Pietrogrado – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La guerra: una questione divisiva, ma dirimente https://www.carmillaonline.com/2022/07/20/la-guerra-una-questione-divisiva-ma-dirimente/ Wed, 20 Jul 2022 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72976 di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini… Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano [...]]]> di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 540, 15 euro

Milano dell’Expo, Milano del Leoncavallo, Milano di “mani pulite”, Milano da bere, Milano dell’Autonomia operaia, Milano “nera”, Milano di via Mancini e dei compagni morti ammazzati nella primavera del 1975, Milano del Cub della Pirelli, Milano della strage di piazza Fontana e dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, Milano ultima sede delle trattative prima della caduta di Mussolini…
Poi la memoria pubblica e l’immaginario storico-politico sembrano fermarsi, a meno di non risalire alle cannonate del 1898 e a Bava Beccaris, saltando a piè pari, o quasi, una stagione straordinaria di lotte e contraddizioni di classe e nella classe: quella intercorsa nel secondo decennio del ‘900, tra l’avvento di Mussolini alla direzione dell’«Avanti», la Prima guerra mondiale e la formazione del nucleo giovane e intransigente che avrebbe costituito una delle componenti più radicali della Sinistra socialista.

Bene hanno dunque fatto i compagni di «pagine marxiste» a ripubblicare in un unico volume due testi di Mirella Mingardo già precedentemente apparsi in altra edizione (Mussolini, Turati e Fortichiari. La formazione della sinistra socialista a Milano 1912-1918, edizioni Graphos, 1992 e 1919-1923. Comunisti a Milano. La Sinistra comunista milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi dalla formazione del Pcd’I all’ascesa del fascismo, pagine marxiste, 2011) rivolti a sottolineare l’importanza che la componente milanese di sinistra del Partito Socialista ebbe nelle lotte e nelle riflessioni che precedettero e accompagnarono lo sviluppo della frazione rivoluzionaria all’interno dello stesso. Fino e oltre la scissione di Livorno nel 1921 che diede vita al Partito Comunista d’Italia. Entrambi i testi erano da tempo esauriti e vengono oggi riproposti in un’edizione riveduta, ampliata, corretta e corredata da un vasto apparato di note biografiche cui hanno contribuito i redattori dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà.

La lettura si rivela immediatamente stimolante non soltanto dal punto di vista storico, ma anche propriamente politico, poiché quelle battaglie e quei fatti, soltanto apparentemente lontani nel tempo, servono ancora a mettere in evidenza carenze, errori e contraddizioni del nostro tempo. Così, anche se in precedenza non sono mancante le opere storiografiche destinate a ricostruire il travaglio politico e i conflitti sociali di quegli anni, i due testi di Mirella Mingardo permettono di ricostruire e collocare gli stessi temi ed avvenimenti in maniera tale da costituire ancora un termine di paragone per quelli attuali.

Prima di procedere nell’analisi dei contenuti, quello che occorre forse sottolineare è che la narrazione dei passaggi che portarono alla scissione del PSI e alla fondazione di un partito comunista rivoluzionario spesso ha privilegiato tre località “forti” per lo sviluppo della corrente più radicale del socialismo italiano di inizio ‘900 mettendo in risalto Torino, Napoli e Milano spesso nell’ordine qui appena esposto.

Se Napoli, descritta fin dall’Ottocento come la “polveriera d’Italia”1 e successivamente come uno dei principali centri di origine del Comunismo e del Fascismo2, aveva visto la presenza determinante di Amadeo Bordiga tra i giovani militanti che avrebbero intrapreso e guidato la lotta per la rivoluzione e il comunismo, curandone in particolare l’impostazione teorica, Torino, definita in un classico della storiografia del movimento operaio italiano come “operaia e socialista”3, ha fondato il suo primato, oltre che sulla combattività della sua classe operaia e del suo proletariato, sulla presenza di Antonio Gramsci, nonostante i tentennamenti che questi ebbe (insieme a Togliatti, all’epoca decisamente “interventista”) nei riguardi dell’opposizione ferma e radicale nei confronti del primo conflitto imperialista.

In entrambi i casi, però, le sezioni locali del partito socialista erano rimaste in mano alle posizioni riformistiche, mentre soltanto a Milano la sezione, fin da prima della guerra era stata diretta dalla frazione di Sinistra dello stesso partito. Il dubbio a cui si perviene, quindi, è che tale spostamento del baricentro della ricostruzione storiografica a favore di Torino sia stato dovuto, in un ambito di ricerca a lungo dominato dalla storiografia e dagli storici legati a doppio filo al PCI, alla necessità di far crescere a dismisura, dopo la sua morte, la figura e il ruolo svolta da Gramsci, e dall’«Ordine Nuovo», nella nascita e nella formazione del Pcd’I: sia per fornire a Togliatti una copertura autorevole per giustificare le sue infinite giravolte e tradimenti all’ombra della (tutt’altro che amichevole) figura di Gramsci4, sia per sminuire, se non proprio denigrare o rimuovere, le figure di Amadeo Bordiga e dell’ancor più odiato, se possibile, Bruno Fortichiari.

Bruno Fortichiari che si rivela essere, nell’ambito della ricerca di Mirella Mingardo, un autentico e intransigente promotore dell’organizzazione non soltanto del lavoro politico della sezione socialista milanese negli anni precedenti la prima guerra mondiale, ma anche dell’opposizione internazionalista alla stessa, una volta scoppiata. Insieme alla sua figura brilla, nell’ambito dell’ organizzazione e dell’agitazione svolta in senso internazionalista e antimilitarista, quella di Abigaille Zanetta (1875-1945), maestra socialista e agitatrice temutissima dalla prefettura milanese e dai vertici moderati e parlamentari socialisti dell’epoca.

Non a caso una donna, in una città e in un’epoca in cui, dall’Italia dei campi e delle fabbriche fino agli scioperi delle giovani operaie di Pietroburgo che diedero inizio alla rivoluzione di febbraio in Russia nel 1917, le donne lavoratrici di ogni età, con o senza famiglia, svilupparono azioni di lotta collettiva che pesarono enormemente sulle politiche dei partiti e le scelte, spesso repressive, degli Stati. Soprattutto prima e durante il primo vero macello imperialista che, oltre tutto, qui in Italia era stato già anticipata dalla guerra di Libia e dall’opposizione che nei confronti di questa si sviluppò in ambito socialista e anarchico.

Se tutta la ricerca sulla Sinistra socialista milanese è profondamente interessante nelle due parti che la compongono, per ragion di brevità, in questo contesto, si è valutato di soffermare maggiormente l’attenzione sulla prima parte, quella che si ferma al 1918 con la fine della guerra.
Periodo burrascoso che vedrà l’ascesa di Benito Mussolini e il suo conseguente allontanamento dal partito, l’affermazione di Fortichiari e dei compagni a lui più vicini alla guida della sezione socialista di Milano e, infine, anche il progressivo attestarsi della componente riformista, guidata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, su posizioni sempre più collaborazioniste con gli interessi del governo e del capitalismo italiano.

Il fatto veramente interessante, nella ricostruzione e analisi di quegli eventi e personaggi, è dato dal fatto che fino a quando la battaglia interna e sulle piazze sarà condotta sul piano della lotta economica e dei diritti dei lavoratori oppure della validità del suffragio universale o, ancora, della corruzione dei quadri parlamentari socialisti più orientati alla collaborazione filo-governativa o la loro appartenenza alla Massoneria, tutte le componenti riusciranno comunque a trovare un equilibrio, per quanto conflittuale, che permetterà alla struttura partito di procedere nel suo cammino. Anche se, come afferma l’autrice:

Sin dai primi mesi del 1912 la divisione già presente nell’ala destra del partito si rivelò insanabile, sia nel convegno nazionale contro la guerra organizzato a Milano dai riformisti di sinistra, che nel dibattito avvenuto alla Camera per ratificare il decreto reale di annessione della Libia. In questa sede i contrapposti interventi di Bissolati (che pur criticando l’impresa libica manteneva il suo appoggio al Ministero Giolitti) e di Turati (che espresse l’opposizione della sinistra alla politica governativa) sancirono pubblicamente la scissione fra i due riformismi5.

Di tale situazione poterono approfittare da una parte la Frazione rivoluzionaria, che nel giro di poco tempo riuscì a conquistare la maggioranza delle sezioni di un certo rilievo, anche se, come si afferma ancora nel testo, «l’ascesa dei rivoluzionari fu soprattutto “il frutto di uno sforzo di carattere organizzativo” che non corrispondeva ad un radicale rinnovamento “di idee e di programmi”»6. Dall’altra lo stesso Mussolini che, dopo esser da poco rientrato nelle fila del partito, al successivo XIII congresso del Partito Socialista, tenutosi a Reggio Emilia il 7 luglio del 1912, riuscì ad ottenere l’espulsione dal partito dei deputati Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, individuati come rappresentanti della destra riformista.

Episodio che, dopo il tentativo fatto da Bonomi di presentare le scelte parlamentari della destra come sforzo di riconciliazione con lo Stato per «imbeverlo della forza operaia e popolare» in attesa di porre fine al «divorzio tra capitale e lavoro», sancì la prima significativa scissione nella storia del Partito Socialista7.
In tale contesto occorre cogliere l’affermazione delle forze più giovani e intransigenti del partito raccolte in buona parte nella federazione giovanile, ma anche «lo sviluppo di nuove forze sociali che la lunga depressione e la guerra libica avevano contribuito a creare»8.

Mentre già il primo conflitto mondiale andava accumulandosi a livello economico, militare e politico, fu possibile un breve periodo in cui le forze radicali interne al Partito socialista, il sindacalismo rivoluzionario e quello della Confederazione Generale del Lavoro poterono convivere, anche se in maniera spesso conflittuale, con l’ala riformistica del partito stesso.
Ma il colpo di pistola di Sarajevo del 28 giugno 1914 avrebbe significato non solo l’avvio di un conflitto tra imperi non più procrastinabile, ma anche il processo che avrebbe dato inizio al disfacimento della Seconda Internazionale e dello stesso partito socialista italiano.

Ed è proprio nel corso dell’anno che separò l’inizio delle ostilità tra le forze della Triplice Alleanza e della Triplice Intesa e l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, che tutti i nodi vennero al pettine, dimostrando come la questione dell’atteggiamento da tenersi nei confronti della guerra imperialista sia sicuramente estremamente divisiva ma, anche, dirimente più di qualsiasi altra sul piano delle politiche riformistiche, nazionaliste oppure rivoluzionarie.

Fa bene la Mingardo a sottolineare come Mussolini, indicato sempre come unico e vero traditore delle posizioni neutraliste del partito italiano, fosse in realtà in buona compagnia sia all’estero, dove i partiti socialisti tedesco e francese furono prontissimi ad approvare i crediti di guerra, sia in Italia dove sia all’interno del Partito che tra le altre forze di opposizione, sindacali e finanche anarchiche, furono tantissime le “conversioni” alla causa della guerra.

La prime contraddizioni inizieranno a manifestarsi proprio durante la cosiddetta “settimana rossa”, quando nel giugno del 1914, preceduta dagli scioperi dei ferrovieri e delle sigaraie, si sviluppò a partire da Ancora un movimento insurrezionale, che si estese in breve tempo ad altre regioni e che metteva insieme l’antimilitarismo con la protesta sociale per le condizioni salariali e di vita. Come annota la Mingardo:

Gli scontri sanguinosi della città marchigiana e la protesta spontanea che a macchia d’olio si estese in tutta la penisola non furono soltanto la reazione alla lunga serie di eccidi che distinsero l’Italia post-unitaria, ma rappresentarono nuovamente l’esplosione di una latente e disordinata carica rivoluzionaria delle forze proletarie.
Se sorprendente è l’assenza del partito, colto alla sprovvista dalla vastità del moto, ancor più sorprendente è l’assenza di Mussolini […] Il paese si rivolge al partito e al giornale, invoca una parola d’ordine, più volte preannunciata, “ma dietro la carta stampata dell’«Avanti!» non c’è niente”9

Citando Bozzetti, autore di Mussolini direttore dell’«Avanti!», aggiunge poi ancora: «Dopo aver predicato per anni la guerra, dopo aver identificato nel militarismo il nemico numero uno, dopo aver seminato l’odio contro le istituzioni militari […] quando scocca l’ora X Mussolini non è al suo posto»10.
L’ex-rodomonte socialista iniziava così a mostrare di che pasta fossero fatte le sue “radicali” affermazioni e a scivolare lungo il pendio che ben presto lo avrebbe portato tra le braccia dell’interventismo, del nazionalismo patriottardo e del militarismo stesso.

Il contesto in cui finirono col confrontarsi le differenti e irriducibili posizioni sulla guerra si rivela, attraverso le pagine del libro, non molto diverso da quello odierno, soprattutto per quanto riguarda il malessere che ben presto iniziò ad esplodere tra le classi popolari oltre che per il lento scivolamento verso la stessa proprio di quelle posizioni che pur volendosi “neutraliste” iniziarono a manifestare un atteggiamento decisamente anti-teutonico, pur dichiarandosi ancora non favorevoli ad un’entrata in guerra. Insomma un neutralismo che manifestava, nella sostanza una particolare avversione per uno dei contendenti del conflitto: quello austro-ungarico.

Posizione che iniziò a rivelare come le dichiarazioni indipendentiste e patriottiche di irredentisti come Cesare Battisti spingevano, inequivocabilmente, alla guerra nei confronti degli usurpatori delle “terre italiane”. Come afferma in un suo testo Luigi Cortesi, citato dall’autrice:

Questi atteggiamenti (anti-teutonici-NdR) ridimensionano qualitativamente la tradizionale leggenda di un PSI su posizioni coerentemente internazionalistiche. Il PSI – al di là del rigorismo formale di facciata – agì invece sul governo per evitare un possibile intervento a fianco degli Imperi Centrali e fin dall’inizio – esplicitamente o implicitamente – lasciò aperta la possibilità di un orientamento filio-intesista, differenziando in ogni caso subito le due parti belligeranti11

Mussolini nel frattempo, infiammando l’«Avanti!» con titoli come L’orda teutonica scatenata in tutta Europa, spingeva nella stessa direzione, oltre tutto rendendo ancora più evidente la sua tendenziosità nella cronaca bellica in cui, nonostante l’agosto del 1914 si fosse rivelato un mese di disfatte per gli eserciti dell’Intesa, i titoli del giornale socialista davano l’impressione che in realtà stessero vincendo. L’antitriplicismo però non era patrimonio del solo Mussolini poiché

da destra a sinistra il disorientamento percorreva il partito. Accanto alle dichiarazioni di alcuni riformisti (quali Treves12, Turati, Mondolfo, Graziadei) favorevoli alla “neutralità relativa”, emergevano le conversioni dei sindacalisti Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Decio Becchi, Livio Ciardi; dell’anarchica Maria Rygier13.

Mentre i partiti della cosiddetta sinistra finivano con lo schierarsi per un aiuto reale alle democrazie occidentali, l’unica voce a levarsi chiaramente contro la guerra fu quella di Amadeo Bordiga che, in un articolo pubblicato sull’«Avanti!»14, denunciava «le simpatie di “molti compagni” verso l’Intesa e demoliva le artificiose distinzioni tra guerra di offesa e guerra di difesa. La borghesia di tutti i paesi era la vera responsabile del conflitto o, meglio, lo era “il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica” aveva “ingenerato il sistema dei grandi armamenti”»15.

Bruno Fortichiari, collocandosi su altrettanto chiare posizioni intransigentemente antimilitariste e anti-imperialiste, poneva sullo stesso piano i blocchi contendenti, poiché l’Italia non doveva assolutamente lasciarsi «sedurre dalle sirene della Duplice Alleanza e della Triplice Intesa che indubbiamente prevedeva e attendeva l’aggressione per soffocare la Germania militarista e imperialista sì, ma anche forte concorrente nel campo industriale e coloniale»16.

Ma il testo edito da «pagine marxiste» ci rinvia al presente non soltanto dal punto di vista delle contrapposizioni ideologiche e politiche.

I paesi del vecchio continente non poterono sfuggire alla crisi generale che investì l’Europa allo scoppio della grande guerra. Sin dall’estate del 1914 l’economia italiana si trovò a fare i conti con il blocco navale inglese che impediva l’accesso nel Mediterraneo alla flotta della Triplice. Il provvedimento comportò l’aumento vertiginoso dei noli marittimi e “l’interruzione totale del traffico via mare da e per la Germania e l’Austria-Ungheria, e la più stretta dipendenza dall’Inghilterra per i rifornimenti”.
La mancanza di materie prime o il rallentamento nella loro fornitura, i provvedimenti governativi sulle restrizioni del credito e del commercio con l’estero, ebbero un’immediata ripercussione nell’economia: alle gravi carenze del mercato corrisposero il rialzo del costo della vita e l’aumento preoccupante della disoccupazione […] A peggiorare le condizioni di vita della sempre più numerosa popolazione disoccupata, contribuì la lievitazione del prezzo del pane. L’aumento incontrollato dell’alimento base fece scoppiare ovunque il grido di rivolta17.

Tumulti si ebbero a Bari, Caltanisetta, Napoli, Palermo, Catania, Pisa, Molfetta, Bitonto, Faenza con una forte presenza femminile all’interno delle stesse, spesso violente, manifestazioni affrontate con violenza superiore da parte dello Stato e con la dichiarazione dello stato d’assedio in alcune città coinvolte. Mentre, allo stesso tempo, il Governo e le forze di polizia permettevano e giustificavano le manifestazioni interventiste, spesso gonfiate artificialmente nei numeri ad uso della propaganda a favore della guerra.

Milano sia nel 1914 che nell’opposizione alle “radiose giornate di maggio” del 1915 fu spesso in prima linea con i suoi proletari, le lavoratrici e anche le donne della campagna circostante che protestavano sia per il peggioramento delle condizioni di vita che per il fatto che mariti e figli fossero stati richiamati o chiamati per la prima volta alle armi, aggravando così le già difficili condizioni economiche famigliari.

Di fronte all’inevitabile, la direzione del partito indirizzò al proletariato l’ultimo e drammatico manifesto inteso a separare le proprie responsabilità da quella delle correnti che avevano voluto la guerra. La lotta veniva rimandata al dopo, alla fine del conflitto. Il partito intanto si poneva “in disparte” – come scrisse l’«Avanti!» del 24 maggio 1915 – lasciando che la borghesia facesse la sua guerra18.

Fingendo una patina di nobiltà morale, la dirigenza socialista nazionale abbandonava definitivamente al suo destino un proletariato ancora combattivo che, però, avrebbe potuto essere indirizzato soltanto da un’organizzazione totalmente dedita al rovesciamento rivoluzionario dell’esistente, cosa che, certamente, il PSI non era e non voleva essere nella maggioranza della sua rappresentanza parlamentare e intellettuale.

Ma a gettare ancora benzina sul fuoco mai spento delle braci insurrezionali e rivoluzionarie giunsero nel 1917 le notizie provenienti dalla Russia e dalla rivoluzione che si era andata sviluppando colà. Fu così che nel maggio dello steso anno a Milano e poi ad agosto a Torino tornarono a svilupparsi violente azioni di massa contro la guerra, in cui la classe operaia, ancor prima dei militanti del partito fu in prima linea e sulle barricate.

E proprio a Milano, durante quelle manifestazioni portate avanti in maniera estremamente dura proprio dalle donne, Turati ebbe modo di osservare quaanta fosse la distanza che ormai separava l’ala riformista dalle masse che pretendeva di rappresentare in parlamento.
«Vogliono far la pelle ai signori – scrisse infatti ad Anna Kuliscioff – fra i quali, beninteso, siamo anche noi»19.

Prima della spesso e oggi fin troppo bistratta scissione del 1921 a Livorno, a rompere con il riformismo del PSI fu prima di tutto il proletariato delle grandi città industriali oppure trasferito al fronte e in divisa nel 1917.
Poi, nel novembre dello stesso anno, arrivò anche la risposta di migliaia di soldati italiani che autonomamente, e ancora una volta lasciati soli e privi di qualsiasi indicazione politica, abbandonarono il fronte e le trincee a Caporetto. Mettendo in pratica, senza magari neppure conoscerla, la parola d’ordine che era corsa lungo i fronti di guerra a partire dalla Francia: Facciamo come in Russia!

Ma la direzione nazionale del partito e Turati in particolare avrebbero continuato a procedere sulla linea di una sempre più stretta collaborazione col Governo in carica, sventolando la bandiera della “necessaria solidarietà” nei confronti dei profughi in fuga dal territorio profondo 70 chilometri in cui erano penetrate le truppe della Duplice, occupandolo. Un vero record nello sfondamento delle linee, visto che all’epoca la guerra permetteva di avanzare al massimo di qualche centinaio di metri al giorno.

La mobilitazione governativa e poliziesca affinché lo scontento interno non raggiungesse i soldati delle trincee si era già manifestata precedentemente, mentre i ferrovieri trasportavano verso le truppe al fronte i volantini inneggianti alla protesta e alla rivolta che la Sinistra intransigente cercava di diffondere a tutti i livelli. Nelle fabbriche, d’altra parte, il clima era diventato irrespirabile per le maestranze, poiché anche i lavoratori dovevano ormai rispondere ad un’autentica mobilitazione e militarizzazione del lavoro, in cui anche gli scioperi avrebbero potuto esser trattati come tradimento e diserzione.

Michele Fatica, citato dalla Mingardo, ha scritto in proposito:

Niente poteva essere più ben accetto alla borghesia industriale quanto la riduzione dell’operaio salariato alla condizione di lavoratore forzato. I dipendenti delle aziende dichiarate ausiliarie passano sotto la giurisdizione militare, quindi gli scioperi e le assenze ingiustificate vengono configurati come reati di ammutinamento o di diserzione20.

Dopo Caporetto alla vigilanza poliziesca e militare si aggiunse l’appello dei riformisti e di Turati alla collaborazione per un “governo di unità nazionale” per superare il ”difficile momento”. In antitesi con le affermazioni di Abigaille Zanetta, che aveva sostenuto che i socialisti dovevano «guardare a tutto ciò che si agita e si muove nelle masse, col proposito di assisterle, solidarizzare con esse, per averle collaboratrici al raggiungimento dei nostri ideali», Turati aveva già precedentemente affermato che «”solo l’isterismo e l’impulsività” potevano consigliare movimenti di folle, mentre l’azione del partito socialista doveva esser guidata “dalla riflessione e dalla ragione”»21.

Nell’estate precedente Caporetto, Lazzari (segretario del PSI dal 1912 al 1919) aveva rivendicato al partito “una tradizione di miglioramento sociale e di bontà” che non permetteva di contestare “il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese natio”, mentre dal fronte della futura frazione comunista la Zanetta

si soffermò sull’annoso dibattito riguardante il rapporto tra socialismo e patria e, negando a quest’ultima la propria “essenza”, sostenne “la necessità di demolirla”. L’oratrice inoltre affermò che la pace non doveva essere il fine ultimo del partito, anzi, a guerra conclusa, questo doveva “approfittare dei momenti di debolezza della classe capitalista per abbatterla” e facilitare l’avvento del socialismo22.

Bordiga già in precedenza aveva negato che compito del partito fosse quello di risolvere i problemi creati dal capitalismo stesso e che questo era impossibilitato, per proprie dinamiche, a risolvere.
Tutte queste affermazioni dimostrano che l’opposizione di sinistra era ormai passata ad una «matura scelta di classe che la guerra aveva contribuito a far emergere»23.

Lo spazio concesso da un articolo e da una recensione impediscono di approfondire maggiormente l’analisi di un testo che si rende indispensabile per chiunque voglia non solo approfondire la storia del movimento operaio e della Sinistra Comunista, ma anche per tutti coloro che, nella confusione oggi imperante sul tema della guerra, vogliano trovare un modello comportamentale e di analisi che superi con un subitaneo colpo d’ala tutte le inutili discussioni su guerra di aggressione o di difesa “dei patri confini”, diritti “umani” e tutte le altre infingardaggini liberal-democratiche che offuscano la reale funzione della guerra nella stagione, non ancora finita, degli imperialismi che già avevano infiammato i fronti europei di inizio ‘900, ottenendo però allora una ben diversa risposta politica e di classe. A Zimmerwald, Kienthal, Pietrogrado, Milano e Caporetto.

Poiché oggi come allora, la guerra tra stati e imperi, a differenza di quanto troppo spesso si afferma o si crede, non costituisce affatto un’eccezionalità in regime capitalistico, l’azione contro la stessa non può essere guidata ad un’impossibile unità di intenti tra forze agite da interessi diversi tra di loro, ma soltanto da una chiara visione del suo divenire e del necessario superamento delle contraddizioni insite nel modo di produzione che l’ha generata come inevitabile conseguenza della sua sfrenata ricerca di controllo delle ricchezze, dei mercati e delle risorse disponibili a livello planetario (lavoro umano compreso).


  1. Si veda: Giulio De Martino, Vincenza Simeoli, La polveriera d’Italia. Le origini del socialismo anarchico nel Regno di Napoli (1799-1877), Liguori Editore, Napoli 2004  

  2. Si veda ancora: Michele Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971  

  3. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1958  

  4. Si vedano: Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, (a cura di Chiara Daniele), Einaudi, Torino 1999 e Giancarlo Lehner, La famiglia Gramsci in Russia, Mondadori, 2008  

  5. M. Mingardo, Cronache rivoluzionarie a Milano (1912-1923). Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista, Quaderni di pagine marxiste – serie rossa, 2022, pp. 25-26  

  6. M. Mingardo, op. cit., p. 26  

  7. op. cit., p. 27  

  8. Ibidem, p. 26  

  9. Ibid., p.99  

  10. G. Bozzetti, Mussolini direttore dell’«Avanti!», Feltrinelli 1979, pp. 160-163 cit. in Mingardo, op.cit., p. 99  

  11. L. Cortesi, Le origini del PCI. Vol. I Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Laterza 1977, pp. 86-87, cit. in Mingardo, op. cit., p. 108  

  12. Che avrebbe dichiarato che la neutralità non era “un dogma, un imperativo categorico” e che “il vantaggio che oggi si conclama domani può non ravvisarsi più”. Non neutralità “passiva” dunque, ma “attiva ed energica” in La nostra neutralità, «Critica Sociale» (rivista teorica del partito diretta da Filippo Turati), 15-31 agosto 1914  

  13. M. Mingardo,op. Cit., p.109  

  14. A Bordiga, In tema di neutralità. Al nostro posto!, «Avanti!», 13 agosto 1914  

  15. M. Mingardo, op. cit., p. 111  

  16. B. Fortichiari, Abbasso la guerra!, «La Battaglia Socialista», 12 settembre 1914 cit. in Mingardo, op. cit., p.115  

  17. ibidem, pp140-141  

  18. ibid., p. 166  

  19. F. Turati-a. Kuliscioff, Carteggio, vol.IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione, p. 501, lettera del 3 maggio 1917, cit. in Mingardo, op.cit., p. 206  

  20. M. Fatica, Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, p.428 cit. in Mingardo, op. cit, p.210  

  21. Mingardo, op. cit., p.213  

  22. ibidem, p.225  

  23. ibid., p.226  

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1917, un anno da non dimenticare https://www.carmillaonline.com/2017/12/28/1917-un-anno-non-dimenticare/ Wed, 27 Dec 2017 23:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42158 di Sandro Moiso

China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00

Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.

Forse per questo motivo, il [...]]]> di Sandro Moiso

China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00

Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.

Forse per questo motivo, il testo non è opera di uno storico tradizionale e non è figlio soltanto di un impegno militante, ma proviene dalla penna di uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi anni: China Miéville (Londra 1972). Vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premi Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), lo scrittore è stato e rimane però ancora militante della sinistra radicale inglese.

Queste due passioni l’hanno portato a ideare una letteratura visionaria che, soprattutto nella trilogia della città di New Crobuzon (Perdido Street Station, La città delle navi e Il treno degli Dei),1 mescola al suo interno socialismo utopico, aspetti steampunk, lotta di classe, rivoluzione sociale, orrori di sapore lovecraftiano, scienze magiche, creature aliene e avventura. Generando una sorta di anticipazione distopica di un mondo che assomiglia fin troppo al passato dell’industrializzazione e delle rivolte dell’Occidente a cavallo tra Otto e Novecento.

Sarà per questo motivo che China Miéville, pur lavorando su testi tratti sia dalla storiografia classica sull’evento quanto da quella degli ultimi decenni (sono una sessantina in tutto quelli elencati nella bibliografia), andando dalle opere di Edward Carr, Reed e Trockij a quelli ancora inediti in Italia di Ian D. Thatcher, Sarah Badcock e Lars T. Lih, solo per citarne alcuni, è riuscito a dare una ricostruzione estremamente originale, dinamica e interessante di un periodo storico su cui molti credono, ingiustamente, che non ci sia più nulla da dire o scrivere.

Molto vicino, nello sguardo e nella prospettiva, a Victor Serge, l’autore ricostruisce i fatti in dieci capitoli dedicati il primo a ricostruire La preistoria del 1917 (ovvero un sunto degli avvenimenti che condurranno alla Rivoluzione, dalla fondazione di Pietrogrado nel 1703 alla prima rivoluzione del 1905 e fino al disastro della partecipazione zarista al primo conflitto mondiale e alla morte di Rasputin) e gli altri nove ognuno ad un mese di quell’anno fatale per le sorti della Russia e del mondo, tra il Febbraio e l’Ottobre.

Il punto di vista è immediatamente chiaro al lettore: radicale e dal basso, senza inutili geremiadi sul bene o sul male rappresentato da quell’evento e, soprattutto, senza soffermarsi troppo sui meriti e demeriti dei grandi protagonisti, da un parte o dall’altra della barricata.
Ciò che conta è ciò che viene dal basso e chi sono quelli (soldati e operai, donne e contadini) che spingono avanti la Rivoluzione. Ancor prima che questa si imponga chiaramente nella testa di coloro che poi pretenderanno di averla guidata fin dagli inizi.

Il testo lo afferma chiaramente fin dalle pagine del primo capitolo: Quello che porrà fine al regime russo sorgerà dal basso. (pag. 54) Così, invece di dilungarsi troppo sulle storie dei partiti e dei presunti demiurghi dell’evento, l’autore porterà subito in scena i soldati, gli operai e le operaie di Pietrogrado con i loro desideri, le loro richieste concrete, le loro speranze di riscatto e di rispetto, il loro immaginario.

Un immaginario politico che non è fatto soltanto di slogan partitici e dibattiti ideologici, ma che è suggerito ed esaltato dalle dure condizioni della guerra e del lavoro. In una città che all’epoca , con i suoi due milioni e mezzo di abitanti e quasi mezzo milione di operai, era la più grande città industriale del mondo. Più di Detroit in cui pur già stava esplodendo l’industria dell’automobile.
Una città industriale che si trovava a galleggiare all’estremità occidentale del più grande impero del mondo (24 milioni di chilometri quadrati) i cui due terzi si trovavano in Asia e la cui popolazione di circa 160 milioni di abitanti era composta per 4/5 da contadini.

Una città fabbrica in cui l’età media era molto bassa e la popolazione, soprattutto quella operaia, giovane. Almeno 30.000 lavoratori avevano meno i 16 anni e le operaie, che erano 130.000, per il 68% avevano meno di trent’anni. L’età giusta per iniziare una grande avventura. La più grande che si possa immaginare: rovesciare un regime plurisecolare corrotto e marcio per instaurare una nuova società. Un tema epico, una prospettiva appassionante, una dinamica inarrestabile che sembra correre come un’onda anomala oceanica dalle trincee alle fabbriche fino alle campagne e alle regioni più lontane per poi ricadere col suo immenso ricciolo di schiuma sui palazzi del potere e sulle fantasie liberali e gradualistiche di quasi tutti i partiti coinvolti.

China Miéville con grande perizia letteraria e efficace ed incisiva documentazione sa trasmetterci l’autentico sense of wonder di quegli avvenimenti e di quei giorni intensi e movimentatissimi. In cui nel giro di poche ore tutto poteva cambiare, essere rovesciato e modificato. Una suspence continua che accompagna il lettore, anche chi già pensa di conoscere lo svolgersi di quegli avvenimenti non così lontani nel tempo, per tutta la lettura e dove, alla fine, la presa del Palazzo di inverno è un brindisi senza botto, senza l’enfasi che troppi hanno posto su un fatto che chiudeva un periodo ben più emozionante e denso di avvenimenti.

Molti degli episodi narrati lo erano già stati in altri libri e in altre memorie, ma qui sembrano assumere un nuovo splendore un nuovo significato. Luoghi e personaggi assumono una dimensione che sfugge alla tradizione della narrazione burocratica oppure agiografica, che poi è la stessa in fin dei conti, fatta successivamente dai vincitori o dagli esclusi.
Qui le masse non si muovono sullo sfondo, ma in primo piano. Semmai sullo sfondo, spesso arrancando in una direzione o in un’altra, stanno i battilocchi della Storia,2 sia che si di tratti partiti ed organizzazioni formali, sia che si tratti di individui, “grandi” o “piccoli” non importa.

Valga un episodio narrato per tutti che si svolge durante l’insurrezione di luglio, il giorno 4, quando soldati e operai pongono massicciamente e concretamente all’ordine del giorno la presa del potere da parte del Soviet di Pietrogrado, mentre questo tentenna dichiarando di preferire una via più graduale e democratica per la trasformazione della società russa e lo stesso Lenin si accontenta di chiedere una manifestazione pacifica: “parlando a una colonna di uomini armati, che desideravano correre alla battaglia”. (pag.219)

Assediati nel Palazzo di Tauride, i capi del Soviet erano nel panico. Dopo una rapida consultazione, mandarono il dirigente socialista rivoluzionario Černov in qualità di emissario, per calmare quelli che urlavano e intonavano slogan […] Uomo amabile ed eudito, un tempo rispettato da tutti, pensavano che avrebbe potuto calmare i manifestanti con un tipico discorso pieno di citazioni.
Ma quando apparve, qualcuno gridò; “Ecco uno di quelli che sparano contro il popolo!”. I marinai si mossero per afferrarlo. Sorpreso e spaventato, Černov si arrampicò su un barile e iniziò a parlare coraggiosamente. […] Mentre uomini e donne dall’aria sospetta che lo circondavano si facevano largo per avvicinarsi al punto in cui lui stava in equilibrio, un grosso operaio si fece strada fino a lui, salì al suo fianco e gli agitò il pugno chiuso davanti alla faccia.
“Prendi il potere, figlio di puttana”, gli urlò in una delle frasi più famose del 1917, “quando te lo danno!” (pag. 221)

E’ uno dei tanti momenti salienti di un annus mirabilis durante il quale i momenti topici sono attesi, preparati e commentati da masse attive che sembrano dare vita e corpo contemporaneamente ai protagonisti e al coro di una grande tragedia greca.
Fin da quel 23 di Febbraio quando le operaie delle industrie tessili scendono in sciopero senza ascoltare il parere contrario dei sindacati, dei partiti e dai rappresentanti locali dello stesso partito bolscevico.

Alla fine delle assemblee e degli incontri, le donne iniziarono a riversarsi dalle fabbriche nelle strade, urlando a gran voce per chiedere il pane. Sfilarono per i distretti politicizzati della città – Vyborg, Liteinj, Roždestvenskij – gridando alle persone radunate nei cortili dei palazzi, riempiendo le ampie strade con li loro numero sempre maggiore, precipitandosi alle fabbriche e chiamando gli uomini per invitarli ad unirsi a loro.[…] All’improvviso, senza che nessuno lo avesse pianificato quasi novantamila donne e uomini urlavano furiosi per le strade di Pietrogrado. E ora non chiedevano solo il pane, ma anche la fine della guerra, La fine della vituperata monarchia. (pag. 58)

Da lì a una settimana il regno dell’ultimo degli zar avrebbe cessato di esistere e da lì a sette mesi e mezzo anche il governo fantoccio che l’aveva momentaneamente sostituito sarebbe scomparso.

Grazie anche ad un’altra iniziativa dal basso, quell’Ordine numero 1 che un folto gruppi di soldati e marinai aveva imposto ai rappresentanti del Soviet di redigere la sera del primo marzo. Tale ordine aboliva in un colpo i soprusi su cui si basava soprattutto lo strapotere degli ufficiali sui soldati e quindi del Governo sull’esercito e, allo stesso tempo, poneva le armi e l’autorizzazione al loro uso non più sotto l’autorità dei comandi militari ma dello stesso Soviet e degli organismi creati dai soldati e dai marinai. In conseguenza del quale, il 2 marzo, lo zar si dimise, mentre il 3 anche il fratello dello stesso avrebbe rifiutato di accollarsi ancora la responsabilità di un trono che era scomparso, come per magia, nel giro di poche ore.

Nelle pagine di Mièville e nel loro scorrere, però, si impongono anche i luoghi della Rivoluzione: da quel quartiere di Vyborg che raccoglieva l’ala più radicale del movimento operaio pietroburghese, e in cui Lenin con tanto di parrucca bionda poté nascondersi nei giorni successivi alla mancata presa del potere di luglio ad un Palazzo d’Inverno, abbandonato e praticamente indifeso, in cui regna solo il caos durante le ultime ore dell’Ottobre.

E poi i personaggi, tanti, vari, tutti descritti nelle loro insicurezze e certezze; nella loro arroganza oppure nella loro umiltà: nel loro coraggio e nella loro viltà. Uno tra tutti vorrei ricordare qui, nella descrizione dell’autore: Maria Spiridonova.3

Spiridonova, dopo undici anni passati in prigione in condizioni brutali, era stat liberata a febbraio,era arrivata da poco a Pietrogrado in stile teatrale e trionfale. Immediatamente eletta sindaco di Čita, in Siberia, vicino a dove era stata al fresco, al suo rilascio ordinò immediatamente che si facessero saltare in aria le prigioni. Ora lei e gli altri socialisti rivoluzionari di sinistra accusarono Černov di aver “mutilato” il programma del partito. Avanzarono le loro proposte per la confisca della terra, per la pace immediata e per il governo socialista. (pag. 172)

Maria Spiridonova, la quasi leggendaria socialista rivoluzionaria, che aveva ucciso per il popolo e ne aveva pagato il prezzo, le cui torture e la cui carcerazione nel 1906 avevano scosso persino le coscienze liberali. Il suo coraggio, la sua sincerità e il suo spirito di sacrificio – e indubbiamente la sua sconvolgente bellezza – avevano fatto di lei qualcosa di simile a una santa famosa. E Lei, ancora implacabilmente salda alla sinistra dura e irrequieta del suo partito, era una fiera oppositrice di Kerenskij e del suo governo. (pag. 218)

Miéville trasforma i protagonisti dell’immenso rivolgimento in figure o in gruppi che difficilmente il lettore potrà dimenticare; contribuendo così a ridefinire un’epica rivoluzionaria che, sfuggendo alle maglie delle ideologie novecentesche, fonderà probabilmente l’immaginario delle lotte a venire, fuori da ogni accademismo e da ogni inutile settarismo. Soprattutto per le nuove generazioni tale operazione di svecchiamento e rinvigorimento della memoria potrebbe ritenersi altamente utile e salutare e anche per questo si rende necessario ringraziare Nutrimenti per aver avuto il coraggio di pubblicare una delle opere più originali e, allo stesso tempo, più coinvolgenti sull’argomento.


  1. Tutti e tre pubblicati in Italia da Fanucci  

  2. Battilocchio, termine dialettale napoletano spesso usato da Amadeo Bordiga nei suoi scritti. Deriva dal vocabolo francese battant l’oeil usato per indicare una cuffietta femminile che ricadeva sugli occhi. Metaforicamente lo stesso termine è stato poi usato a Napoli per indicare una persona che sembra essere sempre frastornata e stordita. Così come chi indossa la cuffietta non vede bene per l’indumento che annebbia la vista, così chi è definito “battilocchio” sembra essere confuso come se non vedesse, è considerato di scarsa intelligenza ed è spesso additato come “scemo del villaggio”. Fonte: http://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/145024-battilocchio-parola-tanti-significati-si-dice/  

  3. Di cui si è già parlato qui su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/  

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Tutto deve essere rimesso in questione: Victor Serge e la Russia post-rivoluzionaria https://www.carmillaonline.com/2017/02/07/deve-messo-questione-victor-serge-la-russia-post-rivoluzionaria/ Mon, 06 Feb 2017 23:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36247 di Sandro Moiso

da lenin a stalin A Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00

Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia [...]]]> di Sandro Moiso

da lenin a stalin A Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00

Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia del Novecento.

Anno che correrà il rischio di vedere schierate da un lato le rievocazioni tardo-nostalgiche e acritiche e dall’altro le interpretazioni più distruttive e liquidatorie di un avvenimento rivelatosi determinante sia per la storia del movimento operaio che per quella del XX secolo.
Un avvenimento che nel suo catastrofico decorso, dall’avvento di una speranza concreta in una rivoluzione internazionale al suo volgersi in elemento fondamentale della controrivoluzione, ha meritato, merita e meriterà ancora per lungo tempo un’analisi attenta e complessa del suo svolgimento, delle sue intime contraddizioni e dei motivi del capovolgimento finale dei suoi presupposti.

Il testo di Serge, scritto e pubblicato all’estero, mentre quella orrenda trasformazione da faro della rivoluzione proletaria internazionale a mostruosa macchina dittatoriale e controrivoluzionaria era nel pieno della sua attuazione, può ancora costituire un primo, illuminante esempio di tentativo di analisi critica dei fatti che avrebbero coinvolto non solo il destino di centinaia di migliaia di militanti rivoluzionari e di milioni di proletari e contadini russi, ma anche di milioni di operai e militanti e tutti i partiti comunisti del resto del mondo.

Victor_Serge L’autore (il cui vero nome era Viktor L’vovič Kibal’čič) era nato a Bruxelles nel 1890 da un esule rifugiato in Belgio. Dopo aver militato nell’anarchismo più combattivo avrebbe raggiunto la Russia dopo lo scoppio della Rivoluzione, dove avrebbe partecipato attivamente alla vita politica della neonata Unione Sovietica e ricoperto incarichi di prestigio sia lì che all’estero. Dopo la morte di Lenin, nel 1924, si sarebbe avvicinato a Trockij e all’opposizione di sinistra e per questo motivo, nel 1933, venne arrestato ed esiliato in Siberia.

Per sua fortuna una mobilitazione internazionale a suo favore gli permise di tornare in libertà nel 1936, proprio prima dell’inizio dei grandi processi di Mosca, e di riparare a Parigi. Da cui dovette emigrare successivamente in Messico nel 1940, a seguito dell’occupazione nazista del suolo francese. Dopo la rottura con Trockij, la cui teoria dello stato operaio degenerato sembrava a Serge ancora troppo riduttiva per descrivere il regime ormai instauratosi nell’URSS, continuò la sua attività politica e culturale di pubblicista e scrittore fino alla sua morte. Avvenuta, mentre si trovava in condizioni di estrema povertà, a Città del Messico nel 1947.

Il testo riproposto da Bollati Boringhieri ripercorre le principali tappe sociali e politiche dei venti anni che intercorrono tra il 1917 e il 1937, dalle iniziative dal basso di soldati e operai che diedero avvio alla rivoluzione fino alle scelte politiche, ideologiche e repressive che la trasformarono in uno dei più mostruosi strumenti della controrivoluzione.

Al di là della passione messa in campo dal “vecchio” militante rivoluzionario nel narrare e ricostruire gli eventi, non vi può essere dubbio che una riflessione su quegli stessi e sulle condizioni e le scelte che li determinarono sia ancora oggi indispensabile per misurare con piena coscienza di causa ciò che ancora sta avvenendo a livello politico, economico e sociale. Sia a livello nazionale che internazionale.

Quale fu l’abilità principale di Lenin nel 1917? Quella di avere un partito ben organizzato ed un’organizzazione, anche militare, ben disciplinata? Oppure quella di saper cogliere ciò che le masse stavano esprimendo, con le azioni più che con le parole? Serge opta decisamente per quest’ultima spiegazione e ci presenta un Lenin quasi isolato, se non per l’appoggio fornitogli da Trockij, dall’opportunismo e dai timori che sembravano ancora dominare all’interno dello stesso partito bolscevico.

Una logica inesorabile spingeva migliaia di uomini all’azione, ma questi uomini avevano bisogno di una chiara concezione dei metodi e dei fini. Ci sarebbero riusciti ad ottenerla? Questo era il punto. Al momento decisivo le masse non sempre trovano uomini capaci di esprimere senza ripensamenti i loro interessi, le loro aspirazioni e la loro vocazione al potere”.1 Oppure, potremmo aggiungere oggi, li trovano ma soltanto fittiziamente schierati al loro fianco e in realtà ben determinati ad ottenere risultati contrari all’interesse dei più. Dalle varie forme di fascismo e populismo fino a Trump, passando, e lo vedremo tra poco, dallo stesso Stalin e i suoi mefitici derivati.

All’inizio la rivoluzione russa fu grandiosa per le sue necessità interiori e nello stesso tempo misera per la sua incapacità di soddisfarle. Il giorno stesso in cui gli operai tessili di Pietrogrado lanciarono lo sciopero che meno di un mese dopo avrebbe portato alla caduta dell’assolutismo, il Comitato bolscevico di un quartiere della capitale si pronunciò contro lo sciopero. Mentre le truppe stavano per ammutinarsi – e fu proprio questo ammutinamento che provocò la caduta dell’Impero – quegli stessi rivoluzionari consideravano, timorosi, se non si dovesse consigliare il ritorno al lavoro. I rivoluzionari di ogni partito, che avevano passato tutta la vita a prepararsi per la rivoluzione, non si resero conto che essa era a portata di mano e che la via verso la vittoria era già aperta”.2

Viltà, opportunismo, volontà di salvaguardia del Partito avanti tutto? Forse tutte e tre le cose insieme che, unite ad una eccessiva rigidità ideologica, avrebbero poi ancora accompagnato alla tomba l’esperienza rivoluzionaria e migliaia di rivoluzionari nell’era successiva alla morte di Lenin. Il quale, come afferma l’autore nel suo libro, ebbe il merito di “essere un rivoluzionario in un periodo di rivoluzione”.3

Egli vedeva chiaramente i limiti del possibile, ma intendeva superarli. In Russia non proclamò il socialismo,4 bensì l’espropriazione delle grandi aziende a beneficio dei contadini; il controllo operaio sulla produzione; una dittatura democratica dei lavoratori con l’egemonia della classe operaia . Era appena sceso dal treno quando chiese ai suoi compagni di partito: «Perché non avete preso il potere?» […] Tutto il suo genio consisteva nella sua capacità di dire ciò che il popolo voleva dire e che non sapeva dire, con la sua capacità di dire ciò che nessun uomo politico e nessun rivoluzionario era ancora riuscito a dire”.5

Così la rivoluzione russa ebbe carattere spontaneo: all’inizio sembrava che non avesse nessuno capace di aiutarla a svilupparsi; si può ricavare una grande lezione da questa constatazione: avvenimenti del genere non possono né essere anticipati né fatti precipitare. E’ cieco chi immagina di poter essere a favore o contrario alle necessità storiche, ma se coloro che sono capaci di distinguere le caratteristiche di queste necessità si mettono al loro servizio, allora da questo atto possono raccogliere grandi frutti e più sono capaci di integrarsi nel corso inesorabile degli avvenimenti e ricavarne le leggi che sono in essi contenute, più riescono ad aumentarne i frutti. Solo uomini del genere possono essere dei rivoluzionari”.6

Valeva la pena di soffermarsi sui fatti e le lezioni che caratterizzarono la Rivoluzione del ’17 e gli anni immediatamente successivi fino alla morte di Lenin, cui vengono dedicate complessivamente le prime sessanta pagine del testo. Prima di entrare in quello che potremmo tranquillamente definire come un autentico abisso politico, sociale, economico, ideologico e morale. Un girone infernale di sviluppo forzato e gulag che nel giro di quindici anni riuscì a divorare e ad ingoiare tutte le conquiste e le speranze messe in moto in quei primi gloriosi anni.

Conviene lasciare alla lettura diretta del testo la ricostruzione dei drammi e delle violenze che videro coinvolti ed eliminati i più oscuri militanti operai e i più celebri rappresentanti del Partito bolscevico e della rivoluzione. Quello che vale la pena qui sottolineare è come, da un lato, Serge riesca a ricollegare la crescita della potenza sovietica alla miseria e all’autentica espropriazione politica di milioni di operai e contadini russi e allo stesso tempo, dall’altro, cercare di spiegare come e perchè i migliori esponenti del comunismo sovietico abbiano finito col piegarsi e, talvolta, allearsi con Stalin e il suo progetto. Pur finendo sempre con l’essere eliminati fisicamente, oltre che politicamente.

Sono pagine più che drammatiche in cui l’autore mette al servizio della verità storica e politica le sue memorie, i documenti raccolti e la sua abilissima penna di scrittore.
Tutto deve essere rimesso in questione e le verità di regime devono essere severamente smontate e ricondotte alla realtà dei fatti. Molto distanti dalla narrazione fattane dai servitori, sempre fedeli e spesso destinati anch’essi all’eliminazione fisica, di Josef Vissarionovic Džugašvili, georgiano nato a Tiflis nel 1879, in arte Stalin.

Già nel novembre del 1929, “lo scarso livello nutritivo degli operai fece diminuire la produttività del lavoro. […] L’operaio abbandonava la fabbrica o vi restava solamente formalmente e si guadagnava la vita mediante piccoli furti. Rivendendo un paio di calze guadagnava di più che con tre giorni di lavoro. Egli doveva essere costretto a lavorare con una legislazione draconiana. Per legarlo ai centri industriali, venivano istituiti passaporti interni, che privavano la popolazione del diritto di muoversi liberamente per il paese e che rendevano possibile la deportazione di chiunque senza alcuna formalità. […] Furono anni di incubo. La carestia arrivò in Ucraina, nelle terre nere, in Siberia e in tutti i granai della Russia”.7

Ma, tenendo anche conto della gravissima crisi che nel ’29 iniziò a colpire tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti, se ci spostiamo qualche anno più avanti, quando il regime iniziò a celebrare i suoi trionfi, le cose non cambiano di molto. Anzi. “Kharkov si è ingrandita sensibilmente. Ci sono molte fabbriche e cooperative nuove. Tuttavia migliaia di persone passano la sera senza luce e quasi senza riscaldamento; a interi settori della città manca l’elettricità.. I cinema sono chiusi, le abitazioni sono nell’oscurità e tutto ciò va avanti per intere settimane. Niente olio, niente candele, completa oscurità. Solo i burocrati, i maledetti fortunati, posseggono brutte lampade a petrolio […] la gente vive instupidita, in uno stato di bestiale disperazione. Il contrasto tra produzione e consumo è incredibile”.8

E più avanti ancora: “I pidocchi, a cui una volta Lenin aveva dichiarato guerra, sono tornati a frotte, Folle sporche e cenciose riempiono le stazioni, uomini, donne e bambini aspettano a gruppi Dio sa che treni. Vengono cacciati via, ma ritornano senza denaro e senza biglietti. Si arrampicano su tutti i treni su cui possono salire e ci rimangono finché non vengono cacciati via. Sono silenziosi e passivi. Dove vanno? Vanno in cerca di pane, di patate o di lavoro nelle fabbriche dove gli operai sono nutriti un po’ meno peggio…Il pane è il grande stimolo di questa folla. E che dire dei furti? La gente ruba dappertutto, dappertutto”.9

L’industria pesante era stata favorita come base per lo sviluppo della potenza sovietica e con essa in particolare quella degli armamenti. Fame in casa e immagine muscolare verso l’esterno mentre Stalin scenderà a compromessi vergognosi con la Francia, l’Inghilterra e, dal ’39, anche con la Germania nazista. In contemporanea andranno avanti le epurazioni: nel Partito, nel Politburo e tra la popolazione: “L’epurazione della popolazione di Leningrado10 mediante la la prigione e la deportazione arrivò a comprendere da ottantamila a centomila vittime. E tutto ciò accadeva nel 1935“.11

Ma il dramma ancora maggiore fu proprio quello costituito dal fatto che i più importanti artefici della Rivoluzione accettassero prima di firmare le infamanti accuse costruite su di loro dalla GPU e dagli apparati di informazione e poi di subire, spesso quasi passivamente, i processi e poi le esecuzioni. Senza contare le decine o forse centinaia di migliaia di membri e funzionari di partito scomparsi senza lasciar traccia nelle prigioni e nei campi di lavoro siberiani.

victor-serge 1 Nel testo Serge dedica a questo argomento pagine terribili e sconvolgenti che vale la pena di leggere, mentre le riflessioni profonde che ne derivarono avrebbero accompagnato le sue opere letterarie migliori12 fino alla fine dei suoi giorni.

Bene ha fatto dunque la casa editrice a riproporre il testo qui esaminato, seppur nella stessa traduzione del 1973 di Sirio Di Giuliomaria che in qualche punto avrebbe potuto essere rivista, non soltanto al fine di una riflessione sull’esperienza sovietica condotta non da un conservatore o da qualcuno che abbia fatto, già all’epoca, il salto della barricata, ma anche per la riscoperta di un autore e militante rivoluzionaria che David Bidussa, in una breve ma significativa e netta Prefazione, contribuisce ad inquadrare e a differenziare da altri autori più celebri, come Koestler o Silone, individuando i motivi della sua rimozione dalla memoria “democratica” proprio nella radicalità del suo operato e della sua testimonianza.


  1. pag. 4  

  2. pag. 6  

  3. pag.15  

  4. Come poi avrebbe fatto Stalin con la teoria, nazionalista e negatrice della rivoluzione internazionale, del socialismo in un solo paese – Nota del recensore  

  5. pp. 13-14  

  6. pag. 9  

  7. pag. 94  

  8. pag. 106  

  9. pag. 107  

  10. Città mai particolarmente cara a Stalin, tanto che nei libri di storia è più celebre l’assedio di Stalingrado che quello di Leningrado che pur durò 900 giorni e vide lo stesso una severa sconfitta delle truppe dell’Asse – Nota del recensore  

  11. pag. 129  

  12. E’ mezzanotte del secolo, Il caso Tulaev e Anni Spietati. I primi due ristampati in Italia in anni recenti  

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