle sue rigidità geometriche “movimenti unidimensionali” e ripetitivi, da catena di montaggio, esista una realtà arcaica, mitica e barbarica che ancora mantiene elementi irriducibilmente estranei alla dominazione del capitale.

Se la pasoliniana contrapposizione tra un (positivo) universo arcaico, mitico e una (negativa) società moderna industrializzata è stata più volte interpretata come reazionaria, secondo Lago si potrebbero invece cogliere in essa analogie con il pensiero di Robert Kurz che ritiene indispensabile, per rompere una volta per tutte con i rapporti feticistici e di dominio del sistema capitalista, optare per una scelta anti-moderna radicale ed emancipatoria che nulla abbia a che fare con i reazionari approcci antiilluministi o antimoderni di matrice borghese-occidentale. L’antimodernità evocata da Kurz, sostiene Lago, «non si allontana molto dall’idea pasoliniana di contestazione della società dei consumi: l’idealizzazione, da parte del poeta, della società e della realtà africana, pur con tutte le sue problematiche sociali e politiche, è legata appunto a una forma di antimodernità, di contestazione radicale dei rapporti feticistici e di dominio.» (p. 105)

Nel film Edipo re, costruito sull’opposizione fra la cultura arcaica e quella moderna, l’ambientazione borghese del prologo si presenta come uno spazio sospeso, in silenziosa attesa di essere divorato «dal deserto avanzante, dal ritmo tribale e ferino che sta per erompere dall’altrove del mito.» (p. 28). L’epilogo della narrazione si concentra invece sulla figura nomadica, perturbante e sovvertitrice dell’ordine urbano e costituito, di Edipo mendicante che si muove in una Bologna che sul finire degli anni Sessanta pare ormai essersi piegata al consumismo. «Edipo viaggiatore non è più contornato dalle folle popolari africane, ma dal mondo del benessere economico degli anni Sessanta, rappreso nelle sue movenze di falsa felicità. […] Edipo insinua, all’interno dell’universo stanziale borghese, il demone del nomadismo e del vagabondaggio: elementi trasgressivi e sovvertitori. Egli è il sovvertitore poeta – portatore di un sacro irrimediabilmente perduto dalla classe borghese – che è giunto dal deserto, da uno spazio antitetico a quello della città degli anni Sessanta, uno spazio che magmaticamente continua a sussistere ad uno strato oscuro e ctonio, pronto nuovamente a fare irruzione nell’ordo geometrico dei nuovi consumi.» (pp. 45-46)

Nonostante Edipo incontri anche il mondo operaio, il suo vagabondaggio nomadico si palesa però estraneo ad esso, situandosi piuttosto a un livello sottoproletario. «Edipo emarginato e vagabondo è un nuovo nomade sottoproletario che attraversa la catatonica società degli anni Sessanta, fino a giungere al luogo della propria nascita.» (p. 46) Il film si chiude infatti in quel Friuli degli anni Venti, ricostruito nel contado lombardo, che assume di certo connotazioni amniotiche e regressive ma, sottolinea Lago, appare anche «irrimediabilmente contaminato dal germe nomadico e sovvertitore portato da Edipo.» (p. 47)

In Teorema «il personaggio sacrale dell’Ospite, quasi un nuovo Dioniso che si insinua nelle spire dello “spazio striato” del potere economico e sociale» (pp. 18-19), si configura come vero e proprio elemento perturbante nel suo farsi portatore del sacro all’interno dello spazio striato desacralizzato della lussuosa dimora dell’alta borghesia milanese. L’Ospite, detentore della medesima valenza sacrale dello spazio del deserto, appare all’interno dello spazio borghese come un elemento distruttivo di quell’universo consacrato al denaro: si presenta come «un sacro che sembra giungere da lontano, da lande desertiche e ferine ed appare incarnato nella figura di un giovane dio ribelle e trasgressore dell’ordine costituito.» (p. 54)

Gli aspetti dionisiaci dell’Ospite sono palesati soprattutto dalla sua presenza fisica e corporea portatrice di un eros capace di modificare la caratterizzazione dello spazio dell’ambiente borghese scardinando la stessa istituzione sociale della famiglia. Si viene così a determinare «uno spazio “ibridato” dal deserto ctonio e terribile, lo spazio barbarico e “liscio” che sta avanzando verso le attonite spazialità “striate” borghesi. È uno spazio fisico che si contrappone all’universo amniotico e regressivo della campagna milanese». (p. 63)

Lago si sofferma sul momento in cui il ricco industriale Paolo, ormai contaminato dall’Ospite, nel suo percorso verso lo spazio deterritorializzato e barbarico del deserto, dopo essere giunto alla stazione di Milano – emblema della meccanizzazione dell’individuo moderno –, si spoglia dei suoi abiti borghesi in mezzo alla folla. Liberatosi ormai dei simulacri borghesi, l’industriale prosegue poi il suo viaggio verso quel deserto che sembra prospettare «una nuova era che si apre sotto i piedi nudi di un borghese che si è distaccato per sempre dalla sua classe sociale, ormai annientata essa stessa. La dimensione fisica del corpo prosegue nell’urlo: quest’ultimo è un’appendice corporea che esprime, di esso, lo stato ferino e selvaggio e, nel contempo, la profonda angoscia annientatrice che ormai ha avvolto la coscienza del personaggio. Fuori dalla catatonia borghese, dalle geometrie e dalle scatole che racchiudono e serrano l’universo della quotidianità dei nuovi consumi, non vi è che deserto e angoscia.» (p. 83)

Anche Porcile è strutturato sull’opposizione di due spazi: agli spazi geometrici e razionali, in quanto tali generatori di mostri, della villa signorile percorsi meccanicamente da esponenti dell’alta borghesia tedesca di fine anni Sessanta marcatamente compromessa col nazismo, si contrappongono le brulle, desertiche, silenziose e sacrali pendici dell’Etna, proiettate in un indefinito medioevo, percorse disordinatamente dal personaggio del cannibale sovvertitore dell’ordine nel suo estremismo portato al limite dell’orrore, che, come una “macchina da guerra nomade”, sembra prepararsi ad aggredire lo “spazio striato” borghese.

Se quello desertico si presenta come uno spazio caotico in costante movimento, solcato dalle eruzioni magmatiche del vulcano e attraversato da un personaggio che sembra provenire dai suoi più profondi interstizi, gli interni della villa borghese suggeriscono un’idea di immobilità. «Se quest’ultima si configura quasi come un monumentale sepolcro che racchiude il pensiero e l’ideologia di una borghesia industriale in ascesa che cova terribili mostruosità nel suo passato, gli stessi personaggi borghesi appaiono come tante marionette che da questa ideologia sono manovrate. Essi, costretti a percorrere linee geometriche, diritte, senza vie di fuga, come geometriche e rigide sono le stesse linee architettoniche della villa, compiono i loro movimenti incanalati in uno spazio “striato” che ne regola i flussi. La disobbedienza è inconcepibile per tale borghesia ed è per questo che il figlio non disobbediente né ubbidiente, ma comunque tacito sovvertitore del suo ordine, si allontana per le campagne compiendo movimenti tortuosi e imprevedibili, correndo, prendendo vie sconosciute alla sua stessa classe sociale ma conosciute ai contadini con i quali […] egli è in sinergia.» (pp. 97-98)

Nello spazio del deserto “medievale” i volti vengono inquadrati con primi piani capaci di conferire loro una plasticità scultorea che sembra quasi staccarli dall’ambiente circostante: questi corpi scolpiti sembrano pulsare insieme al magma tellurico, «sono forme ctonie che, come animali, si muovono in uno spazio libero dominato dal silenzio. Se la parola condannava i personaggi borghesi a gesti ripetitivi, a percorrere cunicoli imprigionanti, adesso, il silenzio e i suoni naturali rappresentano l’eruzione di una fisicità finalmente liberata, trasgressiva e sovvertitrice. Se la parola imprigiona i personaggi borghesi nel ruolo di languide marionette prigioniere di spazi teatrali e cunicolari, il silenzio libera e circonfonde lo spazio di una magmatica dimensione fisica e ferina.» (p. 101)

Nel corso della sua analisi, Lago presta attenzione anche alla contrapposizione linguistica presente in Porcile. La lingua borghese, salvo che in un paio di monologhi, si caratterizza per il ricorso a termini aulici e per una dizione precisa. «I personaggi borghesi sono quasi delle macchine per parlare, delle marionette la cui presenza corporea è annullata e dominata dalla parola: è, appunto, il “teatro di Parola” pasoliniano, in cui la razionalità sonora della voce si eleva su qualsiasi altro aspetto scenico. È parola sepolcrale che si crede viva, è sepolta e prigioniera ma si crede portatrice di illuministica razionalità negli spazi aperti della nuova industrializzazione degli anni Sessanta.» (p. 105) A questo tipo di parola del potere e del dominio si contrappone il silenzio arcaico proprio dell’ambientazione medievale. «Il silenzio dei contestatori è una opposizione al controllo esercitato dal potere sulla stessa parola […] Contestatori totali, essi negano la parola per non essere sottoposti al principio dell’ordine e del controllo, della segregazione che li avrebbe precipitati nei meandri oscuri di una follia e di una prigione, di un supplizio. Il loro silenzio è la loro crudeltà, i loro movimenti e i loro attacchi sono tanti atti di sabotaggio contro un potere che cerca di catturarli ma anche contro lo stesso dominio razionale della borghesia industriale degli anni Sessanta.» (p. 107)

Medea riprende per certi vesti le tematiche dei film precedenti prospettando il conflitto fra il mondo contadino e preindustriale e quello borghese e neocapitalistico. Viene qua messo a confronto l’universo arcaico del mito, del tutto estraneo al moderno pragmatismo borghese, con il mondo razionale di Giasone ormai adulto. Il contrapporsi di uno spazio curvilineo con uno rettilineo sembra sottende un’opposizione fra diverse culture e società.

Le prime inquadrature «mostrano la potente rappresentazione di un paesaggio che, in virtù della sua sacralità, assume anche connotazioni politiche e sociali all’interno della vibrante opposizione che separa Medea e Giasone all’interno del film, opposizione che pone l’uno di fronte all’altro due universi distinti.» (p. 118) Agli occhi di Giasone divenuto adulto, proposto dal film quasi come il prototipo del borghese, lo scenario non appare più come quello divino e sacrale arso dal sole ma assume le sembianze geometriche caratterizzate da spente tonalità pastello, tipiche degli scenari borghesi presenti anche in altri film. Se lo spazio dai colori pastello è ripreso da una macchina da presa rigidamente bloccata, quello desertico, dai colori decisamente più accesi, vede invece il regista ricorrere alla macchina da presa a spalla tremolante. Risulta evidente come tale duplicità stilistica sia funzionale alla volontà di palesare un’opposizione tra mondi e culture che però non mancano di momenti di sconfinamento e ibridazione.

Giunto al cospetto di Medea, che ora si presenta in posizione dominante, Giasone si trova letteralmente in balia del volto segnato dal desiderio di vendetta della donna. «Il fuoco erompe dalle finestre della sua casa lambendo le pietre e sovrastando lo stesso volto della donna barbara ed emarginata: è il fuoco, sacro come quello dei rituali della Colchide, a suggellare, per mezzo del suo magmatico perpetuarsi in una circolarità ctonia, la vendetta della barbara, “primitiva”, irrazionale ed emarginata Medea contro il ricco, razionale, “borghese” e integrato Giasone.» (p. 142)

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Il cinema del corpo e della coscienza https://www.carmillaonline.com/2017/06/24/il-cinema-del-corpo-e-della-coscienza/ Fri, 23 Jun 2017 22:25:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39035 di Paolo Lago

Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Clinamen, Firenze, 2017, pp. 134, € 17, 50

«“Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita» Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2

Il recente, interessante saggio di Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, uscito per Clinamen, offre un [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Clinamen, Firenze, 2017, pp. 134, € 17, 50

«“Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita»
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2

Il recente, interessante saggio di Paolo Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, uscito per Clinamen, offre un peculiare e inedito sguardo filosofico sul cinema di Pasolini, svolto per mezzo di un’indagine che sulla pagina assume le fascinose movenze di una scrittura avvolgente e sinuosa. Tra l’altro, si deve sottolineare che si tratta di un volume critico che appare esclusivamente incentrato sull’opera di Pasolini, tralasciando del tutto qualsiasi implicazione di carattere biografico (caratteristica positiva sempre più rara nella saggistica dedicata a questo autore). Landi (che, nei suoi precedenti saggi, ha elaborato un punto di vista fenomenologico improntato a una forma di realismo critico) parte dall’assunto che il cinema, secondo una dichiarazione dello stesso Pasolini, può essere concepito nei termini di un’esperienza filosofica. Così, infatti, il regista afferma in una dichiarazione rilasciata a «Filmcritica» nel 1967: «Il cinema non è solo un’esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un’esperienza filosofica». Perciò, nel cinema di Pasolini, al procedimento estetico-artistico è sotteso un solido ordine filosofico, che l’autore indaga per mezzo di una speculazione che ha alla sua base una personale adozione di alcuni elementi della concezione di Husserl. Nell’Introduzione al suo suggestivo volume, Paolo Landi precisa che la sfera del soggetto concerne l’ambito della coscienza e quello del corpo, mentre la dimensione del mondo «riguarda l’ambiente al quale tali elementi sono coordinati» (p. 11).

Se in un film come Teorema (1968) i connotati antropologici di un universo borghese vengono rivestiti di significato sociale, politico ed esistenziale, e su di essi si staglia la morsa violenta di una inesorabile chiusura, rappresa nel destino che investe i protagonisti, Il vangelo secondo Matteo (1964) si colloca su un versante opposto. In esso, una pienezza d’essere e un’avvolgente apertura sono delineate nella stessa figura del Cristo, «assoluto protagonista, la cui figura sovrana confina appunto con l’assoluto che è proprio del monoteismo cristiano» (p. 15). Un ulteriore versante cinematografico è poi offerto, nell’analisi messa a punto da Landi, dai film ispirati alla tragedia antica: in Edipo re (1967) e in Medea (1969) «le reliquie e le effigi della tragedia antica […] emergono come espressioni di un mondo arcaico o di una temperie classica remota e ai confini dell’arcaismo; e in essi abbiamo una sorta di dimensione intermedia fra il rigore della chiusura che si registra in Teorema, e l’ipoteca del gesto liberatorio che viene tracciata nel lirismo del Vangelo» (ibid.).

Quello di Pasolini, secondo Landi, è «un cinema del corpo e della coscienza» (p. 40). Esso assume una pregnante dimensione ‘corporea’ in virtù dell’uso della macchina da presa a mano, procedimento spesso utilizzato dal regista. Ad esempio, una significativa dimensione del corpo emerge nelle immagini, riprese da una macchina a mano che vibra e pulsa insieme ad esse (come vibra e pulsa il corpo dello stesso regista), che in Edipo re mostrano la lotta del protagonista con il re-padre e la sua scorta: i corpi sembrano in contatto con le energie della terra, «stabilendo un legame con i convulsi che un tempo ha animato l’uomo delle caverne» (p. 41) e con una dimensione ferina. Nello stesso film, la dimensione del corpo emerge anche nel momento in cui l’oracolo formula la sua profezia «per mezzo di una voce che sembra estratta dai più profondi recessi del sottosuolo» (ibid.). La dimensione della coscienza emerge invece nel momento in cui Edipo, dopo aver ricevuto il vaticinio sul suo destino, per evitare l’orrore dell’unione con la madre e dell’uccisione del padre, «ruota rispetto a se stesso, in modo da non cogliere la direzione che intraprenderà in seguito» (p. 42).

In Accattone (1961), invece, la dimensione della coscienza avverte una vera e propria estraniazione rispetto alle dinamiche storico-civili, mentre il protagonista è abbandonato nel limbo di una emarginazione che si srotola lungo le strade delle borgate in significative movenze di carattere picaresco.

Nel cinema di Pasolini assume poi un particolare rilievo la parola. Nel Vangelo si staglia alta la parola della predicazione del Cristo, intesa come Logos evangelico. Essa è quasi l’articolazione sonora della coscienza del personaggio, un’appendice del corpo che assume i contorni netti e scanditi di un verbo che, improvvisamente, si è fatto ‘carne’. La voce del protagonista è perciò la rappresentazione fonica di quella liberazione e di quella apertura che aleggiano sulle immagini del film. Insieme alla parola è inoltre di importanza fondamentale il silenzio. In Teorema il silenzio incombe sui personaggi borghesi come l’oscuro sovvertimento erotico condotto dal demonico Ospite, e sempre il silenzio scandisce «la crisi senza ritorno dell’io avvinto alla propria condanna» (p. 60).

Se la dimensione del soggetto è legata alla coscienza e al corpo dei personaggi, quella del mondo può essere concepita come lo spazio nel quale si colloca l’esistenza di quegli stessi personaggi. Nel prologo e nell’epilogo di Edipo re il mondo è rappresentato dagli scorci paesaggistici del Nord Italia nei quali si sviluppa un’apertura e una forza vitale data dalle immagini delle fronde degli alberi. Anche nel prologo di Medea emerge in modo significativo la dimensione del mondo, per mezzo delle immagini vellutate che mostrano il Centauro e Giasone bambino immersi nella natura – solcata dalla parola mitica del Centauro – la quale assume poi, nell’ottica pasoliniana, una dimensione sacrale e antinaturalistica.

Il saggio di Paolo Landi offre poi dei momenti di analisi comparata con altri registi: Ėjzenštejn, De Oliveira e, nell’ambito del modello della tragedia, Robert Bresson e Lars von Trier. In Mamma Roma (1962) la componente tragica accompagna l’esistenza del protagonista del film, la quale si dipana nelle forme di un’epica «primordiale» dei diseredati e degli sbandati entro lo spazio occludente di una terribile impotenza ad agire, la quale condurrà il personaggio all’orrore della prigionia sul letto di contenzione. L’egoismo malvagio dell’essere umano che infierisce su una vittima innocente fino ad assumere risvolti tragici si può riscontrare anche in Au hasard Balthasar (1966) di Bresson: l’asino protagonista, in un vortice picaresco di avventure, è precipitato nel chiuso orizzonte di un mondo che ne determina le atroci sofferenze. L’autore del saggio individua inoltre alcune somiglianze tra Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) di von Trier e Edipo re. Nel film di von Trier, una giovane donna cerca di trattenere presso di sé il marito costretto alla lontananza dalle necessità del lavoro; il suo oggetto d’amore viene poi ricondotto presso di sé al prezzo letale di un incidente il quale, dopo un periodo di infermità, porta il marito alla morte. Edipo, invece, per mezzo della volontaria perdita di orientamento, vorrebbe allontanarsi il più possibile dalle circostanze della profezia mentre invece si spinge proprio nel centro della consumazione della propria tragedia. Allora, conclude Landi: «Ciò posto, si deve ribadire che in entrambe le circostanze, accade appunto che il personaggio impegnato nell’intrapresa incorra nell’esito di mettere in gioco quello che intende rimuovere, con le stesse movenze che dovrebbero conseguire l’obiettivo contrario» (p. 110).

La dimensione del «mondo» assume inoltre una dinamica simile in Teorema e in Porcile (1969): in entrambi i film abbiamo lo spazio dell’ordine ‘geometrico’ di una villa che entra in contrapposizione con quello ‘magmatico’ e ‘ferino’ delle pendici del vulcano. Se nel primo film quest’ultimo appare a tratti come la prefigurazione di un inquietante omen che si svela alla fine, uno spazio percorso dal corpo nella dimensione dirompente della nudità, in Porcile l’ambiente ‘corporeo’ delle pendici dell’Etna è un vero e proprio mondo narrativo che si alterna con quello ‘borghese’ della villa di Godesberg. In entrambi gli spazi le sembianze dell’arte e dell’armonia, offerte dalle immagini patinate degli ambienti borghesi, entrano in sinergia con l’immagine oscura e magmatica del vulcano, anch’essa non immune da suggestioni di bellezza e armonia.

L’interessante saggio di Paolo Landi si conclude con un’analisi dei tipi d’immagine dei vari film: in essi, infatti, le immagini stesse sono fruibili dallo spettatore come espressioni di carattere estetico-artistico. Se in Accattone e Mamma Roma è presente un importante afflato epico e tragico che fa agire i personaggi nel contesto della strada e della periferia come all’interno di tragedie antiche in abiti contemporanei, in Uccellacci e uccellini (1966) il viaggio lungo la strada assume un preponderante significato simbolico. Lo sfondo teatrale appare quindi prevalente nei film ispirati al mondo antico, uno sfondo sul quale alta si staglia una parola oracolare ed oscura. In Teorema, poi, l’aspetto speculativo del cinema di Pasolini raggiunge il suo apice: ed è forse qui che il cinema del corpo e della coscienza trova la sua più compiuta e inesorabile espressione.

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Pasolini, Volponi e altri sguardi sul Novecento: un’immersione critica fra arte e letteratura https://www.carmillaonline.com/2017/01/26/pasolini-volponi-e-altri-sguardi-sul-novecento-unimmersione-critica-fra-arte-e-letteratura/ Thu, 26 Jan 2017 22:45:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36157 di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza [...]]]> di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza parte, significativamente intitolata Variazioni novecentesche, raccoglie saggi su Pascoli (l’unica ‘incursione’ tra fine Ottocento e inizio Novecento) e su tre artisti contemporanei, due pittori e uno scultore: Renzo Vespignani, Alberto Sughi e Augusto Murer. Lo sguardo dell’autore si focalizza perciò, con lo stessa competenza critica, sull’analisi di romanzi, di raccolte poetiche, di opere pittoriche e di sculture. Questa sicura ‘navigazione’ fra generi diversi rappresenta indubbiamente il più affascinante punto di forza del volume: la scrittura critica e saggistica di Santato prende per mano il lettore e lo guida attraverso autori anche molto diversi tra loro. La ‘navigazione’, soprattutto per quanto riguarda i primi due autori trattati, Pasolini e Volponi, legati da reciproca stima e amicizia, si trasforma in una vera e propria ‘immersione’: i diversi saggi ci conducono infatti all’interno di un’analisi rigorosa, scandita dall’approfondimento di alcune tematiche principali, che non trascura nessuna opera dei due poeti e scrittori.

Numerosi, nel volume, sono i saggi dedicati a Pasolini, autore già ampiamente studiato da Santato: bisogna ricordare, infatti, che lo studioso (il quale già nel 1980 aveva dedicato una monografia al poeta e scrittore bolognese, con il preciso intento di reagire al ‘biografismo’ all’epoca dominante negli studi pasoliniani) ha recentemente pubblicato un’ampia monografia pasoliniana dal titolo Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, indispensabile strumento per chi voglia comprendere interamente, a trecentosessanta gradi, la variegata opera di Pasolini. Santato è inoltre il fondatore e direttore della rivista internazionale «Studi pasoliniani» che, dal 2007, raccoglie contributi di natura critica e bibliografica dedicati al poeta, scrittore e regista.

Il primo saggio, Pasolini e i Canti del popolo greco di Tommaseo, si concentra sulla presenza di Tommaseo soprattutto nelle prime poesie e nei primi scritti critici di Pasolini, il quale rimase profondamente affascinato dalla lettura dei Canti del popolo greco. Addirittura, Pasolini tradusse in friulano uno dei canti di Tommaseo, Alla Dalmazia, ‘riadattandolo’ all’ambientazione del Friuli e cambiando anche il titolo: A la so Pissula patria. Alcune modalità traduttive messe in atto dal giovane Pasolini – soprattutto modifiche e semplificazioni atte a ‘traghettare’ il testo verso la nuova ambientazione friulana (secondo Foucault, infatti, il traduttore è sempre un «traghettatore notturno») – verranno riproposte successivamente nella traduzione dell’Orestiade di Eschilo realizzata nel 1960 su richiesta di Vittorio Gassman. Anche in questo caso, il traduttore ‘semplifica’ e modifica il testo di Eschilo ‘traghettandolo’ verso lo spettatore di teatro del 1960 (sia la traduzione da Tommaseo che la versione dell’Orestiade si presentano infatti come «ri-creazioni» che producono significative metamorfosi del testo). La presenza dei Canti del popolo greco, all’interno dell’opera pasoliniana, si fa sentire anche ad un livello intertestuale: ad esempio, all’interno della tessitura narrativa del romanzo Amado mio (scritto in Friuli fra 1947 e 1948 e ripreso a Roma intorno al 1950), mentre in alcune poesie degli anni Cinquanta e Sessanta non mancano diversi riferimenti a Tommaseo.

San Lorenzo Il sole del 19 luglio 1943

Renzo Vespignani, San Lorenzo, il sole del 19 luglio 1943

Il secondo saggio proposto nel volume, «L’abisso tra corpo e storia». Mito, storia e Dopostoria, offre un excursus attraverso l’opera pasoliniana dal tempo del «mito», fino alla «storia» e al «Dopostoria». Il tempo del «mito» è collocabile nel periodo friulano: «Nella poesia friulana di Pasolini il tempo è una dimensione, mitica, ideale: è un tempo interiore, una durata del sentimento» (p. 43). Con il trasferimento a Roma, nel 1949, nella poesia pasoliniana (dalle Ceneri di Gramsci, del 1957, in poi) si ha l’incursione della storia, la quale provoca un’«impossibile sincronia fra il tempo vissuto e il tempo storico» (p. 49). L’analisi di Santato prosegue attraverso le successive raccolte di versi, soprattutto La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), La nuova gioventù (1975, una riscrittura ‘in negativo’ delle sue poesie friulane), fino ad abbracciare con lo sguardo critico il tempo della «Dopostoria», una sorta di epoca ‘infernale’ che il poeta preconizzava dopo l’avvento della società dei consumi, come leggiamo nella poesia Io sono una forza del Passato (da Poesia in forma di rosa): «O guardo i crepuscoli, le mattine, / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta». Infatti, «la realtà storica contemporanea è per Pasolini solo inferno. Il solo paradiso è quello del passato, del mito, ed è dunque un paradiso perduto» (p. 59). Tale visione infernale si paleserà nel romanzo postumo Petrolio, pubblicato nel 1992, con la «Visione del Merda», una lunga sezione in cui un personaggio soprannominato «il Merda», un borgataro degli anni Settanta, ormai ‘imbruttito’ e ‘degenerato’, compirà una lunga catabasi infernale ricalcata sul modello dantesco. Alla fine della «Visione», culmine simbolico della nuova società dei consumi del neocapitalismo, la città di Roma viene significativamente rappresenta con la forma di una croce uncinata.

Il terzo saggio – Paesaggio simbolico, paesaggio poetico ed echi provenzali nell’immagine del Friuli – ci riporta al mondo incontaminato friulano, quel lontano tempo del «mito»: «La regressione al dialetto attua linguisticamente la nostalgia di un mondo perduto: il mondo delle origini» (p. 85).

Questo «mondo perduto», legato inesorabilmente al passato, secondo la concezione pasoliniana, si oppone al futuro, il quale si trasforma – ed è questa la tematica affrontata nel saggio successivo del volume – in una sorta di «non tempo». Se nel poemetto delle Ceneri di Gramsci, Il pianto della scavatrice, Pasolini scrive: «Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci […]», in diverse poesie di Poesia in forma di rosa, «il futuro viene identificato apertamente come il tempo del Potere, come la programmazione del destino dell’umanità da parte del Nuovo Potere neocapitalistico, assumendo connotati sempre più negativi e apocalittici» (p. 107).

L’analisi critica di Santato si sposta agevolmente dalla poesia alla narrativa, fino al cinema e al teatro. A quest’ultima espressione artistica è dedicato il successivo saggio del libro: una disamina delle tragedie pasoliniane (Pilade, Orgia, Calderόn, Affabulazione, Porcile, Bestia da stile) dal punto di vista del «rifiuto della nuova storia», identificata con il livellamento delle coscienze operato dalla neocapitalistica società dei consumi. Soprattutto nella tragedia Pilade, pubblicata su «Nuovi argomenti» nel 1966, che si pone come una continuazione dell’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini nel 1960, la rivoluzione operata da Atena e dalle Eumenidi (la costruzione di fabbriche e palazzi, la creazione di nuove tecniche produttive), «è una trasparente allegoria della rivoluzione antropologica prodotta dal consumismo e dal neocapitalismo, che costituisce l’oggetto di numerose polemiche sviluppate da Pasolini tra gli anni Sessanta e Settanta e in particolare di alcuni famosi articoli giornalistici raccolti in Scritti corsari» (p. 121). Se «Oreste è il politico cinico che opera in sintonia con la storia che gli dà il potere», «Pilade è l’intellettuale disorganico, anzi il poeta che vive in un proprio mondo irrimediabilmente diviso da quello che si afferma nella storia» (p. 122).

Veri e propri luoghi del «mito» da opporre all’universo devastatore del consumismo e del neocapitalismo sono l’Oriente e l’Africa (all’analisi di essi nell’opera letteraria e cinematografica pasoliniana sono dedicati i saggi che – prima di un ultimo articolo sulla poesia dialettale di Eugenio Ferdinando Palmieri nella raccolta Poesia dialettale del Novecento, curata da Pasolini – chiudono la sezione pasoliniana del volume di Santato). L’Oriente esercita «un’autentica fascinazione» (p. 132) su Pasolini. Ne L’odore dell’India (che raccoglie sei articoli giornalistici scritti durante un viaggio in India, nel 1961, con Alberto Moravia e Elsa Morante), lo scrittore è letteralmente sedotto e affascinato da quel mondo, conosciuto soprattutto tramite la camminata solitaria nei luoghi più poveri delle città – un movimento ‘picaresco’ che permette la conoscenza diretta di quella nuova realtà – come egli aveva fatto, all’inizio degli anni Cinquanta, per scoprire l’universo delle borgate romane. Sempre legati alla scoperta dell’India sono gli Appunti per un film sull’India (1967), dei sopralluoghi svolti in funzione di un «film da farsi» in futuro. Pasolini tornerà in Oriente nel corso della realizzazione del film Decameron (1971), per ambientare nello Yemen l’episodio di Alibech. Quest’ultimo, nel montaggio definitivo del film, verrà escluso: solo di recente, nel 2012, è uscito un audiovisivo curato da Roberto Chiesi (Il corpo perduto di “Alibech”) che, grazie ad alcune foto di scena e immagini di scene di esterni, ci permette di ricostruire la struttura dell’episodio. Mentre si trova nello Yemen, Pasolini gira il cortometraggio Le Mura di Sana’a, concepito come «documento in forma di appello all’UNESCO». La fascinazione per l’Oriente prosegue nella realizzazione del film Il Fiore delle Mille e una notte (tratto dalla celebre raccolta di novelle), il quale «si svolge attraverso una sospesa alternanza fra sogno e realtà: è un film onirico scandito musicalmente dalla melodia dei canti popolari orientali» (p. 137). Verso Oriente si srotola anche il viaggio neopicaresco del solamente progettato film Porno-Teo-Kolossal, del quale conserviamo la sceneggiatura, in cui un Re Mago (Eduardo De Filippo) e il suo servitore (Ninetto Davoli), si muovono alla ricerca dei luoghi dove è nato il Messia attraverso città europee rivestite di connotazioni allegoriche. L’Oriente, infine, è assai presente anche in Petrolio: gli Appunti dal 36 al 40 (il romanzo è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolati gli Argonauti, sono dedicati ad un viaggio in Oriente del protagonista Carlo, ingegnere dell’Eni e, nel progetto definitivo dell’opera, avrebbero dovuto costituire una rilettura in chiave anticolonialista e anticapitalista delle Argonautiche di Apollonio Rodio, dove il Vello d’oro sarebbe stato sostituito dal petrolio, ‘motore’ del neocapitalismo maturo.

Vespignani Il cappotto blu

Renzo Vespignani, Il cappotto blu

Altrettanto rilevante è la presenza dell’Africa (sondata accuratamente anche da Giovanna Trento in una monografia uscita per Mimesis nel 2010) nell’opera pasoliniana. In una delle poesie che chiudono La religione del mio tempo, Frammento alla morte, così Pasolini scrive: «E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo. / Africa! Unica mia / alternativa…». L’analisi di Santato, a partire da questi versi in cui l’Africa viene presentata come unica alternativa alla società dei consumi, ci conduce attraverso le opere di Pasolini fino agli Appunti per un’Orestiade africana, un documentario girato fra il 1968 e il 1969 che opera una contaminazione fra il modello classico (quella trilogia eschilea che, come già ricordato, Pasolini aveva tradotto) e una sua reinvenzione nell’Africa moderna, più precisamente in Tanzania. Nel documentario sono coinvolti anche alcuni studenti africani dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, con i quali Pasolini avvia una discussione sulle problematiche dell’Africa contemporanea. In Petrolio, nell’Appunto 41, Acquisto di uno schiavo, l’Africa degli anni Sessanta e dei primi Settanta appare come un territorio ‘di conquista’ da parte di qualsiasi ricco turista del sesso occidentale, in cui vengono negati i più elementari diritti umani (nello stesso Appunto di Petrolio, con piglio giornalistico, Pasolini scrive, riguardo al regime del generale Abboud in Sudan: «Tali mercati di schiavi sono al margine della legalità, ma sotto il regime di Abboud sono più o meno tollerati. Insomma, chiunque voglia può riuscire a trovare il modo di arrivare clandestinamente all’asta degli schiavi, e comprarsi una ragazza o un ragazzo per una cifra corrispondente, credo, a tre o quattrocentomila lire»). L’Appunto, sotto la forma di apologo, narra infatti la vicenda di un intellettuale inglese di nome Tristram (con un palese riferimento al Tristram Shandy di Sterne) che, recatosi a Khartoum per comprare una schiava, sulla via del ritorno si converte al marxismo.

Non meno importante della pasoliniana prima parte, nel volume, è la seconda, dedicata ad un altro importante scrittore del Novecento, Paolo Volponi, che considerava Pasolini come «maestro e amico». Il primo saggio è dedicato all’analisi del linguaggio volponiano «tra poesia e romanzo»: nello scrittore urbinate, poesia e narrativa sono strettamente connessi. Nella sua prosa, Volponi, secondo Santato, inserisce «un linguaggio che, nella sua cangiante mobilità e densità, conserva intatte le virtualità figurative e le polivalenze metaforiche del linguaggio poetico» (p. 175). Infatti, la prosa volponiana è caratterizzata da uno «strumento linguistico eminentemente antirealistico» che fa emergere un’ottica radicalmente ‘altra’, venata di un’alterazione lirico visionaria e allucinatoria. Fin da Memoriale (1962), la scrittura di Volponi è «eversiva», poiché «agisce all’interno dei conflitti tra ordine istituzionale e società reale, nelle lacerazioni aperte da questo conflitto dentro e intorno all’uomo» (p. 176).

Nel secondo saggio Santato analizza «follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa» (come suona il titolo). La narrativa di Volponi è infatti caratterizzata dalla drammatica specularità tra patologia individuale e alienazione sociale e dal «rovesciamento di quest’ultima in razionalità altra, antagonistica» (p. 195). Come lo stesso Volponi afferma in un’intervista rilasciata nel 1984 a Peter Pedroni, la sua predilezione è per i personaggi «atipici», «nevrotici», perché «più dolenti, più sensibili registratori della carica d’infelicità che scuote la terra», ma anche per questo, «più ribelli» e «fuori dalla norma». Il primo romanzo di Volponi, Memoriale (1962), infatti, rappresenta la «progressiva emarginazione del ‘diverso’ ad opera dei meccanismi della società industriale» (p. 215). Il protagonista del romanzo, Albino Saluggia, è un operaio che racconta in prima persona la sua condizione di ‘alienazione’ all’interno degli implacabili meccanismi della società industriale. Egli, tuttavia, non agisce passivamente ma si scontra con tali meccanismi difendendo il «suo diritto di esistere, trasformandosi così in un ribelle sociale» (p. 216). Nel secondo romanzo, La macchina mondiale (1965), protagonista è il contadino Anteo Crocioni, «un filosofo utopista che progetta una trasformazione dei sistemi di produzione e dell’intera organizzazione sociale» (p. 216), il quale, considerato come pazzo, reagisce con un suicidio che non rappresenta un gesto di sottomissione ma, anzi, «un gesto liberatorio orgogliosamente lanciato contro la mostruosa normalità che lo circonda» (p. 217). Gerolamo Aspri, protagonista di Corporale (1974), è invece un intellettuale borghese in crisi con alle spalle una travagliata militanza politica. Anche questo personaggio è continuamente in rotta con le strutture sociali e le loro continue imposizioni di regolarità e di ordine; anch’egli è un ‘folle’ ossessionato, in questo caso, dalla paura della morte atomica. Singolare per l’ambientazione, nonché per la scelta dei personaggi, è il romanzo Il pianeta irritabile (1978): le vicende narrate si svolgono infatti nell’anno 2293 in un mondo devastato dalla catastrofe nucleare, solcato dai protagonisti che sono una scimmia, un elefante, un’oca e un nano. In essi, «trasposti in un’iconografia allegorico-grottesca», confluisce «l’intera tradizione dei ‘diversi volponiani» (p. 220). La critica verso la società industriale, si fa particolarmente violenta nell’ultimo romanzo di Volponi, Le mosche del capitale (1989). Al centro del romanzo vi è l’esperimento di «fabbrica comunitaria» avviato da Adriano Olivetti nel 1945. I protagonisti sono il giovane dirigente di formazione umanistica, Bruto Saraccini, che coltiva il sogno olivettiano, e l’operaio Tecraso (anagramma di Socrate) «che dà voce all’altra parte della fabbrica e della città (Bovino, ridenominazione allegorico-grottesca di Torino» (p. 222).

Dopo una rigorosa analisi del romanzo Il lanciatore di giavellotto (1981), in cui protagonista è un’altra figura di ‘emarginato’ volponiano, il giovane Damìn, che vive un processo di formazione al contrario, volto cioè verso la ‘distruzione’, Santato ripropone nel suo volume la pubblicazione di un inedito di Volponi (già uscito nell’ambito di un «omaggio a Volponi» pubblicato dalla rivista «Studi Novecenteschi» nel 1998), L’acqua e il motore. Film sull’Umbria, un racconto scritto probabilmente nel 1981 in funzione della sceneggiatura di un film poi non realizzato. La storia è ambientata tra 1910 e 1911 sulle colline preappenniniche vicino a Gubbio: protagonista è il venditore ambulante Gigler, così soprannominato a causa della sua passione per i motori e per la meccanica (il gigler è un componente del carburatore). Gigler propone ai contadini il suo progetto di una pompa a motore: il progetto sembra funzionare e viene costruito l’acquedotto. Il padrone dei terreni, successivamente, distrugge il motore e l’acquedotto mentre Gigler, per nulla intimorito, lo ripara. Contemporaneamente, cominciano ad organizzarsi i primi gruppi socialisti e si susseguono le manifestazioni indette dalle leghe bianche e rosse. Le ragioni di questo ritorno a un’estetica ideologica – nota Santato – vanno ricercate «nella volontà di offrire una rappresentazione esemplare delle prime lotte di quell’Appennino contadino che costituisce il primo e fondamentale mondo poetico di Volponi» (p. 254).

Lo scrittore e poeta urbinate, secondo Santato, «più d’ogni altro ha saputo rappresentare la contraddittoria condizione dell’uomo moderno che conduce la sua ansiosa ricerca di un’impossibile felicità all’interno della società industriale» (p. 230).

Le successive «variazioni novecentesche» iniziano con un saggio dedicato a Pascoli (Per una semantica del ‘mio’ pascoliano. Eros e linguaggio nei Primi poemetti), volto ad analizzare le ricorrenze, in funzione di una tipologia semantica, dell’aggettivo «mio» nelle poesie pascoliane. Come l’autore scrive nell’introduzione, si tratta del testo di più antica datazione fra quelli raccolti: «è legato da un lato alla sperimentazione di una metodologia statistica di analisi dei testi, dall’altro all’applicazione di alcuni strumenti dell’ermeneutica psicanalitica alla lettura dei testi stessi. Erano anni in cui ci si poteva muovere disinvoltamente tra Rosiello e Sanguineti da un lato e Lacan e Derrida dall’altro» (p. 8).

Vespignani La borghesia incontra l'orrore

Renzo Vespignani, La borghesia incontra l’orrore

Successivamente, come già osservato, la scrittura critica di Santato si rivolge alle arti figurative. A chiudere il volume sono infatti tre saggi dedicati rispettivamente alla pittura di Renzo Vespignani e Alberto Sughi e alla scultura di Augusto Murer. Di Vespignani, Santato prende in esame soprattutto il ciclo Tra le due guerre, una serie di ottanta dipinti di carattere storico realizzati tra il 1972 e il 1975, al cui centro il pittore «ha posto l’immagine dell’uomo, quella dei protagonisti così come delle folle anonime: compaiono i dominatori e i dominati, i carnefici e le vittime» (p. 302). La pittura storica di Vespignani riesce a rappresentare ciò che rimane inaccessibile alla parola; la pittura rende presente, come nota lo stesso Vespignani, «ciò che la parola allontana»: «una cosa è dire sangue, un’altra vederlo», continua il pittore. Infatti, come nota Santato, «nessuno storico o cronista di guerra avrebbe potuto rappresentare la violenza del bombardamento di Guernica con maggiore efficacia rispetto alla drammatica forza espressiva del grande quadro di Picasso» (p. 305). L’opera, divisa in diverse sezioni, è connotata, non a caso, dalla forza espressiva del sangue, immagine che ricorre in maniera ossessiva all’interno della sua pittura, «una “reliquia” di traumi mai superati né nascosti» (p. 302). La sezione più inquietante e dal maggiore impatto visivo è probabilmente quella finale, dal titolo Mythus, dedicata al dramma vissuto dagli ebrei nei campi di concentramento nazisti. La scrittura critica dell’autore, allora, descrive in modo espressionistico le terribili sofferenze raffigurate dalla pittura di Vespignani, diventando quasi essa stessa reportage pittorico di un dolore e di una profonda ferita impressa nel corso stesso della Storia:

Compare a questo punto una serie impressionante di dieci dipinti, sette dei quali intitolati Carne di ebreo, dedicati alla rappresentazioni di parti del corpo, in particolare gambe e braccia, marchiati dai segni di riconoscimento impressi sulla carne (la stella di Davide e i numeri di matricola che venivano tatuati sull’avambraccio degli ebrei internati). È una sequenza di studi di anatomia dell’umanità offesa, raffigurati con una spietatezza che fa di questi quadri una violentissima denuncia della barbarie nazista. Le cicatrici che spaccano in verticale le gambe deformi sembrano crepe aperte nella carne. Sfumature gialle e verdastre si sovrappongono alla gamma dominante, azzurrognola, violacea, accentuando l’aspetto cadaverico dei corpi (pp. 309-310).

Tonalità diverse, caratterizzate da una non minore finezza interpretativa, vengono utilizzate per descrivere i quadri di Sughi. La sua pittura è una costante meditazione sull’uomo, soprattutto «sull’uomo contemporaneo, sul suo malessere esistenziale, tanto più evidente quanto si affollano intorno a lui i simboli del benessere» (p. 317). Due «autentiche metafore ossessive presiedono all’immaginario dell’autore: l’uomo solo e l’uomo di potere» (ivi). Il ciclo di dipinti intitolato La cena (1975-1976) rappresenta il mondo del potere e i suoi gruppi dirigenti, consegnati all’immagine nella posa di una cena in piedi, una «loro quotidiana abbuffata all’ombra del potere» (p. 319). Secondo lo studioso, i toni figurativi dei dipinti possono trovare un corrispondente in alcuni film contemporanei, come Roma e il Satyricon di Fellini o La grande abbuffata di Ferreri. Alla «nevrosi del mondo borghese» viene contrapposta la dignità del mondo contadino: emblematico, in questo senso, è il ciclo Immaginazione e memoria della famiglia dove, con grande capacità narrativa, viene rappresentata la dignità e la compostezza di un nucleo familiare ancora non toccato dalla civiltà dei consumi.

Il denso e ricco volume di Santato si conclude – dopo questo affascinante viaggio-immersione nell’opera di diversi autori, da Pasolini a Volponi, da Pascoli a Vespignani e Sughi – con uno sguardo critico sulla scultura di Murer: l’uomo, ancora una volta, è al centro dell’attenzione dell’artista. Un uomo saturo di fisicità corporea, rappresentato nelle sue radici profondamente terrene, venate di sacrificio e di vera umanità. L’arte di Murer appare dominata «dall’imperativo morale di lasciare una testimonianza della lotta antifascista e degli orrori della guerra» (p. 328): i monumenti alla Resistenza realizzati dall’artista sono allora la testimonianza di immagini di martirio e di dolore lontane da ogni retorica celebrativa, all’interno di un’opera caratterizzata dal richiamo a valori autenticamente umani.

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