poliziesco – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elegia cupa https://www.carmillaonline.com/2024/06/14/elegia-cupa/ Fri, 14 Jun 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82997 di Emanuela Cocco

Orso Tosco, L’ultimo Pinguino delle Langhe, pp. 269, € 17, Rizzoli, Milano 2024.

elegia

cupa calligrafia

dazio

duro strazio

Ero curiosissima di vedere come Orso Tosco avrebbe messo le mani in una storia a vocazione classica, investigativa, con il ricercatore che insegue le tracce del male, con il cattivo, la vittima, il corpo di polizia, la vita che si mette di mezzo, le piste ingannevoli attorno al delitto, le linee di racconto che proprio quando sembrano divagare ti stanno portando più vicino alla verità. Proprio il concetto di verità e di destino sono a volte traditi, a volte [...]]]> di Emanuela Cocco

Orso Tosco, L’ultimo Pinguino delle Langhe, pp. 269, € 17, Rizzoli, Milano 2024.

elegia

cupa calligrafia

dazio

duro strazio

Ero curiosissima di vedere come Orso Tosco avrebbe messo le mani in una storia a vocazione classica, investigativa, con il ricercatore che insegue le tracce del male, con il cattivo, la vittima, il corpo di polizia, la vita che si mette di mezzo, le piste ingannevoli attorno al delitto, le linee di racconto che proprio quando sembrano divagare ti stanno portando più vicino alla verità. Proprio il concetto di verità e di destino sono a volte traditi, a volte corteggiati, dai romanzi che hanno al centro un mistero da risolvere. In alcuni di questi romanzi  la tentazione di dividere il mondo in buoni e cattivi, di cercare un ritratto della verità che sia, alla fine, riconciliazione e pace e restaurazione dell’equilibrio, prende il sopravvento e si arriva così a una narrazione inautentica, a volte imbarazzante per il semplicismo con il quale si affrontano grandi temi quali la vita, la morte, la perdita delle illusioni. Nella vita, invece, e nei romanzi che accolgono le domande di una storia di detection classica senza servilismo, la verità non porta la pace, e l’equilibrio è impossibile.

Anche i lunedì speciali, quelli capaci di cambiare il corso di un’intera esistenza, iniziano come un giorno qualsiasi. Questo è ciò che rende la vita meravigliosa e al contempo terrificante.

Così è nei romanzi di Giorgio Scerbanenco, così in questo romanzo di Orso Tosco, nel quale conosciamo il Pinguino, un investigatore che insegue la verità senza coltivare per la sua persona alcuna speranza di redenzione. Quella di Orso Tosco è un’elegia cupa venata da una fatale tenerezza, una storia scritta con una prosa attenta alle immagini, ai suoni delle frasi che accompagnano rivelazioni e domande esistenziali sulla vita, l’amore, la violenza, ben mascherate dentro un congegno di narrazione detection piuttosto classico. La felicità è impossibile e forse anche il suo sogno. La storia personale del protagonista è rotta, spezzata, messa in pausa dalle aggressioni di chi ha attentato alla vita della donna che ama, lui stesso è intrappolato in un corpo non amabile, in una mancanza di ordine che gli fa intravedere le cose sotto forma di enigmatici ritornelli, o di visioni.

affumicatoio

nodo scorsoio

morta ammazzata

plastica galvanizzata

Intorno, oltre la morte, oltre i corpi squarciati sui quali qualcuno ha infierito, avanza la commedia umana di personaggi ridicoli, a tratti spaventosi nella loro mediocrità e una famiglia, il team investigativo, imperfetta, a volte deludente e risibile, ma che lo sostiene, il tutto è sostenuto da un intreccio che  porta il protagonista a vagare nella più varia umanità, gente sporca, sleale, che ha completamente rinunciato alla bellezza. Tutto questo, però, è immerso nel paesaggio delle colline delle Langhe, dove il Pinguino, accompagnato dalla bassotta Gilda, la dolce Gildina che sola riesce a mantenere in lui una dimensione fanciullesca e tenera, l’impronta vivida di una dolcezza andata per sempre perduta, a volte, per alcuni istanti, dimentica la morte e la sopraffazione, dimentica i corpi abusati, feriti, privati della vita, che sono il suo impegno quotidiano. La vita è altrove, la vita e le speranze sono andate, niente si ricompone, mai, sembra dire Orso Tosco. La morte suona come un film nero degli anni ’70 la sua nenia macabra, ma, nello spazio di un romanzo, possiamo ancora fingere che ci sia la possibilità di giocare a dare la caccia ai fantasmi.

 

In mezzo alla morte, alla violenza, al male, sempre più banale e mediocre nella sua spietatezza, resta il tempo per uno scherzo, una carezza, l’impronta di memoria di quello che è stato essere umani, amici, fratelli, di quello che poteva essere e che a volte, con i suoi strani giri di pensiero, con le sue battute, con i pranzi e le bevute, il Pinguino cerca di ricordare. Io spero che sempre di più scrittori veri, come lo è sicuramente Orso Tosco, si mettano a sperimentare questo tipo di storie accettando la sfida di dare al lettore quello che si aspetta, e che avrà, la storia sempre vecchia eppure nuova di un delitto e di una ricerca intorno ai fatti, senza però rinunciare a mettere la propria firma sulla storia. Un romanzo giallo, un ricercatore classico reinventato da un autore di oggi, una messa in scena illuminata da trovate personali, una trama densa di intrecci e implicazioni con il presente, una tregua nel paesaggio e nella bellezza ritratta un attimo prima di essere violata, un uomo in esilio che vale la pena di incontrare.

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The Innocence of Simon Iff (Victoriana 44) https://www.carmillaonline.com/2023/10/18/the-innocence-of-simon-iff-victoriana-44/ Wed, 18 Oct 2023 07:12:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79485 di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Le indagini di Simon Iff, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, traduzione di Francesco Vitellini, pp. 224, Arcoiris, Salerno 2023.

(Nella collana La biblioteca di Lovecraft delle edizioni Arcoiris è uscita in anteprima a Stranimondi la prima traduzione italiana di questa interessante, originale e maliziosa raccolta narrativa di Aleister Crowley. Il testo che segue è la mia Introduzione.)

 

Nel salone del circolo c’era solo un ometto anziano, conosciuto come un matematico di grande importanza, con un tocco di follia. Aveva da poco terminato un pamphlet per dimostrare che gli antichi avevano una certa conoscenza della matematica della quarta dimensione e che la loro affermazione di problemi, come la duplicazione del cubo, implicava la conoscenza di un mezzo in cui i valori incommensurabili diventavano misurabili. Considerava particolarmente forte il postulato delle parallele di Euclide, che non solo non è stato dimostrato, ma si è rivelato indimostrabile. Era anche un profondo studente della Massoneria, i cui arcani gli fornivano ulteriori argomenti sulla stessa tesi.

 

Per consuetudine critica, spesso si ascrive tout court Simon Iff, il protagonista dei racconti che andrete a leggere, alla categoria dei detective dell’occulto: ciò che, corretto per alcuni versi, richiede però almeno robuste puntualizzazioni – con particolare riguardo a questa prima raccolta, sostanzialmente poliziesca. In effetti, Iff – creato da Crowley per sbarcare il lunario alla fine del 1916 durante uno squattrinato soggiorno a New Orleans, dunque con l’obiettivo pragmatico di un’agevole collocazione editoriale – è un mistico e un occultista: vocazioni che al suo riapparire con un ruolo importante nel romanzo Moonchild, avviato dall’autore proprio a New Orleans all’inizio del 1917 (ma pubblicato solo nel 1929), troveranno ampio spazio. Di più, Iff è nei fatti un alter ego dell’autore mago e profeta delle leggi del Thelema, sgomitante del suo egocentrismo e della sua voglia di colpire gli interlocutori. Se una compenetrazione tra autore e personaggio è in qualche misura normale, nel caso di un vanitoso come Crowley il meccanismo appare scoperto: del resto non ha mai smesso – e non smetterà – di proporsi come protagonista di narrazioni.

Grady L. McMurtry, discepolo di Crowley e riorganizzatore dell’O.T.O., ha ipotizzato che almeno in Moonchild Iff si ispiri all’occultista Theodor Reuss fondatore dell’Ordo stesso (nonché, pare, spia della polizia), e altri hanno visto un modello nell’amico Allan Bennett (che però in Moonchild ha anche un altro ruolo-calco più diretto, il mistico Mahatera Phang): ma occorre ricordare che proprio Crowley in un nota olografa in margine a un altro suo romanzo, Diary of a Drug Fiend edito nel 1922, descrive Iff come “una mia raffigurazione quale uomo anziano”. In Moonchild il gioco di proiezioni permette all’autore di “duplicarsi” con dialettica spudorata tra un Sé giovane e avventuroso, Cyril – mago e amante, nonché vero protagonista – e un Sé molto più maturo, appunto Iff, mistico e maestro. Ma se Moonchild è insieme un romanzo iniziatico, una sorta di ideale risposta a The Magician di W. Somerset Maugham (1908), e una feroce satira degli ex-sodali Golden Dawn, le quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) che Crowley dedicherà al mistico, mago, psicologo e detective Simon Iff mirano a cavalcare mode narrative d’epoca – il proliferare di storie di indagatori del crimine e dell’occulto, i dialoghi brillanti di un ambiente sociale elitario che intriga il grosso pubblico, un certo tipo di poliziesco un po’ cerebrale alla Philo Vance (più tardo, dal 1926), sia pure con note di genuina originalità. D’altra parte Iff nei racconti è molto anziano, pur sembrando assurdamente giovanile; ma anche in questa prima tranche di avventure non manca un Crowley giovane, incarnato in Jack Flynn, editor del giornale The Emerald Tablet dietro cui intravediamo la testata crowleyana The Equinox; e c’è persino, tanto per continuare l’autofiction, una sontuosissima “Coppa Crowley n. 3” con fragole, Grand Marnier Cordon Rouge, champagne e ghiaccio.

L’occulto va perciò inteso semmai in un’accezione un po’ particolare. Nel primo racconto della raccolta, “The Big Game” (“Caccia grossa”), troviamo un cenno fuggevole a “una specie di club di adorazione del diavolo, […] una delle loro passioni era la cocaina” ma il caso permette di smascherare assassini rimasti impuniti; il secondo, “The Artistic Temperament” (“Il temperamento artistico”), ripropone echi del Ramo d’oro di Frazer in rapporto a un incredibile caso criminale, ed è impossibile non pensare ai racconti dell’altra serie più o meno coeva Golden Twigs (cfr., in questa stessa collana, Aleister Crowley, I ramoscelli d’oro, 2021); il terzo, “Outside the Bank’s Routine” (“Fuori dagli schemi”), riguarda un delitto enigmaticissimo e dai dettagli paradossali che può far pensare a una storia di fantasmi. Nel quarto, “The Conduct of John Briggs” (“La condotta di John Briggs”), occorre difendere un accusato d’omicidio, attraverso “la voce del suo particolare demone”; nel quinto, “Not Good Enough” (“Non abbastanza bravo”), ritornano echi di Frazer; nel sesto, “Ineligible” (“Inammissibile”), la ricostruzione di un passato nerissimo fa pensare a certe pagine di romantici torbidi francesi dell’Ottocento. Il concetto di occulto richiama dunque più spesso in questi mystery a un’accezione di segreto e umbratile, tenebroso, ancestrale o torbidamente velato, con il magico sullo sfondo e i misteri di una psicologia liberissimamente invocata dal Semplice Simon: colui che a colpi di domande e sintesi provocatorie decostruisce le verità giudiziarie o sociali per cogliere verità più sconcertanti e segrete.

Dal tardo 1914 al tardo 1919, la Grande Bestia 666 è in America, dove tra mille avventure cerca di importare il culto del Thelema: un periodo importante per la sua vita, anche se è ben lungi dall’immaginare il successo postumo lì, mezzo secolo dopo, che contribuirà all’esplosivo revival magico (tardi Sessanta-inizio Settanta) in tutto l’occidente e all’impennata dell’immaginario crowleyano nella musica. I soldi scarseggiano, quindi Aleister usa la propria fantasia e rapidità di scrittura per varare la saga di un nuovo personaggio. A metà gennaio 1917 termina di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff (quelle in sostanza del volume che avete in mano), in prima battuta edite su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio di cui si ritiene reincarnazione, l’equivoco medium e compagno d’avventure del “Merlino moderno”, il ben più presentabile mago elisabettiano John Dee. Vi si trova sotteso un qualche scherzo birichino all’ex-amico pittore Gerald Kelly, in seguito meglio noto come Sir Gerald Festus Kelly (1879-1972), ritrattista tra i preferiti della famiglia reale inglese, ma soprattutto cognato renitente di Aleister attraverso le sue nozze con la sorella Rose?

La prima serie è ambientata nel Vecchio Mondo. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). È senz’altro eccessivo proclamare – come fa Crowley annunciando con clamore la seconda serie – che si tratti dei polizieschi più sensazionali dopo quelli di Doyle su Holmes, ma è vero che il taglio appare innovativo: un dosaggio originale tra mystery e occult detective fiction, con ampio spazio alla psicologia e un po’ di Thelema. I testi sono fitti di citazioni letterarie (moltissime da Shakespeare) e di riferimenti più o meno cifrati, maliziosi o meno, alla vita e ai contatti dell’autore. Per dire, il cenno del racconto “Inammissibile” al Loch Ness richiama al luogo di Boleskine House, dove l’autore era vissuto a periodi e aveva celebrato rituali; e gli Exclusive Plymouth Brethren lì citati sono quelli del culto fondamentalista cui appartenevano i suoi genitori, e da cui la Bestia 666 era stata ovviamente cacciata. Anche più emblematico per il periodo che l’autore sta attraversando è un cenno a tre femme fatale – o piuttosto divoranti dark lady – contenuto nel terzo dei racconti:

 

Il ragazzo ebbe un sussulto, quasi svenne. “Esistono donne di questo tipo?” chiese Macpherson. “Pensavo fosse una favola.”

“Ne ho conosciute tre, intimamente”, rispose Simon Iff. “Edith Harcourt, Jeanne Hayes, Jane Forster. Quello che dice il ragazzo è vero. Posso dire che l’indulgenza nel bere o nelle droghe tende a creare questi mostri dalle donne più nobili. Delle tre che ho menzionato, le ultime due erano cattive per natura. Edith Harcourt era una delle donne più belle che siano mai vissute, ma sua madre le aveva insegnato a bere quando era ancora una bambina, e in un momento di stress il nemico nascosto è uscito da dove era in agguato: le ha distrutto l’anima. La sua personalità fu completamente trasformata; sì, signore, nel complesso, credo nella possessione da parte del diavolo. Tutte e tre le donne hanno rovinato gli uomini che hanno frequentato, o alcuni di loro. Jeanne Hayes ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi, Jane Forster ha portato un valido avvocato alla follia malinconica. Delle loro vittime minori, semplici cuori infranti e così via, si perde il conto. Edith Harcourt ha reso la vita di suo marito un inferno per tre anni, e dopo il divorzio si è scatenata del tutto e ha distrutto molti altri con le sue carezze infami.”

“L’ha conosciuta intimamente?”

“Era mia moglie.”

 

Dove sotto il velame della narrazione, Edith Harcourt è identificata da una nota olografa dell’autore per Rose Edith Kelly (1874-1932), da lui avventurosamente sposata, e assurta a prima delle Donne Scarlatte: è attraverso lei, nel ruolo di Ouarda la Veggente, che gli è giunta la famosa Rivelazione del Cairo, 1904, a monte del culto filosofico/religioso del Thelema. Si sono lasciati rovinosamente nel 1910, con divorzio ufficiale e strascico di rovelli. Rose ha avuto da Aleister due figlie, una morta prestissimo, l’altra crescerà lontana dal padre. Scivolata tristemente nell’alcool, l’ex-Donna Scarlatta sarà ancora modello per la povera Margaret del Magician di Maugham.

Jeanne Hayes, cioè Jeanne Eugenie Heyse, poi Heyes (1890-1912), in arte Ione de Forest, inglese di famiglia belga-irlandese, ha avuto la parte di Luna nei crowleyani Riti di Eleusi (1910) ma si è dedicata poi alla pittura, sposando il paleografo Wilfred Merton: ha poi avuto un rapporto con il poeta e scrittore Victor Neuburg (discepolo e per un periodo partner magico e di vita del bisessuale Crowley), e si è suicidata mentre attendeva il divorzio (“ha rovinato la vita di suo marito e ha strappato l’anima al suo amante prima di uccidersi”, sintetizza Iff). A trovare il corpo è stata la pittrice Nina Hamnett, che ricorderà questo sottomondo di arte, passioni ed eccessi nel suo Laughing Torso (1932), ed Ezra Pound celebrerà la giovane in una lirica e nel Canto VII.

Jane Forster, cioè la bellissima Jeanne Robert Foster (1879-1970) nata Olivier o Ollivier, modella, giornalista e poeta, citata come “il Gatto” nelle Confessioni di Crowley, da lui ribattezzata Soror Hilarion (è la terza Donna Scarlatta) e modello per la Mollie Madison di altri racconti, sarebbe stata d’accordo per lasciare il marito e sposare Aleister, che però ha lasciato improvvisamente: per una volta, la Bestia 666 è stata colpita al cuore, e il testo risulta scritto sull’onda di questa amarezza profonda.

Insomma Iff è un vero e proprio concentrato del Crowleyverse: ma sarebbe sbagliato, anche per i pragmatici motivi del varo di questi racconti, estrapolarlo dalla grande famiglia degli indagatori tanto florida tra i due secoli. Ed è inevitabile cercarvi parentele. Il paradosso è che, pur nell’ovvia distanza di profilo, il detective in fondo più simile all’occultista Iff nel lasciare spazio alle pieghe e piaghe della vita interiore sia ben diverso dei dottori psichici fioriti nei primi decenni del Novecento (e tanto meno dei loro predecessori vittoriani): si tratta in fondo di un indagatore del foro interno nientemeno che in talare, il sacerdote-detective Padre Brown creato nel 1910 dallo scrittore, poeta, polemista e critico d’arte Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con qualche anticipo sulla sua ufficiale conversione al cattolicesimo (1922).

Come osservato in altra sede, pochi personaggi paiono più distanti di Crowley e Chesterton: eppure sono entrambi geniali, combattivi, ingombranti, ironici fino al sarcasmo, cultori entusiasti del paradosso (“prince of paradox” è stato definito Chesterton, ma anche il magistero di Crowley – come esplicitato in Moonchild – vede nel paradosso un vero e proprio sistema di pensiero), autori prolifici di saggistica, narrativa e poesia. Entrambi eversivi, da lati diversi, rispetto al conformismo etico di un’epoca, al “modo di pensare meccanico dei protestanti” (come lo definisce Gramsci nelle Lettere dal carcere), al grigiore spesso vuoto di una morale pubblica vittoriana – sopravvissuta alla grande regina, gli strascichi correranno ancora per mezzo secolo – sull’onda in fondo della lezione del grande provocatore Wilde. I due hanno anzi modo di battibeccare a distanza fin dal 1901 (quando Chesterton mostra qualche interesse per la poesia di Crowley, con riserve solo sui suoi paganesimi d’importazione dai toni simbolistici modaioli): e si scambiano ironie via via crescenti, anche se nel complesso relativamente morbide. Certo, la prosa davvero letteraria, ricca e scintillante di Chesterton lascia parecchio indietro quella di Crowley. Come quest’ultimo del resto esplicita nella propria “autoagiografia” proprio a proposito delle avventure di Iff, in generale il sistema sottostante le medesime si basa

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità radicalmente umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Certo, c’è un abisso tra il piccolo prete di parrocchia, sorridente e un po’ trasandato, “che attraverso le raffinate esperienze psicologiche date dalla confessione e dal lavorio di casistica morale dei padri, pur senza trascurare la scienza e l’esperienza, ma basandosi specialmente sulla deduzione e sull’introspezione, batte Sherlock Holmes in pieno, lo fa apparire un ragazzetto pretenzioso, ne mostra l’angustia e la meschinità” (ancora Gramsci) e il vecchio viveur che può affettare esperienze ascetiche ma alternandole alle abboffate di foie gras e alle degustazioni di vini pregiati in club esclusivi. Ma entrambi rappresentano la critica a un certo modello di eroe raziocinante, e in fondo di mondo ideale, a partire da un approccio antropologico e psicologico e da un’ironia costante.

Si può faticare a star dietro ai fuochi d’artificio – talvolta un po’ forzati – dei paradossi di Iff. E tuttavia il brio e l’intelligenza, le divertite sorprese e gli arzigogoli di questi racconti mantengono una vivacità intatta e rappresentano godibilissimi documenti non solo per una storia dell’esoterismo ma per quella di un genere poliziesco che col fantastico flirta in fondo fin dalle prime origini, riuscendo al contempo a evocare effervescenti siparietti d’epoca.

Come Padre Brown, Iff notomizza i rovelli interiori, difende innocenti accusati e smaschera criminali e ipocriti, sia pure con interesse ben diverso dalla salus animarum cui mira l’eroe di Chesterton. Così alla Innocence of Father Brown (1911, come espresso nel titolo della prima raccolta sul prete-investigatore, seguita da altre 1914, 1926, 1927, 1935) ecco affiancarsi/contrapporsi la “semplicità” di Iff; al riferimento del primo alla fede cattolica, fa riscontro nel secondo quello al Thelema. Per esempio “L’universo è un fenomeno di amore sotto la volontà”; o anche, emblematicamente, “Come mi ha sentito dire circa un milione di volte, Jack, ‘Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge’”.

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Porte sul buio: Ti piace Argento? https://www.carmillaonline.com/2021/12/25/porte-sul-buio-ti-piace-argento/ Sat, 25 Dec 2021 21:33:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69789 di Franco Pezzini

Marco Chiani, Dario Argento e la televisione, pp. 206, € 24,90, Profondo Rosso, Roma 2021.

(Per i tipi Profondo Rosso è uscito da pochi giorni questo interessante saggio a cura di Marco Chiani, giornalista esperto in cinema e coordinatore della redazione di Cinemonitor, l’Osservatorio Cinema e Media Entertainment della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

Negli anni Sessanta, abitavo con i miei in un alloggio grazioso, ma certo non di lusso, in una zona di negozi animata dal boom [...]]]> di Franco Pezzini

Marco Chiani, Dario Argento e la televisione, pp. 206, € 24,90, Profondo Rosso, Roma 2021.

(Per i tipi Profondo Rosso è uscito da pochi giorni questo interessante saggio a cura di Marco Chiani, giornalista esperto in cinema e coordinatore della redazione di Cinemonitor, l’Osservatorio Cinema e Media Entertainment della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

Negli anni Sessanta, abitavo con i miei in un alloggio grazioso, ma certo non di lusso, in una zona di negozi animata dal boom del periodo. Una casa luminosa, sulla confluenza tra due corsi – eppure ricordo come, dalla luce del salotto dove vedevo Carosello sulle gambe di mio padre, la sera il riquadro della mia stanza oltre l’atrio apparisse una porta sul buio. Questa immagine mi è sorta spontanea, come una bolla gorgogliata dal fondo di me stesso, recuperando il titolo di una serie televisiva per cui l’Italietta di qualche anno dopo arruolerà al timone nientemeno che Dario Argento.

A fronte di una ormai quasi ingovernabile bibliografia argentiana, con il bel volume che avete in mano Marco Chiani riesce a colmare un vuoto: un saggio a 360 gradi sul rapporto tra il regista e la televisione, fino a pubblicità e interviste. Considerate le trasformazioni dei prodotti per il piccolo schermo dal mondo RAI di un tempo al panorama dell’età di Game of Thrones, con un passaggio da “nuovo” focolare familiare a matrice di diramazioni immaginali più pervasive persino di quelle cinematografiche, riflettere sul rapporto con la tv di un autore quale Argento è di interesse particolare.

Complice un altro piccolo schermo, quello del pc e di internet coi suoi mille blog, parlare di Argento rischia oggi (ma non è il caso di Chiani) di avvitarsi nei soliti discorsi sulla crisi di un regista, a colpi di battute ingenerose e magari gratuite. Fatte salve le critiche puntuali – motivate, a volte anche affettuose – a questa o quell’opera, è un dato di fatto che se abbiamo smesso di trovare innovative le idee di Argento è soprattutto perché la sua poetica ci è entrata tanto sotto pelle da avvertirla come già nota. Forse per questo chi (come il sottoscritto) ha avuto la ventura di avvicinarsi piuttosto tardi al suo lavoro riesce con minor fatica a restare colpito da guizzi visionari, felicemente deliranti, anche in film in genere demoliti da critica e fan.

Ma nell’Argentoverse ci siamo in qualche modo entrati tutti, più o meno a scatti generazionali: il sangue iniziatico che la mia leva aveva visto orgiasticamente spargere in rito di passaggio dalla Hammer, con connotazioni un po’ diverse la successiva lo ritroverà in grazia delle coltellate di Argento. Tutti riconosciamo, solo a pensarci un po’, che con lui in misura maggiore o minore siamo cresciuti, e quel tipo di poetica (ripeto il termine, che non mi pare incongruo) ha influenzato a largo raggio non solo – in genere – il thriller italiano degli anni Settanta, ma il nostro modo di percepire il linguaggio dell’inquietudine.

Un impatto che non rappresenta solo una svolta rispetto al vecchio film de paura italico, ma assume valenza internazionale per il successo planetario delle sue pellicole, e influisce sullo stesso orizzonte della scrittura. In Italia la narratrice che ha recuperato in modo più lucido e avvertito il passo argentiano è direi Cristiana Astori, che rende i suoi polizieschi – emblematico Tutto quel rosso, Il Giallo Mondadori, 2012, proprio in zona-Argento – anche intriganti saggi di storia del cinema (e non a caso viene ogni tanto imitata dagli alfieri dell’usato sicuro). Ma è chiaro che un regista – e produttore, non dimentichiamolo – come Argento ha influenzato un po’ tutti gli autori di thriller nostrani (e non), sia nella cifra di uno sparagmòs non esaurito nel gore fine a se stesso, sia nell’enfasi sullo sguardo perturbante – il dettaglio conosciuto/non riconosciuto da recuperare per sciogliere il nodo della trama. Dove poco importa che si parli di thriller o di horror (un genere cui Argento approda, senza vera soluzione di continuità, con Suspiria, 1977): l’abbinamento tra tensione estrema e dettaglio perturbante rimonta ad Ann Radcliffe, e una venatura gotica è avvertibile in gran parte della produzione argentiana. A partire in fondo dal suo modo di trattare i luoghi, con una Torino e una Roma – tappe congrue al gotico da Grand Tour – da atlante dell’incubo. D’altra parte, proprio alla luce della poetica dello sguardo perturbante, del tassello sfuggito e da recuperare, il referente televisivo assume una speciale dimensione provocatoria: per molti anni, ciò che restava estraneo alla televisione, ciò che restava fuori dal suo schermo era per il grande pubblico davvero perturbante, intuito e conosciuto ma non riconosciuto o non ricordato, e dunque tutto da affrontare.

La rabbia (se ci pensiamo, degna di miglior causa) avvertibile oggi in tanti commenti di fan sugli ultimi film di Argento assomiglia a quel punto all’uccisione simbolica del padre: ma fatto salvo l’orizzonte del simbolo, proprio Argento è la prova che con i padri si può fertilmente lavorare. L’impatto della collaborazione con suo padre Salvatore, veterano del mondo cinematografico fin nelle più delicate operazioni amministrative, è in effetti tanto significativo che si potrebbe vedere proprio nella scomparsa di lui la vera cesura nell’opera del figlio. Il che richiama però a un altro aspetto che interessa direttamente il referente televisivo: non sempre tra i fan si mette a fuoco che un’opera non è solo del regista, ma dell’intera sua squadra, fino a montatori, tecnici di fotografia e altri fondamentali uomini-ombra. La storia dei film di Argento è anche la storia dei suoi collaboratori e comunque dei suoi interlocutori (Chiani vi offre ampio spazio), più o meno stimolanti anche a prescindere dalla professionalità in sé: e il rapporto appunto interlocutorio con un’altra istanza genitoriale – stavolta “materna”, la vecchia mamma RAI con cui Argento fa i conti in più momenti – rende più evidente i tipi di dinamica intrecciati.

Quando quel rapporto inizia, non è strano che il giovane Dario tenda a sottovalutare le potenzialità creative di un mezzo che – tra fremiti e tremiti di funzionari intimiditi – riduce drasticamente le possibilità del presentabile, che non gli permette (ancora) di giocare col colore, che sembra inibire la sua cifra artistica. Mentre oggi ci è chiaro che è una RAI straordinaria, quella degli anni Settanta: una RAI che osa sperimentare (pensiamo solo all’impatto degli sceneggiati di giallo e mistero, a partire da Il segno del comando, 1971, dove la televisione di stato di un paese ancora cattolicissimo e reduce da un tentato golpe si misura con le sirene epocali del Grande revival magico e coi misteri dei servizi). E a quel punto arruola “l’Hitchcock italiano”, come Argento viene chiamato, con un ministero di grande cerimoniere – grazie a un suggerimento di Luigi Cozzi – simile a quello svolto tra gli anni Cinquanta e Sessanta nella celebre serie Alfred Hitchcock presenta. Ma sono cambiati i tempi: Hitch giocava sornione a moralizzare – con la sua fisionomia tondeggiante da ecclesiastico di campagna del Settecento inglese – sullo sfondo della Guerra Fredda, mentre quando Argento presenta (e in parte dirige) gli episodi di La porta sul buio, 1973, ha piuttosto il physique du rôle dei sessantottini e lo scenario dietro di lui è quello degli anni di piombo (e in realtà di molto altro, perché sarebbe grottesco e limitante ridurre utopia, colore e fantasia degli anni Settanta a tale cifra asfittica).

In ogni caso, a fronte delle porte che il piccolo schermo si è sempre proposto di aprire al mondo nelle case degli spettatori – prima nel contesto di una programmazione nazionalpopolare, oggi con i percorsi labirintici dei canali a pagamento – quella che Argento schiude sul buio va ben oltre i limiti concessi alla prima serie del 1973: e proprio il rapporto con la “normalità” televisiva può dirla lunga su un’evoluzione. Iniziando il grande pubblico al proprio teatro di paure (tanto che le fantasie dei suoi ultimi film, per quanto estreme, ci sembrano “già viste”) Argento ha fornito un linguaggio efficace: qualcosa che non solo confuta in radice un certo modo superficialotto di sminuire i fantasmi – “che sarà mai, hai paura del buio?” – protestando invece la liceità e dignità delle nostre paure, ma lo fa fin dalla penombra delle nostre case. Quelle stesse dove il televisore ci tiene compagnia durante il lockdown e dove il buio oltre una porta può effettivamente celare l’assassino fatto sbarellare dalla clausura (la grande emergenza trascurata dai nostri governanti, il rovinoso impatto sulla psiche – in un paese già depresso da anni – di un sequestro prolungato in casa) o le streghe del profondo, che grattano alle finestre della nostra vita. Come nel teatro onirico del gotico che sovrapponeva il dedalo claustrofobico di corridoi e sotterranei del castello d’Otranto e quello dell’interiorità del suo usurpatore, in Argento delitto/thriller e ossessione/horror non possono essere troppo nettamente separati dai sussiegosi distinguo della critica: e la porta sul buio, in anni lontani come oggi in tempo di lockdown, si apre nel nostro alloggio e contemporaneamente tra le nostre pieghe (e piaghe) interiori.

Torino, marzo 2021

 

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Sex and the Magic: la Grande Bestia colpisce ancora (IV) (Victoriana 28/7) https://www.carmillaonline.com/2020/08/29/sex-and-the-magic-la-grande-bestia-colpisce-ancora-iv-victoriana-28-7/ Sat, 29 Aug 2020 21:11:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62505 di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister racconta

Nel corso di una vita relativamente lunga (almeno se si considerano l’epoca tribolata da due guerre mondiali e i problemi di salute, settantadue anni), Aleister Crowley scrive continuamente. La sua produzione, che alla sblocco dei diritti con il settantesimo dalla morte dilaga ora anche più liberamente sui banconi delle librerie, svela una latitudine impressionante: a partire come ovvio da quella tecnico-occultistica, dove tra rivelazioni del Thelema, relativa esegesi, magistero magico (basti pensare a quell’immensa summa che è Magick, cioè Liber ABA o Book 4), testi rituali eccetera, ora in forma di volumi, ora di articoli, c’è di che riempire un’intera biblioteca.

Ma fin qui si tratta solo di una parte della sua opera, al di là della fitta rete di connessioni che collega tutto in un continuo dialogo: un’unica giostra dove l’ironia diventa strumento occulto e le più varie arti – compresa la pittura, di cui il Nostro a un certo punto si entusiasma – vengono riconosciute come magiche.

Pensiamo ai suoi scritti spesso pepati su temi filosofici, politici, o in senso lato culturali (eventualmente con tagli sfiziosi per farsi ospitare a pagamento su qualche testata), o alla sua straordinaria “autoagiografia” – come la definisce in sottotitolo – The Confessions of Aleister Crowley, 1929, da accostare con una certa prudenza ma di interesse enorme e grande divertimento. O all’amplissima produzione poetica, dove alterna testi molto belli ad altri in cui l’intento provocatorio – motivato all’interno di una riflessione fortemente polemica verso i valori tradizionali del mondo occidentale – rende la godibilità letteraria un po’ altalenante (ma simpatici sono i Songs For Italy, 1923, con una serie di frecciate al fascismo che l’ha cacciato da Cefalù). Pensiamo alle opere teatrali, sorta di interfaccia più libera alle pantomime dei rituali, o alle sue stesse traduzioni, dove una certa libertà autoriale/magisteriale è comunque ravvisabile: per esempio quella de I Ching (proposta in Italia da Tre Editori, 2018), evidenziante proprio la tensione a mescidare tradizioni assai distanti che tanto preoccupa colleghi esoteristi più legati alla loro “razzialità” (per esempio, abbiamo visto, Dion Fortune).

Nel panorama non poteva mancare la narrativa: e a parte alcuni romanzi più o meno noti al grosso pubblico, Crowley produce un’imponente messe di racconti che spiccano per qualità nell’orizzonte di una fiction breve primonovecentesca di lingua inglese dai contenuti fantastici, visionari o comunque eccentrici – e avvicinati per esempio dalla critica a quelli di un altro personaggio un po’ eccessivo di fine età vittoriana, il conte Eric Stenbock (1860-1895). Certo, non tutti i racconti crowleyani presentano lo stesso livello d’interesse e comunque non si tratta di grandi capolavori della letteratura. Una certa parte viene anzi varata a fini anzitutto alimentari, a fronte di una situazione economica che qualche lustro dopo condurrà il Nostro al fallimento sancito dal tribunale: l’eredità paterna fondata sulla birra (l’azienda familiare Crowley’s Alton Ales da cui il padre, pensionandosi, era passato all’attività di predicatore dei rigoristi Plymouth Brethren) è schiumata letteralmente via. Ma queste storie pensate per divertire e insieme formare alle idee thelemite (in qualche caso con riferimenti tecnici che sfuggono al lettore non preparato, ma sempre con lo strumento del paradosso e dell’ironia) sono nel complesso molto felici: e persino nei racconti minori, qualche guizzo del ruspante geniaccio dell’autore riesce qui e là a dardeggiare.

La spregiudicata capacità di cavalcare mode d’epoca – certe scene brillanti, un certo tipo di poliziesco – non ostacola note di genuina originalità: si pensi alle quattro serie (colte, spumeggianti, divertenti) incentrate su Simon “il semplice”, cioè il mistico, occultista e detective Simon Iff, creato alla fine del 1916. A metà gennaio 1917 Aleister ha già terminato di scrivere la prima serie di sei storie, The Scrutinies of Simon Iff, poi edita su The International tra settembre 1917 e febbraio 1918: per inciso sotto lo pseudonimo di Edward Kelly, come un tipaccio che ritiene di reincarnare, il losco medium del mago elisabettiano John Dee. Seguono Simon Iff in America (dodici storie, scritte tra dicembre 1917 e gennaio 1918), Simon Iff Abroad (tre storie, scritte probabilmente nel 1918) e Simon Iff, Psychoanalyst (due storie, scritte tra 1918 e 1919). Anche se è eccessivo proclamare – come fa lui annunciando la seconda serie – che si tratta dei polizieschi più sensazionali dopo quelli doyliani su Holmes, è vero che il taglio è innovativo: un mix tra i classici racconti polizieschi e i casi dei detective dell’occulto, con un occhio alla psicologia e un po’ di Thelema.

Come l’autore ricorda nella proprio “autoagiografia”, al di là di qualche differenza da una serie all’altra il sistema sottostante le avventure di Iff si basava

 

per la maggior parte su semplici principi meccanici. Potrei anche paragonarli a problemi di scacchi. Il metodo generale era pensare a una situazione la più inspiegabile possibile, quindi di chiudere tutte le fessure con lo stucco e, dopo essermi accertato che nessuna spiegazione fosse possibile, fare un ulteriore sforzo e trovarne una. Trovo difficile considerare questo genere di cose come seria letteratura, eppure l’istinto artistico in me è così inestirpabile che il Vecchio Adamo fa capolino abbastanza spesso da rimuovere queste storie dalla categoria dei jeux d’esprit.

 

Nel senso proprio di una verità umana che lui intende testimoniare (o almeno così dichiara, ma in questo caso è credibile, anche per il tipo di obiettivi polemici). Per inciso Simon Iff è lui, Aleister, in una versione “anziana” e saggia mixata (almeno nel romanzo Moonchild, scritto 1917 e pubblicato 1929, dove Iff torna) a qualcosa di Allan Bennett, suo istruttore magico ai tempi della Golden Dawn, poi monaco buddhista e figura fondamentale per l’ingresso del buddhismo in occidente: uno dei pochi amici per cui negli anni Crowley manterrà intatta un’affettuosa devozione, e di cui dovremo qui riparlare.

Ma le varie serie su Iff non esauriscono la produzione crowleyana di racconti brevi – come ricorda un volumetto uscito di recente nella deliziosa collana “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi delle salernitane Arcoiris, 2019: I Racconti della Bestia a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti è infatti una raccolta di dieci testi (tradotti da Luca Baldoni, introduzione di Steve Sylvester dei Death SS) tali da fornire un buon assaggio della novellistica del Nostro.

L’operazione è interessante, e per più motivi. A partire da uno contingente, cioè che si tratta della prima antologia italiana di racconti brevi di Crowley, otto inediti più due proposti con diversa traduzione sulla rivista Hypnos. A dar conto di varietà di registri – l’orrido e l’erotico, il fiabesco e il poliziesco brillante – che il lettore nostrano non collega automaticamente a un autore come il Nostro. E laddove si corteggia il fantastico – anche senza giungere al livello dei capolavori brevi di autori coevi come Machen – incontriamo comunque novelle affascinanti per la varietà e il carattere estremo degli spunti, il delirio onirico di certe suggestioni, il gusto dello strano su cui l’autore non risparmia nulla.

Il che traghetta immediatamente a un secondo motivo d’interesse, uno stile in genere non “alto” ma di qualche eleganza, e che risente naturalmente del contesto culturale del primo ventennio del Novecento: un mix di enfasi decadente e ironia lieve da buona società al caffè, conati simbolisti dove s’intravede il Crowley poeta e soluzioni popolari quasi alla Weird Tales, suggestioni estenuate e sfuggenti – anche a base di metafore in cui il lettore s’immerge e si attarda, con stranianti derive – ed eccessi a forti tinte. Spesso giocando con l’implicito, ora nel segno del gioco frizzante e ora di un’obliquità esoterica: da cui fantasie che sembrano imbizzarrirsi alla lettura, significati che si colgono come di sguincio sul lato dello sguardo, provocazioni talora francamente criptiche.

E un terzo motivo sta nel teatro che s’intravede dietro questi racconti, le dinamiche erotiche e le contrapposizioni, i profili di personaggi amici o nemici (come già nei racconti con Iff) e gli episodi autentici o presunti tali dalla vita dell’autore – che vi sgomita spudoratamente. Attenzione, nella disamina che segue qualche spoiler emergerà.

I primi racconti guardano come prevedibile al Crowley occultista. “La violinista” (“The Violinist”), scritto nel 1910 e pubblicato su The Equinox del settembre di quell’anno sotto lo pseudonimo di Francis Bendick, vede per esempio una protagonista modellata sulla seducente Leila Waddell, 1880-1932, violinista australiana ed ennesima partner magica della Bestia. Oggetto del racconto è il dividersi di lei tra due partner, un prosaico “ragazzo allegro” e un amante pneumatico richiamato per magia – con evocazione musicale su un pannello mosaicato enochiano –, dalle conseguenze inattese o forse non troppo. Non ci addentriamo in questa sede nel groviglio tecnico-occulto relativo al carattere N (altrove reso con diverso segno grafico) su cui si concentra la violinista, donde diverse possibili identità del lubrico spirito Remenu.

Anche più emblematico è “Al bivio” (“At the Fork of the Roads”), circa 1908 e pubblicato anonimo su The Equinox del marzo 1909, dove una tal Hypatia Gay, amante del poetastro/mago Will Bute, va a trovare il conte Swanoff, giovane poeta neofita della Fratellanza della Stella d’argento. I nomi possono non dirci nulla, ma Hypatia è in realtà Althea Gyles (1868-1949), illustratrice cara al poeta Yeats qui celato sotto la maschera di Will Bute: l’atteggiamento tiepido verso le abilità liriche di Crowley e lo scontro che li vede militare da parti opposte nella scissione della Golden Dawn conducono presto a un’ostilità personale. Mentre il conte Swanoff è naturalmente Aleister, il cui primo appartamento a Londra, 67-69 Chancery Lane, era stato affittato sotto lo pseudonimo di Conte Vladimir Svareff: anzi anche Swanoff – ci viene detto a un certo punto – è un mero pseudonimo per nascondere il lignaggio reale celtico del protagonista. Quanto alla Fratellanza della Stella d’argento si tratta trasparentemente dell’A∴A∴, organizzazione pensata da Crowley fin dal 1907, e la cui sigla è spesso resa come Astrum Argenteum.

Qui il racconto merita qualche cenno in più. Bute, cupamente geloso di Swanoff – come, sostiene Crowley, è Yeats di lui – ha mandato la sua aiutante in missione speciale in campo nemico: e il conte l’accoglie ammonendola a sfuggire i tentacoli del Polpo Nero che ha deciso di servire, e a non finire vittima dei vermi della Melma Ineffabile (notiamo come la fantasia dell’autore sia squisitamente evocativa). Sciocchino, gorgheggia lei, la prossima volta lo farà contento entrando con lui nel Tempio Bianco: però allontanandosi riesce a graffiargli la mano con una spilla, e porta trionfante quella goccia di sangue a Bute per i suoi sortilegi. In effetti l’indomani Swanoff si sveglia debolissimo e cereo, con le mani rugose: ma per fortuna arriva il suo maestro, che lo rimprovera di aver avuto a che fare con la Goetia – potremmo dire la magia di evocazione demoniaca. Swanoff assicura di no, e il maestro commenta che allora è la Goetia che ha avuto a che fare con lui. L’episodio di questo rimprovero – con tali parole – è autentico, e a muoverlo a Crowley era stato proprio il suo citato istruttore magico Allan Bennett: la dialettica tra i due è qui speculare a quella nel più tardo romanzo Moonchild tra il giovane Cyril Grey e l’anziano Iff, dove pure si cerca di impedire che i cattivi (tra i quali lo stesso Yeats) usino il sistema del graffio per sottrarre la stilla di sangue a fini occulti.

Il maestro predispone dunque il contrattacco. Anzitutto consegna al discepolo una pergamena magica da tenere sotto il cuscino, e lo istruisce a uccidere chi lo attaccherà: come in effetti farà in sogno una donna di pericolosa bellezza – ovviamente un succubo, che rivelerà caratteristiche spiacevoli – e per dieci notti Swanoff si affannerà a strozzarla. Passo successivo sarà il far infestare la casa di Hypatia – che ha tentato di tornare per procurarsi altro sangue – da migliaia di gatti, dandole qualcosa di cui occuparsi (si tratta di un sistema citato in più resoconti occultistici, e dunque almeno un topos di questo tipo di narrativa). Ma al terzo tentativo della pertinace fanciulla, Swanoff la chiude dentro il tempio: e lì si consuma una degna punizione per opera del dio celato dietro i sipari. A seguito della quale verrà ripudiata da Bute e finirà preda di un laido editore… Come riportato dalle note di The Equinox, “Questa storia è reale in ogni dettaglio. Data degli eventi 1899 E.V. maggio o giugno”: e la sintesi qui offerta non rende minimamente il carnevale di trovate. D’altra parte pareva importante soffermarvisi, sia perché appunto evidenzia i nessi con la vita dell’autore – per come almeno lui riteneva di viverla – e con altre sue opere chiave come Moonchild, sia perché si tratta del trasparente esempio di uno stile solenne e visionario giocata su mezzitoni d’ironia.

Assai più criptico è il racconto “Un ballo in maschera” (“A Masque”), mai pubblicato prima del 2010. In scena è una sorta di antiannunciazione nel segno del notturno e del lunare, e anzi di antinatività dove una misteriosa entità gobba – a metà tra l’incubo di Füssli e uno spirito astrale – si accoppia fatalmente con la splendida Margarita.

Ma, come detto, la raccolta guarda a registri piuttosto vari. “Il cacciatore di anime” (“The Soul-Hunter”) è sostanzialmente un horror, dai toni sfuggenti che fanno pensare a certe derive oniriche: scritto nel 1908 e pubblicato su The Equinox nel marzo 1910, narra i frustranti tentativi di un mad doctor di trovare l’anima in un paziente-vittima. Francamente più birichino, “La volpe” (“The Vixen”), edito su The Equinox del marzo 1911 di nuovo come Francis Bendick, è dedicato e nuovamente ispirato a Leila Waddell nella figura della protagonista Patricia Fleming, tra sadomaso, licantropia e naturalmente occultismo. Invece “La faccia” (“Face”), proposto per la prima volta sul Pearson’s Magazine nel settembre 1920, è un’originalissima vicenda poliziesca sulle conseguenze del rifiuto di uno spasimante cinese per motivi razziali: la citata formula del “chiudere tutte le fessure con lo stucco” alla base dei racconti di Simon Iff (che pure qui non c’è) vi sembra adottata in pieno.

“Illusion d’amoureux”, di nuovo edito a firma Francis Bendick su The Equinox del settembre 1909, coinvolge nel ruolo della protagonista la scrittrice Ada Leverson (1862-1933) che nel 1907 aveva avuto una relazione con l’autore. Qui la troviamo, coricata in una bara appesa come un’altalena, in attesa di essere visitata da “un dio imperscrutabile, sorridente, sempre sorridente di un sorriso che esprimeva una lussuria inimmaginabile e una crudeltà risolta – grazie a quale alchimia teurgica? – in una beatitudine fredda e pura” (e che lei, per non sbagliare, invoca quale “Abominazione suprema”). Sembra probabile che in fondo si tratti dell’ennesimo autoritratto di Crowley stesso.

Per certi versi ancora più spiazzante, a considerare l’idea che a torto o a ragione si ha spesso di Crowley, è “Il colore dei miei occhi” (“The Colour of My Eyes”), probabilmente scritto nella primavera 1918, una fiaba sapienziale delicata e ironica su Arte, Onnipotenza e Amore che fa pensare a un Wilde minore. Mentre “Il furto della signorina Horniman” (“Robbing Miss Horniman”), edito la prima volta su The International nell’aprile 1918, è un garbato racconto giallo dal doppio finale. Torniamo al criptico e al macabro con “Queste cose sono un’allegoria” (“Which Things are an Allegory”), edito soltanto postumo: un apologo strano, in qualche modo di critica sociale, al di là del linguaggio fiabescamente nero.

Naturalmente chi sia interessato a misurarsi con l’inglese elusivo, ironico e febbricitante dei racconti di Crowley può leggerli in lingua originale: il corpus dei testi narrativi brevi è infatti raccolto oggi in due volumi dalla splendida collana “Tales of Mystery and the Supernatural” per i tipi Wordsworth. Cioè The Simon Iff Stories & Other Works (2012), comprensivo delle quattro raccolte su Iff più gli otto racconti neopagani della raccolta Golden Twigs, ispirati al Ramo d’oro di Frazer (scritti 1916); e The Drug & Other Stories (2010), con ben quarantanove racconti – trenta dei quali pubblicati già dall’autore, gli altri inediti –, compresi quelli della presentata edizione italiana.

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Outsider nella notte https://www.carmillaonline.com/2020/06/13/outsider-nella-notte/ Sat, 13 Jun 2020 21:05:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60734 di Franco Pezzini

Colin Wilson, Riti notturni, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 441, € 18, Carbonio, Milano 2019.

“Sono convinto che la vita si possa vivere venti volte più intensamente di quanto non facciamo. In un certo senso, passo la mia esistenza a cercare il modo di riuscirci”.

Del versatile, eclettico, spiazzante Colin Wilson è capitato più volte di parlare su questa testata. Già si è raccontato del suo profilo di saggista anomalo e romanziere elegante quanto particolare, intrigato da temi “strani”; così come delle sue ambigue posizioni politiche. Irriducibile [...]]]> di Franco Pezzini

Colin Wilson, Riti notturni, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 441, € 18, Carbonio, Milano 2019.

“Sono convinto che la vita si possa vivere venti volte più intensamente di quanto non facciamo. In un certo senso, passo la mia esistenza a cercare il modo di riuscirci”.

Del versatile, eclettico, spiazzante Colin Wilson è capitato più volte di parlare su questa testata. Già si è raccontato del suo profilo di saggista anomalo e romanziere elegante quanto particolare, intrigato da temi “strani”; così come delle sue ambigue posizioni politiche. Irriducibile a etichette, Wilson resta una figura-cardine per comprendere una serie di trasformazioni dell’immaginario inglese – con ricadute internazionali – tra anni Cinquanta e Settanta, anche se il suo lavoro è proseguito ben oltre la boa del nuovo millennio. Morto nel 2013, lo troviamo in libreria persino con uscite postume di alcuni saggi e di ‘Lulu: an unfinished novel’, 2017.

Talvolta Wilson si è occupato di occulture e l’impatto dei suoi scritti sul Revival magico di cui quest’anno ricordiamo il mezzo secolo – almeno convenzionalmente – è abbastanza noto; ma il suo interesse riguarda un panorama assai più ampio di outsider, tra arte e letteratura, riti sociali, studi della psiche e relative deviazioni, e in generale la materia sessuale. Le sue posizioni teoriche risultano talora inaccettabili: l’idea che la donna aspiri purchessia a un compagno, mentre l’uomo sarebbe biologicamente portato a una lussuria indifferenziata per il corpo femminile flirta col pregiudizio da strada. Eppure in questo impasto di idee di un uomo nato nel 1931, figlio della classe operaia, autodidatta e pronto a vivere in situazioni-limite pur di scrivere (come il periodo in cui a Londra dorme all’aperto in un sacco a pelo impermeabile – spesso nell’area verde di Hampstead Heath – per risparmiare sull’affitto di una camera, campare con solo tre sterline a settimana e recuperare un’intera settimana alla scrittura tra le sale del British Museum) c’è anche una messe di ricchezze.

Così l’editore Carbonio sta oggi promuovendo una preziosa riscoperta della produzione narrativa di Wilson, con romanzi straordinari, insieme polizieschi & filosofici e di qualità narrativa davvero alta, come Un dubbio necessario e La gabbia di vetro (2017 e 2018). Se però questi erano apparsi in origine rispettivamente nel 1964 e nel 1966 in clima Swinging London, Riti notturni di cui ora si parla è un po’ precedente, 1960 (Ritual in the Dark): anzi questa è la data di uscita, ma Wilson ammetterà di averlo iniziato a diciassette anni – dunque attorno al 1948 – con un contenuto parecchio diverso che solo nel 1954 evolve nella trama odierna. Non ci siamo ancora, ma questa protoversione di Riti notturni conosce gestazione quasi parallela e anzi prelude al primo saggio di Wilson, il famoso The Outsider del 1956, che catapulta addosso allo squattrinato scrittore una fama improvvisa: una riflessione intrigante, provocatoria e di grande successo sull’alienazione, condotta esplorando vite “irregolari” di artisti e pensatori eccellenti. Outsider sono coloro che sanno che la vita non si esaurisce nella banalità quotidiana, tra le pastoie delle sue convenzioni, e si logorano nella tensione di una ricerca che pochi vedranno coronata dal successo, fatalmente divisi tra la ripugnanza per la propria ordinaria miseria e la frustrazione per una meta non raggiunta. Wilson racconterà in seguito le sue antiche frustrazioni giovanili, tra sogni di diventare scrittore e più prosaiche fantasie di sesso con una collega: tutto materiale che sta a monte di The Outsider e insieme di Riti notturni. Ma il discorso è più ampio, e l’uscita nel maggio 1956 del saggio che fa notare l’autore appena venticinquenne è contemporanea al successo teatrale di un altro “giovane arrabbiato”, Ricorda con rabbia di John Osborne, presentato per la prima volta l’8 maggio di quell’anno.

Va però fatto un passo in più, notando il nesso di Riti notturni con altre tre opere di Wilson di poco successive, sempre nell’ambito di una critica serrata, dell’evocazione d’una ribellione creativa a valori e feticci della società borghese del dopoguerra: Religion and the Rebel (1957), The Age of Defeat (1959) e Encyclopedia of Murder (con Patricia Pitman, 1961), che offrono qualche chiave ulteriore. In particolare Religion and the Rebel prosegue il discorso di The Outsider trattando di outsider religiosi, The Age of Defeat riflette su un senso epocale di sconfitta, futilità o insignificanza che Wilson sente serpeggiare nel suo tempo e lui stesso aveva avvertito in modo cocente, e l’Encyclopedia of Murder discetta ovviamente di delitti ma insieme dei paradigmi antropologici degli outsider criminali – tutti elementi importanti nel romanzo in esame, e fin dalle sue primissime remote prove.

Riti notturni è la prima avventura – autoconclusiva – del giovane Gerard Sorme, protagonista di una trilogia che Carbonio si appresta a proporre per intero (entro fine anno è atteso il seguito, L’uomo senza ombra. Il diario sessuale di Gerard Sorme). Ventiseienne, con torpide velleità di narratore, il Nostro trova improvvisa illuminazione a una vita che gli pare noiosa e insignificante (ecco The Age of Defeat) attraverso la conoscenza del raffinato Austin Nunne, talentuoso omosessuale che flirta sempre e comunque con gli eccessi. Gerard prova per l’anticonformista Austin un’attrazione non sessuale (come altri personaggi sospetteranno) ma calorosamente amicale, una strana sympatheia di tipo intellettuale e artistico che diventa complicità. O piuttosto un rapporto complesso che è insieme di attrazione e repulsione, comunque capace di coinvolgerlo profondamente.

Il fatto è che il disinvolto outsider Austin piombato nella sua vita in modo accidentale funge per il meno disinvolto (ma ci sta lavorando) outsider Gerard da catalizzatore esistenziale, da provocatoria risposta ai suoi rovelli: sia col destare in lui una dimensione vitalistica e creativa finora stentata – per il nullafacente Gerard, che passa il tempo a meditare, emerge la consapevolezza di tutto un mondo eccitante di domande e di emozioni sconosciute –, sia spalancandogli un orizzonte molto concreto di contatti nuovi. Tra i quali Gertrude, giovane zia di Nunne, un tantino repressa e anche per questo affascinante, e la disinibita nipote ventenne Caroline, due volti quasi paradigmatici di un’epoca ed entrambe corteggiate con successo dal nostro eroe; e un altro outsider, il pittore Oliver Glasp, capace di dare il proprio meglio coi pennelli per le attrattive – mai contatti fisici – di una musa di dodici anni (il che, a un certo punto, scatena un certo putiferio). Donde la citazione d’incipit a questo pezzo, il tema dell’incalzare una vita tanto più intensa di quella finora vissuta, alla ricerca di un’illuminazione che grazie ad Austin è ora una possibilità concreta.

Non solo: attraverso quei contatti si apre per Gerard un discorso di provocazione religiosa attraverso figure varie, tutte estranee al culto di stato della Gran Bretagna coeva (ecco Religion and the Rebel). Figure che restano nell’orizzonte del giovane pur senza coinvolgerlo confessionalmente: Gertrude simpatizzante dei Testimoni di Geova, e il giro dei suoi confratelli più convinti; alcuni sacerdoti cattolici, tra i quali il malconcio padre Carruthers dalle vedute aperte, con cui Gerard intesse un rapporto di confidenza quasi confessoria… A suggerire qualcosa di una realtà particolarissima come l’Inghilterra dai mille culti, ma anche le direzioni interiori che una ricerca quale quella di Wilson esplora insieme con ironia, autonomia critica e interesse.

E ancora, nella vicenda si innesta anche una serie di omicidi a Whitechapel che sembrano ricalcare – almeno parzialmente – quelli di Jack the Ripper: a saldare il tema del sesso con il delitto (ed ecco Encyclopedia of Murder). Si noti che l’ombra del vecchio Jack resta assolutamente defilata e come sotto la superficie del testo, quasi un Perturbante che sgomiti, finendo col farsi paradigma dell’irrisolto: l’assassino è davvero Austin, come Gerard a un certo punto prende a sospettare? ma soprattutto, perché dovrebbe farlo? Dove l’indagine, più che poliziesca in senso proprio, si fa filosofica, nel segno di una riflessione sulle pulsioni di morte che offra risposte più credibili delle banalità circolanti sul maniaco… Ovviamente non ha senso spoilerare: limitiamoci a considerare che starà a Gerard discernere nel suo lungo cammino di autoconsapevolezza – tra simpatie equivoche, speculazioni perplesse, soavi avventure in letti femminili – tra tipi diversi di trasgressione, fertilissima o distruttiva. Nonché meditare sul rapporto tra inferi di un serial killer e quelli di un’intera società, davanti allo psichiatra Franz Stein il cui cieco, moralistico legalismo è in fondo sempre lo stesso di quando militava per il Führer.

Attraverso i variegatissimi dialoghi tra Gerard e gli altri personaggi si dipana così via via la quest sui misteri di Austin, e in parallelo, in qualche modo maieutico, la quest interiore del protagonista: qualcosa che gli permette di riflettere sui tipi di ostacolo che impediscono all’uomo di realizzarsi appieno e sulle forze dominanti con cui fare i conti, in particolare il richiamo sessuale. Proprio la meditazione sugli istinti sessuali trova in questo romanzo uno spazio essenziale: sin dalla primissima versione (che lasciava in dubbio se una certa prostituta fosse stata davvero strangolata dal protagonista, perché non sarebbe cruciale la differenza tra sogno e realtà a fronte di un’esistenza umana come mero tessuto di illusioni) e comunque in questa che esaminiamo, assai diversa quanto a trama, e tanto più sottile e levigata. Qualcosa che certo si giustifica con gli interessi personali di Wilson – dai racconti del nonno sul vecchio Sventratore alle torbide fantasie adolescenziali, e via via per tutta la sua carriera di saggista – ma anche con motivi d’ambiente, in una Gran Bretagna che sta abbandonando solo in quegli anni una serie di atteggiamenti e convenzioni vittoriane, e il tema sesso che sfiata come da una pentola a pressione. Ma c’è di più, perché la biblioteca di Austin può in fondo contenere testi che di lì a poco appaiono un po’ defilati ben oltre i confini di Albione e persino nella provincialissima Italia (vogliamo parlare della raffinata collana Sugar Olimpo nero, che vede impazzare Sade?): a suggerire l’avanzata epocale delle curiosità per il sesso in forme svariate, appartate ma dilaganti, in parallelo del resto ai fasti dell’eros gotico, velato e simbolizzato ma chiarissimo, di tutto un cinema fantastico con la Hammer in testa.

Tra i molti spunti offerti da Riti notturni, nutrito di una messe di letture del giovane Wilson – per sua ammissione Joyce, Hemingway e Faulkner, forse già L’uomo senza qualità dove resta colpito dal personaggio Moosbrugger e molto altro, come evidentemente il Dorian Gray – mi limiterei a soffermarmi su tre dimensioni.

Anzitutto l’ambientazione. Evocata a colpi di pennello di grande efficacia e puntualità è tutta una Londra dove ultimi strascichi di un rigore postbellico stanno lasciando posto al salto Swinging, e il più vittoriano dei serial killer sembra riemergere tra locali notturni e alloggi moderni un po’ troppo riservati. Un mondo spesso notturno che vede tipi come Gerard vivere da privilegiati ma non troppo – una modesta rendita, una pensioncina fin troppo rumorosa, scaldabagni per cui contare le monete – e che però sta aprendosi a quell’arte e a quella cultura che negli anni successivi vedranno Londra centro del mondo. Per dire, Gerard e Austin si incontrano emblematicamente a una mostra sui Ballets russes e il grande danzatore Vaslav Nijinsky, proprio uno degli outsider del testo del ’56 (e anzi un profilo che nelle teorie di Wilson rientrerebbe nella categoria degli “outsider fisici” assieme, per dire, a Jack the Ripper). Ma quel palcoscenico esteriore di una società in trasformazione, quel teatro metropolitano tra misteri in case chiuse e nuove spudoratezze d’epoca, è del tutto congruo – come qualche critico ha osservato – al teatro interiore di Gerard, quasi la mappatura di Londra riproducesse le sue mappe mentali. I meccanismi della sua quest esistenziale, la sua illuminazione (magari confusa, velleitaria, ancora magmatica) su un rapporto con la realtà ordinaria e la libertà dell’oltre, l’eccitazione per le scoperte emerse grazie a quell’Austin che a Nijinsky assomiglia un po’, e il brivido che trasfigura persino la dimensione dei rapporti sessuali – prima per Gerard tradizionale e annoiata – echeggiano tensioni che stanno fermentando nella società dell’isola, trasgressioni nuove a una gabbia di regole avvertite come asfittiche, brancolamenti alla ricerca di qualcosa… Un’urgenza vissuta da Wilson e da tanti giovani come lui, e che rende testi come The Outsider e Riti notturni voci di un disagio e degli sforzi per superarlo, anzi dell’intuizione dirompente di nuove potenzialità. In chiave insieme di effetto e di causa – visto l’indubbio impatto dell’autore e delle sue provocazioni sulla cultura Swinging (nonché, in modo meno diretto ma significativo, sul Revival magico): e il teatro d’ambiente rende Riti notturni la vivida evocazione di un mondo.

Una seconda dimensione è quella delle mitologie collegate. Jack the Ripper era già apparso ovviamente in opere letterarie e narrazioni popolari, ma è nel calderone di questa Gran Bretagna e grazie in particolare ai saggi di Wilson – tra underground e pop – che “Gianni col coltello in mano” conosce una ridefinizione per il grande pubblico moderno. Con una formula che innova radicalmente il genere true crime dei vecchi Newgate novel e i repertori macabri della Chamber of Horrors di Madame Tussauds: il taglio “alla Wilson” è qualcosa che unisce un po’ di criminologia e scienze umane, un po’ di letteratura, misteri à gogo – compresi quelli dell’occulto – e tradizione britannica. Shakerando bene il tutto, il risultato è diverso sia dai repertori criminali all’americana, sia da quelli di mirabilia alla Charles Fort. Wilson spiega, argomenta, filosofeggia, a volte polemizza in modo irritante, non si accontenta delle stranianti ipotesi dei Book of the Damned che pure conosce, lavora sulla sociologia ed è a suo modo un figlio dell’empirismo britannico: i repertori criminologici popolari che troviamo oggi sugli scaffali di true crime della grande distribuzione libraria inglese trovano in lui il nonno o almeno lo zio matto – quello che impazzava nelle riunioni di famiglia e che ci ha lasciato una stramba eredità. A questa ridefinizione moderna del mito dello Sventratore si ricollega anche Riti notturni, con il suo finale non conciliatorio che rimanda in fondo proprio agli sviluppi ambigui della saga del 1888: e non a caso tale mostro-fantasma (per la definizione si rinvia qui) riappare qui in contemporanea con i colleghi dei primi, vittorianissimi film gotici della Hammer. Anche in questo senso, Riti notturni è un ottimo esempio di come le ombre dell’età vittoriana riemergano in chiave perturbante alla fine degli anni Cinquanta in una Gran Bretagna che sta riassestando la sua identità; e il neovittorianesimo pop di oggi trova in quel passaggio una delle sue radici fondamentali.

Una terza dimensione del romanzo su cui merita soffermarsi – last but not least – è poi quella del piano formale: e non solo per la scrittura tersa, elegante, magneticamente letteraria. A differenza che in altri suoi romanzi, qui Wilson ricorre a una formula narrativa curiosa. Non è un flusso di coscienza, a narrare – peraltro in stile piano – è un terzo onnisciente che ha Gerard per focus; e i dialoghi sono molto belli, perfettamente calibrati allo sguardo introspettivo, ma anche al rapporto maieutico grazie ai vari interlocutori. Eppure la mancanza di virgolette a marcare le battute e il particolarissimo impasto testuale che ne deriva lasciano la sensazione di una narrazione echeggiante quasi all’interno – di Gerard? dell’autore? del lettore? – e come sommessa. Una sorta di risacca narrativa dove partecipiamo in chiave di ipotesi alle solidarietà di un outsider per l’altro, tra scoperte libertà e ombre d’orrori almeno potenziali, sogni d’estasi e perversioni da cronaca nera – a tratti con un’equivoca osmosi di vedute, a tratti ponendo punti fermi almeno temporanei. Qualcosa comunque che evoca anche formalmente un dedalo personale: e confidata con eccitazione dalle pieghe di un’esistenza che si sta schiudendo alla primavera di qualche nuova consapevolezza, la narrazione ne mantiene l’ondivago fluire in pagine affascinanti, avvincenti e conturbanti.

Come i protagonisti del saggio del ’56, con le loro lacerazioni tra pastoie quotidiane e vertiginose soddisfazioni – celesti o infere – di una quest esistenziale, gli outsider di questo romanzo si modulano in “tipi” diversi: e sta al protagonista che è uno di loro capire qualcosa di più, capire dove potrebbe arrivare. Per cui è importante tener alta la guardia fino in fondo, non perdere di vista l’ultimo tassello del puzzle, in un finale che non tranquillizza i cultori del giallo, anche se giunge alla messa a fuoco filosofica – più o meno convincente, ma tant’è – del distinguo tra alcune categorie fondamentali. Qualcosa che non dissipa totalmente l’ambiguità propria dell’approccio di Wilson ma rappresenta (possiamo dirlo) anche una categoria inalienabile della modernità. E comunque raccontato in modo meraviglioso.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (II) https://www.carmillaonline.com/2019/10/03/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-ii/ Thu, 03 Oct 2019 21:18:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55110 di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un [...]]]> di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un ritratto di Poe di Elisa Lo Presti, Red Right Hand workshop, 2017, coll. priv.]

 

3. Dopo The Pit and the Pendulum, 1842-43 si apre una terza fase, che arriva fino alla morte di Poe: una stagione produttiva che presenta caratteri abbastanza diversi – pur senza cesure assolute – e che potremmo definire dei capolavori del delirio. Il fantastico non viene abbandonato ma incanalato in specifici filoni oppure ricondotto a un tipo visionario di linguaggio più che di contenuto: le storie parlano ora di sperimentazioni mesmeriche, di ossessioni criminali, di pulsioni misteriose della realtà-uomo. Se un po’ sempre i personaggi di Poe hanno flirtato con lo squilibrio e con il delirio, ora questo aspetto è posto in primo piano. Emblematico un testo come The System of Doctor Tarr and Professor Fether, dove folli e sani di mente si sono scambiati i ruoli.

In chiave protothriller, questa è la stagione dei racconti sul genio della perversione (The Tell-Tale Heart, The Black Cat, The Imp of the Perverse) e sul nesso tra delitto & vendetta (The Cask of Amontillado, Hop-Frog). Continua anche la produzione poliziesca già avviata con un secondo sequel alle avventure di Dupin, The Purloined Letter, e un racconto che salda beffardamente gioco macabro e indagine di giustizia, Thou Art the Man; mentre il tema delle cifrature da sciogliere raggiunge la sua più trionfale espressione in chiave narrativa con The Gold-Bug. Per Poe, che conduce una sua guerra personale contro i romanticismi d’accatto, il richiamarsi ai fasti dell’intelletto e all’orgoglio della razionalità ha però anche sempre una dimensione di spettacolo: emblematico è l’istrionismo di Dupin nello snocciolare la ricostruzione della verità e le meraviglie del raziocinio.

Quale che sia il sapore del testo, il cadavere ne è spesso il focus: ora un cadavere in qualche modo “attivo” (Thou Art the Man, Some Words with a Mummy, The Facts in the Case of M. Valdemar), ora passivo ma dotato di un peso fatale (The Oblong Box), ora un cadavere – potremmo dire – solo virtuale (il tema del sepolto vivo, già documentato nel primo periodo con Loss of Breath e Berenice e nel secondo con House of Usher, torna ora in The Premature Burial).

Il fantastico è del resto ricondotto al nesso tra fisicità e mente, come nei racconti mesmerici (A Tale of the Ragged Mountains, Mesmeric Revelation, The Facts in the Case of M. Valdemar), che mostrano l’interesse almeno narrativo di Poe per filoni di speculazione in senso lato esoterici. Mentre il tema della donna che torna è elaborato ancora più alla lontana nel citato The Oblong Box e nel celeberrimo poema narrativo The Raven.

In vari casi, a essere pervertita, spingendo a una percezione falsata della realtà, è la visione oppure la conoscenza. Poe è sempre stato affascinato dal tema dello scarto tra realtà autentica e solo immaginata, scarto motivato da cause diverse (truffa, inganno per beffa, imperfetta percezione, svista…): e ciò emerge ora in una serie di racconti dal sapore comico o almeno ironico. Diddling riguarda appunto il tema della truffa, The Spectacles evoca i rischi di corteggiare una donna senza occhiali se non si vede bene, The Sphinx (che pur ripropone il tema dell’epidemia) spalanca visioni da incubo che si riveleranno alla fine tutt’altro. Sul tema dello scarto beffardo dalla conoscenza di un’epoca sono poi gli unici racconti esoticheggianti di questa fase, The Thousand-and-Second Tale of Scheherazade e Some Words with a Mummy. In chiave di beffa “scientifica” con toni da commedia troviamo poi Von Kempelen and His Discovery.

Va detto che, per quanto non manchino racconti umoristici piuttosto surreali (The Angel of the Odd, The Literary Life of Thingum Bob, Esq., X-ing a Paragrab e altri dei racconti già citati) l’autore ha in genere abbandonato le tipologie burattinesche dei periodi precedenti.

Per contro, rilevante è lo spazio offerto alla dimensione scientifica: abbandonate anche le saghe esplorative di terra e di mare, ad affascinare è ancora il cielo – sia pure in chiave di sberleffo – con The Balloon-Hoax e Mellonta tauta. E in quel testo particolarissimo che è Eureka: A Prose Poem, Poe sviluppa in chiave cosmologica spunti solo accennati nei periodi precedenti. Non manca un ultimo dialogo filosofico tra spiriti disincarnati, The Power of Words, che discute il tema della creazione dell’universo.

Anche il tema della bellezza è affrontato piuttosto in chiave filosofica o almeno riflessiva (The Domain of Arnheim, Landor’s Cottage, l’articolo Morning on the Wissahiccon).

Se poi Poe ha per tutta la vita riflettuto sulla scrittura, e osservazioni interessanti emergono nei testi più vari (si pensi a How to Write a Blackwood Article, beffardo ma rivelativo di meccanismi “a effetto” usati dallo stesso autore), di particolare rilievo sono in questo periodo The Rationale of Verse, The Poetic Principle e soprattutto quell’opera-chiave che è The Philosophy of Composition.

Resta misteriosissimo The Light-House, lasciato incompleto e di cui è impossibile capire come (e se) l’autore prevedesse di continuarlo. Ma più in generale, è impossibile immaginare dove Poe si sarebbe spinto con la sua fantasia se la salute l’avesse assistito. Personalmente tendo a credere che avrebbe fatto tesoro in chiave fantastica e magari di beffa del boom crescente dello spiritualismo, preludendo forse al tipo di storie poi prodotte da un altro americano dark, Ambrose Bierce (1842-1914?).

 

3. Ossessioni e strutture narrative

Quanto detto costituisce naturalmente solo un abbozzo di panoramica e in nessun modo può intendersi quale griglia analitica: i fili che collegano i singoli testi sono infiniti, e il singolo tema può passare dall’avventura al macabro alla commedia lieve in successive declinazioni. Non è insomma particolarmente utile “classificare” i racconti – le connessioni tra gruppi restano troppo strette, le partizioni troppo ampie – quanto piuttosto rimarcare richiami ricorrenti o grumi di suggestioni. Proprio la lettura in ordine cronologico permette di rilevare più agevolmente tali nessi: e il lettore attento può cogliere affinità tra racconti di tipo diverso.

Qualunque scrittore presenta temi forti, che tornano con frequenza significativa: in questo senso Poe non è certo il solo a rivisitare gli stessi motivi e provocazioni declinandoli in versioni svariate. Una certa maschera della vulgata, quella dell’Americano Maledetto vittima di demoni interiori e di vizi degradanti, conduce a considerare alcuni di questi soggetti continuamente richiamati come vere e proprie ossessioni: si pensi alla donna che torna o al seppellimento da vivo. È naturalmente possibile che dimensioni ossessive possano individuarsi, ma occorre sempre una certa cautela nell’interpretare testi letterari costruiti in realtà con lucida consapevolezza.

Certo, il discorso della donna che muore e che spesso torna (ma potremmo dire che torna sempre, sul piano letterario), e la stessa natura insistitamente passiva di buona parte delle figure femminili potrebbero collegarsi a un quadro di fantasmi interiori segnato dalla troppo precoce perdita della madre: qualcosa che conduce da un lato all’angelizzazione (le figure femminili di Poe non mostrano mai connotazioni erotiche) e dall’altro all’affiorare di tendenze sadiche/punitive verso la donna che lo abbandona. Anche se poi è vero che non si tratta di un mero teatro interiore, da esaurire a colpi di psicanalisi. È un dato di fatto, realistico e storico, che i suoi testi fotografino un mondo durissimo, quello americano ottocentesco, dove soggetti fragili come le dame soavi di racconti e poesie soccombono più facilmente e precocemente, falciate dalla consunzione. E d’altro canto si tratta anche (Poe stesso lo ammetterà) di figure del pathos letterario, di topoi del patetico che gli permettono di veicolare lucidamente una serie di effetti narrativi e di temi cari – identità & individuazione, eccetera.

Si pensi anche, per esempio, al tema del grande fuoco che emerge con maggiore o minor enfasi lungo tutto l’arco della sua produzione (idealmente dal primo racconto Metzengerstein del 1932 a uno degli ultimi, Hop-Frog del 1949). Un’immagine che certo potrebbe legarsi con potenza di simbolo al già citato rogo del teatro di Richmond associato – sia pure indirettamente – alla morte della madre, e dunque evocare qualcosa di più profondo di una mera invenzione narrativa ad effetto. Anche se (di nuovo) va detto che negli Stati Uniti del tempo, dove moltissimo è costruito in legno, quella degli incendi devastatori risulta una dimensione ben più quotidiana di quanto noi possiamo percepire… E così via.

Allo stesso modo, il suo istrionismo – palese nei modi teatrali delle voci narranti, ma in fondo anche nei toni di altri tipi di testi – potrebbe rivelare tratti isterici; e almeno sembra di ravvisarvi un desiderio spasmodico dell’attenzione altrui. Forse di essere amato? Ma se è vero che su Poe abbiamo una ricchissima documentazione, a indagini puntuali sulla sua interiorità osta il mistero riguardante alcune dimensioni fondamentali, in particolare i rapporti concreti con figure basilari della sua vita: si pensi solo alla relazione misteriosa e molto discussa tra Edgar e sua moglie Virginia Eliza Clemm (1822-1847), sua cugina prima, sposata tredicenne quando Edgar ha già ventisette anni. Cosciente su quanto i testi di Poe abbiano rappresentato un intrigante terreno d’indagine sia per riflessioni psicanalitiche serie – a partire in fondo da quelle datate ma affascinanti di Marie Bonaparte – sia per intere palestre di psicologismi da rotocalco, lascio volontariamente questo fronte a lettori con competenze specifiche.

Dove invece ci si può muovere in modo un po’ più agevole è sul piano delle strutture narrative: ed è forse possibile distinguere tre tipologie.

a) Anzitutto, a fronte del panorama generale dell’opera di Poe, non sembra scorretto parlare di vere e proprie strutture mitiche e di mitopoiesi nell’indicare quelle costellazioni forti – pensiamo appunto alla donna che torna, al Doppio, al palazzo in rovina, al Grande Contagio, al seppellimento da vivi, alla reincarnazione, ai misteri mesmerici – che Poe consegna come un lascito perenne all’immaginario. Interessante è vedere per esempio l’uso che ne farà il cinema, con caratteri che richiamano proprio alla plasticità del mito. Lo stesso tema vampirico, in Poe sviluppato in forme liberissime dai tradizionali canoni del gotico, emerge come chiave mitica generale: le giovani morte de The Oval Portrait e The Oblong Box subiscono o esercitano vampirismi passivi piuttosto simili a quello delle non-morte Berenice, Ligeia, Morella e una sorta di vampirismo – come detto – è anche quello di The Man of the Crowd.

Tali strutture si agganciano e si innervano una con l’altra. Si pensi alle dinamiche tra personaggi, come nel continuo riproporre tre figure-base: anzitutto la donna del rimpianto/ritorno, sorella di sangue o di adozione, unita in sponsali castissimi e privi di eros; e due figure maschili, a loro volta in rapporto di doppio/rifrazione – come eminentemente espresso in William Wilson, dove la scissione si consuma a partire da una scuola labirintica a immagine di una tortuosa interiorità affondata nell’infanzia. Ma si pensi anche a The Man of the Crowd con il rapporto tra narrante e inseguito, entrambi alla deriva della propria eccitazione; o a The Tell-Tale Heart, dove all’occhio velato della vittima corrisponde la lanterna cieca dell’assassino, e i rispettivi battiti cardiaci si echeggiano l’un l’altro. Emblematico è poi The Sphinx, sorta di Decameron liofilizzato in una novella, dove sullo sfondo dell’epidemia a New York i due uomini che dividono il rifugio sono a ben vedere due volti dello stesso Poe – e se a narrare è quello più tormentato, la chiave beffarda e la dissoluzione dell’incubo sono fornite dall’altro, il razionalista. Anche in The Gold-Bug, il Legrand sospettato di sragione dall’amico narratore, e in effetti invaso da una qualche febbre interiore, è in realtà il fine analista: e su questa linea troviamo in Dupin il protomodello dell’investigatore seriale bizzarro, avo di infiniti cultori di cocaina e orchidee alle prese con una “spalla”, suo doppio opaco. Se poi le figure-base appaiono solitamente a due a due, in un caso eclatante, The Fall of the House of Usher, le troviamo in scena tutte e tre: e come al ritmo di quei carillon con figurine che la rotazione tende a fondere e confondere – magari in uno dei tanti orologi dei racconti di Poe –, ecco che in fondo riecheggiano sempre lo stesso dramma.

b) Altri temi ritornano invece in forme più frantumate, e possiamo parlare semplicemente di topoi. Pensiamo a tutti i racconti giocati sul tema dell’imperfetta percezione della realtà, ma in realtà per motivi diversi, dalla truffa alla svista all’equivoco alla sostituzione alla superstizione: casi troppo vari per permettere di ricondurli a un’unica struttura mitica, anche se si colgono forti affinità. Ma pensiamo anche, in termini più contenuti, a certe singole provocazioni tematiche. La scimmia può essere proiezione umana in chiave di teatrale orrore: si pensi alla Rue Morgue col suo finto uomo e a Hop-Frog coi suoi finti oranghi, quasi scaturiti da un incubo di Dupin. Il tema dell’idillio appartato svela ora natura d’incanto ora dimensioni asfittiche. Mentre un’intera serie di testi evoca la costellazione tempo/orologi/pendolo conducendo in direzioni piuttosto varie.

Un discorso a parte può valere poi sul tema ricorrente delle confessioni di omicidi, alcuni impuniti (The Cask of Amontillado, Hop-Frog) e altri smascherati e in attesa della morte (The Black Cat, The Imp of the Perverse, Thou Art the Man): un itinerario che sembra rigirare come un guanto le diffusissime gazzette popolari d’epoca, concentrate sul dato molto esteriore della truculenza dei crimini. Mentre è dai bassifondi dell’anima che, interpellando filosofi e frenologi ma non fermandosi ai loro assunti, Poe offre i suoi reportage: e se a volte il movente è la vendetta (circonfusa magari di mitologica potenza ma insieme – ecco il giornalista – raccordata al meschino orizzonte delle infezioni dello spirito), a trascinare sono altrove altre cause. Tra le quali quel citato genio della perversione che induce al precipizio interiore, facendo compiere il male per la coscienza che è tale, e per contro inseguendo i rei a vomitare confessioni non volute. Certo in questi abissi c’è l’America puritana, che irrompe inesorabile attraverso le violazioni delle sue leggi morali; ma la denuncia prefreudiana di una vertigine di colpa connessa a qualche forma di degradata ribellione alla legge dei Patriarchi, e tale da mischiare cause ed effetti in un’unica tortura dell’anima, scardina nell’onirico le tradizionali categorie di peccato e gli stessi timori di un inferno oltremondano. Basta in fondo, sembra dire Poe, quello che abbiamo dentro.

E connessioni e continui ritorni investono i personaggi. Molti dei quali conoscono stati di coscienza alterati, eccitazioni più o meno morbose, derive dei nervi o vere patologie mentali: condizioni frutto di peculiarità ereditarie (il legato familiare di sensibilità e fantasia febbrile che torna in parecchi racconti), contingenze metaboliche (l’eccitazione da convalescenza del narratore di The Man of the Crowd) o speciali situazioni emotive (L’ombra), ma altrove causate o almeno agevolate dal ricorso a oppio o sostanze eccitanti. Come l’abuso di tè verde (ben prima di Le Fanu: The Oblong Box); e soprattutto di quel vino che porta alla degradazione (The Black Cat), permette la vendetta (The Cask of Amontillado) o la suscita (Hop-Frog), oppure conduce alla nemesi (Thou Art the Man). Con l’esito più eclatante in King Pest, trasfigurazione alcoolica, grottesca e onirica, dell’incalzare di un Contagio assurto a topos e categoria interiore: dove il narratore è fin dall’inizio partecipe della deformazione visiva che l’etile reca ai protagonisti, descritti in termini non meno paradossali dei mascheroni della corte di Re Peste.

Ma il reticolo di connessioni è strettissimo: e rammentando Hop-Frog, è curioso notare che in Thou Art the Man, tra i presunti mittenti della fatale cassa di vino c’è un Frogs, e che il cadavere accusatore “salta” (to hop) fuori inatteso. Tutto un tessuto insomma di connessioni talora evidenti, ma altrove più sotterranee e giocate in chiave di sghemba allusione.

c) Però c’è un’altra tipologia che mi pare interessante, quella che potremmo chiamare delle forme. Alcune strutture visive, vorrei dire geometriche, evocate nei racconti tendono infatti a proporsi in declinazioni diverse di testo in testo. Per esempio la cassa è una struttura chiusa dal contenuto misterioso che può anche essere un corpo: appare in opere diverse, ha una funzione molto materiale e di servizio, difficile parlare di un topos, eppure la sua forma squadrata torna di frequente. Ma c’è un altro caso, anche più eclatante: la costellazione pozzi/fori circolari/gorghi i cui esempi emergono in testi importanti a suggerire i temi dell’abisso, del vortice, della voragine agli estremi polari del mondo… e così via.

 

4. Tra cortine e sipario

Si è citato il gotico, ed è affascinante notare come Poi lo reinventi radicalmente in un mix originalissimo con il fantastico grottesco alla Hoffmann, con il lascito degli autori neri americani (Brockden Brown, certo Washington Irving) e gli sviluppi neri del romanticismo coevo inglese (Bulwer-Lytton). Finisce così col porsi quale essenziale trait d’union tra l’epoca del primo gotico (quello che corre da The Castle of Otranto di Horace Walpole, 1764, a Melmoth the Wanderer di Charles Maturin, 1820 e alla versione definitiva del Frankenstein di Mary Shelley, 1831: Metzengerstein è del 1832) e la seconda ondata del genere. Cioè l’ondata che parte a metà anni Quaranta, e riceverà spinta da vari fattori, dal successo inglese dei penny dreadful grazie alle nuove rotative a vapore, al botto della nascita dello spiritismo “classico” col caso americanissimo delle sorelle Fox, 1848 (poco più di un anno prima della morte di Poe), a vari altri: e proprio la produzione del Nostro avrà un peso determinante nell’innescarla.

Tuttavia, come detto, soffermarsi troppo sul taglio al nero avalla l’equivoco di esaurirvi un autore ben più ricco. Se è vero che i suoi racconti macabri ne restituiscono la voce più nota e amata dal pubblico, e insieme forse più rispondente a certe crisi interiori, il rischio è di confondere Poe coi suoi personaggi: di dimenticare cioè lo scarto lucidamente corteggiato da uno scrittore smaliziatissimo tra vita interiore e produzione letteraria. Emblematico è il saggio The Philosophy of Composition sulla genesi di The Raven: opera che certo denuncia per l’ennesima volta un rimpianto-vampiro dalle emersioni perturbanti e psichicamente devastatrici, ma anche l’uso che egli sa trarne razionalmente, inseguendo i lettori nelle loro emozioni e malinconie.

Significativo del resto il richiamo alla cifra del grottesco e arabesco da Poe stesso richiamata nel noto titolo della prima raccolta: quel lavoro di cesello da artista controllatissimo, profondamente letterario, che non si esaurisce nel travaso di angosce, e insieme un senso di spiazzamento che corteggia insieme macabro e ironia. A rammentare tra l’altro come pochi altri autori “neri” offrano un corpo tanto significativo di racconti ironici, sarcastici o decisamente comici – a volte macabri, a volte no.

Figlio di attori (è questa la fantasia ereditaria indicata in varie opere come matrice di irrequieta e febbrile visionarietà?), Poe offre nei racconti ideali monologhi teatrali: e se l’attenzione che il cinema gli tributerà guarda ovviamente, in prima battuta, al contenuto fantastico e nero, è pur vero che sceneggiature in sé non troppo fedeli possono ricondurre alla fonte attraverso lo stile d’interpretazione – capace di proclamare le ragioni della Notte con l’elegante teatralità dei soliloqui di Poe. Le cupe cortine dei suoi letti a baldacchino tirate a svelare epifanie della morte, le tappezzerie illusionisticamente arabescate mosse da fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano figure allarmanti svelano tutti, in qualche modo, i caratteri del sipario. E insomma la contestazione da “puristi” sul frequente, presunto tradimento di Poe su grande schermo – si pensi alle libere versioni di Roger Corman con l’immenso Vincent Price – può essere confutata alla luce di questa vocazione degli scritti virtualmente teatrale, spesso istrionica, gigionesca, tale da far riconoscere a certe pellicole popolari una maliziosa fedeltà allo spirito se non alla lettera di Poe.

Certo, la scrittura può essere quella con cui l’invitato di The Fall of the House of Usher tenta vanamente d’intrattenere l’ospite Roderick nella notte della tragedia: un placebo – ci provoca Poe – non molto diverso dagli oppiacei o dall’etile. In The Oval Portrait l’arte svela addirittura una dimensione vampirizzante. La scrittura può essere tante cose, e nelle pagine di Poe troviamo libere fantasie e polemiche puntuali, provocazioni e pose, ansie di gloria letteraria e genuini rovelli interiori – e poco importa che siano portati in scena dall’attore Edgar che cambia continuamente maschera e non ci permette realmente di vederlo dietro. Da qualche parte di queste confessioni avvertiamo una verità profonda, legata a un vissuto pesante e agli abissi di un inconscio con cui certe epopee di nicchie sotterranee e sepolti vivi potrebbero avere a che fare: qualcosa che ci sfida a capire ma cogliamo solo e sempre in modo incompleto, venato di dubbi. Come i suoi successori (si pensi a Lovecraft, cui viene spesso paragonato) e predecessori nel linguaggio fantastico, Poe non può essere confinato nel caso clinico, nel limbo di uno strano e neppure nelle logiche di immediata appetibilità dell’odierno pubblico pop – non sempre intenzionato a lasciarsi sfidare dalla complessità. Se l’uomo è un libro maledetto che non si lascia leggere, la condivisione donata di sofferenze e glorie attraverso il tempo ha piuttosto il nome di letteratura.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (I) https://www.carmillaonline.com/2019/09/28/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-i/ Sat, 28 Sep 2019 21:16:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55016 di Franco Pezzini   

[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]

1. Premessa. Rileggere Poe

Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i [...]]]> di Franco Pezzini   

[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]

1. Premessa. Rileggere Poe

Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i gotici – o più o meno tali – ad aprirsi la strada persino tra le letture scolastiche della sospettosissima Italia (hai visto mai che gli autori gotici portino i ragazzi sulla brutta strada), Poe è un evergreen editoriale, continuamente ristampato. E, badiamo bene, non è banale che continui senza interruzioni a essere proposto ai lettori italiani – e in sostanza a vendere: possiamo persino prenderlo come un segno di speranza. La scrittura elegante di un autore (non dimentichiamolo) della prima metà dell’Ottocento non è avvertita come pregiudizialmente ostica, e permette per esempio l’adozione in scuole di vario livello tra i testi consigliati; le domande sulla Vita e le conturbanti epifanie della Morte presenti nelle sue pagine costringono a meditare sull’intensa verità interiore della letteratura (cosiddetta) fantastica; le sue intuizioni sull’inconscio e su un genio della perversione che interpella insieme san Paolo e Freud incalzano il lettore nelle più scomode zone d’ombra. Pare sia addirittura, tra gli scrittori moderni, quello più frequentemente illustrato. Insomma una celebrità. Eppure…

Eppure questa conoscenza sfuma nel luogo comune. Le raccolte di suoi testi sono in genere miscellanee non strutturate in ordine cronologico, ma con racconti dispersi in un unico minestrone secondo il gusto del curatore del momento: quasi impossibile per il lettore cogliere il senso di un’evoluzione nella scelta dei soggetti e nello stile, le fasi tematiche (pur senza pretese d’individuarvi rigide cesure), magari i percorsi carsici dello stesso tema tra novelle serissime o invece buffe, e per tutte le tinte intermedie. Le sue donne spettrali e il suo orizzonte dolente vengono spesso semplicisticamente ricondotti a struggimenti per la morte di tisi della moglie bambina, idea che un semplice controllo delle date basterebbe a confutare. La pubblicazione dei suoi racconti su riviste ha comportato una loro – a volte significativa – trasformazione dalle prime edizioni a quella “definitiva” che leggiamo noi, con connotati cangianti che talora ne vedono mutare addirittura il senso di fondo: e questo in genere resta ignoto al lettore.

Sì, è considerato un classico, viene tanto pubblicato ma in genere senza contestualizzare il suo mondo (la società americana cui il giornalista Poe rivolge graffianti osservazioni, la dimensione metropolitana in ridefinizione, l’orizzonte di una nazione che sta spregiudicatamente costruendo il proprio impero): e il lettore medio nostrano, che conosce poco di quell’America pure tanto presente sullo sfondo, non coglie i richiami. I testi vengono poi presentati in troppi casi con note insufficienti o nulle, rendendo incomprensibile la maggior parte di ammiccamenti e sottotesti (spesso riferiti ad autori al tempo di moda ma oggi e tanto più da noi ignorati, oppure all’attualità minuta del suo tempo), e a volte risulta criptico il significato stesso delle storie. Col risultato d’insistere sulla musicalità di Poe: vero, ma quella musica supporta significati precisi, e non si esaurisce nella bellezza dell’arabesco cui pure lui tanto tiene.

E ancora: un certo tipo di caricatura appioppatagli insiste sul Poe alcolista, magari drogato, magari dedito compulsivamente al gioco, le cui opere sarebbero frutto diretto delle sue infinite trasgressioni. Questa è un’altra delle sgangherate fantasie su di lui, in parte già circolante per i livorosi commenti di alcuni contemporanei. A periodi Poe è stato effettivamente vittima dell’alcool – etilismo e consunzione sono del resto i due grandi e diffusissimi mali dell’America dell’Ottocento – ma non è questa una situazione continuativa che l’abbia afflitto negli anni; non risulta aver fatto uso di droghe, salvo le dosi d’oppio contenute in farmaci d’epoca; non era, a dispetto di quanto ogni tanto si senta dire, un cultore dell’assenzio; e le esperienze di gioco d’azzardo, se ci sono state, si sono esaurite tra le ragazzate degli anni universitari. Molto di tutto questo si trova invece nei suoi personaggi, che troppo spesso vengono confusi con lui. Quanto ai suoi testi formalmente levigatissimi, non si tratta di opere compatibili con la perdita di controllo tipica dell’assunzione di alcolici o droghe, e presuppongono un’attività letteraria rigorosamente sobria. Non dimentichiamo mai, piuttosto, la sua teatralità – istrionismo, gigioneria – che lo fa giocare con certe maschere: ma in modo lucido, consapevole. Sfuggente, certo: basta leggere il suo epistolario e ci rendiamo conto della quantità di menzogne o piuttosto fantasie da autofiction che imbandisce agli interlocutori. Un ignoto a se stesso che ha comunque estrema consapevolezza del suo ruolo autorale e del tipo di controllo richiesto dalla buona letteratura.

La stessa nomea di scrittore dannato, maestro del macabro e del mistero lo confina a monumento e padre remoto dei generi “a effetto” ancora vivissimi oggi – in particolare horror, fantascienza e poliziesco: ma l’immagine pur fondamentale del Poe maestro d’orrori deve fare i conti col fatto che una parte molto importante della sua produzione è in realtà di carattere ironico, satirico o decisamente comico.

Si direbbe persino che non possano sorgere novità su di lui, tanto la critica ha lavorato sui suoi testi quando ancora eredi e predecessori “neri”, gotici e affini, restavano fuori dalle accademie. Una presunzione di conoscenza che invece continua a confrontarsi con sorprese: per esempio gli studi qualche anno fa dello scrittore nostrano Gianfranco Manfredi su giornali statunitensi dell’Ottocento evidenziano quanto nell’immaginario locale la consunzione, diffusissima e letale – una costellazione vaga e ampia di malattie polmonari, dalla TBC alle affezioni dei lavoratori dei mulini –, nutrisse una mitologia del vampiro. Qualcosa che permette di interpretare Ligeia & sorelle (compresa la dentata Berenice) come assai più radicate nel filone dei succhia-vita di quanto in genere si sia concesso. Per non parlare di quel vampirismo che in The Man of the Crowd, sorta di Ebreo Errante della modernità urbana, ha ormai valore metaforico di un’osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa.

Insomma, studiare Poe ci provoca a scoprire che si tratta di un bacino di fantasie assai meno scontate di quanto spesso si consideri: e iniziative di rilettura della sua opera permettono veri e propri colpi di scena. Di qui anche l’importanza di un lavoro sul tessuto dei testi come via via prodotti negli anni – a cogliere fili che si dipanano tra un titolo e l’altro – e via via oltretutto trasformati nel tempo, soprattutto quelli della prima produzione: basti dire che il primo racconto di Poe, Metzengerstein, nato con abbondanti dosi d’ironia macabra e di paradosso fiabesco, diventerà, di taglio in taglio, un racconto nero in perfetto stile gotico.

2. Stagioni, variabili e costanti

Si è accennato al problema della difficoltà per i lettori delle raccolte circolanti – in sé anche ottime, la mia non è una polemica – di sfuggire a un pregiudizio fondamentale, che cioè Poe abbia per tutta la vita battuto un po’ sempre gli stessi pochi temi. Chi invece si sforzi di seguire un ordine cronologico dei testi si accorge di un’evoluzione della sua opera, in rapporto sia ai suoi interessi artistici e speculativi sia – non dimentichiamo questo aspetto – alla pragmatiche possibilità di collocazione editoriale. Qualcosa che conduce a riconoscere varie fasi creative, certo non chiuse e prive di rigide cesure (i temi transitano spesso da una fase all’altra, ma magari con equilibri interni sensibilmente mutati); e tuttavia connotate da un diverso sapore generale. In questi termini forzatamente elastici la produzione di Poe può ripartirsi – alla grossa – in tre grandi stagioni.

1. C’è anzitutto una stagione che potremmo chiamare delle sperimentazioni, e che corre dalle prime prove poetiche (1824) e narrative (appunto Metzengerstein, 1832) a Ligeia, il primo dei capolavori riconosciuti (1838). Una fase cioè in cui il giovane autore sta cercando di trovare espressioni congrue al suo lussureggiante mondo interiore, a partire dal suo primo amore, la poesia; e dove però si trova indotto a misurarsi con forme via via diverse di scrittura – dai racconti al suo unico romanzo compiuto Gordon Pym (1837-38), dalla saggistica a tagli diversi di articoli e recensioni –, in parte proprio per star dietro alle proprie fantasie e in parte per motivi pragmatici, economici di collocabilità dei pezzi. Certo continua a produrre poesia, una forma di scrittura che frequenterà tutta la vita, sia con testi nuovi, sia tornando indefinitamente a modificare i vecchi. E certo riconosce una propria vocazione idealmente teatrale: è figlio d’attori, ha il teatro nel sangue e una certa teatralità nel rapportarsi al mondo; così tenta anche un’opera teatrale che però non lo convince e abbandona, il Politian (1835-1836). Ma abbastanza presto deve rendersi conto che entrambe, la cifra poetica e quella teatrale, possono trovare trasfusioni artisticamente adeguate e pragmaticamente vendibili nella prosa breve: quella in fondo che lo renderà più famoso.

Così da un lato, sull’onda delle fantasie visionarie, esoticheggianti e oniriche presenti nella sua produzione lirica (per due esempi emblematici della primissima produzione, si pensi solo a Tamerlane o Al Aaraaf) vediamo apparire in prose brevi una serie di racconti su fantastici scorci esotici, incredibili città di mondi remoti, orienti favolosi e ambigui (A Tale of Jerusalem, Shadow—A Parable, Four Beasts in One—The Homo-Cameleopard, Silence—A Fable). Dall’altro vediamo trasferire in forma di racconti tutto un teatro di febbrili monologhi dove sembra di vedere Poe gigioneggiare su un palcoscenico.

Questo secondo aspetto è particolarmente evidente nei testi sulle donne che tornano, caratteristici di questa prima stagione (Berenice, Morella e appunto Ligeia): un tema che incalza Poe un po’ per tutta la vita, ma in seguito declinerà quale elemento di contesti più complessi mentre qui emerge per così dire puro, in primissimo piano. Si è visto in questi racconti il contributo di Poe al nascere della ghost story e può essere senz’altro corretto: ma la natura di queste ritornanti va rettamente intesa, e in primo piano spicca anzitutto l’interesse per i doppi e le ossessioni e crisi legate all’identità. Ciò che non stupisce, visto che il tema identitario – sia nell’accezione individuale (personale, psicologica) che collettiva (sociale, politica) – è uno dei più forti e connotanti del fantastico moderno, e corre nella tradizione gotica fin dai suoi esordi: e del resto in questa fase Poe pratica con larghezza le forme del gotico.

Ma pensiamo a un altro topos gotico, la casa-palazzo che crolla o comunque va in desolazione, e che lo accompagnerà anche nelle fasi successive. Che possiamo idealmente scomporre in due costituenti, la casa-palazzo (enorme, labirintica erede dei castelli gotici) e il grande incendio, legati a stretto filo alla mitologia personale del bambino e poi uomo Edgar: la prima nella memoria della grande magione Moldavia – si noti il nome evocante fantastiche Europe orientali – del patrigno John Allan archetipo del tiranno; e il secondo dell’apocalittico rogo del 26 dicembre 1811 al teatro di Richmond associato alla memoria della morte (poco prima, 8 dicembre) di sua madre. Il fatto che il primo racconto, appunto Metzengerstein con il crollo del palazzo in fiamme, già metta in scena tale combinazione può dir qualcosa della loro forza immaginale.

Ma Poe inizia a rileggere in questa fase anche altri temi romantici neri – dal suicidio degli amanti (The Assignation) alla contrattazione col diavolo, reinventato in chiave ironica (The Duc de L’Omelette, Loss of Breath, The Bargain Lost/Bon-Bon) – o comunque macabri/grotteschi come l’esordio del motivo dell’uomo che perde pezzi in chiave burattinesca (ancora Loss of Breath): questi motivi emergeranno ancora per qualche tempo nella seconda stagione per poi sparire. Appare già anche, non casualmente date la contingenza della grande epidemia colerica, il tema del contagio (King Pest, Shadow—A Parable).

D’altra parte, come detto, Poe attraversa disinvoltamente ogni barriera dei generi letterari che compilatori successivi hanno cercato di recintare. Così se in questa prima fase troviamo per esempio le prime prove di una satira di costume ancora surrealmente burattinesca (Lionizing, Mystification), eccolo dare voce ad altri due filoni eccellenti. Cioè da un lato le grandi storie di mare – spesso estreme, tra oceani onirici e terre cave, suggestioni simboliche e misticheggianti (MS. Found in a Bottle, appunto il Gordon Pym) – che guardano insieme ai filoni avventuroso, dei drammi di navigazione e dei viaggi d’esplorazione. E dall’altro inizia a profilarsi una protofantascienza dai connotati satirici – come spesso nei prodromi del filone, tra Sette e Ottocento –, ma non priva di genuine provocazioni scientifiche sul tema del volo mirabolante (The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall).

Un discorso a parte potrebbe riguardare un testo particolare come l’articolo Maelzel’s Chess Player, dove lo sforzo di decostruire un meccanismo da spettacolo – il famoso Turco giocatore di scacchi portato in giro dall’impresario Johann Nepomuk Mälzel – prefigura già in fondo i meccanismi del poliziesco.

2. Come detto, non è tanto un discorso di cesure tematiche quanto di tipo d’approccio e status autoriale quello che permette di individuare dopo Ligeia una seconda stagione, indicativamente fino a The Pit and the Pendulum, 1842-43: è l’epoca – potremmo così chiamarla – dei grandi affreschi fantastici. Poe si è ormai affermato, sa come muoversi ed è interessante vedere che i testi cambiano assai meno dalla prima all’ultima redazione. E dove cambiano, talora è anche nel continuo dialogo tra poesia e prosa: nei racconti inserisce componimenti lirici tematicamente adeguati (per esempio The Conqueror Worm, 1843, in Ligeia) o invece li scorpora dal testo (Inno, sfilato nel 1840 da Morella).

I singoli temi gotici (la casa-palazzo che va in desolazione, l’identità e il doppio, l’epidemia) vengono ampliati in grandi affreschi, articolando maggiormente le trame e le costruzioni d’ambiente: si pensi a The Fall of the House of Usher, William Wilson, The Masque of the Red Death, ma anche a The Man of the Crowd e The Pit and the Pendulum. Il tema della donna che torna, in particolare, trova ora riproposizioni in storie che ampliano la visuale (appunto The Fall of the House of Usher) o viene radicalmente reinventato (Eleonora, The Oval Portrait), forse anche in rapporto con l’inizio nel 1842 della malattia della moglie.

Certo Poe continua a sperimentare (lo farà, del resto, tutta la vita) ma su una base ormai sicura quanto a tecnica e apprezzamento dei lettori. Proprio dalla fusione tra elementi del gotico e storie di ragionamento/indagine/deduzione (basti citare lo Zadig di Voltaire) costruisce ora per esempio qualcosa di radicalmente nuovo, dando origine al romanzo poliziesco con The Murders in the Rue Morgue; e una novità è anche di attribuire a quel testo un sequel nel senso moderno, The Mystery of Marie Rogêt – nasce insomma il detective seriale. Alla categoria degli enigmi da risolvere si può peraltro accorpare anche l’articolo A Few Words on Secret Writing sul tema della crittografia, che darà frutti narrativi più avanti.

Sempre mixando suggestioni macabre e speculazione filosofica vara poi una piccola serie di dialoghi tra soggetti defunti che ragionano sulle misteriose realtà oltremondane e sulla distruzione del pianeta per il passaggio di una cometa, quasi in termini di fantascienza apocalittica (The Conversation of Eiros and Charmion, The Colloquy of Monos and Una). Per contro va chiudendo in questi anni il tema delle avventure di mare (sia pure con un gioiello come A Descent into the Maelström) e di terra (l’avvio di The Journal of Julius Rodman, nuovo romanzo lasciato però incompleto).

Torna anche il tema del diavolo, sempre in chiave grottesca alla Hoffmann (The Devil in the Belfry e Never Bet the Devil Your Head). Del resto i racconti in chiave di satira di costume mostrano ancora in genere caratteri burattineschi (How to Write a Blackwood Article, The Business Man, A Predicament, The Man That Was Used Up, Why the Little Frenchman Wears His Hand in a Sling); con la curiosa eccezione di Three Sundays in a Week che già preannuncia i testi più tardi di pura commedia e mostra il caso eccezionale di un’eroina femminile non passiva, e che vince grazie a competenze scientifiche. Ma spesso la satira, il grottesco, la comicità, appaiono connotati da elementi macabri: trova massimo sviluppo in questo periodo il citato tema dell’uomo – o della donna – che perde pezzi, cioè la testa o altro (A Predicament, The Man That Was Used Up, Never Bet the Devil Your Head).

Abbandonati in generale gli esotismi della prima stagione, i testi estetizzanti acquisiscono risonanze filosofiche di più ampio respiro (The Island of the Fay, The Landscape Garden) o sviluppano riflessioni sul richiamo al Bello anche nella vita corrente (l’articolo The Philosophy of Furniture).

(1 – continua)

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/26/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-ii/ Mon, 26 Aug 2019 21:05:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54308 di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata serie di comunità o gruppi segreti. Ciò che rileva, infatti, non è tanto un inquadramento “teorico” del soggetto – cosa sia o non sia una setta – ma un contesto narrativo e una serie di stereotipi e dinamiche.

Accanto alle sette vere e proprie, dunque, potremo repertoriare da un lato società e ordini segreti o almeno velati da un silenzio iniziatico come Rosacroce, Massoneria e Illuminati, connotati da un peculiare esoterismo; dall’altro ordini religiosi storicamente riconosciuti ma oggetto di particolare mitopoiesi come i Templari. Ma anche quelle comunità cultuali che per fanatismo, marginalità o vocazione al segreto gli sceneggiatori apparentano di fatto – e con tutti i pregiudizi del caso – alle sette: certi culti esotici, per esempio, non importa quanto fantasiosi (per esempio il culto di Karnak dei film sulla Mummia reviviscente, o i simil-Thug di Indiana Jones e il tempio maledetto).

Per contro non andrebbero comprese nell’analisi (per assenza di un sottotesto magico-religioso dal concreto impatto sulla trama) le società segrete o criminali, anche se connotate nella descrizione filmica da richiami forti a simboli, riti e valori. Al di là di un certo apparato, si pensi solo a quei Beati Paoli di discussa esistenza storica, celebrati all’inizio del Novecento da Luigi Natoli e sul (piccolo) schermo per esempio in un famoso sceneggiato nostrano, L’amaro caso della baronessa di Carini di Daniele D’Anza, 1975.

Ma è l’immaginario a definire i confini. Così, per quanto a rigore le vicende della Family di Manson appartengano all’insieme dei gruppi criminali assai più che alle sette nell’accezione dell’antropologia religiosa, i confusi connotati “filosofici” del gruppo, le orrende modalità del crimine e il tipo di contesto retrostante finiscono con l’avvicinare al tema del diabolismo: solo l’anno prima Roman Polański, marito dell’attrice Sharon Tate – la vittima più nota dell’eccidio, all’ottavo mese di gravidanza – aveva girato quel sulfureo Rosemary’s Baby, 1968 che parlava proprio di una setta satanica e della nascita dell’Anticristo.

In secondo luogo si è accennato al filone delle sette come a un subgenere cinematografico – come, per intendersi, il vampire cinema oppure il cinema demoniaco. Ma anche da questo versante il discorso è più sfumato, visto che nei singoli casi la setta può non rappresentare affatto il “mostro” principale o più evidente. Si pensi ai citati film sulla Mummia reviviscente o a quelli che richiamano gli zombie alla loro origine folklorica: la setta c’è eccome – nel primo caso un sopravvissuto culto egizio, nel secondo un Vudu riletto più o meno fantasiosamente – ma resta in secondo piano o decisamente defilata rispetto al suo alfiere teratologico (che magari si ribellerà, ucciderà l’arci-vilain capo della setta eccetera). Oppure si considerino i film sulla stregoneria: solo in certi casi presentano una collettività streghesca, e a volte le streghe non appaiono affatto, anche se l’inquisitore di turno si mostra molto indaffarato coi roghi e possiamo parlare di setta presunta – che però può avere peso concreto nella trama.

Nel tentativo dunque di porre ordine in una materia tanto sfuggente, un criterio potrà ravvisarsi – con tutta l’elasticità del caso – nella tipologia di setta, in riferimento cioè all’oggetto del “culto” in scena. E una prima e fondamentale categoria riguarderà ovviamente le sette religiose – le più diffuse senz’altro nel tessuto sociale, anche se non necessariamente le più rappresentate al cinema. Da un primo fronte potremo anzi distinguerle in due ampi filoni: le sette emerse dall’interno dell’Occidente che conosciamo, a espressione di ipotetici revival pagani o invece di istanze criptoecclesiali, giocate sul rapporto fanatismo/plagio o sulla resistenza alla chiese dominanti; e le sette venute dall’esterno, connotate in genere da aggressive e pittoresche forme di esotismo. Esotismo geografico, come nel caso di quelle d’importazione dall’Africa selvaggia o dal predatorio Oriente, secondo i più vieti stereotipi transitati attraverso il pelago della cultura popolare tra Otto e Novecento; ma anche esotismo cronologico, in riferimento a realtà del passato evocate nei film in costume, oppure sopravvissute o riemerse dal passato entro il grembo del nostro tempo, come il citato culto di Karnak dei film sulla Mummia.

Un secondo filone, meglio rappresentato su schermo, riguarda la galassia di magia e stregoneria. Le sette insomma dell’occulto, variamente declinato: e se per le streghe, che aprono un orizzonte vastissimo di problemi, occorrerebbe circoscrivere l’esame agli aspetti di un “culto” più o meno recuperato dalla divulgazione popolare (non è detto che un film dov’è in scena una singola strega alluda a una qualche sua collettività di appartenenza), altre comunità emergono in toto dal mondo della fiction. Si pensi ai culti blasfemi ispirati agli scritti di Lovecraft, che con abbondanti forzature troveranno via via spazio nel cinema, o (per dire) allo sfuggente e bizzarro culto dei Pantos delle fantasie horrotiche del regista Jess Franco. A quest’ambito variegato si possono peraltro accostare anche le sette evocate dai film di vampiri – sette di vampiri o comunque legate a vampiri, riti di sangue e ansie d’immortalità – o di licantropi: sottofiloni che negli ultimi anni, attraverso il successo della saga Twilight e le divagazioni di un (com’è stato definito) romanticismo sexy, sia pure al plasma, hanno visto moltiplicarsi nella fiction conventicole sempre più simili alle associazioni adolescenziali da college.

Terzo grande gruppo, di conclamata rilevanza nell’immaginario e dunque ovviamente importantissimo su schermo, è poi quello delle sette sataniche – o più generalmente diaboliste. Varato dal capolavoro non sufficientemente conosciuto di Edgar Ulmer, The Black Cat, 1934, il filone è quello che con più pertinacia ripropone gli stereotipi del modello-setta offrendo materia ogni anno a un numero non compiutamente repertoriabile di pellicole.

A tali macroaree dovranno però aggiungersi altri insiemi filmicamente meno rappresentati e con legami più problematici con il modello-setta, pur trattenendone alcune caratteristiche nelle trame. Troveremo per esempio le citate società segrete “storiche” di tipo esoterico (Illuminati, Rosacroce eccetera…) ovviamente nell’ambito di liberissime riletture; certi gruppi di controllo e cospirazione a carattere sociopolitico (sette votate al dominio, sette di ricchi, gruppi “preoccupati”), o connotati sul piano generazionale (confraternite giovanili, hippies, “sette” di bambini) o sessuale (come certe sette femminili). Oltre ad altri gruppi chiusi che gli stilemi cinematografici riconducono in termini più o meno riconoscibili al modello-setta.

 

1.3. Le stagioni della setta

Nella produzione filmica in tema di sette è possibile individuare quattro periodi fondamentali.

Il primo e più lungo periodo potrebbe essere definito come età del feuilleton. La setta è descritta secondo gli stilemi di tutta una produzione romantica/gotica su società e gruppi segreti: l’arsenale tenebroso e pittoresco, l’esotismo e l’enfasi su un passato tirannico, il dominio arcano su forze misteriose e minacciose, i melodrammi delle eroine sono elementi che sottolineano uno scarto tra l’esperienza mostruosa della setta e la realtà sociale “normale” cui appartiene lo spettatore. Non che manchino, intendiamoci, richiami all’inquietudine; ma la setta è un paradigma dell’estremo che interpella solo in via di eccezione. In questi anni, seminale è l’opera di fiction del “principe degli scrittori thriller” tra i Trenta e i Settanta, Dennis Wheatley (1897-1977): tutti coloro che in seguito immagineranno il theatrum delle sette si rifaranno in modo diretto o indiretto a lui, e una delle ultime grandi opere di questa fase è The Devil Rides Out, 1968, tratto dal suo omonimo romanzo, diretto per la Hammer da Terence Fisher e sceneggiato da Richard Matheson.

La svolta si ha idealmente con il caso Manson, che punta diretto al cuore del cinema ma scatena il panico non solo a Hollywood: altri crimini della Family hanno colpito gente comune, talora con teatrale atrocità, e il combinato di totale devozione dei membri, difficoltà di provare le accuse a Manson e impossibilità di circoscrivere con chiarezza un gruppo tanto sfuggente (ammiratori e fiancheggiatori non si contano) spiazza gli investigatori e alla fine il pubblico. Colpita è una certa immagine dell’America, e il caso finisce col segnare una svolta nell’immaginario già investito dal terremoto simbolico del ’68: la carica di sovversione recata dalla setta sembra sovvertire in chiave satanica i valori di un paese fondato con la Bibbia in mano, minacciare ogni possibile ambito, infiltrarlo in radice (perverte persino il “peace and love” marca hippie), annunciare la presunta apocalisse sociale dell’Helter Skelter. Anche attraverso il sensazionalismo da rotocalco di un’epoca in cui le fonti per comprendere un fenomeno sono limitate e l’esplosione coeva del grande revival magico (che potremmo simbolicamente datare all’uscita nel 1970 di Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural is an encyclopedia of the supernatural a cura di Richard Cavendish, ma ovviamente vede una quantità di tasselli precedenti), il mostro-setta entra così a piedi uniti nel genere horror. Che sta capitalizzando proprio le confuse dinamiche di un’età di ribellione – si pensi agli innumerevoli film sulla persecuzione delle streghe, già avviati dal leggendario The Witchfinder General (Il Grande Inquisitore) di Michael Reeves, 1968 – e trova in quel soggetto teratologico collettivo un tema importante. Al di là di abbondanti concessioni al pruriginoso, i film di questo periodo – che potremo appunto chiamare età dell’Helter Skelter – rivelano ancora a una lettura odierna la propria carica provocatoria. Una dimensione che però alla fine degli anni Settanta tende a esaurirsi.

Se è difficile ravvisare un punto di svolta, pare possibile riconoscerlo almeno a fini convenzionali nel 1978: in corrispondenza cioè con un nuovo terribile evento di forti ricadute sull’immaginario, il cosiddetto massacro della Guyana. A portare alla morte di novecentodiciotto persone, bambini compresi, non è un satanista (come spesso viene imprecisamente definito Manson) votato all’eversione ma un religioso, il reverendo Jim Jones del Tempio del Popolo: e il rapido approdo su schermo di un evento tanto eclatante – Guyana: Crime of the Century (Il massacro della Guyana) di René Cardona Jr., 1979 – è già indicativo di un nuovo modo di raccontare le sette. Potremmo parlare di età dell’ordinaria crudeltà per il periodo che giunge fino all’inizio degli anni Novanta: esaurita la valenza provocatoria del tema – come per molti altri sottofiloni gotici, si pensi al vampire cinema – con l’età del riflusso la tendenza è di confezionare prodotti “sicuri” nel segno di uno stile definito come originalità decorosa. Non che, ovviamente, manchino in assoluto film coraggiosi; ma a livello diffuso, abbandonate le emozioni del classico feuilleton e anche quelle della rivolta lisergica, la setta diviene uno stereotipo mostruoso come altri, in un continuo rilancio all’atroce.

Con l’inizio degli anni Novanta, però, l’horror e in genere il fantastico conoscono una nuova primavera: e pare emblematica l’uscita nel 1991 del film La Setta di Michele Soavi. In questa fase la riscoperta dei classici del passato (anche grazie a strumenti come VHS, DVD e comunque il web), l’intento di recuperarne il sapore anche filologico, il dialogo con la cultura neogotica conducono a un’attenzione nuova ai miti neri. In tale età gnostico-gotica (così potremmo chiamarla) che vedrà figure antiche riprendere quota con impreviste impennate le sette ritrovano un ruolo importante nell’immaginario cinematografico. Si diffonde nella cultura popolare una fascinazione un po’ New Age per quel filone criptoecclesiale che già annuncia Dan Brown, e permette di innestare nel vecchio arsenale paleogotico (abbazie dirute, inquietanti segreti, ambigui monsignori…) un nuovo esoterismo di consumo: un fenomeno oggi arretrato ma conservando il valore di un riferimento “eccellente” e un certo target. Emblematico anche il successo di altre fantasie gotiche che con le sette possono trovare connessioni, dal fantasy gotico della saga di Harry Potter – che riporta in circolazione il tema dei gruppi magici – alla variegata offerta (Buffy, Twilight) in tema di vampiri e relative collettività segrete: anche su questo fronte si assiste oggi a un arretramento, ma si tratta di temi ormai entrati nell’immaginario collettivo.

Se, a distanza di quasi trent’anni, i richiami al “mostro plurale” iniziano a sembrare un po’ logori (ma sempre godibili e magari sanamente provocatori se gestiti con intelligenza) non è in questione forse solo la rapidità con cui il nostro mondo usa e getta. Il fatto è che l’età del sospetto ha ormai scoperchiato le cripte un tempo segrete: non perché il segreto in quanto tale non abbia più spazio nel nostro mondo iperconnesso, ma perché quelli che davvero esistono sono affogati nella chiacchiera. Montate come maionese dai social, bufale e crociate antibufale (magari per imbavagliare il web) presentano la stessa assenza di logos. Il cospirazionismo e il suo fratello gemello, l’anticospirazionismo di comodo – quello che inibisce qualunque dubbio sulla realtà come presentata, in nome d’interessi che restano di classe e non equivocamente di casta, nuovo nome della setta – lavorano felici assieme.

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (I) https://www.carmillaonline.com/2019/08/23/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-i/ Fri, 23 Aug 2019 21:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54254 di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo [...]]]> di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo relativamente limitato esplode nei media sparigliando tutte le carte. La società americana è colta alla sprovvista dall’orrore e insieme dal carattere sfuggente della vicenda (la tesi di un apocalittico conflitto sociale che Manson avrebbe inteso scatenare attraverso gli omicidi risulta almeno fantasiosa, e legata – il memoriale Helter Skelter del prosecutor Bugliosi è abbastanza chiaro – alle difficoltà probatorie di sostenere l’accusa al malefico santone); e pur avviando un periodo di forte tensione, l’eccidio perpetrato dalla cosiddetta Family di Manson non porta a una generalizzata caccia alle streghe verso le controculture, come forse sarebbe avvenuto in altri momenti. Ma certo quel caso offre su un piatto d’argento all’immaginario collettivo – tra motivi concreti e stigmatizzazioni di parte, anche a seconda dell’approccio assunto dall’osservatore verso le realtà alternative – un nuovo volto della rivolta beat, ben più imprevedibile e allarmante. Sul tema, estremamente complesso, in questa sede non si entra.

Ciò che invece interessa è un altro contraccolpo immaginale. Il caso Manson influisce infatti in modo irreversibile sull’idea di setta presente in narrativa ma soprattutto sugli schermi, e che perde improvvisamente i connotati da feuilleton conservati fino a quel punto per assumerne di assai più sinistri.

 

1.1. Uomini e topoi

Di fronte all’odierno brulicare nella fiction (horror, storie fantastiche, thriller, polizieschi, e l’elenco potrebbe continuare) del soggetto-setta, di primo acchito si è portati a sospettare una sorta di diffusa pigrizia narrativa. A dirla con malizia, l’entrata in scena della setta di turno – spesso cattivissima – esime romanzieri e sceneggiatori dallo sforzarsi troppo sui moventi dei crimini, dal costruire psicologie complesse ai personaggi buoni e cattivi, dall’intessere dinamiche di eccessiva originalità. E permette di riciclare indefinitamente ingredienti simili, colpi di scena compresi. Ci sarà per esempio il momento in cui l’eroe intuisce di trovarsi di fronte a una realtà oscura collettiva e segreta; ci sarà la messa in scena del controllo che la setta esercita su soggetti più o meno vivi (persone “normali” controllate via plagio, ipnosi o forme di necrosi psicologica, ma anche zombie e mummie); ci sarà la scena del rito tenebroso, magari orgiastico; e ci sarà la solita fanciulla, o più raramente l’eroe o antieroe, davanti alla prospettiva di qualche orrendo sacrificio. Quando poi – come più raramente accade – la setta è invece “buona” e si schiera contro i vilain di turno, dovrà essere comunque circonfusa di un equivoco senso di mistero.

Dunque certo, può trattarsi di pigrizia dei narratori/sceneggiatori. Tuttavia la diagnosi in molti casi dev’essere meno ingenerosa e banalizzante: e la fiction sulle sette – di cui proprio il cinema offre il volto più popolare anche in termini di numeri di fruitori – permette di porre in scena dinamiche di oggettivo interesse. Per dire, a questo tipo di cinema si ricollega uno dei film in assoluto più belli di tutta la storia dell’horror, The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Il distinguo, come al solito, starà insomma nel tipo concreto di spendita del tema di volta in volta.

Vero e proprio mostro plurale, la setta permette di giocare in termini stilizzati e anzi ritualizzati elementi di sicuro successo presso il pubblico. Elementi piuttosto vari: dal più candido gusto per l’avventura e il mistero al richiamo un po’ pruriginoso per la damsel in distress, dal riconoscimento di strutture topiche che con le fiabe hanno molto a che fare – e soddisfano alcune nostre attese profonde in un complesso gioco di sfoghi ed esorcismi – all’evocazione sottile di concreti disagi e crisi d’epoca. Certo la necessità per l’eroe di calarsi in una dimensione di tenebra – il tempio segreto della setta – per strappare la vittima a una collettività senza volto e sconfiggere il male può dirla lunga sul rapporto con quel tempio d’Ombra che sono le pulsioni individuali e collettive in riferimento a valori, stereotipi di genere eccetera. Che ciò poi comprenda anche le peculiari attese dello spettatore postmoderno non può stupire: il richiamo cioè a vedere drammatizzata in scena, in un tessuto insieme provocatorio e gratificante, quella cifra del sospetto che connota – a torto o a ragione, poco importa – la società in cui viviamo.

A livello generalissimo, le trame presentano anzitutto un evento drammatico che porti il gruppo chiuso & segreto all’attenzione di una società più o meno ampia. Un’emersione che si manifesta anzitutto su un piano metatestuale come narrazione: è lo spettatore, prima ancora del protagonista, il soggetto che dev’esserne informato. Ciò innesca dinamiche interessanti: se la setta è il più paradigmatico mostro sociale, una società-mostro ombra e riflesso oscuro di quella più estesa di cui lo spettatore fa parte, il confronto permette di drammatizzare una serie di opposizioni (aperto/chiuso, conoscibile/segreto, libero/non libero eccetera) potenzialmente feconde per una meditazione critica sul nostro mondo di appartenenza. E d’altra parte il modo in cui la crisi su schermo verrà risolta – persino nel caso di una setta che, a un certo punto del film, si riveli “buona” – lascia spesso intravedere un estremo pessimismo degli sceneggiatori.

Se ciò attiene alla visione della setta dall’esterno (il protagonista e in parallelo lo spettatore), la drammatizzazione conduce d’altronde a scrutare – almeno a tratti – l’interno. Con la rivelazione della forte coesione dei membri, a livello interiore/psicologico ed esteriore/organizzativo: qualcosa che si manifesta come legame di sangue – sanzionato magari con terribili giuramenti e maledizioni – ma flirta con l’indifferenziazione, quasi a echeggiare una cifra Legione di identità frantumate e confuse in minacciosa identità collettiva. Ciò che trova la manifestazione culminante nella messa in scena del plagio (usiamo il termine in chiave generica), con gli adepti condotti a perpetrare gli atti più atroci o a subirli. Le potenzialità (melo)drammatiche del meccanismo sono evidenti, ma esso finisce con l’evocare in chiave provocatoria anche le alienazioni, i plagi e le crisi del mondo esterno “libero”.

Strettamente connesso, ed esso pure funzionale al frisson narrativo è d’altra parte il motivo del segreto. La setta vive dinamiche “coperte”, esclusive nei confronti del mondo esterno, e ciò rileva anche in tutto un contesto scenografico: caverne, templi segreti, ville impenetrabili, fattorie nel deserto permettono a registi e sceneggiatori di coinvolgere il pubblico grazie a un arsenale tradizionale di pittoresca efficacia, con riti obliqui il cui arsenale non è sempre chiaro. Ma al contempo proprio l’elemento del segreto – ovviamente da svelare – offre combustibile alla trama, provoca la quest dei protagonisti: e finisce così col manifestarsi come conclamata metafora mitica di quel segreto – l’evoluzione misteriosa di una trama in mano allo sceneggiatore – che sostanzia la curiosità verso qualunque film.

Proprio il segreto, però, topos del gotico classico a cui questo filone richiama, informa nella fiction anche un altro tema, il rapporto col potere. La collettività espressa dalla setta è per definizione minoritaria ma nel segno di un qualche tipo di élite: forte delle sue coperture, essa si impone come presenza irriconosciuta, pervasiva e infiltrante la società. Come espressione di spregiudicate lobby di potere anche ai più alti livelli, o invece di realtà sotterranea tra le pieghe nascoste del mondo cognito. Fino ad accreditarsi a motore segreto di storia, politica, religione e quant’altro, sull’onda di quei cospirazionismi di cui la cultura popolare trasuda nei più vari ambiti.

Fin qui si è accennato alle dinamiche drammatiche offerte dal motivo dell’oppressione psicologica o ideologica all’interno o all’esterno del gruppo; ma il tema di una religio in nero apre a uno spettro di suggestioni assai più ampio. Così da un lato conduce al variegato e febbrile bacino di fiction sui paganesimi: e di qui a sviluppi sui fronti paralleli del rapporto perturbante con il passato (si pensi a quel caposaldo del genere Folk Horror che è The Wicker Man, dove la setta è rappresentata dall’intera comunità neopagana dell’isola), e dell’alienità insidiosa delle culture esotiche in rapporto al civile Occidente (le sette egizie nei film di mummie, caraibiche nelle storie sul Vudu, eccetera). Ma da un altro fronte la religio in nero provoca direttamente, sia pure in termini fantastici, su temi ed elementi di un immaginario “cristiano”: un’evoluzione che trova radice nel primo gotico antipapista, e conosce sviluppi critici via via allargati a istituzioni e ambiguità di un po’ tutte le chiese dominanti, per giungere in fondo al vasto, colloso pelago odierno dell’esothriller alla Dan Brown. A fronte poi di questi poli del religioso si strutturano in funzione dialettica anche i relativi opposti, fino agli estremi dello streghesco e del satanico: e l’evocazione della minaccia – vera o presunta – incarnata dalla setta permette di proiettare come nei giochi d’ombre antesignani del cinema le stesse ambiguità della controparte.

Tutto un mondo simbolico tradizionale – segni, riti, liturgie… – viene così recuperato alla luce del pittoresco e dell’orrido, e la galleria delle brutture storiche liberissimamente rievocata grazie al comodo schermo di conventicole fittizie o poco note. Si tratta ovviamente di una nebulosa molto variegata, che corre dal brivido di certe fantasie criptoecclesiali – tenebrose sacrestie, cappucci, paramenti, angeli marmorei sotto nubi apocalittiche – alla diretta messa in scena del male attraverso topoi come il sacrificio umano e la tensione a un Anti-Avvento satanico. Nelle pellicole si potrà anzi individuare in genere almeno una scena-chiave di carattere specificamente rituale – sacrificale, iniziatica, eccetera: quello che possiamo definire il theatrum proprio della setta, e tale da compendiare idealmente un po’ tutti i topoi in precedenza citati.

La sua messa in scena permette infatti una svolta più avanzata nella conoscenza del mostro-setta da parte di protagonista e spettatore; svela nella coesione della setta la sua realtà di corpo (anti)sociale; sottolinea visivamente la cifra del segreto, anche nella collocazione spaziale della scena in un tempio nascosto, una cripta, una grotta; celebra l’epifania del potere della setta stessa, sia in senso materiale (per esempio nella visione dell’eroina catturata e pronta al sacrificio) che ideale (per esempio nel rivelare sotto i cappucci degli adepti personaggi presentati in precedenza come “importanti” – a vario titolo); e ovviamente ammannisce un ricco arsenale di suggestioni simboliche e rituali d’effetto. Ma anche da questo punto di vista, potremmo dire, la messa in scena riproduce con efficacia un meccanismo sottostante, finendo con l’essere metafora diretta del rito del cinema, con i suoi templi immersi nell’oscurità della proiezione.

E in particolare del cinema nero, recante il theatrum di provocazioni, crisi e contraddizioni del singolo spettatore e della società cui appartiene. Come in una rilettura della fiaba, il protagonista di queste storie dovrà dunque salvare la propria Biancaneve dall’altare-catafalco del sonno della Ragione, presidiato da una collettività nana oscuramente ctonia. Il che conduce verso abissi ben più profondi della cassa di una biglietteria; e il comodo sotterfugio di riparare dietro a una schiera litaniante di cappucci, tra torce, teschi e strani paramenti, finisce con lo svelare allo spettatore dimensioni ulteriori, dall’emersione più o meno imprevista o imbarazzante.

(I – continua)

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Blake, Colin Wilson & la Swinging London https://www.carmillaonline.com/2019/07/27/blake-colin-wilson-la-swinging-london/ Fri, 26 Jul 2019 23:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53754 di Franco Pezzini

Colin Wilson, La gabbia di vetro, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 272, € 17,50, Carbonio, Milano 2018.

Se una fata buona mi regalasse un weekend da trascorrere in un momento del passato – inteso come passato “storico” e individuato sull’onda del puro gusto, al netto di qualunque altra considerazione – penso che non risalirei a tempi (troppo) lontani. Le lancette ruoterebbero indietro verso metà degli anni Sessanta, puntando oltre la Manica: cioè verso le strade trafficate, la musica, i sogni, le provocazioni e le “nuove” sfide della Swinging London. [...]]]> di Franco Pezzini

Colin Wilson, La gabbia di vetro, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp. 272, € 17,50, Carbonio, Milano 2018.

Se una fata buona mi regalasse un weekend da trascorrere in un momento del passato – inteso come passato “storico” e individuato sull’onda del puro gusto, al netto di qualunque altra considerazione – penso che non risalirei a tempi (troppo) lontani. Le lancette ruoterebbero indietro verso metà degli anni Sessanta, puntando oltre la Manica: cioè verso le strade trafficate, la musica, i sogni, le provocazioni e le “nuove” sfide della Swinging London. Immagino che in ciò giochi una dimensione nostalgica legata all’infanzia (per noi figli dell’avvio di quel decennio, per dire, i panorami della TV dei ragazzi erano assai più inglesi che americani, tra casette dai tetto di paglia e scorci di Piccadilly); e canzoni di Beatles e Rolling Stones, film – Hammer e non solo –, moda, pop art, immagini fotografiche rimaste come sul fondo dello sguardo d’una generazione hanno saldato il tutto.

Ma non è neppure necessario tale tipo di affezione personale per apprezzare un peculiare fascino di quell’Inghilterra. Dove troviamo ancora le piccole comunità rurali coi loro ritmi ben poco mutati, il pub, la chiesa, il negozio che vende di tutto e le ombre ambigue dietro le tendine. E insieme una Londra labirintica, euforica e sordida, non esaurita certo in Carnaby Street: una metropoli “moderna” ma fino a un certo punto – e basta arrivare sul fiume, dal cui fango spuntano cadaveri (o parti dei medesimi) come nella migliore tradizione vittoriana. Una capitale che per una breve vertiginosa stagione si sente di nuovo centro del mondo, ma presto tornerà a essere investita dalle crisi del Novecento.

E tutto ciò resta come sotteso, alle spalle di questo delizioso romanzo – The Glass Cage, uscito proprio nel 1966 in cui nasce la definizione Swinging London (sul TIME del 15 aprile) – che un po’ semplificando possiamo definire poliziesco. Certo, vi troviamo richiamati omicidi seriali con smembramento di vittime e c’è un’indagine per scoprirne l’autore; eppure la pista, condotta sul filo di riflessioni che possono risultare (fascinosamente) datate a odierni criminal profiler, non riguarda soltanto l’identità del criminale e le sue motivazioni. Persino più importante è comprendere altro, almeno per l’eccentrico, svagato, impagabile protagonista, il giovane Damon Reade: massimo esperto della poesia di William Blake e solito a una vita isolata nel Lake District, ma ora spinto a Londra per misurarsi su un caso di vita reale da una sfida dell’ambiguo, futuro quasi-suocero. Comprendere altro: e cioè, da un lato, come sia possibile che a perpetrare tali orrori sia qualcuno abbastanza sensibile e profondo da frequentare il mondo poetico di Blake, visto che strofe di lui vengono ritrovate presso i luoghi dei delitti (per questo Reade all’inizio viene consultato dalla polizia) – non solo insomma la ricostruzione di un profilo psicologico, ma la risoluzione di un problema filosofico. E, insieme, come Reade stesso possa rapportarsi alla caccia al criminale e all’enormità della situazione senza perdere umanità: non per buonismo o per far l’anima bella, ma per l’irrinunciabile necessità di non veder soffocata la propria identità profonda. Studioso di Blake ma anche di quel Whitehead che ravvisa nell’universo una realtà fisica e insieme spirituale, il Nostro sceglie dunque anche in questo caso, anche nella fragorosa Londra tanto diversa dal Lake District di capre e solitudini, di lasciarsi interpellare dalla realtà con un approccio di silenzio interiore e una sorta di pietas.

Del resto chi conosca anche solo qualcosa del profilo dell’autore non può stupirsi. Il discusso Colin Wilson, saggista, romanziere e a suo modo filosofo, per tutta la vita ha incalzato ciò che negli anni Sessanta veniva detto l’insolito attraverso piani diversissimi – arte, psicologia, occultismo, criminologia… – proprio nella convinzione che tra quelle pieghe, nel lavoro degli outsider, sia possibile dissodare elementi di un approccio più ricco e visionario alla vita: di qui la costruzione di un sistema filosofico personale che definisce un new existentialism in chiave ottimistica. Già vicino ai “giovani arrabbiati” della scena letteraria inglese (dalle posizioni spesso identificate come di sinistra o anarchiche), ma personalmente proclive a frequentazioni ideologiche anche a destra e molto equivoche – il fascista Oswald Mosley –, Wilson resta una figura irriducibile a etichette continentali. Una vaga supponenza nel modo di tranciare giudizi, la poca accuratezza verso i dati offerti nei saggi, l’ingenuità con cui sembra accogliere i fenomeni “strani” ne hanno fatto deprecare egocentrismo e ignoranza scientifica. Nei fatti il suo impatto sul dibattito culturale inglese degli anni Cinquanta (dall’opera che lo fa conoscere, The Outsider del 1956, che diviene un bestseller) e Sessanta è notevole. Anche se col tempo verrà considerato più un fenomeno bizzarro – dalla fine dei Sixties prende a occuparsi sempre più di occulto – che una significativa voce critica, al di là di un robusto seguito di appassionati.

Il che non toglie nulla alle sue eccellenti capacità di scrittore, specialmente quando riesce a valorizzare il contenuto teorico senza soffocare quello narrativo. E La gabbia di vetro è un esempio del Wilson più scintillante, nonché il romanzo da lui più amato: dove si può concordare con la definizione dell’aletta che lo definisce un “thriller intellettuale [ma, potremmo aggiungere, un thriller dell’interiorità e del rapporto io-mondo] che sviscera con giocosa leggerezza e insaziabile curiosità temi come l’oppressione, la perversione, il superamento dei confini della conoscenza e i risvolti più inquietanti della passione”. E a glossare la definizione di un genere narrativo e rivelare il tipo di chiave risulta illuminante questa definizione, offerta da Reade stesso al perplesso poliziotto Lund:

 

Non riesco a immaginare come la gente possa dare per scontata la vita, c’è ovviamente qualcosa che non va da qualche parte. Ed è una specie di poliziesco in cui non si sa nulla: non si sa quale crimine sia stato commesso o chi sia il colpevole. Si sa solo che c’è qualcosa di sbagliato da qualche parte, e che bisogna tenere gli occhi aperti e continuare a fare due più due.

 

Un romanzo insomma elegantissimo, che può felicemente spiazzare i lettori di oggi. Sia perché, abituati a Patricia Cornwell e all’effetto-autopsia TV da prima serata, trovano qui delitti spaventosi evocati quasi di sfuggita, senza mostrare una sola sequenza grandguignolesca. Sia perché la ricostruzione di un contesto alla luce della criminologia d’epoca e comunque delle teorie di Wilson (il binomio tra delitto & cultura, per dirne una, non sembra oggi tanto paradossale, ma all’epoca è una novità) riesce comunque a non risultare ingenuo.

Quanto all’outsider William Blake, che potrebbe sembrare un mero spunto occasionale – l’autore delle strofe utilizzate dall’assassino, in ipotesi sostituibile con qualunque altro poeta – a ben vedere ha invece un ruolo-chiave. Sia perché il candore visionario del protagonista, pronto ad appostarsi sulle doors of perception per cogliere le risonanze degli eventi, è omologo e profondamente legato a quello di Blake, influenzato dal suo pensiero e idealmente alla sua scuola. Sia perché è un po’ tutta quell’Inghilterra tra rivoluzione sessuale e ridefinizione spirituale, tra febbri dell’immaginario e osmosi pop di arti e discipline diverse, a porsi idealmente all’ascolto del poeta-profeta libertario riscoperto dalla controculture degli anni Cinquanta-Sessanta.

Divertente e divertito (l’avvio insieme candido e malizioso in cui Damon si mette con una minorenne richiama proprio a una certa effervescenza d’epoca in cui i giovani oltretutto acquisivano un nuovo ruolo come interlocutori sociali e di target), ricco di dialoghi godibilissimi, narrativamente ricco e dotato di un finale provocatorio che sarebbe un crimine spoilerare, La gabbia di vetro restituisce la delizia di un mondo ormai consegnato al baule dei ricordi e insieme qualche spunto di riflessione. Se la vita somiglia davvero a un poliziesco (e tante volte ne abbiamo il sospetto), è imperativo “tenere gli occhi aperti e continuare a fare due più due”.

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