poesia italiana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il poeta dell’infinito https://www.carmillaonline.com/2025/01/18/il-poeta-dellinfinito/ Sat, 18 Jan 2025 21:03:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86554 di Mauro Baldrati

“La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo [...]]]> di Mauro Baldrati

“La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo protegge. Insomma, tanto per non farsi mancare un po’ di buonismo all’italiana, una sorta di recupero della figura paterna. In realtà Monaldo è ben rappresentato per quello che è: un lugubre reazionario bigotto, che protegge e stima suo figlio solo se accetterà di trasformarsi in uno dei tetri abati letterati nerovestiti, cultori di una letteratura morta scritta da autori decrepiti (da loro stessi uccisi e mummificati). Lo ama e lo amerà solo se deciderà di rispettare la chiesa, la tradizione, la visione conservatrice antiliberale. E la madre è persino peggio: una mummia nera, “neversmiling”, punitiva, anaffettiva, minacciosa.

In questo contesto il giovane Giacomo non è un ribelle. E neanche un rivoluzionario. Si avvita nel suo destino, nella sua solitudine. Probabilmente sviluppa, o affretta, la propria malattia. Se vuole uscire dal sarcofago, lo fa chiedendo. Lo fa supplicando. Implora il padre, e il trucido, bigottissimo zio di lasciarlo andare. Di concedergli la libertà. E avrà in cambio un rifiuto, mentre il coperchio del sarcofago sembra richiudersi, con una sinistra evocazione di E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo.”

Quanto sopra è la sezione iniziale della mia recensione (apparsa qui su Carmilla il 1 novembre 2014,) del precedente film su Leopardi, Il giovane favoloso. E’ sempre un poco imbarazzante autocitarsi, ma il passo è perfetto anche per la prima parte del nuovo Leopardi il poeta dell’infinito, andato in onda in due parti su Rai 1 il 7 e l’8 gennaio, visibile su Rai Play. Infatti è inevitabile un confronto, quanto meno un riferimento all’opera precedente. Non proprio un confronto di qualità, perché il film di Martone interpretato da Elio Germano resta inarrivabile, ma per le due diverse versioni, le scelte dei personaggi e degli episodi riferiti alla vita sofferta del più grande poeta italiano. In questo senso il Leopardi di Sergio Rubini è più fiction, si concede più licenze narrative e approfondimenti – facilitato anche dalla durata doppia della pellicola. Intano riempie il salto temporale tra la vita da sepolto vivo nella mostruosa biblioteca di famiglia, e l’arrivo a Firenze dove vivrà la fase di apocalittica infelicità per l’amore non corrisposto per la contessa Fanny. Una infelicità che noi persone più o meno “normali” non possiamo immaginare, perché è fuori dalla nostra portata di terrestri: la caduta in un buco nero di antimateria in grado di disintegrare ogni razionalità materiale. Ma è anche una straordinaria forza motrice per la creazione, come un rigenerarsi della vita da una carogna putrefatta. Ecco che Giacomo Leopardi appartiene a quella schiera di artisti che sono stati costretti a vivere il loro strazio, il loro fallimento per donare al mondo opere immortali: Van Gogh, Baudelaire, Pavese, Proust, Kafka, solo per citare i maggiori.

Rubini, attraverso il giovane interprete Leonardo Maltese, cerca di seguire il suo personaggio nelle varie fasi della vita, operando alcuni “aggiustamenti”: elimina le deformità dal corpo del Leopardi reale, ne fa un ragazzo sì esile e malaticcio, ma che talvolta vediamo correre all’aperto coi capelli al vento, e lo trasforma in un vero ribelle. Ancora ragazzino opera una frattura strutturale con la famiglia, si strappa di dosso l’abito nero da pretino che gli è stato destinato e quando è pronto lascia finalmente la prigione di Recanati (ma finisce per tornarci, esausto, senza soldi, e qui come non pensare al Rimbaud che si rifugia a Charleville). Passa da Bologna, dove vivrà la fase 1 dello strazio amoroso impossibile con la contessa Malvezzi, un episodio scavalcato da entrambi i film, fino alla discesa agli inferi dell’innamoramento platonico per la contessa Fanny. Si può dire che questo sia il nucleo di tutto il film, il nocciolo duro del binomio infelicità/creazione. Leopardi vive un breve periodo felice a Firenze con la contessa e il nuovo – e forse unico – amico Ranieri, personaggio reale a sua volta stiracchiato per esigenze narrative, trasformato in un aitante playboy che passa da una dama all’altra. Leopardi è sereno, è allegro perché è inconsapevole: non sa che l’oggetto del suo amore, che lo riempie di attenzioni e lo venera come grande poeta e filosofo, è innamorata di Ranieri. La scoperta della verità gli esploderà in faccia e lo abbatterà come un alberello raso al suolo da un uragano. Avvelenato, divorato dal dolore e dalla frustrazione subirà una straordinaria variante, operata dall’astuto regista: forse per vivere con la fantasia il suo amore negato, si trasformerà in un nuovo Cyrano, scrivendo lettere poetiche a Fanny firmandosi Antonio Ranieri.

Questo episodio centrale del film, l’amore impossibile idealizzato che contribuisce a concimare il dolore mortifero che genera l’energia della creazione, è esemplare. Leopardi è votato totalmente alla sua disperazione amorosa, non vede che Fanny, non può concepire nessun’altra all’infuori di Fanny. Non sappiamo se la scelta del regista e degli sceneggiatori (tra i quali lo stesso Rubini) sia studiata a tavolino, ma il personaggio Leopardi, se solo lo volesse, potrebbe avere la sua dote di amore reale carnale. Infatti la figlia di un editore che, tra le trappole della censura austriaca, pubblicherà le sue opere, è innamorata di lui, sarebbe pronta a seguirlo. Ma lui non la vede, non è interessato; è risucchiato dal suo Infinito, un vortice dal quale non può, oppure non vuole liberarsi. Forse lui è Poesia, come Kafka che non può sposarsi perché è Letteratura?

Le svolte fiction, piccole e grandi, puntano anche a un’interfaccia politica. Leopardi è un materialista, per certi aspetti un eversivo. A Firenze entra in contatto con la comunità di patrioti liberali che ruotano intorno al Gabinetto Scientifico Letterario di Giovan Pietro Vieusseux che lo accolgono con tutti gli onori e cercano in ogni modo farne un testimonial per la causa. Rubini si diverte a prenderli in giro, a mostrarceli come dei trinariciuti un po’ tonti, specialmente Niccolò Tommaseo, un trombone saccente che detesta, perché lo invidia, Leopardi. Ma lui non ci sta, è un artista individualista che non crede, forse perché ne conosce la vera natura, alle beghe politiche umane. Appartiene a un’altra specie, forse dei santi, forse delle anime perdute. Con la sua voce flebile e sommessa (a tratti persino eccessivamente bassa, per cui bisogna alzare il volume della tv) stronca educatamente i loro entusiasmi patriottici.

Oppure la presenza misteriosa di un infiltrato che informa la polizia politica austriaca dei fatti e misfatti politici-letterari dei patrioti, provocando sequestri e addirittura arresti: la scoperta in una variante spy story della sua identità farà restare tutti basiti, personaggi e spettatori del film.

Verso il finale, in una Napoli annientata dal colera, arriva a destinazione il breve viaggio della cometa Leopardi. Negli ultimi istanti vorrà portare con sé, sul cuore, una delle lettere d’amore che Fanny gli ha scritto credendolo Antonio. Non è spoyler, è scritto da più parti. Un piccolo, forse unico, lampo patetico, che tuttavia si nota appena, come un granello di polvere nel Maestrale.

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La felicità va punita? https://www.carmillaonline.com/2024/05/17/la-felicita-va-punita/ Fri, 17 May 2024 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82592 di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, Poems, trad. Gianpiero W. Doebler, pp. 248, Agincourt Press, New York.

Sono qui per apparire mi devo arrangiare…

Questo è un verso di Angelo Lumelli tratto da una poesia compresa in Trattatello incostante, libro uscito nel 1980 per l’editore Savelli in una collana diretta da Giancarlo Majorino e Roberto Roversi.

E ora ecco Lumelli apparire al dì là dell’Oceano, con una traduzione che completa quasi per intero tutta la sua opera poetica per i tipi Agincourt Press, casa editrice che ha pubblicato importanti poeti italiani raccogliendo in volume poesie di Giorgio Bassani, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani [...]]]> di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, Poems, trad. Gianpiero W. Doebler, pp. 248, Agincourt Press, New York.

Sono qui per apparire mi devo arrangiare…

Questo è un verso di Angelo Lumelli tratto da una poesia compresa in Trattatello incostante, libro uscito nel 1980 per l’editore Savelli in una collana diretta da Giancarlo Majorino e Roberto Roversi.

E ora ecco Lumelli apparire al dì là dell’Oceano, con una traduzione che completa quasi per intero tutta la sua opera poetica per i tipi Agincourt Press, casa editrice che ha pubblicato importanti poeti italiani raccogliendo in volume poesie di Giorgio Bassani, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani e Adriano Spatola.

Il seme è buttato, il campo ha il concime giusto per una buona crescita.

Allora Senti l’antifona

 

frase – Nostro porto in alto mare

calze di lana grezza

sciarpe che pungono il collo dei bambini

elenchi e vetri rotti dell’ovest

e voi – scolari coraggiosi

frasi – finestre

varco per uomini pietosi

nasi contro i vetri – manine

che fanno ciao ciao

 

eccomi!

come uno spavento che ride

bambino supremo

non ha ritorno lo sparo

sillaba iniziale che ti lascia stordito

natività – almeno incontrassimo

gli occhi di un estraneo –

il passante che si volta

verso figli ripetenti

 

La poesia di Angelo Lumelli è come una casa piena di tanti piccoli oggetti. Ogni oggetto contiene una storia, ogni oggetto racconta. Lumelli non lancia messaggi, silenziosamente invita all’ascolto.

Gli apprendisti sono molti e questa bottega artigiana offre utensili giusti per imparare. Plasmare, elaborare, celare, mostrare con amore a volte è doloroso, ma necessario. Andiamo a ritroso nel tempo, un tempo dove la parola ha la sua veste essenziale ed è degna di una felicità in cui Lumelli lancia una sfida: l’urgenza vitale di fare letteratura.

Ecco come si presenta: autore attento a non cadere nelle trappole del linguaggio obbedendo al richiamo delle visioni posticce e innamorate, sirene di molti, fuochi fatui che portano la barca alla deriva. La parola, come tale, si riferisce a idee, percezioni, pensieri, enigmi, azioni. Solo quando si confronta con il verso rompe i confini delle pose retoriche e prepara l’anima in una nuova rinascita.

In oltre mezzo secolo Angelo Lumelli ci ha donato con la sua poesia un viaggio che punta all’infinito: la sua è una forza espressiva che reca idealmente in sé un promemoria del Novecento, il secolo in cui si hanno mille ragioni per “non essere contemporanei” ma che invita a non rimpiangere nulla.

 

quando finisce il lontano è finito anche il viaggio – non è un buon segno questa

mano che non si stacca – meglio se lanci un sasso e poi corri – convalescente con

brevi corsette – basta una prospettiva pro forma – come avessi le gambe buone – 

la tua ombra per terra, ai piedi della destinazione.

 

Non è bastato all’autore andarsene da Milano, sostare in quella zona del basso Piemonte dove si incrociano passaggi verso quattro province, Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova; non è bastato venire in campagna, in un mondo che porta sulle spalle strascichi pesanti, ma anche bei momenti di vita, e che l’autore ha cercato di raccontare attraverso una visione ricca di delicati piaceri, come piccole sacche di gioia alla deriva. Non si è messo in salvo, Lumelli, quando è uscito con uno dei libri di poesia più belli e più interessanti di quella stagione, Bambina teoria (Corpo 10, 1990), che chiude una produzione di magia assoluta come Felicità Obbligata.

La felicità non ci salva e questo non basta. Allora la felicità va punita?

È una beffarda opposizione, anche trattata con quella sottile e sagace ironia, indispensabile alla vita e in questo caso da scoprire nella parola necessaria come rifiuto a sostare in acque tranquille con l’ancora a fondo. No, non è necessario e non è neanche il caso anche quando la parola affonda dentro orgogli e ricchezze affettive che abbracciano attrezzi agricoli, piccoli spazi dentro luoghi sconosciuti, richiami a nomi e fisionomie. Una parola che può incidere mentre sembra passare inosservata.

 

come un eroe ti ho visto in mezzo al linguaggio in rovina mentre cadeva a pezzi

di qua e di là con grida e oscuri fonemi gorgoglianti nelle trachee ricucite alla

meglio ti ho visto con le braccia alzate come un abbraccio mortificato – orante

arreso, io in questa finta bufera – tra nugoli di domande voi mosche di sillabe!

Aspettando la grande frase da pronunciare come fosse scoprire l’America!

 

A una mente mai ferma, continuamente in azione, con un pensiero in difesa di una poesia che è diga e non rifugio contro la brutalità del mondo contemporaneo, la vertigine poetica in quei versi vibranti lancia messaggi di meraviglia.

Detta così sembra ci sia una forma mentis dove il pensiero è un atto ricettivo sublime del mondo e il mondo arriva in soccorso anche del linguaggio. Non è così. Angelo Lumelli è il poeta che va incontro, è il poeta dell’agire e il pensiero è la più grande forma di azione possibile. “Piedi in terra” e “testa in fiamme” aveva scritto a suo tempo Giancarlo Majorino presentando il primo libro di poesie di Lumelli per Guanda nel 1977, libro che lo portò a vincere il Premio Viareggio l’anno successivo. Osserva, cerca, si interroga mentre la lingua scava, senza aver la pretesa di comprendere per forza.

Al quotidiano Angelo Lumelli dona quel pizzico di magia, quel tanto di imprevedibile che lo rende pieno di vita. Con flash istantanei sembra fermare un presente di scorci che si fanno parola, intuizione, messaggio. E su tutto uno sguardo di ironia, affettuosa, a tratti tagliente, cattiva, ma mai distaccata.

Poeta che tocca con mano il senso delle cose: tutto parte da una curiosità per il mondo che ci circonda, dove la capacità di stupirsi è un richiamo. Angelo Lumelli non chiede alla scrittura di spogliarsi, di calarsi nuda nella visione del mondo, non vuole scherzare, fare finta, non vuole stare in equilibrio su una corda con un piede nel vuoto: si affida a lei rendendo ogni tempo che si confronta con un tempo dilatato che sta dentro un soffio di eternità, un’eternità quanto più possibile vicina.

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El Brojon https://www.carmillaonline.com/2022/06/24/el-brojon/ Fri, 24 Jun 2022 20:55:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72704 di Giorgio Bona

Trapiantà è un termine usato nel basso Piemonte per definire qualcuno che si sposta dalla sua terra d’origine e va a radicarsi in un’altra.

Trapiantà, per chi non sapesse anche se facilmente comprensibile, significa trapiatato, termine usato in botanica o in agricoltura per trasferire le piante da un luogo di crescita ad un altro.

Se ci muoviamo nello specifico, l’operazione consistente nell’inserire in una pianta una parte di un’altra pianta di specie o varietà diversa allo scopo di ottenere un nuovo individuo si chiama innesto.

Innesto. [...]]]> di Giorgio Bona

Trapiantà è un termine usato nel basso Piemonte per definire qualcuno che si sposta dalla sua terra d’origine e va a radicarsi in un’altra.

Trapiantà, per chi non sapesse anche se facilmente comprensibile, significa trapiatato, termine usato in botanica o in agricoltura per trasferire le piante da un luogo di crescita ad un altro.

Se ci muoviamo nello specifico, l’operazione consistente nell’inserire in una pianta una parte di un’altra pianta di specie o varietà diversa allo scopo di ottenere un nuovo individuo si chiama innesto.

Innesto. El brojon in piemontese. Questo mi è venuto in mente quando ho conosciuto circa una quarantina di anni fa Franco Loi, a casa di un comune amico, Angelo Lumelli. Lo conobbi di persona dopo aver letto gran parte della sua opera, da Strolegh, Teater, L’angel, Lünn e Liber per citarne alcune.

El brojon. Ecco, di Franco Loi ho subito avuto l’impressione di questa sua condizione di trapiantà, nato a Genova da padre sardo e madre emiliana. Si trasferì a soli sette anni a Milano.

El milaneš diventa la sua lingua ufficiale, ler la mi giuinessa la te muriva in brass, quella che dà vita alla stragrande maggioranza del suo lavoro. Questo lo si può definire un dispatrio volontario, perché il cominciare da capo si fa proprio dalla lingua, non è lo scrittore esule che perde qualcosa cercando quella libertà che spadroneggia nel linguaggio.

La guerra. Davanti agli occhi i corpi di quindici partigiani torturati e uccisi e poi ammucchiati in un corpo solo, con una scritta: banditi. Spalancava un’immane tragedia che non lo lascerà più.

All’età di quindici anni il padre lo portò a Piazzale Loreto, il 10 agosto, a vedere i corpi appesi di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi fascisti.

Attivo militante comunista, collaboratore de L’Unità, in seguito aderì al movimento della Nuova Sinistra che lascerà per assumere posizioni molto personali con forti accentuazioni anarchico libertarie.

Il dialetto, el milaneš,  rappresenta la lingua dell’esperienza e della vita, la lingua di cui Franco Loi si è impossessato da bambino e fin da subito appoggiandosi a un lessico che attingeva al gergo operaio, la parlata della gente comune accanto alla passione e all’impegno, al senso di partecipazione e ai destini collettivi, in una mescolanza di elementi in parte colti e soprattutto popolari.

Una certa civiltà, quella contadina stava venendo meno. Stava scomparendo un modo di lavorare la terra, di convivere con gli animali, è totalmente scomparsa la lingua di quel mondo. Annidarsi nei risvolti più intimi della metropoli, scoprirli in quella realtà di trapiantà, con quella lingua appiccicata addosso, davanti al grande processo di industrializzazione.

Cantore della Milano popolare e proletaria, cosa è rimasto di quel mondo? Le vecchie case in rovina, le vecchie corti ridotte a ruderi. Ecco un lavoro minuzioso e certosino di chi ha capito che tutto stava mutando. E questo milaneš, a tratti morbido come il suono di un liuto, a tratti ruvido come il suono di un’armonica, si eleva al canto di chi lavora e si dispera.

La lingua è una musica, quella della vita, dove il dialetto, quella parlata contaminata e bastarda che sale in cattedra in tutto il suo esprimersi, senza preclusioni, dove la sensazione di intimo e privato è nascosta e ben protetta.

Sembra una balbuzia, in realtà è una pausa, un ritmo spezzato che miscela passione e malinconia e che presenta Milano nella sua vera veste, senza maschere e travestimenti.

E il rito di ospitalità di una lingua serve in questa condizione di trapiantà a vegliare sulla memoria, a conservare e trasmettere quel sapere ed è una risorsa straordinaria, non quella del Milan l’è gran Milan, ma forse di un intimismo legato innocentemente all’internazionalismo dei lavoratori, quei lavoratori trapiantà che abitavano le case di ringhiera, fatiscenti e terribili, senza servizi, senza spazio di integrazione, perché erano estranei più che alla cultura alla lingua.

Ah me l’è bell ‘l mund quandvegn l’amur l’è vent che scuatta, ‘na lüs sensa pietà…

Al fine di illustrare questa straordinaria rappresentazione della lingua nella condizione che un brojon  può far sua in una stretta connessione tra corpo e poesia, in cui fare versi è frutto di una libertà della mente grazie a un flusso di energia che dà impulsi vitali, ecco, Franco Loi, poeta vigile e attento su ciò che accade nel presente, con gli occhi rivolti alla luce di un umanesimo sociale, sempre attento agli ultimi, ha la grande consapevolezza di essere presente nella vita di questo nostro mondo dove è necessario essere sempre costantemente connessi e avere gli strumenti e la grande velocità della mente per intercettare le coordinate e metabolizzarle.

Un allievo del presente e del passato che si mette in ascolto, un punto di partenza per intraprendere un cammino personale, dove il sapere costituisce una chiave di lettura delle cose. E il tempo è dalla sua parte. Tutto deve passare attraverso affetti, rapporti, visioni, in cui ci si lascia guidare soltanto dalle passioni.

Il poeta ha la capacità di immergersi in questo mare di cose e uscirne bagnato fradicio.

È presente nella sua opera una riflessione a testa china, scarnificata, ossuta, intransigente. Per decenni visse e pensò in due lingue: il milanes, linguaggio dell’anima, colto, raffinato, eccelso, ricco di lusinghe e raffinatezze e l’italiano, quello di tutti i giorni. Questo fa scoprire una radicale umanità e di quanto venisse veramente dal basso.

L’angel è un poema autobiografico iniziato nel 1972  e pubblicato integralmente soltanto nel 1994: è la storia di un uomo convinto di essere un angelo ma considerato proprio per questo un folle dalla società ed è la società medesima a rinchiuderlo in un ospedale psichiatrico. Si tratta in un certo qual modo di un cammino di alienazione, come sottolinea Lukács in Il marxismo e la critica letteraria (1953), che Franco Loi porta inesorabilmente sulla strada della felicità.

Sente un senso di abbandono soltanto davanti alla Milano da bere, la città che si è arricchita. Nei suoi versi chiede di accendere il buio, di fare luce, perché si sente spronato dai poveri e dagli oppressi che la Milano di quegli anni sapeva nascondere bene.

L’ho immaginato così Franco Loi dopo averlo conosciuto, come nei suoi versi e a l’umbra d’in purtuntra quel tasè d’usej chi par penser.

Milano è così, prendere o lasciare. Il brojon è un luogo comune, il resto sta dove si trova. Pulver di omm che passa e par che stemper s’inultra al di luntanche vegn lirun.

Come si direbbe in Piemonte… bugia nent.

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Godzilla coolpop https://www.carmillaonline.com/2022/03/06/godzilla-coolpop/ Sun, 06 Mar 2022 21:39:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70685 di Mauro Baldrati

Anche noi abbiamo contribuito, in tempi non sospetti, alla genesi di uno dei fenomeni moderni non solo mediatici: il personaggio coolpop. Infatti è stato cucito addosso al corpo, all’immagine, allo stesso DNA di Franco Arminio, con alchimie ignote anche ai più esperti ricercatori, il mantello di zibellino del poeta coolpop. E’ fatta. Ora può creare da sé la propria drammaturgia, e il rating del mercato mediatico stabilisce che può scrivere qualunque cosa, anche la lista della spesa, che sarà contesa dai giornali, persino dalla televisione. Ogni virgola, [...]]]> di Mauro Baldrati

Anche noi abbiamo contribuito, in tempi non sospetti, alla genesi di uno dei fenomeni moderni non solo mediatici: il personaggio coolpop. Infatti è stato cucito addosso al corpo, all’immagine, allo stesso DNA di Franco Arminio, con alchimie ignote anche ai più esperti ricercatori, il mantello di zibellino del poeta coolpop. E’ fatta. Ora può creare da sé la propria drammaturgia, e il rating del mercato mediatico stabilisce che può scrivere qualunque cosa, anche la lista della spesa, che sarà contesa dai giornali, persino dalla televisione. Ogni virgola, ogni sospiro deve essere esibito/ascoltato, perché si tratta di un segnale emesso dal grande poeta, che possiede una forza dirompente alla quale è inutile resistere. E’ come una fonte miracolosa che dispensa visibilità, attenzione, ascolto, ovvero ricchezza. Tutti desiderano avere la loro parte. E se il lettore, di fronte a una poesia come la seguente, uscita sul Fatto quotidiano, prova un senso iniziale di incertezza, subito scatta l’aggancio: è l’ultima esternazione del poeta coolpop, non si discute, si può solo bere a quella fonte.

Se poi Franco Arminio presenta il suo ultimo libro è necessario almeno un cinema. Parlerà come un umano, perché è umano; il personaggio idealizzato che si porta addosso deve comunque sottostare alle normali leggi della termodinamica. Ma se qualcuno si sentirà come il giovane Narratore della Recherche quando, dopo mesi di appostamenti nel cortile del palazzo dove abita con la famiglia per idolatrare la duchessa di Guermantes che esce di casa, finalmente sarà ammesso nel suo mitico salotto popolato dai semidei, e resterà incredulo e deluso nel constatare quanto gli esseri superiori che ha tanto sognato sono così umani, così normali, questo senso di squilibrio sarà di breve durata, poco più di un soffio di brezza autunnale: è la voce del grande poeta che sta ascoltando. Sta vivendo un evento, e ogni secondo, ogni tremito va gustato in silenzio e con rispetto, lentamente.

Il personaggio coolpop non è solo oggetto di adorazione. Le critiche, persino gli insulti non mancano. I poeti che cercando di sopravvivere nello spazio ridotto che la società culturale riserva alla poesia si dimostrano addirittura indignati dai versi di Arminio. Alcuni li postano sui social, come esempi di non-poesia, testi da scuola media inferiore spezzati dagli a-capo spacciati per prosodia; fioccano commenti come “Che vergogna”; “Non ci posso credere”; “Non sta bene”. Ma il titolare del personaggio non li teme. Sotto la superficie uniforme, spianata al decimo di millimetro dal suo grader personale, agisce un enorme file di trilioni di KB che tutto sistema, tutto combina chimicamente e ne sfrutta l’energia. Le polemiche, il gossip, così come le dichiarazioni d’amore, sono per il personaggio coolpop la forza motrice, come per Godzilla lo sono le esplosioni e le radiazioni nucleari. Diventa sempre più enorme, sempre più potente e indistruttibile. Tutto serve. Tutto gli appartiene. Compreso questo articolo naturalmente.

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Il comodo divano della upper class https://www.carmillaonline.com/2020/04/17/il-comodo-divano-della-upper-class/ Fri, 17 Apr 2020 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59507 di Mauro Baldrati

Franco Arminio è un poeta cool. Uno alla moda. Già da questa premessa uno potrebbe dire: tu sei invidioso. Non potrei negarlo. L’invidia è un sentimento umano, troppo umano. È anche una delle malattie professionali di molti scrittori, insieme all’insonnia e alla paranoia dei rumori. L’importante è esserne consapevoli. Non negare, né rimuovere. Così possiamo dominarla, l’invidia, e non farci dominare da lei.

Ma io non sono invidioso di Franco Arminio come poeta, per un motivo che spiegherò più avanti. No, se l’invidia c’è, lo sono per il [...]]]> di Mauro Baldrati

Franco Arminio è un poeta cool. Uno alla moda. Già da questa premessa uno potrebbe dire: tu sei invidioso. Non potrei negarlo. L’invidia è un sentimento umano, troppo umano. È anche una delle malattie professionali di molti scrittori, insieme all’insonnia e alla paranoia dei rumori. L’importante è esserne consapevoli. Non negare, né rimuovere. Così possiamo dominarla, l’invidia, e non farci dominare da lei.

Ma io non sono invidioso di Franco Arminio come poeta, per un motivo che spiegherò più avanti. No, se l’invidia c’è, lo sono per il suo status di personaggio smart. Perché appartiene a quella élite upper class cui tutto è concesso. Quelli come lui se desiderano una cosa devono solo allungare una mano e prenderla. Non ci sono barriere tra loro e l’oggetto del desiderio. Nessun ostacolo. E’ nella loro natura. Lo è dalla nascita.

Il motivo di questo fenomeno è ignoto. Come ignote sono le cause scatenanti dell’amore, dell’arte, della fede religiosa. Fanno parte della storia millenaria della nostra specie. Di sicuro gli appartenenti a questa élite, come canta Frankie, “si sentono meglio”. È tutto molto comodo, e facile. Mentre per noi che ci agitiamo nella working class ogni piccolo gesto è carico di complicanze e di fatiche. Dobbiamo combattere duramente per raggiungere i nostri obiettivi, anche minimi, e spesso falliamo. E non ci sentiamo affatto meglio.

Per upper class e cool non intendo la ricchezza. I soldi non c’entrano. O meglio, non sono tutto. Un esempio molto significativo di cosa intendo è dato da un flash nel bellissimo Just Kids di Patti Smith. Janis Joplin era sempre attorniata da ancelle, ragazze che la seguivano ovunque e la accudivano. Accadeva che dopo i concerti Janis adocchiasse qualche giovanotto attraente. Allora cercava di sedurlo, di portarselo in camera, per scacciare la tristezza cronica che la perseguitava. Dopo una serata di chiacchiere, di risate, di canne, il giovanotto, d’un tratto se ne andava con una delle ancelle, che per tutta la serata non aveva quasi aperto bocca. E Janis ci rimaneva con un palmo di naso. Così si ritirava in camera, da sola, piangeva disperata e si strafaceva. Più di una volta Patti l’ha accompagnata per consolarla, tenendole la mano.

Franco Arminio è come quell’ancella. Gli basta uno sguardo, un gesto, e tutto diventa cremoso, e dolce. Ho visto un’intervista televisiva, lui in uno scenario dei suoi magnifici appennini. A un certo punto l’intervistatrice gli ha chiesto come mai non scrive romanzi. Franco Arminio ha risposto che non lo fa perché la narrativa è governata dal tempo, e lui non vuole essere dipendente dal tempo. Una risposta perfetta. Infatti l’intervistatrice era rapita. Spalancava gli occhi straripanti di ammirazione e sbatteva continuamente le palpebre. Stava assistendo a una scena epica. Il Poeta che rivelava una grande verità. Un momento irripetibile.

Ecco la differenza tra Franco Arminio e me. Se anch’io riuscissi a essere smart, a una domanda perché non scrivo poesia risponderei che la poesia è governata dalla rarefazione del tempo, e io non voglio dipendere dalla rarefazione del tempo. Invece cosa risponderei? Che non scrivo poesia perché non ne sono capace. Una rispostaccia. L’intervistatrice non spalancherebbe gli occhi, ma alzerebbe le sopracciglia con un imbarazzato “oh”. Ecco perché non sono invidioso del poeta Franco Arminio: perché non so scrivere poesia. Non ne vado fiero. È un limite che mi fa soffrire. Ma non riesco a trovare un modo fascinoso per dirlo. E sono costretto a esprimermi conformemente alla mia classe.

La mia classe è la più dura, e la più faticosa. Siamo in guerra. La guerra eterna. Per restare a galla, per andare avanti. Per non recedere nella over: la povertà, il precariato perenne, l’emarginazione. Se si fa politica, poi, è la sconfitta garantita. In realtà se si è giovani, e in buona salute, conviene rompere. Meglio mandare al diavolo il mondo con la sua teoria dell’ingiustizia, col culto del denaro e del privilegio. Henry Miller, un secolo fa, fece questa scelta. Ne parla diffusamente in Plexus, secondo me il suo capolavoro. A New York lavorava come direttore del personale alla Western Union. Tutti i giorni andava al lavoro, doveva gestire un’umanità pazzoide, derelitta, i disperati, i fattorini precari. Perché, si chiedeva, devo lavorare dalla mattina alla sera rischiando la pazzia, con l’incubo dell’affitto pagare, delle bollette, chinando il capo di fronte ai superiori, per poi accanirmi sui più deboli? All’inferno la Società Cosmodemonica, addio all’America puritana e conformista. Così spaccò tutto. Piantò il lavoro, gli impegni, e fuggì nella città dei suoi sogni, Parigi, con dieci dollari in tasca. Iniziò una nuova vita, una vita da marginale, da artista squattrinato. Da happy rock.

Franco Arminio non ha questa esigenza.
Gli basta il suo morbido, strano destino di poeta cool di successo.
Ha tutto ciò che gli serve.
Franco Arminio si sente meglio.

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Mater Amena, di Giacomo Sartori https://www.carmillaonline.com/2019/04/04/mater-amena-di-giacomo-sartori/ Thu, 04 Apr 2019 21:30:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51829 Mater Amena, Arcipelago Itaca, Osimo 2019,  pp. 160, €15

[E’ in uscita una raccolta di versi poetici di Sartori, dedicati alla madre. O forse alle madri, tutte, in tutte le forme e le rabbie e le speranze. La Madre ci ha creato in carne e ossa, ma la Madre collettiva antropomorfizzata è anche la mitopoiesi di tutto lo scibile umano: la rivoluzione, l’amore, la religione, la scuola, la gioia, la disperazione e la guerra. Di seguito pubblichiamo la postfazione di Helena Janeczek. MB]

di Helena Janeczek

Rileggo “Mater amena” [...]]]> Mater Amena, Arcipelago Itaca, Osimo 2019,  pp. 160, €15

[E’ in uscita una raccolta di versi poetici di Sartori, dedicati alla madre. O forse alle madri, tutte, in tutte le forme e le rabbie e le speranze. La Madre ci ha creato in carne e ossa, ma la Madre collettiva antropomorfizzata è anche la mitopoiesi di tutto lo scibile umano: la rivoluzione, l’amore, la religione, la scuola, la gioia, la disperazione e la guerra.
Di seguito pubblichiamo la postfazione di Helena Janeczek. MB]

di Helena Janeczek

Rileggo “Mater amena” nel periodo delle feste natalizie, circostanza che accentua la percezione di trovarmi davanti a un testo straordinario. Già nelle prime strofe mi viene incontro un richiamo al Natale, appiglio utile per anticipare quanto il poemetto si accinge a intavolare una conversazione fuori dai canoni.

Come facciamo con le sedie

ci tenevi tanto
a regalarmele
poi mancava il tempo
per andare a sceglierle
veniva un’altra festa
avevo altre urgenze
l’anno seguente ero via
il Natale dopo ancora
mi faceva fatica
un po’ era anche
per non farti spendere
diciamola tutta
(le chiappe gradivano
anche le vecchie)
ridevamo di queste sedie
che non arrivavano
né a Natale né mai
adesso come facciamo
è il mio compleanno
il tempo l’avrei
(scegliere è niente)
tu però sei morta

Il figlio ha deluso l’attesa del ritorno a Natale, ma non si è mai sottratto al rapporto con la madre. Finché la madre era in vita, il figlio ci rideva e scherzava, non rifiutava i suoi regali, pur preoccupandosi che non spendesse troppo: preoccupazione che rispecchia un’attenzione affettuosa e al tempo stesso la riluttanza ad accogliere un dono costoso come pegno di un indissolubile legame.

La vita è piena di uomini che evitano di confrontarsi con l’ingombro delle madri e, dato che la società da loro esige appena qualche obolo di presenza e qualche telefonata di ascolto in silenzio, non stupisce che quel modello relazionale improntato al mi-nor attrito vada per
la maggiore sino a oggi.

Strano è invece che neanche i poeti, gli scrittori e gli artisti, insomma coloro a cui i problemi della vita forniscono materia creativa, abbiano infranto, se non in via eccezionale, la convenzione che sia meglio evitare di parlare delle madri e, a maggior ragione, con le madri.

Intendo soprattutto gli autori maschi, mentre le autrici si sono arrischiate a interrogare il materno e le sue zone d’ombra sin da quando la loro presenza è diventata abituale, con l’effetto che occuparsi delle madri abbia preso a configurarsi come un compito femminile anche in letteratura.

La lotta del figlio contro il padre resta invece un tema di prestigio universale, una matrice che lega i miti e i testi sacri delle culture patriarcali alle teorie fondative del pensiero novecentesco formulate dai padri della psicoanalisi.

Sembra un portato della vulgata psicoanalitica se alle figlie è concesso sviscerare il conflitto con la madre e alle madri attuali è chiesto un continuo esame autocritico, mentre i figli dovrebbero semmai misurarsi con la scomparsa del padre, per esempio narrando di certi sforzi eroico-comici di fare i papà, altrimenti definiti “nuovi padri”. Insomma, anche se il Padre sembra essersi mutato in un deus absconditus, la prospettiva maschile non si appresta neanche oggi ad aprire il proprio campo visivo alla madre, tantomeno a uno sguardo che nella madre cerchi tracce di se stesso.

È proprio questa l’impresa con cui si cimenta il nostro impavido poeta. D’altronde, alla resa dei conti con la figura paterna ci ha già pensato agli albori del suo percorso letterario.
Giacomo Sartori si è formato nel secolo scorso, quando c’erano ancora i padri all’antica e, per ben due volte, il compito di ucciderli simbolicamente era venuto a convergere con la volontà euforica dei figli a uccidere e farsi uccidere nel nome della patria.

In Anatomia della battaglia (Sironi 2005), romanzo scarno e implacabile, Sartori si è confrontato con quell’eredità nefasta. Il figlio, militante della sinistra extraparlamentare tentato dalla lotta armata, ingaggia la sua battaglia contro il padre fascista non pentito, autoritario e anaffettivo. Ma nel corso dell’esplorazione di quel conflitto finisce per dare conto della propria sconfitta: la violenta contestazione dei contenuti ideologici lascia intatte le matri-ci culturali e il condizionamento psicologico che quel padre gli ha trasmesso.

Anatomia della battaglia è forse uscito anzitempo rispetto alla fortuna delle autofiction con cui molti scrittori di prim’ordine hanno interrogato il lascito dei padri e i modelli di una mascolinità entrata in crisi. Di certo, rimane un testo scomodo per l’assoluta mancanza di autoindulgenza e la nettezza con cui fa emergere come l’uccisione simbolica del padre non disarticoli le strutture patriarcali ma, anzi, le propaghi.

Nelle successive prove letterarie, Sartori ha declinato in tanti stili e generi la critica dell’identità maschile unita a una capacità rara di immedesimarsi nelle più disturbanti esperienze femminili. In Rogo (CartaCanta 2015), intreccia le storie di tre donne, streghe e infanticide, in Sono Dio (NNEditore 2016) presenta un controcanto quasi parodistico dalle precedenti opere: il divino protagonista si invaghisce di una ragazza post-punk new age che non mostra nessuna soggezione verso lo status onnipotente del suo corteggiatore.

Che il Signore Iddio-padre avesse spodestato una Dea-madre, Signora della vita e della morte, è un rimosso culturale e della “psiche collettiva”, anche se Freud ha inquadrato la madre castrante, Lacan la madre-coccodrillo, e non sta a me interrogare l’immaginario che ha suggerito loro proprio quelle definizioni.

In ogni caso, i padri da scalzare meritano la più nobile tradizione letteraria, le madri soverchianti si collocano in una zona tabù che giusto l’umorismo, il Witz freudiano, può arrischiarsi a infrangere. Con l’avallo del dottor Freud e il diffondersi dei pazienti dei suoi discepoli, le storielle sulla yiddishe mame hanno potuto elevarsi in trasposizioni autoriali, come l’episodio Edipo relitto del film collettivo New York Stories (1998), dove il Volto di Mamma nel cielo di Manhattan coinvolge i passanti nello sforzo di rovinare le imminenti nozze di Woody Allen.

Ma nell’ambito della cultura di origine cattolica la Beata Vergine continua a vegliare che nessuno – nessun figlio innanzitutto – s’azzardi a profanare il modello bello e impossibile della madre santificata. Se penso al fatto che Sartori è di Trento, città chiusa dalle Alpi come a salvaguardia dello spirito del Concilio che cominciò a sottrarre l’Immacolata a o- gni somiglianza con le madri terrene, il suo azzardo mi sembra ancora più notevole. Questo, però, è anche merito di un lignaggio femminile che ha dato molto filo da torcere al genius loci tridentino.

[…]
Ruth 1915
Mica 1916
Lumo 1918
(tu ultima)
Piuma 1921
le quattro Lange
foriere di scandali
e suicidi d’amore
nel sopore fascioclericale
Ruth 1994
Mica 2005
Lumo 2013
Piuma 2016:
per la partenza
lo stesso ordine
nell’impudica insubordinazione
(poi sedimentata
in eccentrica rispettabilità)
[…]

La madre di Sartori, Piuma, è l’unica a essere venuta al mondo dopo la disfatta austro-ungarica, in quella Trento riconquistata che divenne presto vessillo dell’Italia fascista. Protetta dai natali in un’antica casa signorile e dalle altolocate frequentazioni dei parenti, l’appartenenza di classe le consente delle eccentricità antiborghesi ma anche riparo dal discredito che la discendenza nient’affatto italica a vrebbe potuto causarle. È interessante che Sartori, tra i molti non detti affrontati nel poema, nomini una sola volta il cognome tedesco e mai il nome di battesimo, Rosemarie, che ho trovato in un necrologio.

Probabilmente era italiano nonché “di ottima famiglia” il ramo materno di Piuma, mentre il padre che vigilava sulla sua formazione non era il signor Sartori, bensì il fascismo.
A questo punto il dialogo e confronto con la mater amena di cui il figlio ha da poco sepolto le ceneri, raggiunge un’apice di coraggio persino superiore al corpo a corpo con il padre di Anatomia della battaglia.

[…]
il tuo fascismo
era dispatia
il sentirti superiore
a volgo e cafoni
alla gentucola
sprezzo di debolezza
inclusa la tua
(figuriamoci la mia)
il tuo fascismo
erano le escursioni
in alta montagna
a ottant’anni
l’ultima sciata
a novanta
le marce d’allenamento
i passini sovraumani
aggrappata al deambulatore
scheletrica e tremante
(indomita maschera
di dolore)
il tuo narcisismo
sintetizza la terapeuta

L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare “narcisismo” e “fascismo”. Una lettu-ra accreditata sostiene che il primo sia diventato patologia sociale dal momento in cui il capitalismo liberista assorbì l’energia libertaria dalle rivolte giovanili degli anni ’60-’70. L’anti-autoritarismo sessantottino, pur non chiamato in causa come colpevole diretto, avrebbe preparato il terreno alla proliferazione di individui alla rincorsa del godimento consumistico e ormai incapaci di stabilire autentiche relazioni affettive. I versi di Sartori, invece, riportano a una radice inaudita la diagnosi della sua terapeuta. Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria. A lui non resta che portare il peso di Piuma, seguitando a colmare di parole …un vuoto/ leggero e gaio/ ma anche inquieto/ (un tantino angosciante)/ com’eri tu.

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