Pirandello – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Camerino 47. Attore morto che parla (2) https://www.carmillaonline.com/2021/03/10/camerino-47-attore-morto-che-parla-2/ Tue, 09 Mar 2021 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65267 di Alfredo Angelici

Qui la prima puntata

Giorno indefinito. Camerino. Interno notte. 

Mi impegno a prendere sonno. Ma sono oppresso. Ansimo, mi volto, grugnisco e mi rivolto tra lenzuola esauste in un letto troppo piccolo. Strano vero? Vivo in 7 metri quadri e mi ci sento stretto. Eppure dovrei essere contento, secondo le direttive comunitarie un maiale ne ha solo 6 di metri quadrati a disposizione. 

– “Io sono più fortunato” – mi scappa sarcastico a voce alta.

– “Ho un metro in più per grufolare”. Erompo in una risata [...]]]> di Alfredo Angelici

Qui la prima puntata

Giorno indefinito. Camerino. Interno notte. 

Mi impegno a prendere sonno. Ma sono oppresso. Ansimo, mi volto, grugnisco e mi rivolto tra lenzuola esauste in un letto troppo piccolo. Strano vero? Vivo in 7 metri quadri e mi ci sento stretto. Eppure dovrei essere contento, secondo le direttive comunitarie un maiale ne ha solo 6 di metri quadrati a disposizione. 

– “Io sono più fortunato” – mi scappa sarcastico a voce alta.

– “Ho un metro in più per grufolare”. Erompo in una risata ebete quanto solitaria la cui eco subito muore contro la troppo vicina parete. Subito davanti mi appare giudicante la mia coscienza travestita da maiale di Trilussa, si avvicina calma, mi guarda e mi da uno schiaffone, poi mi dice: 

“bisogna esse filosofo bisogna 

non fa lo scemo 

che ci ritroveremo  

in qualche mortadella de Bologna”. 

Non c’è tempo da perdere. Approfitto dello stordimento che mi deriva dallo sganassone ricevuto dal maiale coscenzioso, lo rinforzo con della “melatonina retard”, dose consigliata 1 pastiglia all’occorrenza, ne butto giù tre. Occorreva. 

Spengo la luce e mi volto sul mio fianco preferito. Ora dormo. Ora dormo. Ora dormo. Ora mi addormento. Ecco, ci sono quasi. Sto per…. un corto circuito mi elettrosciocca il pensiero, le sinapsi diventano indipendenti, la riflessione riflette da sola. Espello l’incubo: da qui non ne usciremo mai più! Uff…

Pausa. 

Silenzio. 

Respiro profondamente forte dei miei anni di pratica Kundalini. Chiamo a me il prana. 

-ad guray nameh, jugad guray namo, mi inchino alla saggezza originaria, mi inchino alla saggezza invisibile –  io mi inchino dove vuoi tu ma tu però fammi dormire.

Ecco, funziona….ora dormo. Sto per abbandonarmi tra le braccia di Orf…- no! Ancora un corto circuito, cavolo, questa volta c’è anche del fumo che mi esce dalle orecchie, eccolo di nuovo, il pensiero nero: 

si sono dimenticati di noi. Uff…

Eddai però!

I rumori notturni che sento in questa reclusione volontaria non appartengono a questo mondo. E’ un’orchestra stonata di condizionatori, bocchettoni a norma, caldaie non a norma, scarichi gocciolanti, ventole dimenticate accese, lampadine di là da esplodere per sovravoltaggio, legni che strillano dilaniati dai tarli e tarli che urlano dilaniati dall’antitarlo. 

Il teatro produce un fracasso tale che passeggiare a Guanzhou nel Guandong, nell’ora di punta, con l’assolo di batteria di Whiplash sparato a cannone nelle orecchie, a confronto è un’oasi di pace.

Sono circa le 5 si “sente già in lontananza l’allodola, messaggera del mattino”. Non faccio a tempo a soffocare la retorica Giulietta con il cuscino in faccia, che da fuori la porta sento le urla indistinte di qualcuno che non conosco. Questo qualcuno si precipita rumorosamente giù per scale. I mie compagni stanno dormendo, ne sono sicuro. Non possono essere loro. 

Shhht, zitto! Ascolta. 

Pausa.

Ancora urla e slavine di passi pesanti su e giù per le scale. 

Il mio cuore di leone mi suggerisce di chiudere a chiave la porta ma l’avevo già fatto. Apro e richiudo, per sicurezza. Non c’è il minimo dubbio, è un fantasma. Guardo sotto al letto per sincerarmi che non ci sia il coccodrillo che voleva mangiarmi quando ero piccolo, c’è, è lì e mi guarda. No Alfredo torna in te, i coccodrilli non esistono deve essere per forza un fantasma, il famoso fantasma del teatro Bellini. 

Calma.

Pausa.

Silenzio.

Infilo prudente l’occhio nel buco della serratura, sbircio la sagoma di un bambino, oppure un uomo molto basso di statura, insomma una persona piccola che ha una specie di saio con delle fibbie argentate sulle scarpe:

“O’Munaciello!”

E’ vero! Ci aveva avvertito il direttore artistico, Daniele, sornione.

-“L’avete già conosciuto” – ci disse quel giorno tra le righe e tra le quinte.

-“Conosciuto chi?”

-“O’Munaciello”

-“O’ che?” 

-“Il fantasma del teatro, vive qui. Alla fine di una replica, durante lo smontaggio, anni ed anni fa, un tecnico macchinista cadde dalla graticcia e morì sul palco, da quel giorno il suo spirito vive qui e  molte persone lo hanno incontrato”.

-“ arghszhjui!!*?#^ghthdff” –  rispondo deciso prima di strozzarmi.

-“si, ma se ancora non si è fatto vivo vuol dire che gli state simpatici”.

Eh no eh ! Così non va, ma che me lo dici adesso? A saperlo non avrei mai accettato di dormire qui, aspetta no…aspetta, intendevo dire che sapendolo avrei chiesto molti più soldi….

Mentre dico queste parole comincio a sentirmi come offuscato, drogato, la vista deforma il veduto, il tatto il toccato, l’udito l’udito e mi ritrovo in un luogo che non conosco. 

Un calendario sul muro con l’immagine del partenone di Agrigento segna 23 dicembre 1967. Sono in una villa, le pareti di un intonaco rossastro scolorito, colonne a sostegno delle cupole. Passo attraverso una  porta vecchia che un tempo deve essere stata verde. Come ci sono finito qui?

L’impertinente “Munaciello” ora è davanti a me, un nano grasso vestito da bambino, di pelo rosso e con un faccione di terracotta che ride largo, d’un riso scemo nella bocca ma negli occhi malizioso.

Corre avanti ed indietro da muro a muro, sembra rimasto intrappolato, fa sentire la sua presenza.

Io prendo coraggio, avanzo a passi incerti.

Coscienza –  “hai paura? Non Tremare”.

Pulcinella  – “Gnornò, je nun tremmo, me spasso a facere ‘no minuetto cu’ la paura”.

La mia voce tenta di uscire ferma ed avvolgente, invece suona ingolata come quando mi metto i calzini in bocca.

-Tu chi sei, cosa fai qui?- dico

Lui si fa rosso rosso in faccia come se avesse uno spillo in gola. Parla con estrema accortezza, con cautela.

 – “Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente… son tutti di nostra fantasia. Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza”.

Avverto la barba crescermi all’improvviso, velocemente divento più alto, mi appare Kafka e mi fa l’occhiolino, io proseguo la metamorfosi, sono ora corpulento, un omone. Un omone barbuto dalla bella faccia aperta. Anche gli occhi si spalancano e da piccoli ed impauriti si fanno occhioni ridenti, splendenti e sereni. Io, orgogliosamente bruno dalla nascita, sorrido di denti sani nel pizzicarmi il biondo caldo dei baffi della barba non curata. Intanto di spalle Pirandello prende appunti.

Faccio un giro su me stesso col mio nero giacchettone a larghe falde e larghi calzoni chiari e, un po’ aperta sul petto, una camicia azzurrina. Mi scappello un vecchio fez da turco. Saluto educatamente:

-voi inventate le persone che non esistono…incredibile?

Il nano si siede accanto a me, ma io sono all’impiedi. Non può funzionare. Pirandello corregge all’istante e compare un divano, mi siedo ed ascolto:

– “Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi. Non è possibile che non ci creda anche lei, come noi. Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi”.

Vedi come si fa!!  E io che invece ho sempre inventato le verità, infatti alla gente è parso sempre che dicessi bugie…

Il nano si alza in piedi ma è alto uguale a quando era seduto, allora, meschino ed offeso lentamente si dissolve dicendo:

– “Ebbene, signori, vi dico come si diceva un tempo ai pellegrini: sciogliete i calzari e deponete il bordone. Siete arrivati alla vostra mèta. Da anni aspettavo qua gente come voi per far vivere altri fantasmi che ho in mente….”

Respiro aria favolosa. 

Intanto il temporale continua. 

Le prove del nostro spettacolo proseguono tra improvvisazioni ed esplorazioni ad ampio raggio, molto ampio, troppo ampio, immenso. Tanto abbiamo tanto tempo. 

Non sappiamo né quando né se usciremo. Ogni tv,  blog, rivista, tg ed affini, nazionali ed internazionali ha saputo ed ha parlato di noi. Anche il tessuto sociale napoletano in questo si è rivelato molto premuroso ed accogliente nei nostri confronti. Le pasticcerie ci offrono dolci di solidarietà, le pizzerie ci regalano pizze di sostegno, i caseifici ci tirano mozzarelle di fratellanza…ma le amministrazioni no. Non ci considerano (e sono stato un signore) di striscio. Non un assessore, un sindaco, un consigliere, un sottosegretario, un portaborse,  un usciere, che si sia affacciato a dirci – “ehi, sappiamo che oramai sono 70 giorni che siete chiusi li dentro, sto andando a fare la spesa, serve qualcosa?” – niente. 

Il nostro spettacolo parla del lavoro che ci vuole per fare uno spettacolo che nessuno ci farà mai fare e che a nessuno interessa che noi facciamo.

Quindi staremo qui, abbiamo tempo, possiamo permetterci il privilegio della ricerca. 

Io per esempio oggi ho fatto una performance, ho fatto della ricerca: 

mi sono vestito da precario e mi sono messo una fetta di brie legata ai fianchi che toccava terra. Camminavo, la strusciavo al suolo, mentre facevo il commento musicale imitando il controfagotto con la bocca. L’ho intitolata il formaggio. Poi ho proseguito per tutto il giorno, anche a pranzo. I colleghi mi chiedevano.

“Scusa che stai facendo?”

“Sto facendo una performance”. 

“Mi sembrava che stessi lavando i piatti”.

“No, ti sembra, ma questa è una performance”. 

“Ed ora? Stai andando a buttare l’immondizia?”.

“No, no,  sempre una performance”.

“Ah scusa”.

Forse per questo la politica non passa a trovarci, e taglia i fondi e le opportunità, non capisce il ruolo innovativo del teatro. Non capisco, eppure la mia improvvisazione è piaciuta molto, soprattutto per l’originalità dell’immagine.

Tutte le storie sono già state scritte, raccontate, tutto è già accaduto, esistono solo sfumature ed interpretazioni. Disney ad esempio per il Re Leone ha preso Amleto e gli ha fatto completare il cerchio della vita. Si limita a far scoprire a Simba il senso della vita che Amleto non ha mai voluto capire, il testone, intrappolato ed indeciso nel suo essere o non essere.

“Credete di vivere, vi arrabbatate, vi abbaruffate, ma ripetete solo le storie dei morti” – Eddai Pirandè, essù, ma non eri andato via? Abbiamo capito, sei stato chiaro. Scusatemelo. 

Luigi è fatto così…compare spesso da queste parti, lancia dei macigni di riflessione e se ne va. Ma non è che a uno gli va sempre di pensare, di scegliere, di vivere. 

La reclusione in Zona Rossa Bellini è diventata comoda, regolare, ripetitiva, confortante, consolatoria. Il libero arbitrio è solo relegato alla funzione creativa. Ma io ho deciso, non posso essere libero perchè sono  “debole, vizioso, inetto e ribelle.” Giornata tipo:

Ore 8 colazione

Ore 9 training

Ore 11 prove 

Ore 14 pranzo

Ore 15 montaggio spettacolo

Ore 19 fine prove, doccia

Ore 20 cena

Ore 22 fine giornata, netflix e letture

Ripetendo questo programma per 80/100 giorni di seguito (a proposito, siamo nel guinness dei primati come giorni di permanenza senza mai uscire da un teatro), utilizzando sempre gli stessi spazi, e scambiando sempre gli stessi sorrisi con le stesse quattro paia di occhi, si rischia di non poter più fare a meno della reclusione e si diventa “docili, sottomessi e pavidamente ubbidienti”.

Cambio scena

Ad un mio cenno la squadra tecnica: macchinista, aiuto macchinista, datore luci, ingegnere del suono e direttore di scena, capitanati dallo scenografo, ci regalano un cambio scena da pit stop. Siamo ora in Spagna, a Siviglia, al tempo piú pauroso dell’inquisizione quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafé. 

Anche la costumista ha fatto un gran lavoro, e, in tandem con la truccatrice è riuscita a trasformarmi in un vecchio quasi novantenne, “alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce”. 

Entra il mio collega, il prigioniero, viene trascinato davanti al pubblico ha i capelli rasati, vestito con sacco di juta , calza un berretto da somaro, è Dio.  

Io (con tono di sfida nei confronti di Dio) –  “questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi, il merito va a me di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini”.

Guardo il mio collega negli occhi. Indico il pubblico che guarda col fiato sospeso. 

Io- “L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici?”

Dio mi guarda con occhi profondi. Non risponde. Dio è un compagno di scena incredibile. Parla con gli occhi, c’è complicità tra me e lui, ci capiamo con uno sguardo. Lo conosco da molto tempo. L’ho sostituito in scena una volta, mi deve un favore. Dio è un attore intenso ed ha una invidiabile presenza scenica. Mi lancia un’occhiata mite di perdono, io di rimando mi infiammo di rabbia.

Io- “Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi,  sono venuti da me implorando: Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci!”

La battuta seguente è la più importante del testo, la dimentico sempre, come se il mio cervello la rifiutasse. Com’è che faceva? “Pane terreno….inconciliab…..ripartire?” Ah si! Ce l’ho e la dico dritta, tutta d’un fiato:

Io- “Lo capisci che libertà e pane terreno e per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro?”.

Pausa.

Mi aspetto l’applauso.

Silenzio.

“ Stop!!”

Dalla platea  Lorenzo il drammaturgo e Licia la regista urlano, mi dicono di essere meno emotivo, di agire come se tutto fosse già accaduto….si, a volte gli attori la prendono troppo sul serio. 

Che succede? Chi è quell’uomo?  Feodor Dostoyesky si alza dalla poltrona e scuote la testa. Se ne va, abbandona il teatro, disconosce il testo e toglie la firma….cosa è successo? Perché se ne è andato? Leggenda narra che andandosene qualcuno lo abbia sentito dire -“cane!-, quell’attore in scena abbaia!” 

Annuisco e mi sorprendo ad  accennare un piccolo inchino. Si, mi è rimasto un pò del suo Inquisitore appiccicato addosso, non c’è dubbio. E tra me e me sussurro “Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi”.

Il mio compagno di scena, Dio, a un tratto mi si avvicina in silenzio e mi bacia piano sulle esangui labbra novantenni mentre mi sto già struccando.

La prima e la quinta foto sono di Michele Amoruso, la seconda di Guido Mencari.

(Continua)

 

 

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Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

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L’estate del 1964 ( o giù di lì e oltre) – 2 https://www.carmillaonline.com/2016/01/21/lestate-del-1964-o-giu-di-li-e-oltre-seconda-parte/ Thu, 21 Jan 2016 22:07:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27926 di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per [...]]]> di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per il cinema. Ma quei due, per i quali il West era solo un pretesto per parlare di anarchia e di rivoluzione e di uso delle armi per riparare ai torti dei potenti, furono un’altra cosa. Dei maestri. Che aprirono la strada ad un breve periodo in cui i pistoleri dell’Ovest sembravano avere le fattezze dei rivoluzionari cubani e latinoamericani. Soprattutto quando ad interpretarli erano chiamati Gian Maria Volonté o Warren Oates.

Nell’autunno del 1964 entrai nella scuola media unica, che era stata avviata con la riforma scolastica entrata in vigore il 31 dicembre 1962 con effetto dall’anno scolastico successivo. Grazie a ciò, nel giro di pochi anni raddoppiò il numero degli allievi frequentanti le scuole medie superiori. I numeri valgono più delle ideologie per spiegare i fenomeni sociali. Anche per il’68.
Che ci trovò, per così dire, pronti.

Pochi venivano da un inquadramento partitico o da un indottrinamento politico.
Sicuramente leader e leaderini avevano seguito quel percorso, ma furono pochi e grande era il disordine che regnava sotto il cielo di quei giorni.
Tutti si buttarono a pesce per abbrancarci e molti di noi sfuggirono a stento alle sirene che volevano richiamarci verso il PCI o verso i marxisti-leninisti dalle varie linee nere e rosse.

Ma quando ci avvicinarono noi avevamo già assaggiato le carezze dei calci dei moschetti, dei manganelli o delle catenelle delle manette. Sparate dritte sulla faccia o sulla testa. Oppure, se ci era andata bene, soltanto sulla schiena.
Ma eravamo incoscienti e piuttosto ostili a quella disciplina che volevano inculcarci, a tutti i costi, a calci in culo. L’unica cosa che ci interessava davvero era render pan per focaccia. A fascisti e polizia.

La teoria arrivò più tardi, mica subito.
L’azione precede la parola e poi ne richiede l’uso per spiegarla.
E le parole precedono le idee. Le parole spiegano l’azione e, in seguito, le idee che ne derivano creano il mondo. Anzi, creano la visione del mondo.
Ma nella materialità del mondo è l’azione che fa la differenza. Tutto il resto arriva dopo.

Marx affermò chiaramente che la classe operaia o lotta o non è.
Insomma la classe si fa tale in quanto agisce. Soltanto dopo pensa e riordina le sue azioni e le sue strategie. Quei teorici del partito che volevano portarci la coscienza da fuori, non si rendevano nemmeno lontanamente conto che il fenomeno era in realtà completamente rovesciato. Infatti potevano intravedere la coscienza grazie all’azione esercitata dalla classe e soltanto così innamorarsene.

Allo stesso tempo cercare di definire la classe o l’appartenenza ad essa in termini politici a partire da elementi non biografici, ma esclusivamente economici e sociali rischia di far cadere in un realismo sociologico che può forse funzionare per i grandi numeri, ma non per i percorsi individuali o generazionali.

In realtà per capire a ritroso la storia di una scelta complessa come quella di diventare militanti rivoluzionari occorre, un po’ come fece Walter Benjamin con la sua ricostruzione dei passages parigini, ricercare corrispondenze, collezionare ritagli casuali e tracce; giungendo cioè a creare quella che il filosofo tedesco chiamò una “fantasmagoria dialettica”, in cui quelle scarse e sparse testimonianze e ricordi, opportunamente assemblati e giustapposti possono, soli, rendere l’immagine della tempesta personale che fu scatenata da eventi tra i più disparati e che avrebbe accompagnato e prodotto avvenimenti meglio indirizzati una volta raggiunto un diverso ordine interiore.

giù la testa Gli avvenimenti, i più diversi tra di loro, ci possono avviare verso un percorso rivoluzionario prima di averne piena coscienza. Soltanto dopo questo primo passo sarà possibile razionalizzare le scelte e indirizzare gli sforzi verso un comune obiettivo. Vale per l’individuo e vale per l’azione di classe o di un partito rivoluzionario o preteso tale. Che non può esistere se non è preceduto dall’azione spontanea dei movimenti sociali. Dopo li potrà comprendere, anticiparne alcune scelte e, magari, guidare momentaneamente, ma non li potrà mai e poi mai creare.

Quei movimenti non si possono inventare. Sono la manifestazione fenomenica di un inconscio collettivo profondo. Nutrito di sogni, bisogni, parole, suoni, desideri, istinti, inconsapevole a se stesso fino a quando non si presenta un elemento scatenante: una crisi, un licenziamento, una promessa non mantenuta, una speranza infranta, un maltrattamento inaspettato o di troppo. E ciò avviene in un momento preciso, lungo come il decennio dal’68 al ’77 oppure brevissimo, come il tempo di uno sparo.

Ma in quel momento tutto si illumina, tutto diventa chiaro, tutto risplende di luce propria anche se chi cercherà di prenderne la testa vorrà appropriarsi di quella stessa luce, finendo col risplendere di una luce riflessa. Come un satellite che gira intorno ad un astro vero. Paradossalmente attratto dal moto di rotazione del corpo celeste di superiori dimensioni e allo stesso tempo, presuntuosamente, convinto di determinarlo. Mentre la fine del movimento e della rotazione costante di quel corpo ne segnerà l’inevitabile caduta o dispersione nell’immensità del cosmo.

Ed è per questo che ciò che fa scoppiare una rivolta o una rivoluzione una prima volta può non funzionare una seconda. Ed è ancora per questo che i partiti che sopravvivono all’esperienza che li ha generati sbagliano sempre nel comprendere i fenomeni successivi.
Si aspettano ciò che è già stato e non capiscono che, molto probabilmente, non si ripeterà più. Almeno con la stessa intensità, violenza e determinazione.

Ed è infine per questo che i partiti rivoluzionari di un tempo sono destinati a diventare i partiti della conservazione, se non addirittura della controrivoluzione nelle successive stagioni della storia.
Così, spesso, hanno finito col barattare i principi generali a cui si ispiravano pensando che fossero quelli ad essere sbagliati; senza rendersi conto, invece, che era la loro attesa che aveva tempi diversi da quelli del treno della storia. Che pur sarebbe prima o poi passato, ma non per quella stazione e con quegli orari.

Ho scritto da altre parti che eravamo come giovani treni lanciati in corsa.
Noi eravamo saliti su quel treno, lo avevamo acchiappato al volo; eravamo diventati quel treno.
Ne eravamo contemporaneamente i passeggeri e la locomotiva e continuammo a correre.
Fino a quando deragliò o fu fatto deragliare.
Dal treno potevamo vedere o intuire la destinazione, ma non potevamo controllare i binari.

mexican train Mi vengono in mente le immagini dei treni durante la rivoluzione messicana. Stracarichi di armati, donne, bambini, cavalli.
Come al solito quelle immagini ci erano giunte mediate dal cinema di Leone e di Peckinpah. Su quei treni là gente ci viveva, non viaggiava soltanto.
Intorno a quei treni si combatteva, si moriva, si vinceva e si perdeva.
Forse da lì mi è venuta l’idea di quella nostra definizione. Che mi piace ancora.

Mi piace soprattutto l’immagine di quei treni fermi, ma con le locomotive sbuffanti.
Esprimono ciò che è ancora solo in potenza e non ancora in essere; anche se lo fanno già prevedere.
Oggi mi sento ancora sullo stesso treno, ma forse ha imboccato un binario morto.
Oppure i passeggeri sono scesi tutti o quasi e hanno deciso di prenderne un altro. Forse a quella stazione di cambio ero addormentato oppure guardavo distrattamente da un’altra parte.

Eppure, eppure…
Ricordo che, quando quel treno era in corsa, nelle ultime fermate ci eravamo scontrati fermamente con il PCI. Il vero garante dell’ordine. Democratico si diceva allora.
Ed oggi vedo giovani dei centri sociali e precari e lavoratori scontrarsi con gli eredi di quel partito e con il loro governo. Anche oggi si chiamano “democratici” o, tra poco, Partito della nazione.

Superata questa immagine del treno?
Dovrei parlare di rete o di reti? In fondo in rete scrivo ed invio i miei messaggi in bottiglie di byte.
Ma ho i capelli bianchi e nel mio immaginario quei binari che si perdono verso l’orizzonte, sui quali si corre trascinati da una macchina pulsante, mi affascinano di più.
Anche se, quando parlo con i miei allievi, mi accorgo che non possono più vivere le stesse mie emozioni. Ed io le loro.

Ma il problema posto dal superamento di questo modo di produzione orrendo permane.
E una parte della teoria già prodotta potrebbe ancora servire.
A patto di sapere dove si cela la classe oggi, quali sono i suoi comportamenti, quali le sue azioni.
Autentiche e non scimmiottate.
Dove trovare l’equivalente della classe operaia quando questa, qui in Occidente, è stata ridotta ai minimi termini, dispersa, convogliata verso rivendicazioni miserabili ed egoiste?

Gli operai che trovavo alle porte della FIAT negli anni settanta avevano, quasi sempre, la stessa mia età. Avevamo molti gusti in comune e lo stile di vita non era così distante. Come sarebbe stato possibile non intenderci, al di là del volantino o del giornale distribuito davanti ai cancelli?
Anche loro erano già stati dipinti come teppisti. Prima in piazza Statuto poi in corso Traiano.

Il giovane rivoluzionario è sempre dipinto come un teppista o un delinquente.
Oppure come un terrorista, anche se ha contribuito soltanto al sabotaggio di una betoniera.
E’ facile perdere la fiducia dopo una certa età.
E’ facile scoraggiarsi e rinunciare.
Non è vero che si continui a credere per auto-consolazione, sarebbe più facile lasciar perdere.
Guardare scorrere le immagini del film del mondo staccando l’audio.
Oppure non guardarle proprio, rivolgendo lo sguardo ad uno schermo grigio di cui abbiano preventivamente sabotato ogni funzione.

Ma c’è un demone, un virus che ci ha infettato il sangue. Tanto tempo fa.
Che non ci permette di guardare da un’altra parte.
Che ci obbliga a cercare di capire, ancora. E ancora. E ancora.
Chissà se si sentivano così quei vecchi compagni della sinistra dissidente che, in pochi, cercarono di trasmetterci l’odio per lo stalinismo e la grande truffa dei socialismi nazionali?

wild bunch 3 Chissà se sentivano così quei vecchi partigiani che prendevano la parola alle manifestazioni anti-fasciste dei primi anni settanta?
Erano mica più vecchi di noi adesso, eppure sembravano così anziani e, talvolta, lontani.
Si sentiva così mio padre quando, dopo anni di diverbi con me per le mie scelte politiche, prese una sera il telefono per minacciare il vice-questore di Torino che, a sua volta mi aveva minacciato insieme a mia madre?

Come si sentiva mia nonna quando si ricordò, durante la ristrutturazione della casa di campagna, di fare sparire da un camino in disuso le armi che mio padre si era portato a casa dopo la Resistenza?
Quelle stesse con cui lei, donna di campagna ma dallo sguardo fermo e deciso, aveva minacciato il negoziante borsanerista che cercava di arricchirsi sulle spalle dei compaesani subito dopo la fine del conflitto, mostrandogli gentilmente la bomba a mano che portava nelle tasche del grembiule?
Cosa di cui, quest’ultima, mia madre, donna di tutt’altra pasta, si vergognò sempre tantissimo.

Abbiamo provato tutti le stesse cose, in tempi e forme diverse?
Siamo tutti anelli di una stessa catena?
Di cui, secondo i periodi, cambia soltanto la forma e la forgiatura?
Abbiamo sempre gli stessi nemici, dal volto cangiante ma dagli stessi modi e comportamenti?
Come diceva il titolo di un film di vampiri capitalisti dei tardi anni settanta: Hanno (solo) cambiato faccia?

hannocambiatofaccia A volte si rischia veramente di sentirsi come criceti destinati a far girare all’infinito la stessa ruota.
Forse, una volta spogliati degli orpelli ideologici, intellettuali e politici , lo siamo davvero. Tutti.
Vittime di una invisibile e superiore “livella” che ci condanna, ancor prima di morire, ad un personale inferno di ripetizioni di atti, gesti, parole e pensieri. Tutti apparentemente così importanti, tutti quasi sicuramente futili. Come maschere di un teatro e di un copione che neppure Pirandello avrebbe osato o saputo immaginare.

Comunque il passato era poco più che un sogno e il suo influsso sul mondo era ampiamente esagerato. Perché il mondo veniva rinnovato ogni giorno ed era solo l’attaccamento degli uomini alla sua svanita esteriorità che poteva fare del mondo un’ulteriore esteriorità […] Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” (Cormac McCarthy)

(Fine seconda parte – continua)

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