popolo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Classe e popolo secondo Dussel interprete di Marx https://www.carmillaonline.com/2024/09/02/classe-e-popolo-secondo-dussel-interprete-di-marx/ Mon, 02 Sep 2024 04:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83935 di Fabio Ciabatti

Enrique Dussel, Marx e la modernità. Conferenze di La Paz, Castelvecchi 2024, € 17,50, pp. 147.

Un Marx che critica l’economia politica da un punto di vista etico e cioè dal punto di vista della materialità della vita, della soggettività corporea del lavoratore inteso come non essere del capitale. Una critica che parte dall’esteriorità, da ciò che la totalità del capitale esclude. È questa l’interpretazione di Marx per certi versi spiazzante, ma sempre sorretta da una solida conoscenza dei testi che ci presenta Enrique Dussel, studioso argentino scomparso lo scorso anno. Uno studioso che, partendo dalla teologia della [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enrique Dussel, Marx e la modernità. Conferenze di La Paz, Castelvecchi 2024, € 17,50, pp. 147.

Un Marx che critica l’economia politica da un punto di vista etico e cioè dal punto di vista della materialità della vita, della soggettività corporea del lavoratore inteso come non essere del capitale. Una critica che parte dall’esteriorità, da ciò che la totalità del capitale esclude. È questa l’interpretazione di Marx per certi versi spiazzante, ma sempre sorretta da una solida conoscenza dei testi che ci presenta Enrique Dussel, studioso argentino scomparso lo scorso anno. Uno studioso che, partendo dalla teologia della liberazione, negli anni Novanta si dichiara discepolo di Marx per rifiutare l’idea, oramai comune, che il rivoluzionario tedesco sia da considerare un “cane morto”.
Marx e la modernità, recentemente tradotto in italiano da Antonino Infranca, è un testo formato dalla trascrizione di un ciclo di conferenze tenute a La Paz da Dussel nel 1995 e può essere letto come una introduzione sufficientemente completa all’opera del pensatore sudamericano. La provenienza geografica è essenziale perché la valorizzazione dell’esteriorità cui abbiamo accennato nasce proprio dal punto di osservazione rappresentato dalla periferia dell’impero. 

Una collocazione che si vede a partire dalla critica del tradizionale concetto di modernità. In breve,

la Modernità non si è allargata dall’Europa. Questa è l’idea sostanzialista della Modernità: prima c’è una sostanza e dopo si espande. No, il Sistema-Mondo si origina incorporando una periferia che lo costituisce.1

Questa sostanza, secondo la narrazione convenzionale, avrebbe avuto un’evoluzione con diversi stadi storico-geografici che rileverebbe la sua intrinseca forza espansiva: Rinascimento, riforma protestante, illuminismo, Rivoluzione francese, parlamentarismo inglese e, nel frattempo, diffusione a livello mondiale. In realtà, sostiene Dussel, l’Europa è sempre stata una periferia, perfino durante l’impero romano. Diventa centro di un nuovo ordine globale solo con la conquista delle Americhe, avvenuta per caso mentre la Spagna cercava una via verso l’India, vero centro del Sistema Mondo dell’epoca. Questa conquista dà un grande vantaggio agli stati del Vecchio Continente rispetto a tutte le altre potenze extraeuropee del periodo consentendo la nascita della prima modernità, quella della Spagna, un Paese tutt’altro che medioevale con l’inquisizione che costituisce non una rimanenza del passato, ma una progredita burocrazia.  Abbiamo poi la seconda modernità, quella olandese, nella coscienza comune la Modernità in quanto tale, che produce una “semplificazione materializzante della realtà” finalizzata a far prosperare il capitalismo mercantile in una misura che la Spagna non era riuscita a fare. Con l’espansione a livello globale delle Compagnie delle Indie olandesi la crescita del tasso di profitto diventa il parametro per giudicare tutto: la storia, l’economia e la politica. 

E con questo arriviamo a Marx. Ma si tratta, come anticipato, di un Marx letto attraverso il concetto di “esteriorità” o, per essere meno filosofici, per mezzo della figura del “povero”. Una lettura spesso accusata di negare la centralità della lotta di classe nel pensiero del rivoluzionario tedesco. A questa osservazione Dussel risponde che

oggi essere sfruttati è un privilegio (avere un salario e produrre plusvalore) perché la maggioranza non lo è. La maggioranza è esclusa [..] Perché l’umanità sta per essere marginalizzata dal capitalismo, perché il capitalismo non gli può dare più lavoro.2

Ma c’è di più. La “povertà assoluta”, per dirla con il Marx dei Grundrisse, è il presupposto necessario del lavoro salariato. Bisogna precisare che il concetto di povertà non corrisponde a quello di indigenza. Il contadino che possiede un piccolo appezzamento in grado di procurargli i beni di consumo appena necessari alla sua sopravvivenza rientra certamente nella condizione di povertà. Ma la povertà assoluta è un’altra cosa: è la “totale esclusione dalla ricchezza materiale” per mezzo della separazione dai mezzi di produzione, in primis la terra. Si tratta della condizione che costringe gli esseri umani a vendersi sul mercato del lavoro; la condizione che consente al capitale di sussumere la soggettività umana e di trasformarla in lavoratore salariato, vale a dire lavoro vivo che produce valore e plusvalore per il capitale stesso.
Ma cos’è il valore? Il valore è oggettivazione di vita umana, di lavoro vivo. A sua volta, “Il lavoro vivo è il non capitale. Prima di vendersi è un povero, ma è la fonte creatrice di ogni ricchezza”.3 La povertà assoluta, dunque, è al tempo stesso esclusione da ogni ricchezza e possibilità generale di ogni ricchezza. Qui secondo Dussel si può comprendere il rovesciamento compiuto da Marx nei confronti di Hegel il quale parte dall’essere e di lì dispiega tutte le categorie. Apparentemente Marx segue lo stesso procedimento perché parte dal valore come essere del capitale per dispiegare concettualmente la totalità del capitale stesso. Ma il valore non è in grado di autoriprodursi perché a tal fine ha bisogno del lavoratore, del non essere del capitale, che costituisce la fonte del valore stesso. Dunque, secondo Dussel, il vero punto di partenza di Marx è il non essere. Il capitale nasce soltanto nel momento in cui sussume il suo non essere:  sussumere significa, appunto, portare dentro ciò che sta fuori. Usando le parole dello stesso Marx, il capitale porta dentro di sé “una materialità non separata dalla persona”.

Detto altrimenti, il capitale pretende di essere esso stesso la fonte del profitto e dunque di avere la capacità di autoriprodursi, di riprodurre il proprio essere. Ma questo è solo il feticismo cui soggiace l’economia. Smascherare questa apparenza significa, secondo Dussel, riportare la produzione di valore e plusvalore alla sua fonte, il lavoro vivo che è, appunto, il non essere del capitale. Il tasso di profitto, sostiene Dussel, è una categoria economica. Ma questo deve essere ricondotto al tasso di sfruttamento (o tasso del plusvalore) che, invece, è una categoria con risvolti antropologici e etici. La vera ossessione di Marx, sostiene Dussel, è quella di riportare il profitto in tutte le sue forme (industriale, commerciale, finanziario) alla sua fonte, il plusvalore, vale a dire all’appropriazione di lavoro vivo senza corrispettivo alcuno. In breve allo sfruttamento. Il capitalismo, come i sistemi che lo hanno preceduto, va dunque considerato non tanto un “modo di produzione”, ma un “modo di appropriazione” del lavoro. Quest’ultimo nel processo produttivo derealizza sé stesso. Il capitale sfruttando il lavoro si appropria senza corrispettivo della vita umana. Il capitale è perciò sottrazione di vita umana.
Da questi brevi accenni possiamo capire che, secondo il filosofo argentino, l’economia è un pensiero formale, autoreferenziale perché considera il capitale come fondamento della sua autovalorizzazione senza alcun riferimento alla fonte del valore, il lavoro vivo, perdendo così il suo contenuto materiale. Se un popolo ha bisogno di qualcosa, ma la produzione di questo qualcosa non porta alla creazione di plusvalore per il capitale esso semplicemente non viene prodotto. “La morte del popolo non è un fattore economico”, chiosa Dussel.4 In questo modo la Modernità rivela la sua natura dualistica “perché uccide i corpi, mentre il capitale è in buona salute”.5 All’opposto quella di Marx è una critica etica che può essere portata avanti grazie al concetto di valore il quale, a sua volta, consente di scoprire il concetto di plusvalore, vale a dire di sfruttamento. Insomma, di fronte al formalismo dell’economia, attraverso Marx è possibile affermare il principio materiale di ogni etica: “È valido ciò che faccio se riproduce la vita. Se uccide non è valido, è cattivo. La vita è il criterio materiale”.6 L’economia, invece, si occupa soltanto della riproduzione del capitale, noncurante delle distruzioni che questa finisce per comportare per la vita umana e per la natura. 

L’indifferenza dell’economia capitalistica nei confronti della riproduzione della vita è particolarmente evidente nei paesi periferici nell’ambito del mercato mondiale. Seguendo la Teoria della Dipendenza, Dussel sostiene la subordinazione nei confronti del centro capitalistico altro non è altro che “Trasferimento di plusvalore dal paese meno sviluppato a quello più sviluppato”.7 Ciò avviene attraverso diversi meccanismi, ma quello fondamentale è costituito dalla concorrenza che determina un livellamento dei prezzi sul mercato mondiale tra le merci dei capitali più sviluppati e quelle dei capitali meno sviluppati. Questi ultimi, in conseguenza di una componente tecnologica minore, producono con maggiori prezzi di costo. Allo stesso tempo, per l’utilizzo di maggiori quantità di lavoro vivo a parità di investimento, assorbono una maggiore quantità di valore che viene appropriato dai capitali più sviluppati. Da ciò deriva che un “capitale periferico che sta continuamente trasferendo parte del suo plusvalore non può accumulare”8 e dunque sussumere i poveri facendoli diventare lavoratori salariati. Di conseguenza “quasi il 50% del popolo latinoamericano, se non di più, è costituito da poveri, non sono neanche classe”.9 

Entra qui in gioco la differenza tra classe e popolo. Quest’ultimo è costituito da diversi soggetti collettivi che hanno differenti livelli di esteriorità rispetto al capitale. Il livello più esterno è costituito dalle nazionalità indigene che possono riprodursi senza la necessità di avere rapporti stabili con il capitale. A livello intermedio abbiamo la grande massa di poveri che sopravvivono ai margini dell’economia capitalistica. La vicinanza maggiore al capitale ce l’ha il lavoro salariato, la classe in senso proprio, che però mantiene un certo grado di esteriorità perché anche un operaio “può essere padre di famiglia, membro di un club di calcio, di un club di ballo e di molte altre cose”10 che non sono semplice funzione del sistema cui è sussunto in quanto lavoratore.
Più in generale, gramscianamente, “Popolo è il blocco sociale degli oppressi in uno Stato”, vale a dire “classi, etnie emarginate e altri settori sociali oppressi”11 che si contrappongono al “blocco storico al potere”, vale a dire la borghesia nazionale industriale, commerciale e finanziaria, la borghesia del capitale transnazionale e altri gruppi sociali vicini al potere statale. 

Popolo è la categoria storica che attraversa una formazione sociale. Allora, c’è coscienza di popolo, che non è coscienza di classe.
La coscienza di popolo è l’autocoscienza che hanno gli oppressi dei loro eroi, della loro storia (dei loro fatti che non dimenticano).12

In questa memoria 

ci può stare un eroe inca che ha lottato contro gli spagnoli, uno schiavo che ha lottato durante l’emancipazione e può, adesso, essere una sindacalista (ma quell’oppresso inca non era un operaio, non aveva nulla a che vedere con la classe e neanche era un contadino coloniale).13

Tutto ciò è importante, secondo Dussel, perché

ciò che rimane, dopo la rivoluzione, non è più la classe operaia, bensì un popolo, che transita verso un nuovo tipo di formazione sociale e, pertanto, la classe operaia, dovrebbe dissolversi in un’altra cosa. È scomparso l’operaio, ma ciò che è rimasto è il popolo.14

Dussel riconosce che Marx non ha visto la dinamica che trasforma il popolo in un soggetto storico, ma sostiene che, in questo ambito, “è facile sviluppare una critica dalle sue stesse categorie”.15 La domanda che ci si può porre legittimamente è se la categoria di “popolo” sia davvero sufficiente per pensare e praticare la transizione verso un nuovo tipo di formazione sociale. Oggi, a differenza di quanto si poteva immaginare negli anni Novanta, stiamo assistendo al rafforzamento di alcuni capitalismi un tempo periferici che hanno saputo sfruttare a loro vantaggio le dinamiche della cosiddetta globalizzazione. In questo contesto appellarsi al popolo può costituire un mezzo per cementare un’alleanza interclassista finalizzata a consolidare una traiettoria di sviluppo che, per quanto differente dai percorsi storicamente seguiti dal centro, rimane di natura capitalistica.
Ciò detto ci si può porre un’ulteriore domanda, tutt’altro che retorica: è davvero il popolo il tipo di soggetto collettivo destinato a permanere in un processo rivoluzionario? L’ottimismo di Dussel rispetto alla soggettività popolare fa da contraltare alla veloce liquidazione della soggettività di classe. Una questione che può essere messa in relazione a un altro problema: l’utilizzo da parte del pensatore argentino del concetto di “modo di appropriazione” al posto del più tradizionale “modo di produzione”. Detto in modo forse troppo semplice, la liquidazione del primo sembra un processo più semplice della trasformazione del secondo che richiederebbe, quantomeno, l’attivo contributo di una soggettività interna al processo produttivo. Anche se si tratta di una soggettività destinata nel corso di questa transizione a negare sé stessa perché il novum possa sorgere.

Questi brevi accenni non hanno certo l’intento di disconoscere l’importanza della riflessione di Dussel. Il pensatore argentino, ponendo l’accento sull’esteriorità senza negare la centralità dei rapporti sociali di produzione capitalistici, ci aiuta a mettere a tema la questione della transizione verso un mondo postcapitalistico in una congiuntura storica che vede l’Occidente sviluppato perdere la sua centralità e le stesse formazioni capitalistiche avanzate creare al loro interno sacche sempre più ampie di esclusione.  Una congiuntura che ci obbliga a pensare alle possibili soggettività anticapitalistiche in modo più complesso e articolato di quanto abbiano immaginato i classici del marxismo e forse lo stesso Marx.
Da questo punto di vista la prassi e la teoria (o forse sarebbe meglio dire le prassi e le teorie) devono fare ancora molta strada facendosi largo tra le macerie prodotte dagli attuali rapporti sociali di produzione. Come sostiene Marx letto da Dussel, infatti,  il “gran potere civilizzatore del capitale” dopo aver rotto tutti i limiti si trasforma in un “grande feticcio” e come un “Moloch” esige “i sacrifici della Terra e dell’umanità”. Insomma, vale la pena riflettere su quanto il pensatore argentino afferma alla fine del suo ciclo di conferenze di La Paz: “è molto utile, almeno, passare per Marx, e dopo lasciarlo; ma dopo averlo lasciato non si può essere più ingenui”.16


  1. E. Dussel, Marx e la modernità, Castelvecchi 2024. p. 30. 

  2. Ivi, pp. 32-33. 

  3. Ivi, p. 115. 

  4. Ibidem. 

  5. Ivi, p. 41. 

  6. Ivi, p. 115. 

  7. Ivi, p. 136. 

  8. Ivi, p. 139. 

  9. Ivi, p. 139. 

  10. Ivi, p. 140. 

  11. Ivi, p. 142. 

  12. Ivi, p. 143. 

  13. Ibidem. 

  14. Ivi, p. 144. 

  15. Ivi, p. 143. 

  16. Ivi, p. 147. 

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Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa https://www.carmillaonline.com/2024/04/10/mai-tornare-indietro-nemmeno-per-prendere-la-rincorsa/ Wed, 10 Apr 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81795 di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa [...]]]> di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.

In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.

Accompagnati da un lungo saggio, interessante quanto appassionato, di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), i diciassette testi che compongono l’appendice documentaria del volume spaziano dalle posizioni espresse da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista d’Italia a quelle di Errico Malatesta, dalla rivista «Bilan» a Otto Rühle, dalla critica radicale italiana ai militanti della Sinistra Comunista, in un mosaico di bilanci e riflessioni che vertono tutte su quanto sia dannoso per i movimenti di classe e il proletariato riporre qualsiasi fiducia nell’illusione di una possibile scelta tra democrazia borghese e autoritarismo fascista.

Soprattutto oggi, mentre si è lontani da una reale ripresa di lotte di classe allargate sia in Italia che in Occidente, ma è ancora dato il tempo per riflettere ed evitare il ripetersi di tanti errori passati, questi testi, niente affatto superati o inadeguati alla presente stagione, possono contribuire, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, a smascherare le trappole e a rivelare le menzogne con cui una sinistra “borghese”, ed oggi “liberale”, ha contribuito alla vittoria dei regimi più autoritari in nome della controrivoluzione e della difesa dell’ordine capitalistico nelle sue forme apparentemente “democratiche” e parlamentari”.

Se l’affermazione di Amadeo Bordiga che «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», pur rivelandosi ancora un ottimo punto di partenza, è, forse, fin troppo nota, abusata e, sicuramente, mai del tutto compresa fino in fondo da coloro che l’hanno usata o denunciata, altre considerazioni e ricostruzioni contenute nel testo possono davvero rivelarsi sorprendenti, illuminanti e utili non soltanto per comprendere dinamiche risvolti di avvenimenti, battaglia e insurrezioni vecchie di un secolo, ma anche per tracciare una linea di confine invalicabile tra ciò che le lotte a venire potranno considerare come utile o dannoso per le tattiche e le strategie che dovranno, comunque, sforzarsi ancora di elaborare.

Per aprire, per così dire, le danze, è bene iniziare dal saggio di Gilles Dauvé1 che delimita immediatamente la cornice in cui inscrivere l’essenza del problema affrontato:

È un luogo comune quello di vedere nel fascismo lo scatenamento della repressione statale al servizio delle classi dominanti. Secondo la formula resa celebre da Daniel Guérin a partire dagli anni Trenta, fascismo = grande capitale. Logicamente, la sola maniera di sbarazzarsene è di mettere fine al capitale.
Fin qui, nulla da ridire. Ahimè, nel 99% dei casi, la logica porta immediatamente fuori strada: se il fascismo incarna il peggio prodotto dal capitalismo, bisogna evitare questo peggio, cioè si dovrebbe fare di tutto per favorire un capitalismo non fascista. Poiché il fascismo è reazione, cerchiamo allora di promuovere il capitalismo sotto forme non reazionarie, non autoritarie, non xenofobe, non militariste, non razziste, in altre parole un capitalismo più moderno, più… capitalista.
Pur ripetendo che il fascismo serve gli interessi del «grande capitale», l’antifascismo si affretta a precisare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista avrebbe potuto essere evitata, se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione tale da impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia si fossero alleati coi repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida…l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda Guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei.
Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa visione ignora che il fascismo s’inscrive nel quadro di un duplice fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare, all’indomani della Prima Guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – come ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che hanno caratterizzato tale periodo e dai loro limiti […] Cosa c’è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, generalizzatasi dopo la guerra del ’14-1817? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei Paesi (Italia e Germania) in cui, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace d’imporre il proprio ordine, perfino in seno alla stessa borghesia.2.

Un protagonista delle lotte e dei partiti rivoluzionari e di classe dell’epoca, Amadeo Bordiga, avrebbe rafforzato queste ipotesi ancora in un’ultima intervista rilasciata nel 19703 contenuta nella presente antologia:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.
[…]Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale.
Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nel – l’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che [il] fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici4.

Certo, il proletariato italiano, tedesco e spagnolo aveva combattuto, armi alla mano e senza esitazione, contro la reazione borghese e i suoi cani da guardia. In Italia e in Germani i soldati si erano rivoltati durante il primo conflitto mondiale e, nel secondo caso, avevano nettamente contribuito a fermarlo. Ad esitare erano stati i partiti socialisti e socialdemocratici che pur di scongiurare il conflitto di classe che, come aveva scritto in una lettera Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, se si fosse radicalizzato avrebbe travolto anche loro, avevano scelto di sostenere il conflitto mondiale nel caso tedesco oppure avevano optato, nel caso italiano, per un «né aderire né sabotare» che, nei fatti, aveva tradito le aspettative di un proletariato decisamente contrario alla guerra e, successivamente, di sostenere la Patria nell’ora del bisogno dopo Caporetto.

La difesa dell’ordine liberal-borghese aveva così finito col giustificare la repressione dei soldati in rivolta o, addirittura, di sporcarsi le amni cola sangue dei rivoltosi con la repressione dei moti berlinesi del 1919 e l’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma ancor peggio sarebbe stato in Spagna dove a sconfiggere i moti rivoluzionari sarebbe stato il doppio apporto degli anarchici entrati nel governo repubblicano e l’opera di eliminazione delle frange intransigentemente rivoluzionarie portata avanti dai rappresentanti di Mosca e di Stalin in seno allo schieramento anti-franchista.

In Italia, in Germania e in Spagna l’avvento dei regimi fascisti non era dunque avvenuto soltanto a seguito di una sconfitta di uno schieramento rivoluzionario e proletario diviso al suo interno dall’azione delle formazioni più radicali quanto piuttosto dal freno che alla rivoluzione fu posto proprio dal non aver abbandonato del tutto le posizioni e le formazioni di carattere democratico e socialdemocratico in tempo utile.

Non a caso, però, i testi raccolti nell’antologia, mettono anche a fuoco il ruolo svolto dall’autoritarismo bolscevico-staliniano negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre e, anche, al ruolo che in tutto ciò giocarono anche certe posizioni di Trotsky sulla militarizzazione del lavoro in patria e del gioco delle alleanze sui fronti internazionali e, forse soprattutto, in Spagna.

Riassumere qui, in poche righe e in poche pagine, le battaglie di allora e i dibattiti teorico-politici che le accompagnarono e ne discussero le sconfitte e le successive conseguenze è quasi impossibile, ma può ancora essere utile trarre qualche elemento dai testi contenuti in Quando muoiono le insurrezioni. Ad esempio un testo prodotto dai militanti della Frazione italiana della Sinistra Comunista e pubblicato sul periodico internazionalista «Bilan»5, in occasione della repressione dei rivoluzionari nelle strade di Barcellona nel maggio del 1937.

Il 19 luglio6 i proletari di Barcellona, a mani nude, schiacciarono l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano sul selciato molti più morti che non a luglio, quando dovettero respingere Franco. Oggi a scatenare la marmaglia delle forze repressive contro gli operai è il governo antifascista, che include gli anarchici e gode dell’indiretto sostegno da parte del POUM.
Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, sciolta dai legami con lo Stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia l’istinto di classe dei soldati: è lo sciopero a bloccare i fucili e i cannoni di Franco, spezzandone l’offensiva.
[…] La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La «milizia proletaria» della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. Per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la Borghesia può fare appello ai Centristi, ai Socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo Stato cambi natura quando i suoi funzionari mutano di colore. Dissimulato fra le pieghe della bandiera rossa, il Capitalismo affila pazientemente la spada per la repressione del 4 maggio [1937], preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale classista del proletariato.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti e del «controllo della produzione» è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle «socializzazioni», delle «milizie proletarie» è il massacro di Barcellona del 4 maggio 1937.
[…] È al riparo di un governo di Frente Popular che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrio ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che fosse in grado di realizzare l’insieme del programma del Capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra fraternamente unite. Ma la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid e delle Asturie obbliga il Capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a ripartirne le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da un’indissolubile solidarietà di classe.
Laddove Franco non è riuscito a vincere subito, il Capitalismo chiama a sé gli operai per «sconfiggere il fascismo». Sanguinoso tranello pagato con migliaia di cadaveri di operai per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del Capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline di Aragona, per la Sierra de Guadarrama, per le montagne delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile contrapposizione tra Borghesia e Proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del Capitalismo per accerchiare gli operai e annientarli! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato avrebbe dovuto combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del Capitalismo contro il Proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio
dei loro fratelli russi del 1917 – potevano rispondere solo sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della Borghesia – sia repubblicano che «fascista» – e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione dello Stato borghese7.

Ora non potendo citare tutta l’enorme mole di documenti riportati nell’Appendice, vale la pena di citare ancora un testo prodotto negli anni Settanta su «Puzz» nel 19758.

Con l’enorme slancio produttivo ricevuto dalla Prima Guerra mondiale, la società capitalistica si avviava a sostituire in maniera definitiva i propri presupposti (verso la realizzazione del dominio reale del capitale): passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; trasformazione della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione; concentrazione e centralizzazione dei capitali delle aziende; sviluppo del capitale monetario e fittizio, e generalizzazione del sistema del credito; predominio del lavoro morto sul lavoro vivo in tutti gli aspetti della vita associata e all’interno dell’individuo stesso; antropomorfosi del capitale; mistificazione del proletariato nelle classi medie; distruzione delle antiche classi medie e produzione delle nuove; evoluzione dello Stato da semplice «comitato d’affari della classe dominante» a impresa capitalistica
[…] A questo punto, la prima forma di democrazia rappresentativa, modo specifico di gestione nel periodo di dominio formale, e la sua politica, che mediava il conflitto costitutivo della società borghese tra interessi individuali e interessi generali, diventano inadeguate. Ora è il capitale stesso che direttamente unifica gli uomini per sottoporli al suo dominio; la politica, da suo strumento per affermarsi contro il modo di produzione precedente (e proprio in questa lotta, era ancora possibile, nel quadro della democrazia, un qualche intervento autonomo della classe oppressa), diviene suo prodotto immediato per la mistificazione e l’oppressione diretta. La comunità popolare nazi-fascista, orrendo sostituto della Gemeinwesen, realizzò, attraverso il corporativismo e l’apologia del lavoro, in quanto accessorio del capitale (unità armonica capitale-lavoro), la mistificazione democratica (democrazia = potere del popolo). Se nel fascismo il principio democratico sembra annullarsi, è perché in realtà esso si invera.
[…] Il potere al fascismo implicava però l’assorbimento totalitario di tutte le rappresentazioni politiche nello specchio deformante del capitale, ed escluse quindi i politicanti borghesi, liberali, cattolici e socialdemocratici. Dopo il conflitto del ’39-45, l’araba fenice della «nuova democrazia» saprà a sua volta far proprie le tecniche dell’organizzazione, propaganda e pubblicità fasciste, dello spettacolo sociale e politico, ma alla fragile rigidità dell’unico specchio (o con me o contro di me), riuscirà a sostituire un «libero» sistema labirintico di identificazioni prestabilite (o con me o «contro di me», ma sempre con me)9.

E questo è solo un assaggio di un testo antologico ricco, stimolante e, davvero, imperdibile per chiunque voglia iniziare a riorientarsi in mezzo alle chimere mediatiche e politiche che oggi tentano ancora, purtroppo riuscendoci troppo spesso, di irretire le coscienze e il desiderio di lotta e ribellione che anima le giovani generazioni e i lavoratori e le lavoratrici disorientati davanti ad un modo di produzione spietato, il cui unico destino non è quello di esser migliorato e, allo stesso tempo, salvaguardato nelle sue forme più moderne, ma soltanto quello di essere distrutto dall’insurrezione proletaria che non farà sconti a nessuno dei suoi funzionari e portavoce.
Né di destra né, tanto meno, di sinistra.


  1. Titolo originale: Quand meurent les insurrections (1999), La Petite Bibliothèque PDF de la Matérielle, ADEL c/o Échanges, BP 2475866 Paris Cedex 18, 2005. Si tratta di una versione interamente riveduta della “Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne. 1936-1939, UGE 10/18, Paris, 1979.  

  2. G. Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, ora in Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 13-14.  

  3. Una intervista ad Amadeo Bordiga, Raccolta da Edek Osser, giugno 1970, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3, settembre 1973.  

  4. Un intervista ad Amadeo Bordiga (1970) ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 112-113.  

  5. Plomb, Mitraille, Prison: Ainsi répond le Front Populaire aux ouvriers de Barcelone osant résister à l’attaque capitaliste, in «Bilan», Bulletin théorique mensuel de la Fraction italienne de la Gauche communiste, Paris, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 1333-1337.  

  6. Si tratta del luglio 1936, data di inizio del golpe franchista e della massiccia e inequivocabile risposta allo stesso da parte del proletariato barcellonese.  

  7. Piombo, mitraglia, prigione: così risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all’attacco capitalista, ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 213-215.  

  8. Francesco Santini – Joe Fallisi, La controrivoluzione «antifascista»…, in «Puzz», n. 19 – «Gatti selvaggi», n. 3, Edizione speciale, aprile-maggio 1975, pp. 17-20.  

  9. F. Santini – J. Fallisi, La controrivoluzione «antifascista», ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 335- 339.  

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Contro il non luogo universale https://www.carmillaonline.com/2021/06/02/contro-il-non-luogo-universale/ Wed, 02 Jun 2021 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66291 di Sandro Moiso

Franco La Cecla, Mente locale, con la prefazione di Paul K. Feyarebend, Eléuthera editrice, 2021, pp. 208, 16,00 euro

Chiunque si sia interessato alle vicende e alla storia dei movimenti di classe e delle loro resistenze al dominio capitalistico sulla società e sulla specie, prima o poi avrà sbattuto il naso nella figura di Georges Eugène Haussmann meglio noto come barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna dal 23 giugno 1853 al 5 gennaio 1870 o, per semplificare, prefetto di Parigi al tempo del secondo impero.

E’ noto che [...]]]> di Sandro Moiso

Franco La Cecla, Mente locale, con la prefazione di Paul K. Feyarebend, Eléuthera editrice, 2021, pp. 208, 16,00 euro

Chiunque si sia interessato alle vicende e alla storia dei movimenti di classe e delle loro resistenze al dominio capitalistico sulla società e sulla specie, prima o poi avrà sbattuto il naso nella figura di Georges Eugène Haussmann meglio noto come barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna dal 23 giugno 1853 al 5 gennaio 1870 o, per semplificare, prefetto di Parigi al tempo del secondo impero.

E’ noto che in tale veste egli svolse anche la funzione di urbanista, imprimendo definitivamente la sua visione della città e delle sue funzioni nella struttura urbana della ville lumière così come tutti la conosciamo ormai da più di centocinquanta anni: i grand boulevard che la caratterizzano ancora oggi nella sua parte centrale sono infatti la conseguenza dello sventramento dei vecchi quartieri che Haussmann attuò all’interno di un più vasto piano di ristrutturazione urbana.

Già nel XVII secolo Parigi era stata oggetto di un vasto piano di riassetto urbanistico voluto da Jean-Baptiste Colbert, consigliere del Re Sole, che demolì le fortificazioni poste sulla riva destra della Senna per sostituirle con un ampio viale alberato «per un maggior decoro della città e per servire da passeggiata agli abitanti». Nell’Ottocento, però, quando la città iniziò ad essere interessata da un maggior afflusso di contadini, allettati dalla prospettiva di un salario sicuro nelle fabbriche e negli opifici della città, Parigi non era affatto pronta a fare i conti con una simile trasformazione, che comportò la costruzione di agglomerati edilizi, officine, ferrovie in modo congestionato, febbrile, quasi parossistico, che lasciò una traccia profonda nella vita materiale e morale del proletariato parigino.

In tale contesto il barone Haussmann operò un immenso e radicale ammodernamento urbanistico della capitale francese, portando alle estreme conseguenze l’esperienza precedente. Il Barone, infatti, sventrò il fitto tessuto dell’antica città medievale, perenne focolaio di epidemie e di insurrezioni, mediante la costruzione di nuove arterie stradali, rettilinee, ampie e alberate, che si snodano per 165 chilometri in tutta la capitale.

Attraverso tale trasformazione di Parigi Haussmann intendeva infatti impiegare e ingigantire gli enormi profitti dell’epoca e riorganizzare la rendita immobiliare parigina, spesso al limite della speculazione edilizia. Importante era anche la valenza politica e sociale dell’intero progetto, che mirava a conferire alla capitale un aspetto moderno e grandioso. Più significativo, dal punto di vista di classe, era il terzo scopo, legato a ragioni di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Haussmann vide nei boulevard un ottimo strumento per consentire il rapido ed efficace spostamento di truppe militari a Parigi in caso di insurrezione e, contestualmente, per impedire la costruzione di barricate, cosa che avveniva assai di frequente nello stretto labirinto di strade medievali.

Per più di un secolo si è interpretata quest’ultima scelta soltanto dal punto di vista militare e repressivo, mentre in realtà ben più importante si rivela oggi, soprattutto dopo la lettura della seconda edizione, ampliata e aggiornata del libro di Franco La Cecla, ri/pubblicata da Elèuthera, dal punto di vista del necessario sradicamento sociale e culturale richiesto dallo sviluppo industriale e capitalistico nei confronti dell’organizzazione territoriale delle classi lavoratrici e meno abbienti.

Più volte chi scrive, proprio sulle pagine di Carmilla, ha sottolineato l’importanza che una sorta di psico-geografia (intesa ben al di là della sua formulazione debordiana e situazionista) può rivestire nell’analisi del ruolo che i territori, grandi o piccoli non è qui importante, possono rivestire nella conservazione della memoria delle lotte e delle organizzazioni che queste si sono date dal basso nel tempo ai fini della permanenza di una conflittualità diffusa, residua o ampia non importa che sia, all’interno e intorno agli stessi. Lo si è detto per la Val di Susa oppure per la tradizione della resistenza occitana, solo per fare rapidamente due esempi facili da comprendere.

Il testo di La Cecla, senza neppure sfiorare gli esempi sin qui riportati, sviluppa magnificamente l’analisi dell’utilizzo della trasformazione urbanistica e territoriale per contrastare le resistenze, attive o possibili, proprio per il tramite della demolizione di ogni possibile orientamento spaziale o riferimento culturale, visivi o psichici che questi siano. Per intendere meglio il discorso fin qui fatto vale la pena di fare alcuni esempi tratti da Mente locale, a partire da quegli spazi “indigeni” studiati dagli antropologi.

Mary Douglas ha un aneddoto molto efficace a proposito di ciò che uno spazio nasconde:
«La natura dello spazio abitato è tale da non essere deducibile solo dai suoi aspetti fisici. Nel caso di resti archeologici, ad esempio, sono noti i casi di storiche cantonate a partire dalla sola evidenza architettonica. Morgan costruì una teoria su una cultura pueblo degli alti versanti dell’Ohio, i cui cortili spaziosi e le case strategicamente ben disegnate si sono rivelati in seguito a più ampie ricerche tumuli funerari».
La forma dello spazio indigeno è “agita” da chi la abita. René Thom parla di uno “spazio eccitato”,
intendendo uno spazio globale flessibile. In altri termini, i raccordi tra le mappe locali che definiscono lo spazio d’uso non sarebbero fissi, ma potrebbero essere modificati a volontà da certi individui (maghi e stregoni) e ciò in virtù di procedure specifiche (rituali magici, sacrifici). Altrove Thom afferma che la «topologia dello spazio cesserà di essere la stessa per tutti, perché le esperienze percettive di un osservatore possono essere a loro volta affette da un’azione magica». Qui Thom chiama magico ciò che dal punto di vista dell’antropologia psicologica può essere anche l’immaginario quotidiano, un immaginario che sostiene e costituisce la mappa mentale condivisa. E’ il gioco del “punto di vista” spaziale, il cui organo e tutto il corpo in movimento, il corpo individuale e sociale. La mappa mentale di un insediamento e un’esperienza intersoggettiva. Nello spazio vengono “lasciati” indizi che richiamano per analogie e passaggi una mappa più ampia […] Francoise Levy e Marion Segaud hanno cercato di raggruppare, da un grande numero di esempi di culture antiche, tradizionali e indigene, le categorie spaziali che concorrono a formare la mappa mentale di un insediamento […] Insediarsi vuol dire ritagliare un posto tra la genericità dei luoghi, porre un confine tra l’abitato e il non abitato. Questo gesto e un gesto di fondazione, e ogni fondazione implica un orientamento. Questo luogo, adesso abitato, e in relazione con ciò che gli sta intorno secondo alcune direttrici orientate. Ogni insediamento viene cosi incardinato non solo da un circoscrivere, ma anche da un legare al cosmo intero.1.

Un luogo, uno spazio umano è agito, immaginato, abitato, concepito dai suoi abitanti attraverso linee di interpretazione che definiscono comportamenti cresciuti e condivisi all’interno della collettività seguendone i ritmi e le necessità, sia materiali che ideali. Un luogo, uno spazio umano cresce dall’interno della collettività che lo abita e lo condivide. E’ chiaro, pertanto, che qualsiasi modificazione imposta dall’esterno, di carattere urbanistico o politico che sia, finisce con lo stravolgere la stessa comunità che lo abita e che è destinata a disperdersi, anche rimanendo apparentemente vicina allo spazio iniziale, una volta che se ne siano dispersi o distrutti i punti di riferimento architettonici, spaziali o immaginari.

Un’azione come quella di Haussmann andava quindi molto al di là dell’aspetto militare, repressivo, speculativo o di rinnovamento estetico poiché andava a colpire in profondità la comunità che abitava precedentemente gli stessi spazi, da cui veniva brutalmente allontanata oppure violentemente integrata in quelli nuovi e più razionali.
In giorni in cui lo scontro tra lo Stato israeliano e i Palestinesi di Gerusalemme Est e di Gaza è tornato ad occupare le prime pagine dei media internazionali, è difficile non cogliere come l’opera di espulsione anche di poche famiglie, dagli spazi abitati da decenni se non più, significa intervenire sull’indipendenza culturale, politica, sociale della comunità palestinese con un’operazione di rimozione del ricordo, della memoria e delle tradizioni che è altrettanto violenta di quella militare dell’aviazione israeliana sui territori.

Le decine di barricate che avevano chiuso il Faubourg Saint-Antoine, la rue de Charenton, la rue de Charonne e quella de la Roquette nel 1848 costituirono la testimonianza non solo dell’insorgenza proletaria, ma anche della resistenza della comunità che abitava il quartiere contro la violenza di uno Stato con cui la stessa non poteva più o ancora riconoscersi.
Situazione che in maniera simile, ma con motivazioni diverse, così come è diversa ogni comunità da tutte le altre, si ripete in una delle vicende narrate nell’interessantissimo testo di Franco La Cecla: quello dell’insurrezione di Palermo del 1866 e delle sue motivazioni e conseguenze.

La storia qui raccontata è un episodio della guerra furiosa ingaggiata nelle grandi città europee, dalla metà del diciannovesimo secolo in poi, contro la vita di strada. Gli attori sono da una parte le municipalità, ora investite di un ruolo del tutto nuovo di gestione, controllo e amministrazione della vita quotidiana dei cittadini, e dall’altra gli abitanti, la cui vita è naturalmente “indisciplinata” essendo orientata alle ragioni del bastare a se stessi dentro
un tessuto urbano che ancora gli appartiene e a cui appartengono.
L’esemplarità del caso Palermo è sbozzata dentro a una situazione di grande cambiamento generale […] Chi, del popolo minuto o delle settanta corporazioni di mestiere che allignano a Palermo, ha appoggiato l’ingresso del Generale Garibaldi in città difficilmente (per quanto inventivo o abituato alle cose dell’isola sia) può immaginare le proporzioni del cambiamento cui ha dato una mano. Che la libertà possa assumere i caratteri di un governo talmente attento alla vita della gente comune da pretendere netti cambiamenti di costume, che tutto il sistema di vita precedente, nei minimi dettagli, possa essere oggetto di drastiche condanne e ferrei regolamenti, è qualcosa di impensabile. Tra tante dominazioni, mai ce n’è stata una che abbia preteso di entrare nella vita del vicolo, nel cortile, a decidere tra moglie e marito come ci si debba comportare, a che santo sia giusto o meno votarsi, quali mosse siano consentite ai cocchieri per strada. […] E dire che Palermo e la terza città d’Italia per popolazione e la quarta in Europa per incremento di nati (dopo Londra, Vienna, Berlino).
Eppure, qualcosa fa si che il nuovo governo abbia in odio, in smisurato sospetto, i modi e le industrie del popolo siciliano […] Non contento di ciò, ha aggravato i dazi e le tasse impopolari e moltiplicato i servizi della guarnigione di polizia. Una cosa così non può essere a lungo sopportata e, appena sei anni dopo l’ingresso del Generale, la città insorge, per sette giorni, furiosamente.
Ci vuole l’aiuto delle guarnigioni napoletane per riportare la calma, e con essa il “cholera”. Il morbo percuote l’isola e si ferma lungamente a Palermo. Fa dimenticare tra le crudeltà altre crudeltà e rende un buon servigio ai nuovi amministratori, i quali proseguono nell’impresa certo ardua, ma senza dubbio modernizzatrice, di educare le plebi a nuovi costumi.
Come già prima della rivolta, anche dopo, con ancora più forza e arroganza, carabinieri, ufficiali e bandi intimano di stare in casa, di non sedersi per strada, di non pullulare per i cortili, di non svolgere alcuna attività industriosa al di fuori delle persiane della propria dimora. Come se quelle stanze fossero servite da sempre a questo, e non invece semplicemente a dormirvi e solo nella stagione fredda, come se non si sapesse che tutto il resto avveniva (come era stato per padri e nonni) all’aria aperta, dirimpetto ai vicini, sul selciato e sui ballatoi, tra le pergole e i santi. E gli stessi santi e madonne vengono proibiti nella guerra baggiana condotta ai frati e alla religione da un popolo lontano che adesso governa e nutre interesse per le proprietà dei preti.
[…] I lunghi elenchi di ciò che è ora proibito e consentito vanno ben oltre la rivolta, il colera, la sua fine e il suo ritorno. Diventano la costante di un governo che sembra avere più a cuore questo della stessa riscossione di nuove tasse, che peraltro non mancano puntualmente di esacerbare gli animi.
Eppure, il progetto della nuova municipalità e molto chiaro e ambizioso: trattare la città come uno stato di emergenza patologico. Disciplinare le sue moltitudini e il primo compito da svolgere, ricorrendo alle tecniche igieniche e di polizia che in quel momento, in tutta Europa, si vanno affinando.
[…] Nel 1888, un regolamento di igiene che corona vari tentativi precedenti si apre con la proibizione di «andare in giro nudi o seminudi» (in una città di mare dove le abitudini e le attività danno occasione di mostrarsi ben oltre il polpaccio). Ma viene anche vietato di “pettinarsi e pettinare” o di «tosare pecore per la pubblica via»; o ancora di «asciugare panni
per le strade, stendere o sciorinare biade, salami o sostanze di qualunque specie che per fermentazione, putrefazione o altra causa tramandino fetide e nocive esalazioni». Non si può più tagliar legna dinanzi alla porta, ne ferrare o curare un cavallo «in vista del pubblico». E’ proibito lasciar vagare polli, oche e anatre.
Viene colpito, insomma, tutto il regime di sussistenza, reso illegale ogni atto “produttivo” esercitato nel proprio ambito di vita. Ora, «salare i pesci entro la città e altresì prosciugarli innanzi le porte di entrata, nonché le finestre e nei balconi» è vietato per misura igienica e per prevenire miasmi contagiosi.
[…] Più avanti, con altri regolamenti, si colpirà il lavoro di singole corporazioni, troncando il legame tra esso e la sua “residenzialità”: «Viene fatto divieto ai bottai di stare in via dei bottai». Sarà d’ora in avanti il sindaco che provvederà a destinare «un luogo apposito, a tempo debito, fuori città». L’intera economia sociale, strada per strada, insieme ai legami che essa sosteneva e da cui era sostenuta, vengono cosi scardinati. E’ lo stesso effetto ottenuto con l’abolizione dei diritti comuni e degli abusi civici nelle campagne dell’isola. Si capisce perché gli anni della fine del secolo siano gli anni della miseria nera, della mafia che comincia, della spaventosa emigrazione2.

Chi scrive deve, a questo punto, scusarsi con l’autore per la lunghissima citazione ma, d’altro canto, la stessa si è resa necessaria al fine di far comprendere ai lettori il legame strettissimo che intercorre tra l’uso delle leggi e dei regolamenti urbanistici e sanitari e la rimozione delle abitudini e forme di resistenza e sopravvivenza comunitarie. E’ qualcosa che va al di là dei concetti di classe e lotta di classe, i quali, a loro volta, finiscono col rivelarsi più di carattere sociologico e generalizzante che non realmente utili per la piena comprensione delle contraddizioni scatenate dall’uso capitalistico degli spazi, del lavoro umano, dell’ambiente e delle trasformazioni dell’economia e della tecnica. Così come finiscono col rivelarsi riduttive anche le categorie, oggi fin troppo abusate, di popolo e nazione.

Anche se il testo di La Cecla porta ancora alla luce una infinita varietà di esempi, casi e problemi collegati al tema della funzione “modernizzatrice” dell’urbanistica borghese, quanto è stato fin qui detto può benissimo funzionare come sunto di un’opera che della critica della trasformazione dell’intero spazio sociale in “non luogo”, in un’accezione ben più ampia di quella suggerita originariamente da Marc Augé, in cui perdersi, sia soggettivamente che collettivamente, fa il suo obiettivo centrale e importantissimo.

Non soltanto però, poiché è possibile leggere in filigrana nelle pagine di La Cecla un uso della scienza e del progresso in chiave ricattatoria e fobica che richiama l’attenzione, soprattutto in un periodo in cui l’evidente emergenza pandemica è stata utilizzata prima di tutto per ristrutturare il lavoro e ridefinirne le sue condizioni, mentre classi sociali un tempo sicure del proprio tenore di vita hanno visto sgretolarsi sotto i loro occhi e sotto i colpi delle misure anti-Covid le proprie certezze e abitudini.

Alla metà degli anni sessanta, nel pieno della guerra del Vietnam, una grande e misconosciuta folksinger americana, Hedy West, fu la prima ad affermare che in futuro “We’ll be controlled by manipulated fear”, saremo stati controllati attraverso l’uso della paura. Negli ultimi vent’anni, ma forse anche già da molto tempo prima, tale ipotesi è stata pienamente confermata dalle politiche di sicurezza e salute pubblica messe in atto dai governi, soprattutto nei paesi considerati “avanzati”.


  1. F. La Cecla, Mente locale, Elèuthera 2021, pp. 56-58  

  2. F. La Cecla, op. cit., pp. 117-123  

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Il popolo dell’Apocalisse https://www.carmillaonline.com/2021/02/03/il-popolo-dellapocalisse/ Wed, 03 Feb 2021 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64774 “Liaisons, ricerca partigiana transoceanica”, vol. I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, pp. 248, 15,00 euro

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive. (Primo Moroni)

Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi [...]]]> “Liaisons, ricerca partigiana transoceanica”, vol. I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, pp. 248, 15,00 euro

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive.
(Primo Moroni)

Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi paesi del mondo. Un intreccio di amicizie e di comuni sensibilità che si è posto un obiettivo ambizioso e necessario: dar voce e spazio a un certo modo di porsi domande dentro il “tempo della fine”.

In un contesto mondiale in cui il terreno della politica, luogo in cui diverse soggettività si incontano e si scontrano dialetticamente, si sta dissolvendo con il venir meno della funzione dei parlamenti e dello Stato nazionale, dediti ormai principalmente alla gestione delle repressione e degli affari correnti indicati da centri finanziari e di potere “esterni”, si rende necessario una maggiore attenzione alle storie particolari, a come si presentano e ripresentano all’interno di determinati e differenti contesti.

Così a partire dalle lotte e dai percorsi organizzativi locali, “Liaisons” cerca di portare alla luce e rendere visibile una trama di situazioni e di prospettive che si allontanano sia dalle politiche rivendicative e governamentali sia dalla vecchia retorica della Rivoluzione.
Al di là di ogni aspirazione universalistica, la rivista tenta di riunire conflitti e intenti apparentemente distanti tra loro. Affinità sotterranee che sono in realtà alal ricerca di uno spazio condiviso, una cassa di risonanza, un riverbero planetario1.

Come si afferma nell’Introduzione:

Ora, proprio quando il mondo ci si presenta, attraverso la sua dissoluzione, sotto forma di una drammatica unità, all’orizzonte un’umile internazionale prende forma e potenza. La riconosciamo a partire da una serie di gesti familiari: la moltiplicazione dei conflitti diretti con la polizia, la diserzione generalizzata dalle istituzioni, il blocco delle strutture petrolifere e nucleari, la proliferazione delle Zad e la messa in comune dei mezzi per vivere e resistere. Dappertutto, assistiamo a un risveglio della vitalità politica, dell’intelligenza strategica e del desiderio di combattere – stavolta non il mondo, ma la sua fine.
Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. Condividiamo la stessa insoddisfazione nei confronti delle grandi narrazioni, ma il loro spettro ci tormenta. Prigioniere e prigionieri del tempo della fine, rimaniamo con le spalle al muro davanti a un compito dalla portata incommensurabile: le nostre aspirazioni infatti non possono più relazionarsi con alcun contenuto positivo, ma con ciò da cui partiamo. La nostra eredità politica non è figlia di alcun testamento. Un’affermazione tanto più vera in un mondo che sta per essere distrutto fino all’ultimo grammo.
[…] In questo contesto, l’ultimo dei disastri possibili sarebbe credere di poter ancora risolverli. Tale è il miraggio del populista, che crede di poter riprendere la situazione in mano. Così, tutto il mondo si è sorpreso della vittoria del “Make America Great Again” di Trump quando Putin, Berlusconi, Erdoğan, Modi e Netanyahu da anni regnano (o hanno regnato) sullo stesso registro. Che provengano da milieu popolari o ne maneggino lo stile, tutti riesumano la supposta alleanza tra il sovrano e il suo “popolo”, dissimulando l’enorme divario tra questo e le élites, trincerate dietro gli apparati di stato – ciò che alcuni chiamano deep state. Per conquistarsi i cuori, promettono di salvaguardare tutto ciò che in un “popolo” è identico a se stesso, per scagliarlo contro la minaccia che proviene dalla minoranza, sia essa etnica, sessuale o politica, fino a compromettere praticamente tutto e tutti. Dalle viscere di questa massa abbandonata nel bel mezzo del deserto neoliberale, sorge un nuovo popolo del risentimento. Quasi senza rendercene conto siamo passati da un regime di pacificazione imposto con la guerra a un regime di guerra tout court, che minaccia di sottrarci l’agenda delle cose a venire, di ribaltare la gerarchia di ciò che conta o meno, di ciò che polarizza o lascia indifferenti. Il nemico ha invaso i nostri spazi, minacciando di estirpare l’erba che ci cresce sotto i piedi. E non si limita all’esproprio capitalista, ma ambisce a intercettare le energie di chi si oppone all’ordine liberale per metterle al servizio di una macchina di governo che non si pone neanche più il problema di apparire “socialmente accettabile”. Tutto accade come se gli attuali movimenti autoritari si espandessero al ritmo della virtù ipocrita del liberalismo occidentale, come suo inconfessabile, mostruoso doppio.
[…] E tutto questo “in nome del popolo”.
D’altra parte, di fronte alla convocazione del popolo sull’altare della nazione, i movimenti che si sollevano contro quest’ultima sono chiamati a loro volta, in mancanza di migliori definizioni, “popolari”. Eppure è chiaro come l’effervescenza delle Primavere arabe o del movimento contro la loi travail in Francia sia dipesa dal pensionamento degli organi tradizionali di rappresentanza popolare, ovvero i partiti e i sindacati.
[…] Lontano da ogni “discorso di metodo” politico, l’epoca non ci lascia altra scelta se non quella di pensare un’esistenza senza soggetto, progetto o eredità – compresa quella del “popolo”. In un certo senso, si tratta di riconoscere il fallimento della politica come l’abbiamo sempre conosciuta, persino di quella che abbiamo amato. Ma ammettere un fallimento non è un’ammissione di impotenza, perché la potenza designa ciò che ancora non è venuto alla luce, e che spetta a noi far emergere2.

Per dare corpo al progetto il primo volume monotematico di “Liaisons” prende in esame dieci casi di lotte e contraddizioni sviluppatesi sulla base di questo “fallimento” della politica tradizionalmente intesa: i nazionalismi autoctoni del Canada e québécois, il lungo e rigido inverno politico russo e ucraino, il pueblo che di organizza per difendere il proprio territorio in Messico, la decomposizione delle rigidità giapponesi, le contraddizioni del Libano sospeso tra modernità ed Islam, le ancor maggiori contraddizioni degli Stati Uniti sospesi tra guerra civile e contraddizioni razziali, etniche ed economiche, le azioni di protesta in Sud Corea, le lotte in Francia tra gilets jaunes, loi travail e sicurezza nazionale, la frammentazione catalana e spagnola e, infine, uno sguardo sulle prospettive del “populismo” in Italia.

Quest’ultima e breve sintesi dei contenuti non è sicuramente sufficiente a render conto dei diversi testi e dei movimenti trattati, basti però soltanto concludere che la lettura di questo numero di “Liaisons” può essere davvero indispensabile per chi voglia seriamente porsi delle domande, non offuscate dalla retorica del “bel tempo che fu”, sulla realtà odierna del conflitto sociale diffuso e del suo possibile divenire.


  1. Lo stesso obiettivo condiviso da un testo collettaneo di prossima pubblicazione per Il Galeone editore: Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio (a cura di Sandro Moiso)  

  2. “Liaisons”, vol I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, Introduzione, pp.16 – 18  

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Il battito profondo dell’epoca https://www.carmillaonline.com/2020/02/10/il-battito-profondo-dellepoca/ Mon, 10 Feb 2020 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57599 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo? Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.

L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.

Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.

Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.

È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.

Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?

Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.

Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.

That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.

Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?

La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.

Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.


  1. Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search  

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Guerrevisioni. Cyber war: prossimamente su/da questi schermi https://www.carmillaonline.com/2019/09/05/guerrevisioni-cyber-war-prossimamente-su-da-questi-schermi/ Thu, 05 Sep 2019 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54515 di Gioacchino Toni

In precedenza, nell’ambito della serie “Guerrevisioni”, ci si è soffermati su come, per essere resa accettabile in età contemporanea, la guerra sia costantemente negata: espulsa dai media, spettacolarizzata, mascherata da intervento umanitario o di polizia, l’importante è che non se ne mostrino i cadaveri, così da non turbare l’anestetico televisivo somministrato in prima serata. Eppure, al di là delle sofisticate tecniche mimetiche adottate, la guerra contemporanea, invisibile e fantasmagorica al tempo stesso, è davvero pervasiva, tanto da estendersi alla cybersfera.

Alla guerra cibernetica Aldo Giannuli e Alessandro [...]]]> di Gioacchino Toni

In precedenza, nell’ambito della serie “Guerrevisioni”, ci si è soffermati su come, per essere resa accettabile in età contemporanea, la guerra sia costantemente negata: espulsa dai media, spettacolarizzata, mascherata da intervento umanitario o di polizia, l’importante è che non se ne mostrino i cadaveri, così da non turbare l’anestetico televisivo somministrato in prima serata. Eppure, al di là delle sofisticate tecniche mimetiche adottate, la guerra contemporanea, invisibile e fantasmagorica al tempo stesso, è davvero pervasiva, tanto da estendersi alla cybersfera.

Alla guerra cibernetica Aldo Giannuli e Alessandro Curioni hanno dedicato Cyber war. La guerra prossima ventura (Mimesis 2019), libro che si apre contestualizzando tale tipo di conflitto contemporaneo. Dopo i due conflitti mondiali novecenteschi, l’ordinamento basato sullo Stato moderno, così come era stato disegnato dalla Pace di Westfalia, ha dovuto fare i conti con la nascita di organismi a “sovranità condivisa” (Onu, Fondo Monetario, Banca Mondiale ecc.). Sul deteriorarsi dell’ordinamento westfalico di fronte all’assorbimento di potere (soprattutto economico) da parte di organismi sovranazionali hanno certamente inciso la fine dell’equilibrio bipolare e l’avvio del fenomeno della globalizzazione. Non si tratta però, sottolinea Giannuli, né della fine dello Stato nazione, né dell’esaurirsi della sovranità: agli stati nazionali è certamente stata sottratta una fetta di potere decisionale, ma la sovranità non è affatto venuta meno, ha soltanto subito una diversa distribuzione tra sfera nazionale e sfera sovranazionale. Se a livello nazionale la residua quota di sovranità si ammanta ancora, formalmente, delle tradizionali procedure democratiche, a livello sovranazionale è saltata anche la mediazione formale, visto che le decisioni vengono assunte da apparati tecnocratici.

Se nell’ordinamento westfalico, ricorda Giannuli, l’ambito spaziale di uno Stato, entro il quale questo esercita il suo ordinamento giuridico, si riferiva al suolo e al mare, ora le cose si fanno notevolmente più complesse. Se vi sono problematiche giurisdizionali relative alla gestione del sottosuolo, delle piattaforme e delle isole artificiali, dello spazio aereo – soprattutto extra atmosferico, ove viaggiano i satelliti –, figurarsi a livello di cybersfera, «cioè dei flussi di informazioni che, per loro natura, non hanno possibili confini. Intercettare le comunicazioni telefoniche o elettroniche di uno Stato costituisce una violazione della sua sovranità? Si pensi alla base di Echelon dei cinque paesi di lingua inglese oppure alla recente polemica sul colosso cinese di Huawei. Interferire nelle elezioni di un paese attraverso i social media è un attentato alla sovranità di quel paese? O, peggio ancora, compiere attacchi informatici sulle reti strategiche di un paese (centrali elettriche, telefoniche, ferroviarie, aeree ecc.) costituisce un atto di guerra?» (p. 13).

Anche rispetto al concetto di popolo, sostiene l’autore, le cose si sono fatte oggi decisamente più complesse. «La libertà di movimento dei capitali ha determinato la mobilità dei grandi capitali “senza bandiera” […] che vanno alla ricerca dell’“offerta fiscale più conveniente”. In queste condizioni il popolo diventa qualcosa di molto diverso dal passato, perché cede parte dei suoi lavoratori più qualificati e dei contribuenti più importanti, per acquisire masse di “nuovi metechi” che non hanno diritti politici e, ovviamente, questo determina un rapporto fra Stato e popolo ben diverso dal passato» (p. 14). Inoltre, «la globalizzazione ha minato la sovranità nazionale soprattutto nell’ambito fiscale e finanziario, ma ha prodotto nuove spinte che rafforzano la tendenza a costruire sistemi nazionali di interessi contrapposti agli altri sistemi nazionali e, nello stesso tempo, ha moltiplicato le ragioni del conflitto culturale producendo impennate identitarie assai nette» (p. 16).

Come vedremo successivamente a proposito degli scenari di cyber war, lo stesso concetto di potenza, che storicamente ha sempre avuto a che fare con la forza militare, dopo la Seconda guerra mondiale si è decisamente articolato. «Ne è derivato un sistema complesso con gerarchie di potere differenziate e instabili: gli Usa hanno sicuramente le maggiori forze armate del mondo, controllano la moneta di riferimento mondiale, sono ai massimi livelli tecnologici mondiali e controllano la parte maggiore del sistema satellitare, quindi le comunicazioni mondiali, ma il loro progetto di impero monopolare è fallito per il suo enorme debito aggregato, per le guerriglie mediorientali, per la pressione esercitata dalle crescenti spese militari degli altri. Così può accadere che scatenino una guerra commerciale, ma debbano poi fare i conti con il peso della Cina nella produzione di terre rare (oltre l’85% di quella mondiale), senza le quali crollerebbe la loro industria elettronica. Oppure può capitare che un paese abbastanza piccolo, poco popolato e militarmente non molto significativo, come il Qatar, eserciti un’influenza assai rilevante negli equilibri mediorientali e nell’andamento finanziario mondiale, grazie alla sua produzione di petrolio e gas» (p. 17).

Lo stesso processo di globalizzazione è stato osteggiato da più fronti. Lo studioso individua nell’insorgenza del radicalismo islamico il primo e più violento sintomo di rivolta contro la globalizzazione sviluppatosi lungo tre direttrici principali: le rivolte nei paesi occupati dagli Usa, la guerra civile interna al mondo islamico, che si è incrociata con le “primavere arabe” e il terrorismo stragista in Europa. Quasi contemporaneamente si è avuta una stagione, per quanto breve, di “populismo di sinistra” sudamericano dichiaratamente antistatunitense e di movimenti antiglobalizzazione europei e nordamericani. Infine, soprattutto in seguito alla crisi finanziaria del 2008, si sono sviluppati massicci movimenti populisti europei capaci di conquistare importanti rappresentanze nei parlamenti nazionali. «A differenza dell’ondata latino americana dei primi del secolo, questa seconda ha avuto caratteri prevalentemente di destra e si è poi estesa con questo segno anche a Brasile e India. Per certi versi anche l’elezione di Trump negli Usa va in senso analogo. È da notare come questi movimenti, pur con un marcato indirizzo nazionalista e populista, non sono certo antisistema, trattandosi di formazioni per nulla ostili all’ordinamento neoliberista. […] D’altro canto, questo è il prezzo della delegittimazione degli stati nazionali e della sottrazione della loro sovranità fiscale (e, per quel che riguarda l’Ue, anche monetaria)» (pp. 21-22).

Soltanto mezzo secolo fa, una simile situazione avrebbe probabilmente condotto a un conflitto bellico mondiale. Ai nostri giorni, però, «la guerra aperta è possibile solo in scenari periferici e a condizione che gli eserciti delle maggiori potenze non si confrontino direttamente sul campo; azioni di guerra possono essere condotte solo come guerra indiretta (attraverso il confronto fra soggetti minori protetti ciascuno da una grande potenza) oppure sotto forma di guerra coperta o, meglio ancora, catalitica [ove un soggetto scatena una guerra fra due suoi concorrenti, restando nell’ombra]; – l’uso di forme di guerra coperta deve accompagnarsi ad altre forme (più o meno coperte) di guerra non militare (destabilizzazione politica, guerra economica, sabotaggi, sanzioni ecc.) e deve avere una certa flessibilità, così da modularsi secondo le esigenze momento per momento» (pp. 29-30). È in tale contesto che la cyber war viene ad assumere centralità strategica sovvertendo però, per certi versi, le tradizionali gerarchie di potere.

Siamo così giunti a quello che viene definito Sharp Power (Potere tagliente) che, secondo Giannuli, rappresenta il logico sviluppo di quel soft power fondato sulle pratiche di seduzione e influenza culturale teorizzate dallo statunitense Joseph Nye negli anni Settanta. Lo Sharp Power si caratterizza come un sistema, non esclusivamente pacifico, finalizzato a: influenzare l’opinione pubblica (attraverso la propaganda e la manipolazione dell’informazione); penetrare nell’economa del paese agendo sul sistema di import/export e sui principali nodi logistici commerciali; incidere sulle scelte politiche dello stato in questione non esitano a ricorrere a pratiche ricattatorie. A guidare tale sistema di conflitto non possono che essere i servizi di Intelligence dei vari paesi.

«Dove l’Intelligence della seconda metà del Novecento era eminentemente ideologica, quella attuale si muove in una prospettiva eminentemente geopolitica e geoeconomica. Dove le strategie precedenti avevano al centro l’obiettivo del controllo territoriale fondato sul limes, quella attuale pensa in termini di reti di connessione. L’enorme raccolta di dati (i “big data”) impone tecniche di stockaggio, verifica, trattamento e analisi per i quali i servizi si sono dotati di sofisticati sistemi di algoritmi e, a volte, i risultati sono rivenduti a imprese industriali e finanziarie. Questa è una ricaduta di quella guerra senza limiti che abbiamo già iniziato e che presto porrà problemi drammatici soprattutto ai sistemi democratici e buona parte della battaglia si svolgerà proprio sul campo della cyber war» (p. 33).

Nella seconda parte del volume è Alessandro Curioni ad entrare nel merito delle caratteristiche della cyber war e lo fa partendo da un paio di attacchi informatici che hanno seminato il panico recentemente. L’11 maggio 2017, pare ad opera di ambienti legati al governo nordcoreano, viene scatenato WannaCry: un virus che ha fatto proprie le caratteristiche di un worm, cioè un malware capace di autopropagarsi, che può essere disattivato da una sorta di codice di emergenza, esattamente come avviene per un missile lanciato per errore. Quasi un mese dopo fa la sua comparsa NotPetya; in questo caso l’attacco sarebbe stato sferrato da un gruppo vicino ad ambienti russi che in passato hanno colpito con altri malware la rete elettrica ucraina.

Difficile dire se gli attacchi portati da WannaCry e NotPetya possono essere considerati veri e propri conflitti; resta il fatto che, in entrambi i casi, si ha avuto a che fare con organizzazioni “state sponsored” che hanno fatto ricorso ad armi informatiche di produzione militare. Se il primo caso resta più difficilmente inquadrabile, nel secondo ad essere coinvolti sono due paesi (Russia e Ucraina) in stato di ostilità, dunque, sostiene Curioni, si possono scorgere le caratteristiche di un’operazione bellica di nuovo tipo: lo spazio cibernetico sembra così aggiungersi ai tradizionali domini dei conflitti (terra, acqua, aria e spazio).

Non è facile definire i contorni della cyber war visto che i due termini sono a loro volta decisamente elastici e sfuggenti. Se il termine guerra viene oggi utilizzato per indicare forme di conflitto assai variegate, ancora più complicato è maneggiare il termine cyber, visto che viene utilizzato con una certa disinvoltura all’interno di neologismi dal significato tutt’altro che univoco.
Se da un lato con cyber ci si riferisce a sistemi in grado di riprodurre funzioni del cervello umano, capaci di autoregolarsi e sviluppare alti livelli di automazione di attività complesse, dall’altro si rimanda a quel cyberspace che William Gibson definisce come «allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legittimi… Una rappresentazione grafica dei dati estratti dalle memorie di ogni computer del sistema umano».

«Qualsiasi oggetto fisico o virtuale connesso alla rete e tutti quegli strumenti deputati a generare nuova conoscenza attraverso l’elaborazione autonoma e automatica dell’informazione. Questo potrebbe essere il dominio del “cyber”, che finirebbe per incorporare completamente l’informatica estendendosi poi verso l’Internet delle cose e quindi comprendendo i sistemi di oggetti il cui scopo primario è fornire altre funzionalità […]. Rispetto al tema più generale della società dell’informazione, invece, finirebbe per sovrapporsi soltanto in parte perché sarebbero escluse dal suo ambito le informazioni analogiche e su supporti fisici, ma si spingerebbe ad affrontare il tema della conoscenza che soltanto di recente viene delegata al “non umano”» (p. 44).

Se con information warfare si indica «l’ambito in cui si svolgono l’insieme delle attività volte a sfruttare a proprio vantaggio dati e informazioni, anche attraverso la loro manipolazione, al fine di condizionare e alterare i processi cognitivi», con cyber warfare si fa invece riferimento ad un ambito «in cui si sfruttano le tecnologie per danneggiare sistemi deputati a gestire la conoscenza e oggetti le cui funzionalità operano nel mondo reale» (p. 44). In un caso si hanno effetti indiretti, nell’altro diretti.

Nell’infowar si potrebbe individuare un’evoluzione delle strategie, dei metodi e degli obiettivi (depistare, destabilizzare, condizionare, avvantaggiarsi…) sviluppati della Guerra fredda. «Più il mondo reale viene infiltrato da quello virtuale, tanto più lo scontro nelle sue diverse forme si sposta anche oltre lo schermo» (p. 45), si pensi all’uso dei social network nella propaganda. Come accadeva in passato, sottolinea Curioni, anche in questo ambito si verificano “sconfinamenti”, atti di aperta ostilità verso obiettivi secondari: un tempo potevano essere l’invasione del Vietnam o della Cecoslovacchia da parte statunitense o sovietica, oggi il lancio da parte di Stati Uniti e Israele di malware per minare il programma nucleare iraniano.

Gli effetti del cyber warfare, sostiene lo studioso, sono invece più vicini alla “guerra calda” in quanto gli obbiettivi hanno maggiormente a che fare col mondo reale: «quando parliamo di cyber warfare stiamo guardando il nostro mondo allo specchio e scopriamo che un attacco in quello “spazio” può avere le stesse conseguenze terribilmente reali di un bombardamento, soltanto in modo molto più rapido e su una scala impensabile» (p. 46-47). Si sta qua parlando, ad esempio, dello sviluppo di malware in grado di azzerare l’operatività del nemico con quel che ne consegue in termini di perdite di vite umane.

Nelle guerre tradizionali, per raggiungere gli obbiettivi occorreva avere la meglio sull’esercito nemico annientandone le capacità operative, dunque occorreva innanzitutto colpire le installazioni militari e le annesse strutture di supporto per poi prendere possesso del territorio concentrandosi soprattutto sulle infrastrutture chiave. Nell’ambito cibernetico le cose cambiano; non si tratta più di attaccare il nemico sulla linea di massima resistenza. Nei conflitti tradizionali un esercito è preparato a subire un attacco nei punti strategici , nell’ambito cibernetico invece le reti militari tendono a non prestare il fianco su quelle pubbliche. Nel conflitto cibernetico non si tratta più di azzerare la capacità bellica del nemico ma di colpire le infrastrutture chiave in molti casi gestite da organizzazioni civili e private come i sistemi di trasporto, le forniture idriche ecc. Disattivare la fornitura elettrica, ad esempio, significa mandare in tilt un paese moderno.

In una situazione di guerra cibernetica l’attacco finirebbe per avere di fronte non un esercito speculare ma quelle strutture civili che si occupano dell’erogazione di servizi essenziali. L’asimmetria risulta evidente. Non è però necessaria la potenza di uno stato per arrecare seri danni ad un altro: anche un gruppo ristretto di persone dotate di buona preparazione tecnica e strumenti reperibili facilmente in internet, potrebbe attaccare un paese infliggendogli gravi danni. A questo punto, sottolinea Curioni, il concetto di “superpotenza”, se applicato ad uno stato, può dirsi superato. Attualmente gli attori statali con maggiori capacità in ambito cyber risultano essere Russia, Cina, Corea del Nord e Iran ma la natura asimmetrica della guerra cyber war consente potenzialmente a chiunque di scatenare il conflitto.

Una superpotenza cibernetica per dirsi tale deve poter avere ampio accesso alla rete esercitando un certo controllo dei flussi di dati. «A questo si dovrebbero combinare competenze tecniche di altissimo livello e un’avanzata capacità di analisi delle informazioni. Decisamente utile sarebbe il controllo diretto su una grande massa di quelle stesse informazioni, per privarne il nemico al momento dell’attacco e sfruttarle per pianificare al meglio il momento opportuno in cui colpire. Rappresenterebbe un vantaggio strategico avere punti di accesso diretti a un certo numero di strumenti utilizzati dai nemici. Molto importante, soprattutto rispetto a eventuali contrattacchi, la delocalizzazione delle risorse e un’elevata resilienza dei propri sistemi» (p. 51).

«Google probabilmente è la nuova e più autentica espressione del concetto di superpotenza applicabile alla cyber warfare. Attraverso il suo motore di ricerca gestisce oltre 100 miliardi di ricerche al mese e viene utilizzato da oltre un miliardo di utenti, avendo di fatto il controllo della maggior parte del traffico web grazie anche all’indicizzazione sui suoi sistemi di 60 trilioni di pagine. La qualificazione della sua forza lavoro è tra le più elevate del mondo e i suoi sistemi di analytics tra i più avanzati. Gestisce le caselle di posta elettronica e i relativi contenuti di un miliardo di persone. Attraverso il sistema operativo Android è presente sull’85% degli smartphone, il suo browser Chrome è utilizzato da oltre 750 milioni di utenti, oltre la metà dei possessori di uno smartphone sfrutta Google Maps per i suoi spostamenti. Conta, infine, ben 15 centri elaborazione dati sparsi in tutto il mondo. Basterebbero queste cifre per comprende come nella realtà del cyberspazio non esista una “forza” comparabile. Alla grande “G” si aggiungono Microsoft, Apple e Amazon» (p. 51) e le più importanti aziende fornitrici di tecnologie infrastrutturali per le telecomunicazioni: Huawei, Cisco, Zte, Ericsson e Nokia, che controllano il 75% del mercato. «La loro importanza strategica è connessa all’avvento della rete mobile 5g che, se manterrà le sue promesse in termini di ampiezza di banda e bassi tempi di latenza, soppianterà tutte le altre modalità di connessione. Non è un caso che proprio su questo terreno si sia acceso uno scontro commerciale violentissimo tra Washington e Pechino» (p. 51). Un ruolo importante nel contesto della guerra cibernetica è detenuto anche dai maggiori produttori di microprocessori: Intel e AMD (per pc e server) e Qualcomm, Apple, MediaTek, Samsung e Huaweimentre (per smartphone).

Dopo aver passato in rassegna l’ambito delle vulnerabilità (intrinseche, situazionali, tecnologiche e umane) e le caratteristiche delle armi della guerra cibernetica (autonomia, aggressività, latenza e persistenza), lo studioso affronta il campo di battaglia in cui si dispiega (il mondo IoT e quello degli algoritmi intelligenti) e le difficoltà nella raccolta di prove che consentano di identificare con certezza l’autore dell’attacco cibernetico.

Il volume si sofferma anche sul fatto che in una cyber war sembrerebbe scomparire il fronte. «Al momento dell’inizio delle ostilità l’attacco apparirà “dall’interno verso l’esterno”. Il nemico sarà silenziosamente penetrato nel corso di mesi o anni nei suoi obiettivi e, dipendentemente dal suo intento di distruggerli o conquistarli, si comporterà diversamente. Le armi infiltrate quindi saranno programmate per danneggiare fisicamente alcuni obiettivi, forse la rete elettrica con i conseguenti inevitabili black-out. In alternativa esse potrebbero aprire dei canali di accesso per consentire agli operatori di prendere il controllo del bersaglio e questo sarebbe utile nel caso di un sistema aeroportuale in modo da trasformare gli aerei in volo in armi cinetiche. In realtà il momento in cui il conflitto manifesta i suoi effetti non è altro che la conclusione di una serie di operazioni cyber effettuate in precedenza» (p. 74).

Resta difficile, secondo l’autore, ipotizzare una guerra combattuta esclusivamente nell’ambito dello spazio cibernetico per vari motivi; ad oggi lo stato di penetrazione delle tecnologie dell’informazione e l’interconnessione dei diversi sistemi non consentono una vittoria definitiva sul nemico. La debolezza della rete funziona da deterrente allo scatenamento di una guerra su vasta scala in quanto essendo internet stato concepito come sistema di conservazione e condivisione delle informazioni, chi dovesse lanciare un’offensiva massiccia ricorrendo ad armi automatiche e autonome rischierebbe seriamente di restarne esso stessa vittima non potendo contare su un totale isolamento dei propri sistemi. Resta, inoltre, il problema del “livello accettabile di perdite” in un conflitto di tale tipo.

Probabilmente, conclude Curioni, la guerra cibernetica continuerà ancora per qualche tempo a mantenersi “fredda”; per “scaldarsi” occorrerebbe una «stretta interconnessione dei sistemi e del mondo IoT, combinata con una sempre maggiore delega della gestione di infrastrutture a intelligenze artificiali più o meno deboli, allora si potrebbe immaginare di paralizzare completamente un paese» (p. 94). Ma anche in questo caso, si chiede lo studioso: «la paralisi sarebbe sufficiente al conseguimento della vittoria? Perché in caso contrario non ci sarebbe alcuna ragione per scatenare questo tipo di guerra» (p. 94).

Da un certo punto di vista i paesi più vulnerabili a cyber war sono proprio i paesi tecnologicamente e militarmente più evoluti, mentre tale tipo di conflitto potrebbe rappresentare l’unica possibilità, ed anche relativamente a buon mercato, per quelle forze che non possono competere col nemico in una guerra convenzionale. Il malware Exodus capace di infiltrarsi negli smartphone e prenderne il controllo di cui si sono dotate le forze di polizia italiane è stato pagato poco più di 300 mila euro; se si rapporta il costo di un’arma di questo tipo con il costo di un singolo missile Cruise, che si aggira tra i 700 mila e il milione di dollari, risulta evidente quanto gli armamenti cyber siano alla portata di organizzazioni anche modeste che però si trovano in grado, per esempio, di bloccare, più o meno in maniera prolungata, il traffico aereo o l’energia elettrica a di una metropoli, se non di un intero stato.

«Appare evidente che per centinaia di organizzazioni statali e non l’investimento in una forza combattente esclusivamente cyber rappresenterà qualcosa di più di un’opzione e probabilmente sarà l’unica strategia perseguibile rispetto a paesi “militarmente dotati”. In un prossimo futuro il concetto stesso di superpotenza potrebbe diventare un mero retaggio del passato e il concetto di deterrenza sarà completamente stravolto; ma soprattutto la rete, dopo averci reso tutti più liberi, manterrà un’altra grande promessa: quella di renderci tutti, ma proprio tutti, uguali» (p. 95).


Serie completa “Guerrevisioni

 

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Terre di mezzo https://www.carmillaonline.com/2018/02/08/terre-di-mezzo/ Wed, 07 Feb 2018 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43275 di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, [...]]]> di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, nel corso delle tre giornate della “Montagna di libri nella valle che resiste”, i rappresentanti di vari movimenti antagonisti nei confronti dello stato di cose presenti avevano cercato di fare un primo punto tra le loro diverse e spesso lontane esperienze.

Proprio in quell’occasione fu presentato, nella sua edizione francese, il testo di cui qui di seguito si parlerà e che affonda le sue radici nelle comuni e allo stesso tempo differenti esperienze che la storia delle battaglie del movimento NoTav e dei compagni della ZAD (attualmente vincitori nei confronti dello Stato francese dopo la dichiarazione di rinuncia al progetto di costruzione del secondo aeroporto di Nantes rilasciata a metà gennaio dal presidente Macron) hanno portato avanti negli anni. L’edizione attuale rende disponibile per il pubblico di lingua italiana la storia incrociata di due esperienze che possono un po’ fungere da simbolo e da modello (si pensi anche solo a come si va estendendo e organizzando la battaglia del movimento NoTap su scala nazionale) per le lotte a venire e la presa di distanza dal modello novecentesco che fu al centro di uno dei dibattiti svoltisi in quegli stessi giorni, in cui si era parlato della morte del ‘900 e delle sue ideologie.

Non ho timore ad affermarlo: si tratta sicuramente del lavoro migliore sin qui realizzato sull’esperienza NoTav e sulla parallela esperienza della ZAD. Sono infatti alcuni militanti della ZAD, riuniti nel collettivo Mauvaise Troupe, a raccogliere le voci degli altri militanti e a dare voce anche a quelli della battaglia NoTav. Un contatto diretto tra realtà di lotta parallele e molto simili nelle finalità e nelle modalità di conduzione della lotta. Non è necessaria una mediazione di qualsiasi tipo (culturale, sociologica, antropologica o altro). Le due realtà si parlano e si narrano con naturalezza. Si confrontano. Definiscono obiettivi. Mantengono e difendono le proprie specificità.
Questo è il tipo di dialogo e di ricerca che può servire alle lotte di oggi e di domani. Non sono le ideologie a parlarsi e a confrontarsi: sono le persone, i fatti e le scelte che ne derivano. Una sorta di assemblea popolare a distanza in cui il lettore è immerso, mentre al contempo può ripercorrere le vicende pluridecennali che stanno ormai alla base, più che alle spalle, delle due lotte.

Lotte che prima di tutto si definiscono sul territorio dove si svolgono e che dal territorio sono determinate: il bocage1 per i francesi oppure la montagna per i valsusini. Territori che portano in sé i segni del rapporto con l’Uomo, ma che a loro volta hanno fortemente segnato il tipo di comunità che li abita. In cui, non bisogna ignorarlo, sia in un caso che nell’altro il senso di comunanza e di appartenenza deriva anche da una forte capacità di azione autonoma, individuale e collettiva, alla base della quale stanno (soprattutto nel caso francese) le forme dei rapporti di proprietà e di lavoro e i conflitti che ne derivano.

Territori segnati non soltanto dalla storia recente, ma anche da quella passata. In cui l’autonomia delle comunità (soprattutto quelle alpine ed occitane) ha caratterizzato le vicende locali anche nei rapporti con i regni, gli stati e gli invasori che di volta in volta hanno cercato di sottometterle alle loro leggi ed ai loro interessi. Territori e comunità in cui la storia di lunga durata incrocia quella degli eventi più vicini a noi. Tutto sommato ancora oggi, ma senza la retorica, la pompa magna e le narrazioni farlocche che invece spesso caratterizzano i nazionalismi statali, finalizzati esclusivamente a giustificare lo sviluppo economico. A qualsiasi costo e come tale definito “progresso”e coincidente di volta in volta con la cementificazione e la distruzione del territorio e dell’ambiente, con la costruzione di un nuovo aeroporto o di una linea ferroviaria ad alta velocità, magari là dove i lavoratori pendolari sono costretti ad ammassarsi e a morire su treni e lungo linee inadeguate e sempre meno soggette ad una efficace manutenzione.

Per chi non lo sapesse, come chiariscono, gli autori e i curatori:

“«ZAD» è una «Zone d’Aménagement Différé» (Zona di sistemazione differita), un dispositivo amministrativo che fornisce a enti locali o a imprese pubbliche il diritto di prelazione sui terreni in vendita in una determinata zona. L’acronimo è stato detournato da parte degli oppositori dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in «Zone a défendre» (Zona da difendere). La sigla è ormai entrata nell’uso comune e viene utilizzata anche d aaltre lotte in difesa di territori minacciati.”

Una resistenza che affonda le sue radici fin nei tardi sessanta e nell’esperienza del movimento Paysans Travailleurs, che raccolse l’esperienza della convergenza tra operai e lavoratori della Loira Atlantica nel periodo attorno al Maggio del 1968 e portò un turbamento rivoluzionario nel conservatorismo locale.

“Da questa esperienza nascerà poi la Confédération paysanne. In un mondo di contadini senza terra e di mezzadri, l’accesso alla terra e la priorità da dare all’uso rispetto alla proprietà privata sono motivi di duro contrasto. I mezzi dell’azione sono all’altezza delle ambizioni: occupazione di campi e cascine, blocchi di strade e ferrovie… Questi conflitti, con le loro impennate, segnano profondamente la città di Notre-Dame-des-Landes e alimentano questa fase di resistenza all’aeroporto, come dimostra il fatto che le terre della ZAD continuano ad essere coltivate.” (pag. 37)

L’ADECA (Associazione di difesa dei coltivatori interessati dall’aeroporto) nasce nel 1972, a partire da una frattura tra i locali sindacati contadini e la Camera dell’agricoltura, impegnatasi a promuovere l’aeroporto a braccetto con la prefettura. Cui sono seguiti 46 anni di lotte che nel gennaio di quest’anno, come si è detto più sopra, sono giunte ad una, forse, definitiva vittoria.
Ma qui più ancora della storia e della ricostruzione di quelle vicende, che un autentico coro di voci narra fin nei dettagli nel libro, ciò che forse è ancora più importante riconoscere in quell’esperienza, così come in quella del Movimento NoTav della Val di Susa, sono le forme di aggregazione e di organizzazione immediata e dal basso che gli hanno dato le gambe su cui marciare. Un’autentica democrazia diretta che ha finito col costituire anche una nuova forma di organizzazione socio-politica e un modello di vita più umano e in maggior sintonia con l’ambiente circostante.

E’ a questo punto che non posso fare a meno di ricordare una frase spesso ripetuta da un mio caro amico che, da anni, va affermando che “gli hippy erano avanti di 500 anni rispetto ai bordighisti”. Si badi bene, tale affermazione non va intesa in spregio di Amadeo Bordiga, ma delle sette e delle conventicole para-comuniste che da quella esperienza sono, troppo spesso, disgraziatamente sorte. Non per amore di altre sette, -ismi o partitini e partitucoli, ma proprio come rifiuto di tutta la pomposità, la seriosità, il leaderismo e gli errori, a volte comici e troppe altre tragici, che hanno accompagnato nel tempo il tentativo di rinnovare l’esperienza bolscevica scimmiottandone atteggiamenti, metodi organizzativi e parole d’ordine e ottenendo, come unico risultato, quello di dividere i movimenti reali in base a presunte ed inutili carte di identità politica.

Tali pretese identitarie, che si ponevano subito al di fuori dei movimenti con la pretesa di porsi però come forze dirigenti degli stessi, hanno fatto poi sì che quelle lotte (economiche, sociali, ambientali, di genere e tutte le altre ancora sorte a partire dal secondo dopoguerra e dalla fine degli anni sessanta in particolare) fossero spesso risospinte ancora una volta all’interno di quei recinti da cui erano appena fuggite. Lo Stato nazionale continuava ad essere il riferimento reale di ogni trattativa oppure di ogni processo insurrezionale. Si cercava “il cuore” di una macchina spietata e priva di cuore alcuno. Occorreva colpire la macchina per poi riappropriarsene e ricostruirla o, molto più spesso, si cercava di modificarla con riforme proposte dal basso (quanto in basso? mi viene oggi da chiedermi).

Oppure la si difendeva, tout-cour, dalle trame fasciste, golpiste, eversive di destra per salvane, almeno, lo statuto democratico, facendo così di una Costituzione ampiamente compromissoria un modello ineguagliabile di diritto e di democrazia. L’autonomia dell’azione di classe finiva con lo stemperarsi in un oceano di ricette, enunciati e affermazioni troppo spesso apodittiche e auto-referenziali. Trasformando spesso le assemblee in parlamentini da cui l’unica voce assente era proprio, come nei parlamenti reali, quella di chi dava alle lotte le gambe sulle quali camminare.

Il Partito di classe che nella prima parte del ‘900 aveva costituito un punto d’arrivo per unificare una classe operaia concentrata in grandi agglomerati industriali e in vasti stabilimenti dall’organizzazione tayloristica che si era espansa da Detroit a Pietroburgo passando poi agli stabilimenti torinesi di Mirafiori, era anche il prodotto di un immaginario politico di cui l’organizzazione di fabbrica, con la separazione delle mansioni e tra progettazione e produzione, aveva svolto un ruolo fondamentale. E’ difficile credere che il Partito immaginato da Marx corrispondesse esattamente a quello teorizzato da Lenin o, ancor peggio, dal successivo marxismo-leninismo.

In una sorta di interpretazione lamarckiana dell’evolversi dei conflitti di classe e della loro organizzazione, il partito programma della Prima Internazionale si era trasformato nel Partito macchina, apparentemente buono per ogni uso come un tornio o una fresa o la linea di montaggio, con cui raggiungere una determinata capacità produttiva “rivoluzionaria” . Lotte, esperienze reali, auto-organizzazione dovevano essere revisionate alla luce dello scopo produttivo e rimodellate come materie prime alle quali i “lavoratori” attraverso il loro strumento avrebbero dato la “giusta forma”.

Guardiamolo bene quel Partito: gli addetti alla progettazione sviluppavano e delineavano il progetto, gli operai lo mettevano in esecuzione usando gli strumenti consigliati e messi a disposizione dalla Direzione per poi ottenere il risultato voluto. Che poi il risultato sia stato spesso, e soprattutto a partire dagli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica, deludente, ridimensionato o addirittura rovesciato rispetto alle aspettative sembrava non importare. L’importante era lo sforzo collettivo, il sacrificio individuale, lo stakanovismo politico del volantinaggio o dell’azione ad ogni costo. In cui a trionfare è sempre l’aurea mediocritas, madre di ogni burocratizzazione istituzionale e sociale: la regola dell’adattamento alla norma e all’esistente anche quando si finge di volerlo cambiare. Dai burocrati dei partiti nati dalla bolscevizzazione staliniana ad Adolf Eichmann, tanto per essere chiari e come ebbe a ricordare forse la più grande interprete della politica del ‘900: Hannah Arendt.

Per troppo tempo l’immaginario e il politico sono stati considerati come campi separati del sapere e dell’operare umano, mentre in realtà il “politico” è soltanto uno dei territori dell’immaginario. Con questa affermazione non intendo affatto ritornare all’idealismo o all’affermazione del primato della mente e dell’idea sulle condizioni materiali. Piuttosto vorrei ribadire con più forza che l’immaginario non può esistere senza affondare profondamente le proprie radici nella concreta realtà materiale di cui è una delle espressioni. Non ci è possibile immaginare nulla che già non esista o senza partire dall’interpretazione dei segnali che il mondo circostante già ci invia.

Proprio per questo ogni atto politico e ogni sua teorizzazione è frutto di una interpretazione dei segnali che la società umana ci trasmette e degli scopi possibili che la specie, e le classi in cui è ancora divisa, prova a perseguire. Sappiamo bene che l’immaginario culturale, politico, economico e morale è, generalmente, dominato dalla visione che le classi dominanti intendono trasmettere alle classi spossessate della facoltà di decidere ed organizzare la struttura socio-economica, ma proprio per questo diventa importante slegare la coscienza e la conoscenza delle classi sfruttate da quella prodotta da quelle al potere.

E’ un vecchio problema del movimento operaio e dell’antagonismo di classe quello di combattere la falsa coscienza, disvelandone contenuti, metodi e finalità. Ma troppo spesso tale riflessione e azione critica si è fermata alla superficie della rappresentazione del mondo, non andando ad incidere sulla produzione reale del mondo e dei rapporti sociali che lo fondano. Occorre abbandonare l’idea di una battaglia teorica destinata a scardinare il pensiero borghese in attesa di una successiva (post-mortem?) trasformazione della società a seguito di un suo miglioramento riformistico o rivoluzionario. E non basta nemmeno detournarne i simboli e le immagini come suggerirono a loro tempo i situazionisti: oggi la pubblicità lo fa quotidianamente, facendo perdere al détournement gran parte del vantaggio precedentemente acquisito.

Tale linea di condotta ha contribuito, involontariamente (forse), al mantenimento e al rafforzamento degli attuali rapporti di produzione, poiché dandoli per scontati e inevitabili, fino ad un radioso futuro, è servita a mantenere e rafforzare le basi materiali delle ideologie dominanti. L’accettazione dei rapporti attuali implica l’accettazione, per quanto critica, sia della legge del valore che dell’estorsione del plusvalore dal corpo vivente della manodopera. Da qui, anche, le teorie del socialismo in un paese solo e della possibilità, discussa negli anni venti, di un’accumulazione socialista. In attesa del radioso avvenire, secondo questa interpretazione, ciò che occorre è cambiare la direzione della macchina, non la macchina stessa. Il prima citato Bordiga fu forse l’unico a intuire la contraddizione interna, non soltanto teorica, a tale formulazione dello sviluppo sociale in divenire ma anche lui continuò a crogiolarsi nell’idea del Partito salva tutto.

Gli hippy, ma insieme a loro parecchi comunitaristi che già li avevano preceduti nel corso del ‘900 e dell’Ottocento, forzarono la mano in questo senso: la società andava cambiata qui, ora e subito. Le comuni, il rifiuto del lavoro salariato e dello sfruttamento, uno stile di vita alternativo basato più sulla lentezza e l’ozio che non sulla produttività e l’assillante ricerca del guadagno andavano a rompere la rappresentazione che la società faceva di se stessa e delle sue leggi “necessarie”. La domanda posta era molto semplice: fino a quando?2

L’immaginario diventa allora il luogo privilegiato in cui i segnali, variamente interpretati dalla mente individuale o collettiva, vengono tradotti in simboli, destinati a costituire la base di ogni discorso (politico, filosofico, scientifico, letterario, culturale, religioso o altro ancora che sia). Cambiarlo, cambiarne i segni e i simboli significa rovesciare non solo l’ordine del discorso, ma le sue leggi, i suoi presupposti, il significato generale della narrazione costruita intorno ad esso. Infine, rovesciare o modificare radicalmente i termini del discorso è l’unico strumento che permette di giungere alla formulazione di un nuovo paradigma, necessario per definire nuovi campi della conoscenza e dell’azione umana.3

Condividerne i significati simbolici diventa allora un modo per condividere la necessità del cambiamento e del rovesciamento che già si presenta nell’agire della comunità umana, agitandone i sogni e i desideri, contribuendo a definirne nuove finalità ed obiettivi; mentre la condivisione dei simboli legati all’ordine socio-economico e culturale dato finisce col contribuire a mantenere in vita ciò che, potenzialmente, è già morto.

Sì, perché fino a quando si è convinti di vivere in un regime di necessità non si riesce ad interpretare i segnali, prodotti dalla storia reale e dalla società materiale, che ci indicano che questo stato di “necessità” è soltanto uno dei possibili scenari. La commedia funziona fino a quando non solo il regista e gli sceneggiatori ne tengono in mano il copione, ma anche e soprattutto perché tutti gli attori e tutte le comparse si impegnano a recitarla bene. A renderla convincente. Se a stonare o a recitare le battute sbagliate è solo uno o sono poche comparse è chiaro che sarà comodo per chi si occupa di casting sostituirli.

E poi si sa, gli attori si affezionano ai loro personaggi, si identificano e credono in loro. Basti citare il povero Bela Lugosi che, dopo aver recitato decine di film in cui interpretava Dracula o altri vampiri, finì col vivere gli ultimi anni credendosi un figlio della notte e dormendo in una bara.

Tornando al libro, posso dire che non è qui possibile, e tanto meno utile, ripercorrere per filo e per segno le vicende parallele delle due lotte, anche per non togliere il piacere e la sorpresa al lettore di ritrovarle nella narrazione viva e trascinante delle voci dei militanti, francesi ed italiani, interpellati e che nessuna ulteriore penna o mestierantismo della scrittura può narrare o sintetizzare meglio.

Rispetto all’edizione francese del 2016 il lavoro della “Cattiva compagnia” tradotto in italiano non presenta la cronologia delle due lotte, l’elenco dei personaggi citati e l’indice analitico finale, probabilmente per non appesantire un testo gia di per sé piuttosto corposo, ma costituisce un testo che potrebbe diventare di riferimento non solo per chi volesse conoscere di più sulle due lotte ma anche per coloro che vogliono liberarsi dai canoni novecenteschi di un agire politico che è più politicantismo che non azione/riflessione di classe per affrontare più efficacemente, e a partire dall’immediato, i compiti futuri legati al superamento del modo di produzione attuale e di una società divisa in classi.

Sorge a questo punto il sospetto che l’accanimento repressivo contro le due comunità messo in atto dagli Stati e dai loro apparati polizieschi4 non siano tanto dovuto al fatto di essersi opposte alla realizzazione di due delle grandi opere inutili cui il capitalismo attuale ci ha abituati in ogni periodo di crisi degli investimenti, ma proprio per la capacità che entrambe le lotte hanno saputo dimostrare in termini di critica e riorganizzazione dell’esistente e, soprattutto, per aver saputo ridisegnare l’immaginario delle classi e degli strati sociali in lotta. Rifuggendo da qualsiasi richiamo al modello di sviluppo dato così per scontato dai media, dai governi e, troppo spesso, anche dalle classi subalterne.

Ecco che allora anche il termine popoli, che compare all’interno dei ragionamenti del libro e dei due movimenti, assume un valore e un significato totalmente diverso da quel “popolo” che oggi, scusate il gioco di parole, spopola tanto a destra che a sinistra. Nel secondo caso il concetto si basa sempre su una base sostanzialmente etnica, linguistica e nazionale (quindi statale) oltre che interclassista ed esclusivista, mentre nel primo caso il concetto serve ad definire coloro che lottano insieme per un obiettivo che travalica i limiti della territorialità per porsi come strumento di liberazione individuale e collettivo allo stesso tempo. Termine che diventa inclusivo così come lo sono diventate le due comunità nei confronti di tutti coloro che le hanno affiancate nella lotta, ne hanno chiesto l’aiuto oppure le hanno raggiunte nella comune convivenza.

Un modello di inclusione attraverso la condivisione di obiettivi e il coinvolgimento in battaglie comuni che non può non rimandare anche all’esperimento comunalistico del Rojava che, a sua volta, ha spesso ricevuto l’appoggio delle due realtà di cui si è fin qui parlato.
Al lettore ora il compito di leggere, sfogliare, trarre ispirazione dalle pagine del libro e dal corredo di fotografie e mappe che lo accompagnano.

Non ho mai amato molto Tolkien e Il signore degli anelli, ma il concetto di terra di mezzo mi sembra adattissimo a definire l’esperienza di un mondo che non è più e, allo stesso tempo, ancora non è. Forse gli hippy e i compagni delle lotte passate più radicali hanno vissuto negli stessi territori dell’immaginario e del reale. Ora, insieme ai compagni della ZAD e del NoTav, tocca noi: A sarà düra, ma vinceremo!


  1. Termine intraducibile in italiano che serve a definire una particolare conformazione territoriale costituita da piccoli campi ed appezzamenti divisi da siepi di confine che nella zona di Notre-Dame-des-Landes è sopravvissuta al dilagare della monocultura  

  2. Per comprendere a fondo lo spirito che animò le iniziative comunitarie degli anni sessanta e settanta, al posto dei soliti film o documentari e testi “alternativi”, consiglio la visione del documentario Valley Uprising di Peter Mortimer e Nick Rosen (2014), oggi disponibile in edizione italiana, con lo stesso titolo, in dvd nella collana Il grande alpinismo come quarta uscita della serie. Si tratta di una ricostruzione attenta delle innovazioni portate nell’alpinismo tradizionale dalle tecniche di arrampicata sviluppatesi in California, nella Yosemite Valley, a partire dagli anni ’50, in cui la costante ricerca della fuga dalla legge di caduta dei gravi, perseguita dai climber americani del celebre Camp 4, costituisce una magnifica metafora della liberazione della specie umana dalle catene del lavoro, della famiglia e dello Stato.  

  3. Valga per tutti la rivoluzione apportata nel pensiero e nella ricerca umana dalla formulazione galileiana, contenuta nel Saggiatore, in cui afferma “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’ universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto“. Ponendo di fatto le basi, nel 1623, del moderno paradigma scientifico.  

  4. Basti pensare al fatto che il presidente Macron, nello stesso momento in cui ha dovuto prendere atto della sconfitta del progetto di nuovo aeroporto,ha ventilato la minaccia di voler comunque espellere gli occupanti dalle terre della ZAD.  

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NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

Pagina NarcoGuerra: QUI – Scarica PDF Indice + Intro + Prologo del libro: QUI

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