Plechanov – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Kamo, Lenin e il “partito dell’insurrezione” https://www.carmillaonline.com/2024/07/17/kamo-lenin-e-il-partito-dellinsurrezione/ Wed, 17 Jul 2024 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83421 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio! A voi la parola compagno Mauser. (Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio!
A voi la parola
compagno Mauser.

(Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello studioso e, soprattutto, militante genovese che nel corso degli ultimi anni ha fornito anche alla nostra testata.

Detto e sottolineato questo, però, va detto che a giudizio di chi scrive il testo da poco pubblicato da DeriveApprodi può costituire una specie di summa dell’interpretazione data dall’autore dell’azione di classe e del rapporto intercorrente tra questa e lo sviluppo di una coerente teoria rivoluzionaria, capace di fornire ai militanti dei movimenti e al processo destinato a superare lo stato di cose presenti una cassetta degli attrezzi non permeata dall’ideologia e dai suoi evidenti limiti, ma capace di resistere alle chimere di questo tempo infame per superarlo.

Non per nulla il volume si intitola L’altro bolscevismo e rovescia, nel sottotitolo ma non soltanto, quel Kamo, l’uomo di Lenin che era stato il titolo della più celebre opera pubblicata in Italia1 sulla figura del militante, bandito e combattente irriducibile che dal 1903 al 1922, anno della sua morte per una banale caduta dalla bicicletta, avrebbe dato prova di una fedeltà totale alla causa della Rivoluzione proletaria e comunista. Motivo per cui avrebbe trascorso, in fasi e periodi diversi, una buona parte della sua vita nelle carceri zariste.

Il rovesciamento del titolo non corrisponde soltanto alla necessità di superare la visione parzialmente romantica dell’eroe fornita dal testo di Baynac ma, soprattutto, da quella di spezzare letteralmente la vulgata che si è data a Sinistra del rapporto intercorrente tra prassi e azione in Lenin e nel suo partito. Una lettura mitopoietica, tutt’altro che dialettica, che sempre ha anteposto all’analisi concreta dello sviluppo dell’attività rivoluzionaria, anche sul piano militare e della “forza”, quello della capacità critica del singolo individuo, in questo caso Lenin, “solidamente” formatosi nella tradizione marxista.

Una lettura sviluppatasi sia in ambito staliniano che in quello dell’antistalinismo, che ha cercato di fare del rivoluzionario e dirigente russo una sorta di deus ex-machina della rivoluzione bolscevica che le varie fazioni in gara per contendersene l’eredità hanno potuto citare e, probabilmente, mutilare per poter rivendicare la propria “autentica” se non “unica” discendenza. Accantonando, nel fare ciò, la realtà della Storia e la concretezza dell’azione militante richiesta per giungere alla Rivoluzione di ottobre e alla sua successiva influenza sul movimento comunista internazionale.

Oggi, in anni in cui quest’ultimo termine ha cominciato a risultare un po’ troppo vago per definire lo sviluppo di un nuovo movimento antagonista capace di rovesciare gli attuali rapporti di produzione su scala mondiale, è salutare l’impegno di Quadrelli teso a dimostrare i diversi apporti, spesso dal basso e da aree politiche poi rimosse, in nome dell’”ortodossia”, dal curriculum del partito bolscevico, da cui derivò il successo dello stesso, prima e dopo il 1917.

Parafrasando l’incipit di un famoso e probabilmente dimenticato editoriale degli anni Sessanta2 iniziamo con una asserzione che non lascia spazio a equivoci e tanto meno a malintesi di sorta: cominciamo con il dire Kamo poiché, ciò che con il testo presente si è provato a ricostruire è la fabbrica della strategia leniniana, o l’altro bolscevismo, osservando la figura di Kamo come esemplificazione di tutto questo. Con ciò proveremo a discutere e leggere Lenin in maniera decisamente poco convenzionale, nella convinzione che il brigante del Caucaso (questo l’altro modo in cui Kamo, specialmente nella narrazione popolare è passato alla storia) rappresenti, non il tratto folcloristico del bolscevismo, bensi la cartina tornasole della teoria leniniana stessa3.

Come afferma fin dalla prima pagina, l’autore va a ricostruire su più solide e materialistiche basi lo sviluppo di quella che è stata considerata la fabbrica della strategia leniniana, in cui, occorre dirlo da subito, l’audacia (esattamente come nel pensiero militare di Napoleone) ha giocato un ruolo essenziale. Sia sul piano teorico che pratico. Una teoria e una prassi politica, oltre che militare, dell’audacia di cui Kamo costituì l’autentica e, forse, insuperata epitome.

Il testo di Quadrelli si divide in tre parti ben distinte. Nella prima (L’altro bolscevismo. Kamo, Lenin e il «partito dell’insurrezione», pp. 5- 69) viene evidenziato come non pochi tratti del populismo politico russo, di cui Marx nell’ultima parte della sua vita fu estimatore nonostante l’opera di rimozione in seguito condotta a partire da Plechanov4, divennero parte costitutiva dell’eresia leniniana. Nella seconda parte (La stagione di Kamo, pp. 70-146), avvalendosi delle metodologie della storia orale e della ricerca etnografica, si ricostruisce la ricezione che i militanti politici di base ebbero di Kamo nel corso degli anni Settanta. Mentre nelll’ultima (S’avanza uno strano soldato, pp. 147-204), declinata al presente, si argomenta la necessità di una ripresa «metodologica», senza dogmi di sorta, dell’eresia di Kamo e di Lenin.

In questa terza e ultima parte del libro si rivela la summa teorica, si potrebbe dire, dell’ulteriore eresia di Quadrelli che inizia là dove egli si pone una domanda tipica del presente:

esiste oggi “una questione immigrazione”? La risposta appare scontata. Ma cosa significa porsi questa domanda se non riconoscere che, in fondo, gli immigrati sono un corpo estraneo alle nostre societa? Cosa significa porsi “la questione immigrazione” se non percepire l’immigrato come qualcosa che rompe gli equilibri dei nostri mondi? Cosa significa ratificare l’esistenza dell’extracomunitario se non continuare a pensare che esiste un qua e un rigidamente separati. In fondo le retoriche dell’accoglienza o del respingimento che tanto animano il dibattito politico europeo soggiacciono alla medesima logica: “gli immigrati sono altro da noi”.
Ma gli immigrati sono veramente altro? I Paesi dai quali provengono sono veramente qualcosa che non ha nulla a che vedere con i nostri mondi? In altre parole, siamo ancora dentro i confini della vecchia fase imperialista? Ecco che, se posta in questi termini, la domanda sull’esistenza o meno di una “questione immigrazione” appare meno ovvia e scontata di quanto, in prima battuta, poteva apparire. La cosiddetta questione immigrazione, a ben vedere, non e altro che lo specchio per nulla deformato di cio che la fase imperialista globale ha prodotto. Gli immigrati e con loro i rispettivi Paesi di origine non sono l’arcaicità che approda al moderno, non sono i retaggi di un qualche ritardato modello di sviluppo, non sono il frutto esotico che improvvisamente compare nel mercatino rionale sotto casa, ma l’avanguardia, sotto il profilo politico e sociale, dell’attuale modello politico, economico e sociale capitalistico. Gli immigrati non sono plebi, lumpen, e chi più ne ha più ne metta. Gli immigrati sono la concretizzazione della figura proletaria prodotta dal punto piu alto dello sviluppo capitalista. Sono la storia del presente, non del passato5.

Per poi proseguire affermando che:

La polarizzazione sociale dell’attuale fase imperialista non può che proletarizzare gran parte di quella middle class sulla quale poggiava per intero il “consenso di massa” al potere imperialista nelle nostre società. La classe media e l’aristocrazia operaia occidentali di un tempo, il che è ampiamente comprensibile, rimangono strenuamente ancorate alle coordinate del vecchio mondo imperialista, guardando con avversione e terrore l’imporsi del nuovo ordine imperialista globale. La loro battaglia di retroguardia è tutta tesa ad evitare di precipitare dentro la condizione di vita del proletariato internazionale, non certo a sovvertire il modo di produzione capitalista. Per loro, ma non per il proletariato internazionale, la conservazione dei perimetri politici dello Stato Nazione è qualcosa di assolutamente appetibile e desiderabile. In fondo ciò a cui questi settori sociali mirano è la conservazione di un modello politico in grado di riconvertire nelle loro tasche una quota dei sovra-profitti rastrellati dall’imperialismo sulla pelle e sul sangue delle popolazioni extraoccidentali.
Questi settori, del resto, si sono sempre mostrati ampiamente schierati contro le insorgenze di popolo e proletarie di carattere radicale. Basti pensare, solo per citare esempi tanto noti quanto macroscopici, alla “linea di condotta” di questi segmenti di classe in Francia nel corso della Rivoluzione algerina, oppure nei confronti del movimento antimperialista tedesco degli anni
Sessanta e Settanta o nell’Italia del decennio insurrezionale. Centrale in questo ragionamento è il riconoscere come oggi siamo posti di fronte ad una trasformazione radicale sia della forma-stato che ha fatto da sfondo al nostro ‘900 sia della composizione di classe e della sua soggettività6.

Ed è a questo punto che Lenin, sempre secondo Quadrelli, torna ad insegnarci qualcosa, al di fuori degli schemi:

Abbiamo visto come, per Lenin, la lotta di classe e la soggettività a questa coeva siano il solo e unico termometro su cui misurare l’agire del partito. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie sull’organizzazione e il suo modello. Abbiamo visto come, per Lenin, l’organizzazione sia sempre il prodotto storico della lotta di classe, quindi di una determinata composizione di classe e della soggettività di questa. L’organizzazione non è mai data una volta per tutte ma, volta per volta, il partito formale è tale solo se in grado di essere la materializzazione storicamente determinata del partito storico. Dentro le fasi storiche, e su questo Lenin, come si e ricostruito nei paragrafi precedenti, scrive cose che non lasciano dubbi in merito, l’organizzazione deve essere sempre in grado di cambiare pelle. Per farlo, non di rado, deve letteralmente gettare per aria tutto ciò che solo un attimo prima poteva considerarsi il punto di vista politico e organizzativo più elevato del conflitto di classe. Ma la storia, la lotta di classe, come non cessa mai di ammonire Lenin, obbligano a balzi, rotture e fratture che scompaginano e disorientano anche lo stesso partito d’avanguardia poiché quest’ultimo non può essere o pensarsi come soggetto astorico immune dalla dialettica storica. Ciò che vale per la classe, vale per il partito. Per questo tra partito formale e partito storico non può che esistere una costante dialettica storica in virtù della quale il partito formale è soggetto a una permanente mutazione.
Mantenere la struttura, la forma e le retoriche del partito formale all’interno di un contesto storico trasformato vuol dire condannarsi all’estinzione. Ciò che e valso per i populisti, incapaci di leggere il mondo nuovo che avevano di fronte e perciò condannati a estinguersi o a sopravvivere nell’ambito dell’archeologia storica, vale non meno per il movimento comunista. Chi non coglie il portato delle giornate rivoluzionarie e, a partire da ciò, non e in grado di organizzare e rilanciare ciò che la lotta di classe ha posto all’ordine del giorno si pone, obiettivamente, fuori dalla storia7.

Purtroppo, e per sole ragioni di spazio e tempo di lettura, occorre fermare qui l’analisi di un testo e di un’opera, quella complessiva di Quadrelli, che soltanto negli anni a venire dimostrerà appieno la sua utilità e indispensabilità per il ragionamento militante. Ecco perché vale davvero la pena di iniziare a conoscerla fin da oggi.

Bibliografia (sommaria) delle opere di Emilio Quadrelli.

La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, (con Alessandro Dal Lago), Feltrinelli Editore, Milano 2003

Andare ai resti. Banditi. Rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma 2004

Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, DeriveApprodi, Roma 2005

Evasioni e rivolte. Migranti Cpt Resistenze, Agenzia X, Milano 2007

Sulla guerra. Crisi Conflitti Insurrezioni, Red Star Press, Roma 2017

Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019

Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975, Interno 4, 2020

Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra permanente in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

Ri-cominciamo a dire Lenin. Dal “Partito di Mirafiori” al “Partito della banlieue” in G. Toni, P. Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, Milieu Edizioni, Milano 2024

Articoli di Emilio Quadrelli apparsi su Carmillaonline:

É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio; serie di otto articoli comparsi tra il 22 luglio e il 22 settembre 2023

Atena sulla terra, 5 agosto 2023

Cronache marsigliesi; serie di otto articoli comparsi tra il 2 aprile 2023 e il 13 luglio 2023

Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia ; serie di quattro articoli comparsi tra il 26 marzo 2023 e il 22 aprile 2023

Genova 2001. Una storia del presente; due articoli comparsi il 3 e il 6 marzo 2023

Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello, (con Bruno Turci); due articoli comparsi il 25 e il 28 febbraio 2023

Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica; serie di sei articoli comparsi tra il 1° ottobre e il 29 ottobre 2022

Le gang dei “minori stranieri”: teppisti o nuovo soggetto operaio?, 28 settembre 2022

Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente; serie di quattro articoli comparsi tra il 6 e il 17 settembre 2022

Le voci di dentro. Intervista a Emilio Qudrelli (a cura di Chiara Cretella); pubblicata in due parti il 22 e il 23 dicembre 2005

A tutto questo va aggiunto che se nel frattempo nessun editore vorrà farsi carico della pubblicazione dell’opera di Quadrelli sulla lettura data da György Lukács dell'”eresia Leniniana”, György Lukács, un’”eresia” ortodossa, questa sarà presentata, nei prossimi mesi, in una serie di circa dodici puntate ancora una volta su Carmillaonline.


  1. Jacques Baynac, Kamo. L’uomo di Lenin. Una biografia, Casa editrice Valentino Bompiani & C., Milano 1974 (edizione originale francese 1972).  

  2. “Cominciamo a dire Lenin”, in Potere operaio, n.3, ottobre 1969.  

  3. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 5.  

  4. Si veda: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014.  

  5. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, pp. 180-181.  

  6. Ibidem, pp. 183-184.  

  7. Ivi, p. 184.  

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Classe operaia e rivoluzione: un equivoco secolare? https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/classe-operaia-rivoluzione-un-equivoco-secolare/ Wed, 17 Jan 2018 23:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42768 di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.

Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:

“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
Il vortice portentoso del modo di produzione capitalistico, basato sulla concorrenza, chiama l’uomo ad abbandonare la logica del minimo sforzo, a sgomitare, a camminare sui morti, divide le persone per ruoli e categorie produttive, integrandole nel suo tessuto, alimentandone continuamente la corsa. In questo modo gli uomini di tutte le classi sociali sono permeati dalla legge della concorrenza; è questo meccanismo che genera i ruoli cui le persone sono asservite. Se sono i ruoli ad assumere la funzione di soggetto e le persone fisiche fungono da oggetti alienati, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può questo meccanismo essere razionalizzato? La classe operaia, pur subendo lo sfruttamento nel suo ruolo subordinato, proprio perché è una classe complementare perché dovrebbe abbattere il modo di produzione capitalistico come ipotizzato da Marx e Engels?”1

Per affrontare questo spinoso problema l’autore compie un lungo viaggio a ritroso tra gli scritti di Marx, soprattutto quelli dedicati alla Comune di Parigi, quelli di Lenin sulla rivoluzione e la sua concezione, poi bolscevica, della società russa e, infine, analizzando la rivoluzione russa nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze. E proprio a Lenin e alla Rivoluzione “bolscevica” è dedicata la parte più consistente dell’opera: otto capitoli su undici, 350 pagine su 446.

All’interno di tale parte del progetto, Castaldo analizza in particolare, riprendendo anche tesi già esposte da Ettore Cinnella nei suoi studi sulla Rivoluzione,2 il rapporto conflittuale che si stabilì tra il pensiero leninista e l’azione bolscevica da una parte e le aspirazioni e le richieste della gran massa dei contadini, quasi sempre poveri, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Russia imperiale prima e successivamente dell’Unione Sovietica.

Oltre a questo l’autore pone il problema, già posto da Amadeo Bordiga,3 di come possa definirsi socialista una società in cui il lavoro continui ad essere salariato e quindi “monetizzato” in una contabilità a partita doppia in cui appaiano sia la colonna dei costi che quella dei “profitti”. Problema tutt’altro che secondario nell’analisi del risultato della rivoluzione sovietica, soprattutto nei decenni successivi all’Ottobre del ’17.

Le conclusioni cui giunge l’autore si articolano intorno al fatto che:

“I riflettori della storia puntati sull’arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento hanno messo in luce la forza dirompente del moto-modo di produzione capitalistico che, da un lato, ha scosso le vecchie classi come i servi della gleba in Russia e, dall’altro, ha posto alla ribalta della scena storica una nuova classe come il proletariato, che si è andato affermando in maniera definitiva come classe complementare nel modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine del globo. […] Siamo arrivati alla conclusione che il potere bolscevico, sorto da quella rivoluzione, fu costretto alle nazionalizzazioni economiche e alla centralizzazione politica per accelerare il processo di accumulazione capitalistica.[…] Uno Stato che fu definito sovietico dai bolscevichi, ma che aveva in sè tutte le caratteristiche di un apparato teso a dirigere lo sviluppo di un’accumulazione capitalistica originaria ed era molto distante dalla natura del potere della classe operaia e della dittatura del proletariato. “4

L’osservazione che il proletariato si è andato affermando come classe complementare al modo di produzione capitalistico sembra però dare per scontato che proletariato e classe operaia coincidano, fatto non così scontato nella realtà. Il proletariato inteso come massa dei diseredati, di coloro che sono stati espropriati non solo della ricchezza sociale prodotta, andata progressivamente ad accumularsi nelle mani dell’altro polo sociale, ma anche della decisione di come e quanta ricchezza o beni materiali produrre, pencola costantemente tra forme sociali integrate nella produzione (classe operaia in generale) e forme escluse dalla stessa (disoccupati e sottoproletariato o, ancora come nel mondo d’oggi, in forme precarie di occupazione) tese a demolire qualsiasi presunta omogeneità di classe e di coscienza.

Prima di andare avanti nell’analisi delle conclusioni occorre quindi sottolineare che l’autore, pur critico della vulgata più semplicistica della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo della classe operaia, tende a subire ancora le influenze di una visone politica in cui sostanzialmente proletariato e classe operaia tendono forzatamente a coincidere. Visione riscontrabile a partire da Plechanov e nel suo allievo Lenin oltre che nel successivo marxismo-leninismo che, però, non si presenta allo stesso modo in Marx ed Engels.

Sostanzialmente si potrebbe dire che mentre in Lenin e nel bolscevismo il proletariato deve farsi classe operaia per acquisire piena coscienza dei suoi compiti, in Marx e in Engels, fatto dovuto forse all’epoca, il proletariato deve negarsi in quanto tale per poter liberarsi dalle catene e dalle pastoie che lo legano al capitalismo. Non deve contribuire, soprattutto dopo la Comune di Parigi, a svilupparlo ma a negarlo. Non solo per l’abbrutimento e l’alienazione di cui troviamo la critica in Marx e più difficilmente in Lenin, ma anche per l’attenzione che Marx, nella parte finale della sua vita, prestò all’analisi delle società primitive e alla stessa comune contadina russa e alla possibilità che avrebbero avuto di giungere al socialismo e al comunismo saltando la fase, orrenda, del capitalismo.5

In questo la radicalità dell’azione rivoluzionaria del proletariato non deriva da una coscienza importata dall’esterno (leninismo), ma dalla ribellione contro le proprie condizioni di alienazione, abbrutimento ed espropriazione economica e culturale.6 Mentre l’ipotesi su cui si basò gran parte dell’azione bolscevica in prima istanza e, successivamente, del marxismo-leninismo, si adagiò sulla concezione deterministica e gradualistica derivata da Plechanov (prima pieno sviluppo del capitalismo poi trasformazione dei rapporti sociali ed economici di produzione) che, pur di affermarla nella sua battaglia con il populismo russo, aveva nascosto fino alla morte la risposta di tutt’altro tenore che Marx aveva inviato in una lettera a Vera Zašulic sullo stesso problema.7

Nel primo caso il proletariato e la classe operaia devono impadronirsi dello Stato per distruggerlo e per negarsi in quanto classe nella negazione dei rapporti di produzione capitalistici che la forma Stato avevano determinano, rimanendone a loro volta determinati, mentre nel secondo caso proletariato e classe operaia devono farsi Stato per sviluppare le forze produttive e rinforzare la propria funzione di e come classe. Ancora una volta lo scontro non è soltanto all’interno dei rapporti sociali reali, ma anche, e talvolta soprattutto, nell’immaginario politico che ne consegue.

Se poi qualcuno rimanesse ancora perplesso di fronte all’uso degli scritti del Marx più giovane in possibile antitesi alle le proposizioni leniniane, basterebbe ricordare che anche il Marx più vecchio (1875, otto anni prima di morire), nella sua critica al programma del partito socialdemocratico tedesco detto di Gotha, avanza riserve infinite su numerosi aspetti che poi, proprio attraverso l’influenza socialdemocratica su Plechanov, sarebbero entrati nelle formulazioni del marxismo-leninismo.

Afferma, ad esempio, Marx all’inizio della sua critica, proprio là dove il programma dichiara: «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà»:

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro umana.
Quella frase si trova in tutti gli abbecedari […] ma un programma socialista non deve pemettere a tali luoghi comuni borghesi di nascondere le condizioni che sole danno loro un senso. Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, solo nella misura in cui l’uomo si comporta fin dal principio come proprietario nei confronti della natura, la fonte prima di tutti i mezzi e ogggetti di lavoro, e la tratta come osa di sua proprietà. I borghesi hanno i loro buoni motivi per affibbiare al lavoro una forza creativa soprannaturale, perché […] ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della propria forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni oggettive di lavoro. Egli puà lavorare solo con il loro permesso e solo con il loro permesso può quindi vivere”.8

Altro che orgoglio del lavoro operaio!
Senza poi tener conto del fatto che se Marx, come ebbe a dire più volte, non voleva essere “marxista”, altrettanto Lenin non pensò mai di essere “leninista”; mentre il cosiddetto marxismo-leninismo fu formulato per la prima volta come ideologia dell’Internazionale e del Partito bolscevico o comunista dell’URSS da Stalin, alla fine del suo resoconto al XVII Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) il 26 gennaio 1934. Ma fu soltanto a partire dal 1938, nel Corso breve di storia del Partito bolscevico, redatto dall’apposita commissione del Comitato centrale del PCU(b), che tale pensiero e la stessa storia del partito acquisirono la forma di un dogma. Nello stesso anno vennero istituite in URSS le prime Università di marxismo-leninismo come una delle istituzioni della formazione dei militanti.
Ma continuiamo con le conclusioni cui giunge Castaldo;

“La nostra tesi sostiene che il proletariato è una classe complementare alla borghesia e come tale è un pilastro del modo di produzione capitalistico, finché le leggi lo sorreggono nel suo processo di riproduzione dell’accumulazione, Solo un’implosione per sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione del sistema capitalistico potrà aprire scenari all’oggi del tutto sconosciuti.[…] Assegnare a una parte del tutto, cioè al proletariato-classe operaia, la possibilità di precostituire una forza aggregata per abbattere l’altra parte del tutto, cioè la borghesia detentrice dei mezzi di produzione, equivale a definire i rapporti sociali da un punto di vista etico, cioè ideale, piuttosto che vedere deterministicamente il loro sviluppo e la loro crisi causata dalle leggi immanenti del suo funzionamento, che diviene crisi di un tutto, cioè di sistema, del modo di produzione. Se tiene la legge generale dell’accumulazione, questa tiene unito il tutto, dunque lo stesso proletariato che non può in alcun modo separarsi e distaccarsi perché materialmente vincolatodalle stesse leggi dell’accumulazione”.9

Ecco allora che dopo aver accettato una funzione meramente produttivistica della classe operaia, viene sventolata la determinazione delle leggi immanenti alla produzione capitalistica (ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto) come unica causa della fine possibile del capitalismo stesso, negando al proletariato qualsiasi soggettività politica che, sia nel caso della Comune che della iniziale rivoluzione russa, esso aveva avuto invece la capacità di affermare.

In un mondo dove la proletarizzazione ha assunto, nei paesi imperialisti d’Occidente come in quelli degli altri continenti, dimensioni mai viste prima, tale conclusione significa volere affidarsi ad un mantra che recita sostanzialmente che la fine verrà da sé, per leggi che sfuggono al controllo della classe e della specie umana e che soltanto una particolare setta o un determinato partito saprà individuare. Come ogni religione rivelata e ogni organismo di carattere sacerdotale tende a fare e promettere.

Spogliando così il proletariato delle sue capacità di riflessione e di lotta in grado di competere con le sirene del capitalismo e del nazionalismo. Condannandolo ad essere succube dei Trump, dei sovranisti o dei populisti di ogni risma. Contribuendo col fargli assumere, come nel caso della rivendicazione del valore assoluto del lavoro, un’identità artificiale attraverso un’invenzione impostagli dalle classi dominanti.

Peccato, perché la proposizione iniziale poteva servire a ben altre riflessioni sul ruolo della classe operaia, del proletariato tutto, della sua azione e delle sue differenti forme organizzative nel divenire della storia passata e futura della specie e della comunità umana.


  1. Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, pag. 11  

  2. Ettore Cinnella: 1905, la vera rivoluzione russa, Della Porta edizioni, Pisa –Cagliari 2008; 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta edizioni 2012; La tragedia della rivoluzione russa, Luni Editrice, Milano-Trento 2000  

  3. Nel suo Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista 1976 che va ben al di là della riflessione sulla burocratizzazione impostata da Trockij e seguita dai suoi vari epigoni  

  4. Castaldo, pp.420-422  

  5. Si veda ancora una volta su questo tema: Ettore Cinnella , L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014  

  6. Si confrontino: Marx- Engels, La sacra famiglia, cap.IV, II , Nota marginale critica e K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968 pp. 71-84. Testi che all’epoca Lenin non poteva conoscere perché ancora da ri/scoprire 

  7. Si veda ancora E.Cinnella, L’altro Marx, op. cit.  

  8. Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Massari editore, 2008, pp. 33 – 35 

  9. Castaldo, pp. 422 – 423  

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Marx contro il “marxismo” https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/ Tue, 02 Sep 2014 22:05:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16749 di Sandro Moiso marx

Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014, pp.182, € 15,00

Già negli ultimi anni della sua vita Karl Marx dovette prendere le distanze da ciò che già allora si definiva come “marxismo”. Lo testimonia proprio il suo amico e sodale Friedrich Engels in una lettera a Eduard Bernstein del 2-3 novembre 1882, in cui afferma: “Ora, ciò che in Francia va sotto il nome di “marxismo” è in effetti un prodotto del tutto particolare, tanto che una volta Marx ha detto a Lafargue: “ce qu’il y a de certain c’est que moi, je [...]]]> di Sandro Moiso marx

Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014, pp.182, € 15,00

Già negli ultimi anni della sua vita Karl Marx dovette prendere le distanze da ciò che già allora si definiva come “marxismo”. Lo testimonia proprio il suo amico e sodale Friedrich Engels in una lettera a Eduard Bernstein del 2-3 novembre 1882, in cui afferma: “Ora, ciò che in Francia va sotto il nome di “marxismo” è in effetti un prodotto del tutto particolare, tanto che una volta Marx ha detto a Lafargue: “ce qu’il y a de certain c’est que moi, je ne suis pas marxiste”.

Anche se, in ultima istanza, sarà proprio Engels a codificare il “marxismo” nello sforzo di salvaguardare il lascito teorico del comunista di Treviri dopo la sua scomparsa, ancora nel 1890, in una lettera a J.Bloch si vedrà costretto a chiarire che: “secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo piú facile che risolvere una semplice equazione di primo grado”.

E, proprio per combattere il facile meccanicismo interpretativo con cui si identificavano i presunti “marxisti“, sempre nel 1890, in una lettera a Conrad Schmidt si vedeva costretto a ribadire che “la concezione materialistica della storia oggi per un sacco di gente serve come pretesto per non studiare la storia” e che per quanto riguardava il socialismo e la costruzione della società futura “Ragionevolmente invece si può solo 1) cercare di scoprire il modo di distribuzione con cui cominciare e 2) tentare di scoprire la tendenza generale in cui si muoverà il successivo sviluppo”.

Infatti nello scontro tra le varie correnti del movimento operaio di tendenza socialista, che si avrà a partire dalla Seconda Internazionale in avanti, la “corretta” interpretazione della concezione marxiana della storia e della successione dei modi di produzione in essa esposta finirà col costituire spesso un fattore importante al fine di determinare le tattiche e la strategia da applicare alla direzione della lotta di classe.

Inutile dire che, in tale diatriba, spesso le rigide e, talvolta, fin troppo ottimistiche letture date da Marx ed Engels, prima, nel “Manifesto del Partito Comunista” con l’esaltazione del ruolo della borghesia nello sviluppo sociale e, poi, dal solo Marx nei “Grundrisse” con la definizione di un modello di sviluppo delle forme di produzione derivato da quello svoltosi nell’area europea e mediterranea, hanno favorito le interpretazioni riformistiche e moderate del processo di superamento della forma capitalistica.

Proprio l’ossessione per lo sviluppo delle forze produttive, derivato sia dalla lettura rigida del Manifesto che del corpus teorico ed economico marxiano, fu prima alla base dello scontro tra la nascente socialdemocrazia russa e il populismo anti-zarista e anti-capitalista della seconda metà del XIX secolo; poi di quello all’interno della stessa socialdemocrazia russa (tra Plechanov e Lenin per sintetizzare) e, infine, delle tragiche scelte economiche e politiche operate dallo stalinismo con tutte le conseguenze, che ben si dovrebbero conoscere, sia per l’Unione Sovietica che per il movimento proletario internazionale.

Il testo di Ettore Cinnella tratta dettagliatamente dei rapporti tra Marx e gli esponenti del populismo russo, con dovizia di particolari, dovuta all’accesso diretto alle fonti, ai carteggi ed anche ad una conoscenza pluridecennale della storia e della lingua russa che hanno permesso all’autore di accedere a testi ed archivi altrimenti difficilmente consultabili. E, nel fare ciò, finisce anche con il delineare il percorso, sempre irrequieto e allo stesso tempo assetato di precisione, che avrebbe portato il comunista tedesco ad allontanarsi, ancora in vita, da quasi tutti i suoi epigoni.

E’ un Marx scomodo quello che Cinnella, per lungo tempo docente di Storia dell’Europa Orientale e Storia Contemporanea presso l’Università di Pisa, ci presenta. Un “altro” Marx, appunto, scomodo per i rigidi seguaci del suo pensiero, ma sicuramente anche per tutti coloro che negli ultimi anni hanno voluto darne una lettura liberale, desunta proprio dalle pagine riguardanti lo sviluppo della borghesia e del capitalismo contenute nel Manifesto e in altri scritti minori come il “Discorso sul libero scambio”.

Scomodo perché l’autore tedesco, dopo un periodo piuttosto lungo di rigidissima e ben motivata ostilità nei confronti dello zarismo che lo conduceva a sottostimare sia gli esuli russi che la situazione sociale venutasi a creare in Russia, finì proprio col rivedere alcune della sue più famose proposizioni alla luce di una più approfondita conoscenza delle comunità contadine russe e della formazione economico-sociale definibile come comune rurale russa (obščina).

A spingerlo su questa strada furono, secondo quanto esposta dal Cinnella, due giovani populisti russi con cui Marx ebbe modo di entrare in contatto e che, in qualche modo, gli fecero superare quell’ostilità, talvolta acritica e idiosincratica, che egli aveva accumulato soprattutto nel conflitto con Bakunin e gli esponenti del panslavismo “democratico”. I due giovani rivoluzionari erano German Aleksandrovič Lopatin (conosciuto a Londra nel 1870) e Nikolaj Francevič Daniel’son, che fin dal 1867 si era occupato della traduzione del primo volume del Capitale in lingua russa.

Attraverso questi due Marx arriverà a conoscere l’opera di Nikolaj Černyševskij, proprio mentre Lopatin inizierà il suo calvario detentivo nelle prigioni zariste per essere stato arrestato durante uno primo tentativo di organizzarne l’evasione dalla prigionia siberiana. Tutto ciò si sarebbe poi riflesso nell’opera e nel pensiero del Moro di Treviri, sia per quanto riguardava la valutazione delle possibili condizioni per una rivoluzione in Russia che per il coraggio dimostrato dagli esponenti del populismo e del terrorismo russo.

Proprio attraverso questi contatti e letture egli inizierà a rivedere le sue posizioni sul necessario superamento delle strutture arcaiche del comunitarismo primitivo e a cogliere in alcune sue forme, per esempio proprio nella comune contadina russa, elementi di socializzazione che avrebbero potuto non solo essere mantenuti dopo la rivoluzione ma, anche, costituire, là dove già esistevano un modello di organizzazione sociale o, almeno, di ridistribuzione e condivisione della terra e dei suoi frutti.

Già altri autori, spesso legati alla Sinistra Comunista, avevano in passato riletto le posizioni di Marx sulla comune contadina russa cogliendone il significato esplosivo soprattutto in chiave anti-stalinista e anti-bolscevica1 , ma Cinnella approfondisce il discorso proprio nel seguire in maniera quasi filologica il percorso di conoscenze e letture che avrebbero portato l’autore del Capitale da una iniziale curiosità legata agli studi sulle diverse forme di proprietà e rendita delle terre (destinati ai successivi volumi della sua opera economica principale) ad una vera e propria riscoperta della comune arcaica e del comunismo primitivo.

Negli ultimi anni di vita Marx si dedicherà sempre più ad approfondimenti di carattere antropologico, ispirategli dalla lettura delle opere del Morgan e del Maine,2 che lo porteranno vieppiù a ridiscutere le sue precedenti posizioni. Allontanandolo anche, parzialmente, dal più rigido schematismo “progressista” di Engels.3 Entrambi, infatti, avrebbero atteso proprio da una rivoluzione in Russia il segnale per un rivolgimento del sistema politico europeo non più salvaguardato dal gendarme zarista ed entrambi avrebbero plaudito all’assassinio dello zar Alessandro II nel marzo del 1881. Ma fu soprattutto Marx ad abbandonare ogni cautela tattica quando, nell’autunno del 1880, “si convinse, dopo averne letto il programma, che Narodnaja volja (Volontà del popolo) era un partito socialista” (pag.129).

Mentre nell’aprile del 1881, in una lettera alla figlia Jenny, si sarebbe ancora così espresso:”Hai seguito il dibattito giudiziario di San Pietroburgo contro gli attentatori? Sono bravissimi, sans pose mélodramatique, semplici, fattivi , eroici. Gridare e agire sono cose inconciliabili e antitetiche. Il comitato esecutivo di Pietroburgo, che agisce così energicamente, emana manifesti di raffinata moderazione” (pag.130). Vale la pena di sottolineare ciò perché appare evidente, scorrendo le pagine del libro di Cinnella, che il cambiamento di prospettiva nello sguardo di Marx, e di Engels, sulla Russia non avvenne soltanto sulla base di considerazioni teoriche, ma anche, e forse soprattutto, sulla base delle azioni e della propaganda fattiva che il movimento populista stava portando avanti in quel paese.

Ma è soltanto con la celebre lettera a Vera Ivanovna Zasulič che quanto fin qui detto trova conferma, mentre la storia delle vicissitudini della stessa missiva giustifica il titolo scelto per questa recensione. Infatti, dopo molti anni spesi nella propaganda armata contro lo zarismo a fianco degli anarchici e del populismo, la militante russa aveva cominciato ad interrogarsi insieme ad altri compagni di lotta (tra cui Plechanov) sull’opportunità di proseguire la propaganda tra i contadini e sul futuro dell’obščina (la comune contadina russa).

Così, il 16 febbraio 1881, aveva scritto a Marx: “Lei sa meglio di chiunque altro quanto tale questione sia urgente in Russia […] Delle due l’una: o questa comune rurale, affrancata dalle smodate esazioni del fisco, dai tributi ai signori e dagli arbitri dell’amministrazione è capace di svilupparsi in senso socialista, vale a dire di organizzare gradualmente la produzione e la distribuzione dei prodotti su basi collettivistiche.
In tal caso, il socialismo rivoluzionario deve dedicare tutte le proprie forze all’affrancamento della comune e al suo sviluppo. Se, al contrario, la comune è destinata a perire, al socialista in quanto tale non resta che abbandonarsi a calcoli più o meno malcerti per appurare tra quante decine d’anni la terra del contadino russo passerà dalle sue mani in quelle della borghesia, tra quante centinaia d’anni, forse, il capitalismo raggiungerà in Russia uno sviluppo simile a quello dell’Europa occidentale. I socialisti, allora, dovranno condurre la propaganda unicamente tra i lavoratori urbani, i quali saranno in continuazione dispersi tra le masse dei contadini, ormai gettati dalla dissoluzione della comune sul lastrico delle grandi città in cerca di salario
” (pag.139).

Vera Zasulič aderiva a Spartizione nera, una formazione politica che si era allontanata dal populismo per dare vita a quella corrente di discepoli di Marx che ritenevano ineluttabile l’avvento dl capitalismo prima di qualsiasi altra trasformazione sociale, in Russia e/o altrove, ed era di vitale importanza per lei, Plechanov ed altri della stessa corrente sapere cosa pensasse esattamente in proposito l’autore del Capitale.

Marx nella risposta fu perentorio, anche se lo scritto richiese diverse bozze preparatorie, delle quali Cinnella ci offre numerosi ed importanti estratti. “La situazione storica della «comune rurale» russa è senza confronti! […] Se essa ha nella proprietà comune del suolo la base «naturale» del possesso collettivo, il suo ambiente storico – la contemporanea esistenza della produzione capitalistica – le offre belle e pronte le condizioni materiali del lavoro in comune su larga scala. Essa è dunque in grado di assimilare le conquiste positive del sistema capitalistico, senza passare attraverso le sue forche caudine” (pag.146)

Ciò che minaccia la vita della comune russa, non è né una fatalità storica, né una teoria: è l’oppressione da parte dello Stato e lo sfruttamento da parte di intrusi capitalisti, che lo Stato stesso ha reso potenti a spese dei contadini” continua poi ancora lo stesso Marx.

Se la rivoluzione venisse fatta in tempo, se l’intellighenzia russa raccogliesse intorno a sé «tutte le forze vive del paese», la comunità di villaggio non correrebbe più alcun pericolo” (pag.150). Ma dopo che fu ricopiata e spedita ai coniugi Plechanov dalla stessa Zasulič, della lettera non si ebbe più notizia. “I membri della prima organizzazione politica russa, che si richiamava apertamente alla dottrina di Marx, nascosero gelosamente all’opinione pubblica un testo marxiano pervaso, dalla prima all’ultima riga, di idee populiste. Sulla grave decisione dovette influire, in maniera determinante, il parere di Plechanov, il quale già nel 1881 cominciava a nutrire qualche dubbio sulla vitalità della comune rurale” (pag.143) . Fu solo nel 1911 che Rjazanov trovò i quattro abbozzi della lettera tra le carte di Marx.

Ma “lo studio sistematico dei rapporti agrari in Russia, intrapreso agli inizi degli anni ’70, indusse Marx a correggere le sue precedenti affermazioni sulla ferrea necessità dell’avvento capitalistico […] Marx adesso era incline a credere che le conquiste tecnico-materiali del capitalismo non riuscissero a compensare la perdita di valori comunitari racchiusi nelle più antiche forme di vita associata […] Nelle minute della lettera a Vera Zasulič […] si dice che l’attuale crisi del mondo capitalistico dovrà finire «con il ritorno delle società moderne al tipo «arcaico» della proprietà comunitari, ma non viene specificato per quale via” (pp. 160-165).

Per paradosso fu proprio “lo Stato bolscevico – che diceva di ispirarsi alla dottrina di Marx – a progettare e attuare, negli anni ’30 del Novecento, il furioso assalto al mondo contadino. Che provocò un’ecatombe umana di proporzioni gigantesche e distrusse le basi materiali dell’agricoltura sovietica” (pag.164).

Roso dall’atroce sospetto che il capitalismo, là dove era più avanzato, non generasse spontaneamente il suo becchino (così come aveva fino allora creduto), Marx andava in cerca di nuove vie rivoluzionarie […] In autori lontanissimi l’uno dall’altro, come Cernyševskij e Morgan, trovò la conferma teorica della maniera di raccordare il mondo primitivo (che egli andava scoprendo ed esplorando) al futuro comunista dell’umanità (nel quale seguitava a credere)” (pag.170)

Per questo motivo egli tornò sui suoi passi affermando che il processo di sviluppo dalle comunità primitive al capitalismo che aveva delineato riguardava innanzitutto la storia europea e che non poteva costituire un assoluto in ogni area del globo. Anzi, nella stessa lettera alla Zasulič, suggeriva che: “Nel leggere le storie delle comunità primitive, scritte da borghesi, bisogna stare in guardia. Essi non indietreggiano «dinanzi a nulla» neppure dinanzi ai fatti. Sir Henry Maine, per esempio, che fu un ardente collaboratore del governo inglese nell’opera di violenta distruzione delle comunità indiane, ci racconta ipocritamente che tutti i nobili sforzi da parte dl governo per sostenere queste comunità fallirono contro la forza spontanea delle leggi economiche!”. E sottolineava ancora che: ”nessuno – eccetto Sir H. Maine e altra gente della stessa risma – ignora che laggiù la soppressione della proprietà comunitaria del suolo fu solo un atto di vandalismo inglese, che spinse il popolo indigeno non avanti, bensì indietro” (pag.162)

Mentre fu possibile, dopo la sua morte, ritrovare tra le sue carte una lettera in cui, rivolgendosi ancora ai populisti russi, Marx affermava che non difendendo l’obščina i rivoluzionari si sarebbero privati della più bella occasione, che la storia avesse mai concesso, di evitare tutte le peripezie del male europeo.

Un libro tutto da leggere e studiare, dunque, quello del Cinnella per chiunque abbia a cuore non soltanto la storia del movimento operaio e del marxismo, ma anche il divenire e le prospettive della specie oltre il modo odioso di produzione oggi ancora in vigore.


  1. Si vedano, ad esempio: Jacques Camatte, Comunità e comunismo in Russia, Jaca Book 1975; Pier Paolo Poggio, L’OBŠČINA. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book 1976 e, ancora, Pier Paolo Poggio, Marx, Engels e la rivoluzione russa, Quaderni di Movimento operaio e socialista n.1, luglio 1974, Centro ligure di Storia sociale  

  2. Gli appunti su tali letture sono stati parzialmente tradotti in Italiano in Karl Marx Quaderni antropologici, Edizioni Unicopli 2009  

  3. Che in alcuni testi riguardanti gli Slavi e il panslavismo aveva sfiorato, dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1848, il vero e proprio razzismo. A tal proposito si vedano le critiche mossegli in Roman Rosdolsky, Friedrich Engels e il problema dei popoli “senza storia”, Graphos 2005  

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